martedì 22 dicembre 2009

LE NUOVE GENERAZIONI? SONO PORTATRICI SANE DI VALORI

Da Ffwebmagazine del 22/12/09

Ha scelto musicisti giovani, non celebri, assetati di successo e di fama. Quelli, per intenderci, che non hanno ancora scalato la montagna. E che, forse per questo, hanno negli occhi quell’energia e quella forza che li sosterrà a lungo. Li ha scelti e li ha fatti suonare in un luogo speciale, non un auditorium qualsiasi. Nell’emiciclo del Senato, simbolo delle istituzioni, lasciando che eseguissero la quinta sinfonia di Beethoven e, per il bis, il don Pasquale di Donizetti. E dopo gli applausi, ha rivolto lo sguardo alle autorità presenti.

Dalla musica un invito al paese: le nuove generazioni sono portatrici sane di valori. Il maestro Riccardo Muti ha scelto di presentare con queste parole l’orchestra Cherubini, con la quale si è esibito al Senato per il concerto di Natale, il cui ricavato è stato donato all’Ospedale pediatrico Bambin Gesù di Roma. E lo ha fatto dinanzi alle più alte cariche dello Stato, Giorgio Napolitano, i presidenti delle Camere, quello della Consulta Amirante, il cardinal Bertone. Perché «nel paese lacerato da veleni e tensioni - ha scandito con l’inconfondibile solennità che lo contraddistingue - Cherubini è la dimostrazione che i giovani incarnano i valori. Giovani che hanno intrapreso la strada della bellezza e che operano non per studiare in una stanzetta, ma per portare la musica nella società. Una società che dovrebbe saperli ascoltare e sostenere».

Giovani e società, un binomio spesso stonato, dove i primi faticano a vedersi legittimati dalla seconda. Dove il ritornello sulla fuga dei migliori è stancamente ripetuto a ogni occasione. Ma non in questa. Perché il maestro Muti, che il prossimo anno verrà chiamato a dirigere lo stabile di Chicago, ha fatto qualcosa di più intenso. Avrebbe potuto scegliere ben altri interpreti per il concerto natalizio, più esperti, più titolati, più conosciuti. Ci sarebbero stati più flash a immortalare la scena, con titoli e controtitoli più forti. Insomma, avrebbe potuto essere lui il protagonista, in tutti i sensi.

E invece ha voluto dare un segno, vero e non di plastica. Ha voluto che in un luogo che rappresenta le istituzioni, basi dello Stato e della società, gli applausi fossero concentrati per un gruppo di ragazzi. Professionisti, formati dopo anni di studio e che incarnano alla perfezione il futuro della società e, di conseguenza, del paese. Una mossa assolutamente significativa, che deve far aprire gli occhi realmente, e non solo con vuoti proclami, sulla sofferenza che le giovani generazioni accusano in Italia. Forse è stato proprio quel livello di consensi indiscusso, con riconoscimenti in tutto il mondo, che hanno fatto scattare l’orgoglio del maestro nato a Napoli ma dalle origini pugliesi. E che lo hanno spinto a lanciare un monito alla politica.

L’Orchestra giovanile “Luigi Cherubini”, da lui fondata nel 2004, è composta da giovani musicisti selezionati da una commissione internazionale tra più di seicento strumentisti provenienti da tutte le regioni italiane. Proprio assieme alla giovane orchestra il maestro Muti sta affrontando dal 2007 un progetto triennale sulla riscoperta e la valorizzazione del patrimonio musicale ed operistico del settecento napoletano, nell’ambito di una collaborazione con il Festival di Pentecoste fondato da Karajan. Nel marzo 2007 l’ha diretta in un concerto nella Basilica di San Francesco ad Arezzo, accanto agli affreschi di Piero della Francesca, in occasione del Festival musicale promosso dall’Ente Filarmonico Italiano. «La critica e il pubblico hanno notato che con la "Cherubini" Riccardo Muti fraseggia da par suo con toccante e sicura delicatezza - si legge su Wikipedia - e che i nostri migliori talenti - oramai orchestra - con lui e grazie a lui dimostrano di avere la capacità preziosa di mettere in evidenza, sotto una luce intensa, ogni minimo dettaglio timbrico e armonico delle opere. Riccardo Muti, nel momento della sua piena e riconosciuta maturità artistica, ha deciso di mettere a disposizione dei giovani la sua esperienza ed il suo talento. Un docente eccezionale, per capacità e motivazioni».

Il presidente della Repubblica, a margine del concerto, ha ricevuto proprio una missiva dai ragazzi dell’orchestra “Cherubini”, per nulla rassicurati sul futuro che li attende. E il maestro ha rivolto un appello sulla crisi dei musicisti, affinché non siano lasciati soli e comporre e poi a dover strappare quegli spartiti, persi nelle solite poche occasioni che hanno, con la prospettiva di una carriera da costruire lontano da casa.
Ogni anno ne sceglie diversi: così Riccardo Muti offre a questi musicisti una vetrina, piccola o grande che sia non importa. Quello che conta è che il futuro è di chi ha le forze – fresche - per far emergere il proprio merito. Puro, secco, senza troppi fronzoli e ricami formalistici. «La terra - diceva Shakespeare - ha musica per coloro che ascoltano». Che si drizzino le orecchie, allora, che si ascoltino quelle note e soprattutto che la politica raccolga l’invito rivoltole dalla musica.

