mercoledì 29 ottobre 2014

Da che parte sta il Qatar nella guerra a Isis?

Da che parte sta il Qatar nella guerra a Isis?
Da che parte sta il Qatar nella guerra all’Isis? Il potente emiro al-Thani oggi sarà a Downing Street per colloqui con il primo ministro David Cameron, ma la sua è una posizione altamente strategica viste le “proprietà” in Europa (Harrod’s e Shard). Secondo un recente report della Cia il Qatar avrebbe sostenuto in passato gruppi islamici con un certo numero di importanti imprenditori qatarioti che avrebbero convogliato fondi ai militanti Isil: gli stessi militanti che il regime del Qatar si suppone voglia combattere.
QUI LONDRA
Il piccolo emirato del Golfo è oggi un significativo partner energetico-economico-militare della Gran Bretagna, così come un importante investitore e partner di cooperazione militare. Da un lato Cameron spera di attrarre ulteriori investimenti miliardari da parte di una realtà che già registra importanti partecipazioni nella vecchia Europa: tra gli altri, da segnalare i magazziniHarrod’s di Londra, il network televisivo al-Jazeera fino alla squadra di calcio francese ParisSaint Germain.

QUI DOHA
Sui terroristi islamici che combattono in Siria e in Iraq (su cui si registra l’allarme di possibiliattacchi alle scuole occidentali) la posizione ufficiale del Qatar è che Doha è un fedele alleato della coalizione militare guidata dagli Stati Uniti. In questo risiede la ragione per cui la stragrande maggioranza dei raid aerei della coalizione contro obiettivi Isil sono coordinati da al-Udeid, una base aerea in Qatar. Inoltre l’Emirato sta fornendo molte delle strutture di formazione per l’esercito siriano libero, la milizia alleata dell’Occidente nel conflitto per rovesciare il regime siriano del presidente Bashar al-Assad.

QUI WASHINGTON
Inoltre Doha vanta uno strettissimo rapporto di intelligence-sharing con la Gran Bretagna e gli Stati Uniti al fine di combattere i gruppi terroristici islamici. Per cui per molti versi il sostegno del Qatar allo sforzo militare contro Isil può essere visto come una estensione della sua partecipazione attiva in altri recenti sforzi militari occidentali nella regione. Non va dimenticato che piccole forze armate del Qatar hanno dato un contributo significativo alla campagna 2011 per rovesciare il dittatore libico Muammar Gheddafi, contribuendo a formare i gruppi ribelli.

DUBBI
Nonostante le incoraggianti premesse permangono alcuni dubbi fra gli analisti circa la posizione ufficiosa di Doha. Una certa inclinazione pro gruppi radicali islamici è affiorata sin da 2009, quando, per protestare contro un’incursione militare di Israele contro gli estremisti di Hamas a Gaza, Doha ha rotto i suoi legami commerciali con Tel Aviv. Un discorso che investe non solo il Qatar ma anche la peculiare posizione degli ayatollah.

CASO LIBIA
In occasione della deposizione di Gheddafi sembra che Doha abbia sostenuto attivamente alcuni dei gruppi islamisti intransigenti implicati nell’omicidio dell’ambasciatore americanoChristopher Stevens nel 2012. Ma le accuse maggiori sono state avanzate da Washington circa il presunto finanziamento ai militanti Isil da parte di facoltosi imprenditori qatarioti. Il caso più significativo avrebbe coinvolto una donazione di due milioni di dollari partiti da un conto qatariota alla volita di un comandante dell’Isis.

STRATEGIA
Ecco che a questo punto la contingente realtà della lotta all’Isis, legata all’esigenza di larghe intese internazionali, non potrà prescindere da una serie di valutazioni nel merito che certamente saranno esaminate con attenzione prima, durante e dopo il vertice di Downing Street. Il punto all’interno di questa complessa videnda geopolitica verte non solo il fatto che gli Usa stanno per diventare il primo produttore di petrolio liquido al mondo, scavalcando l’Arabia Saudita (come da stime dell’International energy agency) ma anche le strategie dell’Isis impegnata a vendere petrolio finanche ai suoi avversari. Senza dimenticare il “capello” relativo alla sicurezza nell’area mediterranea e mediorientale, che la Nato dovrà assicurare in un’ottica di macro cooperazione.

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Cipro, le provocazioni turche e i silenzi della Nato

Nel Mediterraneo orientale si registra un preoccupante innalzamento del livello di tensione, dato anche (o soprattutto) dalla poca incisività delle istituzioni internazionali. Nella ‪‎ZEE‬ di ‪‎Cipro‬, che è uno stato membro dell’Unione Europea, da qualche giorno staziona provocatoriamente una nave oceanografica turca, la Barbaras. Lì sono impegnati in un programma di cooperazione per lo sfruttamento del gas Cipro e Israele, in virtù di un accordo siglato due anni fa.
Ma Ankara ha da sempre avanzato pretese sul gas cipriota che il diritto internazionale non prevede.
Vita a Cipro nel mezzo della crisiLa parte settentrionale dell’isola di Cipro è stata invasa da 50mila militari turchi sin dal 1974 in risposta ad un tentato colpo di stato greco, ma da allora i militari sono rimasti in pianta stabile sull’isola occupandola e l’hanno autoproclamata repubblica turca nord cipriota, senza il nulla osta dell’Onu né dell’Ue. Oggi gli idrocarburi presenti sotto il mare fanno gola alla Turchia, che però fa mostra di non rispettare la giurisprudenza e la sovranità di uno Stato membro dell’Ue. E così mentre il battello oceanografico turco entrava provocatoriamente in acque cipriote, ecco giungere per sorvegliare le cose una fregata russa, sei caccia israeliani che sorvolano ancora quotidianamente il settore n.9 della ZEE (un bacino in grado di coprire un terzo del combustibile utilizzato per la produzione di energia elettrica entro il 2040) e da oggi anche un sottomarino greco ed un cacciatorpediniere.
Nel luglio del 2013 la stampa greca diffuse la notizia che un missile turco era stato lanciato contro una nave italiana che lavorava per conto di Cipro. L’imbarcazione stava piazzando cavi sottomarini. La notizia non fu confermata dalle autorità e neanche la rappresentanza consolare italiana a Nicosia intese commentarla, ma fu il segnale di una situazione di potenziale tensione nell’intera zona. Oggi un altro gesto non diplomatico né distensivo. Ankara rifiuta di applicare le norme previste nel trattato di Montego Bay, del 1982 secondo cui la sovranità dello Stato può estendersi per massimo dodici miglia fino ad una zona di mare adiacente alla sua costa, il cosiddetto mare territoriale, su cui il singolo Stato esercita le proprie prerogative. Invece lo sfruttamento esclusivo di minerali, idrocarburi liquidi o gassosi, si estende su tutta la propria piattaforme continentale, intesa come il naturale prolungamento della terra emersa sino a che essa si trovi ad una profondità più o meno costante prima di sprofondare negli abissi. Per cui lo Stato costiero (e non l’invasore) è unico titolare del diritto di sfruttare tutte le risorse biologiche e minerali del suolo e del sottosuolo.
Lecito chiedersi: perché Unione Europea e Nato tacciono di fronte a comportamenti del genere? Non sarà che gli intrecci con la battaglia contro l’Isis hanno fatto chiudere gli occhi a chi, anche oltreoceano, dovrebbe garantire il rispetto non solo dei trattati ma delle più elementari norme di convivenza fra stati?

martedì 28 ottobre 2014

Chi è Béji Caïd Essebsi, il vincitore laico delle elezioni in Tunisia

Chi è Béji Caïd Essebsi, il vincitore laico delle elezioni in Tunisia
Chi sono i vertici del partito laico Nidaa Tounes freschi vincitori delle elezioni tunisine? Come gestiranno il potere dall’alto degli 83 seggi conquistati (38%)? A capo del partito Béji Caïd Essebsi, classe 1926, un politico di lungo corso che ha attraversato tutte le fasi dello sviluppo democratico tunisino, compresa quella della dittatura di Ben Alì.
VITA
Nato a Sidi Bou Said, è pronipote di Ismail Caid Essebsi, un mamelucco di corsari tunisini. Primo ministro per un breve periodo (dal 27 febbraio al dicembre 2011) ricopre anche il ruolo di Ministro degli Affari Esteri. Studia legge a Parigi dove inizia la carriera forense nel 1952 difendendo alcuni attivisti. Dopo l’indipendenza della Tunisia nel 1956, entra a far parte dello staff del primo ministro Habib Bourguiba.

CARRIERA
Dal 1957 al 1971 svolge vari incarichi di rilievo come direttore dell’amministrazione regionale, direttore generale della Sûreté Nationale, ministro dell’Interno, Ministro Delegato alla Presidenza del Consiglio, ministro della difesa e poi ambasciatore a Parigi. Dall’ottobre 1971 al gennaio 1972 sostiene una maggiore democrazia in Tunisia per questo si dimette e lascia il Paese. Nel 1981 torna al governo sotto Mohamed Mzali come Ministro degli Affari Esteri. Nel 1987, è nominato ambasciatore in Germania. Dal 1990 al 1991 è Presidente della Camera dei Deputati.

GELSOMINI
La svolta è nel 2011, quando diventa primo ministro dopo Mohamed Ghannouchi ma fa unpasso indietro nel bel mezzo della rivoluzione tunisina, quando il presidente ad interim MoncefMarzouki, eletto dalla Costituente, designa Hamadi Jebali del movimento islamista Ennahda, che aveva vinto le elezioni tenute nel mese di ottobre. Secondo molti analisti, l’88enne che ha fondato il partito laico nel 2012 riunisce i professionisti del sindacato, i conservatori e gli ex membri del RCD, il partito ormai defunto dell’ex dittatore Zine al-Abidine Ben Ali.

LEGGE
Lo scorso primo maggio l’Assemblea Nazionale Costituente accoglie con favore l’approvazione della nuova legge elettorale dopo la promulgazione della Costituzione nata nel gennaio del 2014. In quel frangente la giovane democrazia tunisina fa un passo decisivo vero una riabilitazione democratica, anche se molti sono quelli che puntano il dito contro la nuova legge elettorale che ha consentito ai “devoti di Ben Ali di candidarsi alle elezioni grazie ai voti del partito islamista Ennahda”. Una stranezza politica decisa al quinto piano del quartier generale diMontplaisir. Il leader Rached Ghannouchi in quell’occasione assicura una chanche “a favore degli aguzzini ieri” osservavano gli oppositori del regime. Un riferimento velato anche al nuovo leader di Nidaa Tounes.

SCENARI
Collaborazione a 360 gradi o solo parziale? E’questo l’interrogativo che circola nelle ultime ore a Tunisi, soprattutto dopo che i vertici di Ennahda hanno ampiamente e serenamente riconosciuto la sconfitta. E’stato lo stesso numero uno Rachid Ghannouchi a farlo su twitter, ma oggi il nodo è un altro: come rimettere in piedi l’economia traballante del Paese? La risposta l’ha fornita a urne chiuse Ahmed Gaaloul, un dirigente di Ennahda. Ha ammesso ad Al Jazeera che la maggior parte dei governi post primavere arabe si trovano in grandi difficoltà, semplicemente perché “le aspettative della gente sono più alte dopo la rivoluzione”. Come dire che la soluzione più che in manovre solo di natura economica starà in strategie politiche e soprattutto sociali.

SITUAZIONE
Al netto di urne chiuse e di strategie governative la tensione resta comunque alta nel Paese. Due giorni prima delle elezioni l’ennesimo bagno di sangue, con sei persone rimaste uccise in una casa nei pressi di Tunisi, dove un gruppo armato è stato sbaragliato dai militari con un blitz. Le autorità hanno espresso i loro timori circa le intromissioni jihadiste in Tunisia, accusate di voler interferire con le elezioni. Uno degli uomini arrestati è un membro attivo di Ansar asharia, organizzazione terroristica classificata da Washington dedita alla preparazione di azioni terroristiche nel sud del Paese. Il gruppo era stato precedentemente “attivo” a Nabeul (a nord) nel tentativo di inviare tunisini in Siria e in Libia, come dimostra il mega flusso di cittadini e studenti che tentato la strada dell’aggregazione all‘Isis (tra i 2000 e i 3000). Un passaggio su cui il vincitore delle elezioni avrà molto da lavorare.

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Ecco perché la Cina è il nuovo numero uno del trasporto aereo mondiale

Ecco perché la Cina è il nuovo numero uno del trasporto aereo mondiale
Il ruolo della Cina nel trasporto aereo mondiale continuerà a crescere nei prossimi 20 anni. Nel 2034, il volume totale di passeggeri in tutto il mondo si avvicinerà ai 7,3 miliardi, più del doppio rispetto ai 3,3 miliardi previsti per quest’anno secondo i dati della IATA, l’International Air Transport Association. Pechino è pronta a raccoglierne i frutti. I numeri della Cina, rispetto al trend generale che vede perdite raddoppiate nel settore nei Paesi europei, sono in controtendenza. Dal 2012 è stata avviata una manovra del governo cinese per costruire 70 nuovi aeroporti e acquistare 300 aerei: due obiettivi da raggiungere entro il 2015.
IL TREND
Fino ad allora, la Cina con 1,3 miliardi supererà gli Stati Uniti (1,2 miliardi) e si posizionerà nello scacchiere mondiale come il più grande mercato delle compagnie aeree del pianeta. Sarà seguita a ruota da India (367 milioni), Regno Unito (337 milioni) e Brasile (272 milioni): questa la nuova top five del trasporto aereo.
LE STIME
L’analisi dei flussi di viaggio e dei dati dei passeggeri attraverso 4mila incroci, rappresenta il nucleo dell’indagine conclusa lo scorso 16 ottobre. Le stime si basano su tre principali demand-driver: tenore di vita, demografia, infine disponibilità e prezzo. I dati includono il traffico aereo all’interno di un determinato mercato lungo il periodo che va dal 2014 al 2034. La previsione sui passeggeri globali è sfociata nella pubblicazione inaugurale del nuovo servizio di Previsione offerto dallo IATA ed è stata curata dal servizio Economia e Turismo.
GLI SCENARI
Si tratta di una “prospettiva entusiasmante poter pensare che nei prossimi 20 anni più del doppio dei passeggeri rispetto ad oggi avranno la possibilità di volare“, ha detto Tony Tyler, CEO della IATA. La riflessione che nasce dal rapporto è che la cosiddetta “Connettività Air” su questa scala, aiuterà i vari soggetti in causa a trasformare le opportunità economiche per milioni di persone.
IL COMPARTO
L’aviazione è un settore che produce 58 milioni di posti di lavoro e 2.400 miliardi dollari in attività economiche, per cui secondo Tyler nell’arco di 20 anni è lecito attendersi che il comparto dell’aviazione, da solo, supporti in tutto 105 milioni di posti di lavoro e 6mila miliardi dollari di Pil. Numeri significativi, alla luce di una serie di fattori. In primis i prezzi medi dei biglietti che sono diminuiti negli ultimi 20 anni di un terzo, al netto dell’inflazione, rendendo possibile per i cittadini delle economie emergenti come il Brasile, la Cina e l’Indonesia poter viaggiare di più.
UN NUOVA CONVENIENZA
Secondo Jason Sinclair, portavoce della IATA, volare è più economico rispetto ad un tempo e oggi i cittadini dell’area dispongono di un reddito maggiore rispetto al passato. Ecco spiegato perché, nella macro regione Asia-Pacifico-Medio Oriente, si prevede un aumento del 5% entro i prossimi due decenni. La Cina è uno dei mercati emergenti con il potenziale di crescita più alto, di circa del 5,5% dice il rapporto.
IL PANORAMA
I mercati dell’America Latina cresceranno del 4,7%, per cui il Brasile dovrebbe accusare una crescita del 5,4% mentre gli Usa del 3,2%. Il panorama globale quindi è in estrema evoluzione, per questo a Pechino scaldano letteralmente i motori. Michael Boyd, numero 1 della Boyd International Group, una società di consulenza aeronautica a Evergreen, Colorado, ha detto al China Daily che la sua azienda sta lavorando in partnership con una serie di aeroporti cinesi in questo senso.
WAITING FOR CHINA
Ma cosa cercano i visitatori cinesi? Innanzitutto viaggiano prevalentemente con la disponibilità di un traduttore dal mandarino. Secondo Boyd presto ci sarà anche una segnaletica in cinese negli scali americani. Lo slogan scelto è “la Cina pronta”, ovvero una sorta di grande campagna pubblicitaria da esportare a Pechino per attirare il maggior numero di turisti asiatici. Il prossimo passo? La cooperazione politica, dal momento che senza di essa le singole compagnie aeree non possono volare. Secondo il report, se nel primo secolo del trasporto aereo circa 65 miliardi sono stati i passeggeri globali, lo stesso numero di passeggeri potrebbe volare da oggi al prossimo ventennio. La cosiddetta “connettività in aria” potrà prosperare solo quando le nazioni apriranno i loro cieli e i loro mercati, è la tesi di Boyd.
IL BRACCIO OPERATIVO
Braccio operativo della Cina è la Boc Aviation, una delle società di leasing più importanti del pianeta. Al 31 marzo 2014, il suo portafoglio comprendeva 237 proprietà e gestione aeromobili in locazione a 55 compagnie aeree in 30 Paesi del pianeta. E da pochissimo ha dato l’ok ad un ordine eccezionale: 50 Boeing 737 e 30 Next Generation 737-800, che saranno consegnati tra il 2016 e il 2021. Gli aerei sono valutati 8,8 miliardi di dollari da prezzo di listino.

domenica 26 ottobre 2014

Ecco come l’Ucraina (divisa) va al voto


Ecco come l'Ucraina (divisa) va al voto
E’ la partita del gas ad intrecciarsi con l’Ucraina che si appesta ad andare al voto per le elezioni politiche, tranne che in Crimea e nelle zone orientali controllate dai ribelli filorussi, che hanno convocato autonome elezioni per il prossimo 2 novembre. Secondo gli ultimi sondaggi in Parlamento ci saranno al massimo sette partiti, a maggioranza filo occidentale. Ma non sono escluse sorprese nazionaliste. Favorito resta Poroshenko, poi il Partito Radicale e al terzo posto il “Fronte Popolare” di Yatsenyuk.
URNE
Aperti 213 collegi elettorali per eleggere 450 deputati, 225 su liste di partito e 225 a collegi uninominali. Tuttavia, in base alla legge sullo status dei territori temporaneamente occupati, le elezioni non si terranno in Crimea e Sebastopoli, in cui si trovano 12 collegi uninominali. Così le elezioni non si svolgeranno in 27 dei 225 collegi elettorali, e al massimo 198 deputati potrebbero essere eletti in collegi uninominali. In tutto al massimo 423 deputati potrebbero essere eletti con un sistema proporzionale misto.

BLOCCO POROSHENKO
Il cosiddetto “Blocco Poroshenko” è l’alleanza costituita dal presidente eletto a maggio PetroPoroshenko e dal sindaco di Kiev, l’ex pugile Vitaly Klitschko. Secondo gli ultimi sondaggi tale alleanza è data al 30% mentre staccatissimo il Partito radicale di Oleg Lyashko, populista antirusso (dato tra il 10 e il 12%), terzo ma a pochissima distanza il Fronte Popolare (10-11%) ePatria (9-10%). In evidenza Samopomich del sindaco di Leopoli Andrei Sadovy (7-8%) e il Blocco di opposizione di Sergei Liovochkin (6-8%).

DOVHYI
Il nome nuovo è l’ex segretario del consiglio comunale di Kiev, Oles Dovhyi, nella regione centrale di Kirovohrad. I suoi detrattori lo dipingono come l’autore di numerosi accordi di corruzione circa la vendita di terreni comunali. Aveva tentato l’avventura elettorale già due anni fa ma non vi riuscì proprio per le ombre penali. Lo accusano inoltre di voler centrare l’elezione proprio per ottenere l’immunità parlamentare.

PROMESSE
In una dichiarazione alla vigilia del voto Poroshenko ha detto che “è tempo per completare un reset completo del potere, non ho abbastanza volontà politica per attuare la strategia messa a punto delle riforme ma ho anche bisogno della maggioranza in Parlamento: pro-ucraina ed europeista, non filo-sovietica”. Secondo alcuni analisti però il partito di Poroshenko non si aspetta di sfondare al primo turno, per cui sarebbero già partite le trattative per immaginare una coalizione con uno o più partiti di minoranza.

SCENARI
Le manovre più significative dovrebbero riguardare i membri del partito di Yanukovich nelle Regioni (che ha tenuto la maggior parte dei consenti fino a quando è fuggito) e l’opposizione Block e Strong Ucraina. Ma un ruolo lo giocheranno sicuramente anche Patria, guidata dall’ex primo ministro Yulia Tymoshenko e Fronte Popolare, guidato dall’attuale primo ministro, ArseniyYatsenyuk.

LESHCHENKO
“Vorremmo distruggere il vecchio establishment politico dall’interno e le regole della vecchia classe politica”, ha detto il candidato Leshchenko al New York Times. “Se non facciamo questo, chi lo farà?”. E ancora: “Il partito non è una pasticceria. Il partito è un’istituzione, che riflette la società. Sono grato a Poroshenko perché ha creato questa competizione interna”.

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venerdì 24 ottobre 2014

Così le armi americane finiscono ai terroristi dell’Isis

terroristi siriani mettono le mani sulle armi americane? In passato e anche in queste settimane di lotta all’Isis, sono cadute nelle mani sbagliate? Una delle strategie utilizzate dai funzionari americani è stata quella di armare i moderati siriani, al fine di sostenere l’opposizione ai militanti islamisti. Ma oggi sembra che non tutto sia filato liscio.
AIUTI MILITARI
Nonostante le obiezioni di chi considerava a Washington questa strategia altamente rischiosa, gli Stati Uniti alla fine hanno inviato aiuti militari all’esercito siriano almeno da quindici mesi. La decisione ha subìto un’accelerazione dalla condotta del dittatore siriano Bashar Assad che ha oltrepassato la “linea rossa” imposta dell’amministrazione Obama, dopo che il regime aveva impiegato armi chimiche contro i civili.

PIANO
Il mese scorso, con l’incremento delle azioni Isis, è arrivato il via libera del Congresso al piano del presidente per addestrare e armare i ribelli siriani. Sul punto non pochi erano stati i dubbi, come quelli circa la garanzia che di assicurare che le armi non fossero intercettate dai terroristi, come fatto con i ribelli in Libia.

QUI TURCHIA
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha espresso forti critiche contro il lancio aereo americano di rifornimenti e armi vicino alla città siriana di Kobani. Sostiene che in questo modo gli Stati Uniti hanno erroneamente aiutato i militanti che assediavano la città, invece di coadiuvare i curdi nel difenderla. E in occasione di una conferenza stampa ad Ankara osserva che quello che è stato fatto qui “è sbagliato”, aggiungendo che alcune delle armi paracadutate dai C-130 sono state sequestrate dallo Stato islamico.

STRATEGIA
Le immagini diffuse ieri sembrano mostrare alcuni militanti islamici intenti ad armeggiare con alcune delle forniture paracadutate. Il Pentagono ha detto che la maggior parte dei lanci aveva raggiunto i combattenti curdi in difesa Kobani, ma ieri un portavoce del Pentagono ha detto che dei rifornimenti potrebbero essere caduti nelle mani sbagliate dei militanti.

PASSAGGIO
Due giorni fa la Turchia ha annunciato che avrebbe cominciato a consentire alle forze curde irachene, note come pesh Merga, di entrare a Kobani dal territorio turco per difendere la città. Erdogan ha detto di essere stato lui a proporre l’idea al presidente Obama durante una conversazione telefonica. E aggiunge: “Ho difficoltà a capire perché Kobani sia così strategica per loro, perché non ci sono civili lì, solo circa 2.000 combattenti”. Ma il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, ha detto martedì che le modalità logistiche di transito attraverso la Turchia erano ancora in corso di elaborazione.

COSA
Bombe a mano, munizioni e lanciagranate a razzo: ecco cosa sarebbe caduto nelle mani dei terroristi secondo un video messo in rete da un gruppo fedele allo Stato islamico. L’Associated Press ha detto che il video era coerente con altri rapporti dei servizi. L’Osservatorio siriano per i diritti umani, oltre ad un gruppo di attivisti britannici, ha aggiunto che più di un nascondiglio di armi potrebbe essere stato conquistato dai combattenti dello Stato Islamico.

SCENARI
Il tutto mentre gli attacchi aerei da parte delle forze guidate dagli Usa hanno ucciso nell’ultimo mese 553 combattenti islamici e 32 civili in Siria: lo rivela il monitoraggio che cura le statistiche della guerra all’Isis. Al momento in Iraq ci sono 1.400 militari americani. La Casa Bianca ha confermato che il governo degli Stati Uniti continua ad escludere la possibilità di una operazione di terra nella regione ma, nonostante questo, gli esperti del Pentagono nelle prossime settimane dovrebbero presentare un nuovo piano di gestione con l’invio di altre truppe. Ma nessuno sa se il lancio di armi sui territori di guerra continuerà o sarà sospeso a scopo precauzionale.

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giovedì 23 ottobre 2014

La rivolta delle tribù contro Isis ignorata dall’Occidente

La rivolta delle tribù contro Isis ignorata dall'Occidente
Mentre i caccia statunitensi hanno effettuato ulteriori attacchi aerei contro le forze Isis al confine tra Siria e Turchia, lanciando al contempo (così come confermato da Washington) armi e forniture mediche ai combattenti curdi, c’è un pezzo di rivolta ignorato dal mondo occidentale. E’ quella delle tribù locali contro l’Isis a cui nessuno offre un megafono. Con sullo sfondo i pozzi di petrolio da conquistare e controllare e la formazione delle truppe curde.
SHAITAT
I comandanti ribelli Shaitat sono un gruppo di arabi sunniti intenzionati a combattere i militanti dell’Isis, ma non hanno le risorse per farlo. I capi della tribù si sono recentemente incontrati nella città di Reyhanli, nei pressi del confine turco, per raccontare ciò che è stato fatto al loro clan. Chi si è rivoltato contro lo Stato islamico è stato ucciso brutalmente sin dallo scorso agosto. In soli tre giorni, i combattenti hanno decapitato, crocifisso e sparato centinaia di membri della tribù Shaitat. Secondo i sopravvissuti le vittime sarebbero 700: è il più sanguinoso massacro commesso dallo Stato islamico in Siria da quando ha dichiarato la sua esistenza 18 mesi fa.
FATTORE IDEOLOGICO
E’ quello che sta giocando un ruolo significativo nei rapporti pubblici all’interno del mondo islamico. Il caso della lapidazione nella città di Hama di un’adultera è lì a dimostrarlo. La donna potrebbe considerarsi “felice”, dice uno dei militanti ripresi in un video dimostrativo. E poco prima della lapidazione ha chiesto alla donna se fosse soddisfatta della pena, ottenendo un debole “sì” come risposta. “Possa Allah accettare il loro pentimento”, hanno scritto alcuni fanatici su internet. L’esecuzione rappresenterebbe quindi “la bellezza dell’Islam”. L’Isis vuole diffondere la Sharia in maniera molto radicale e diffondere l’Islam, la “religione perfetta,” con la forza delle armi. Sanzioni draconiane, crocifissioni, decapitazioni e lapidazioni sono i mezzi con cui gli islamisti intendono far valere le proprie ragioni. Lo ammette anche un guerrigliero dell’Isis di origine tedesca, quando dice alla Welt che “la gente ha bisogno di disciplina e ordine, le sanzioni sono tutte nel Corano o nella Sunna”.
LOTTA
E’ chiaro che all’indomani della diffusione della notizia del massacro contro la tribù di Shaitat, si apre un ulteriore fronte delicato nel panorama siriano e iracheno: come persuadere coloro che vivono sotto il dominio dello Stato islamico ad unirsi alla lotta contro il gruppo jihadista? Un passaggio su cui gli analisti americani stanno ragionando da tempo, in quanto sostengono sia essenziale per un possibile successo in questa campagna. Il silenzio internazionale su tale bagno di sangue non aiuta certamente i ribelli che vorrebbero associarsi alle forze anti Isis. Per questo molti sono i siriani dell’opposizione che stanno iniziando a lamentarsi di una disparità di trattamento. Un ex avvocato che chiede di essere identificato con il solo nome di battaglia perché teme ritorsioni, ha detto al Washington Post che adesso “odiamo tutti quelli che pregano, odiamo anche la barba”. E aggiunge: “Quando vedi i tuoi parenti massacrati, sei costretto ad accettare compromessi che altrimenti non avresti accettato”.
SIRIA
Anche se il regime di Bashar al Assad non appartiene all’alleanza anti-terrorismo guidata dagli americani contro lo “Stato islamico”, ecco oggi che la dittatura di Damasco e gli interessi strategici e militari arabi-americani in qualche modo iniziano ad essere vasi comunicanti  militari.L’obiettivo è aprire il confronto tra le forze governative e le associazioni curde a seguito del ritiro delle truppe di Assad dalle zone curde nel nord del paese. Che possa questo passaggio rappresentare un ponte verso quelle tribù sin qui ignorate?
QUI KOBANE
Secondo gli analisti del Pentagono l’attacco di Kobane altro non era che l’occasione di catturare il più gran numero di combattenti militanti che convergevano sulla città. Il Pentagono sostiene di aver ucciso centinaia di militanti Isis lì, in linea con l’obiettivo più ampio degli Stati Uniti ovvero colpire le infrastrutture e le risorse degli islamisti in Siria e così declassare la loro capacità di rafforzare e finanziare le operazioni in Iraq. Di contro, sul punto, “le truppe di terra ci vorrebbero, ma non c’è nessuno che vuole mettere in campo i suoi uomini”, ha osservato giorni fa da queste colonne il generale Mario Arpino. Senza dimenticare il rischio che le armi statunitensi siano cadute in mani pericolose.
MIRE
Nell’estremo nord dell’Iraq, nella regione autonoma del Kurdistan nonostante sia nota l’ufficiosa indipendenza che cerca da decenni, sono stati occupati i giacimenti nella ricca Kirkuk. I jihadisti già controllano Anbar, Ninawa, Diyala e Salahadin oltre a Banjij, che è la principale raffineria del paese. La tribù Shaitat, insieme a molte altre della provincia ricca di petrolio di Deir al-Zour,al confine con l’Iraq, ha trascorso gran parte di quest’anno a lottare per mantenere il controllo del territorio. Ma da oggi chiede anche il sostegno dell’Occidente.
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