giovedì 17 dicembre 2009

I bambini e l'immigrazione:serve un occhio vigile


Da Ffwebmagazine del 17/12/09

Chi siamo noi e chi sono loro? Dove inizia l’atto di metamorfosi di una società inclusiva, che si dota degli anticorpi necessari a contrastare il pregiudizio e il no preventivo al diverso? Già nel 1846 Proudhon esortava a non divenire «capi di una nuova intolleranza», accogliendo e incoraggiando invece tutte le proteste, e condannando tutte le esclusioni. Che avesse previsto il sisma sociale che si sarebbe verificato un secolo e mezzo dopo? L’Italia non soltanto accusa un pesante ritardo socio-politico nei confronti dell’immigrazione in generale, ma non si è nemmeno posta il problema dei minori, appartenenti a quelle fasce più deboli e maggiormente esposte ai pericoli. Sembra che, ancora oggi, qualcuno non voglia farsene una ragione: l’immigrazione esiste, presenta dei numeri importanti, quindi va gestita e non rimandata a domani, quasi si trattasse di un affare la cui soluzione si può pigramente posticipare.Quanti ragazzi immigrati ci sono per le strade italiane? Quanti conducono una vita dignitosa, civile e quanti invece non godono di diritti, sopravvivendo giorno dopo giorno nell’indifferenza generale? Seimila, risponde il rapporto “Save the children” sui minori stranieri presenti in Italia, ma è un dato che potrebbe essere anche più ingente. Bivaccano nelle stazioni, chiedono l’elemosina ai semafori. E non hanno una rete nazionale che li monitori e che si preoccupi di censirli. Si tratta di ragazzi nati sul territorio nazionale o giunti sin qui in virtù del ricongiungimento. Dal 2004 ad oggi pare siano raddoppiati, ma i più sfuggono al conteggio in quanto manca un occhio che vigili attentamente.

Per questo sarebbe opportuno che si provvedesse ad attivare una forma organizzativa dello stato in grado di gestire professionalmente la fase dell’accoglienza, dove chi arriva dovrebbe trovarsi di fronte a un doppio livello: una persona che parli la sua lingua e si occupi del primo approccio, quindi dei diritti di cui potrebbe godere. E in seguito chi lo indirizzi materialmente verso le procedure di integrazione. È in mancanza di un tale organismo strutturato su due strati, che si verificano purtroppo anche non pochi casi di fuga. E allora serve un modo nuovo di intendere la convivenza, dal momento che, come rifletteva Albert Einstein, «se l’umanità deve sopravvivere avremo bisogno di un vero e proprio nuovo modo di pensare».

Se persino un quotidiano moderato come il Sole 24 Ore arriva a scrivere che «sull’immigrazione la politica italiana continua a scherzare col fuoco» significa che si sta pericolosamente sfiorando il confine tra ciò che va fatto, subito, e ciò che va impedito che accada come conseguenza. E quale strumento se non un ministero ad hoc? Che sia funzionale a un tema che ha avuto un innegabile sviluppo nell’ultimo decennio, che lo ha portato a ricoprire una rilevanza nazionale. Meritevole di specifiche politiche, la cui competenza non può essere caricata esclusivamente sul Viminale.

Le finalità di un ministero per l’immigrazione non si limiterebbero evidentemente solo a un’opera organizzativa sul territorio, ma dovrebbero ampliarsi abbracciando idealmente la sfera sociale, concentrandosi anche su chi quel territorio lo abita da anni. Integrare sì gli immigrati, ma integrare anche quei cittadini che già vivono qui e portarli a convivere culturalmente con l’immigrazione. Intendendola come una risorsa. Educando alla diversità, che non rappresenta una deminutio per nessuno, ma invece è fonte di arricchimento. Rileggendo magari quei versi di Cesare Pavese: «un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti».

Oggi purtroppo accade quello che aveva previsto Arthur Schnitzler, ovvero che «nessuno si occupa mai di come è fatta un’altra persona. Abbiamo paura gli uni degli altri, in verità ognuno di noi è solo». Forse è per questo che la paura si muta in violenza, come accaduto al Cie di Gradisca d’Isonzo nei giorni scorsi, dove è stato fatto recapitare un portafoglio imbottito di polvere da sparo. E che solo per un caso fortuito non ha provocato feriti tra gli immigrati presenti nel centro. E allora lavorare per integrare, unire, convivere, coesistere, evitando in questo modo che, come sosteneva Rudyard Kipling, si arrivi a pensare che «tutte le persone come noi sono noi, e tutti gli altri sono loro»

martedì 15 dicembre 2009

La politica esca da questo Vietnam mediatico...

Da Ffwebmagazine del 15/12/09

E adesso la politica tiri una riga, di quelle ben visibili, e abbandoni questo Vietnam mediatico, un ring paludoso e dalle basi instabili pieno zeppo di imboscate e contraeree, per approdare invece su terreni fertili e finalmente da paese civile. A due giorni dalla deprecabile aggressione al premier, in pochi si sono sforzati di dare seguito alle prescrizioni quirinalizie. Abbassare i toni, smettere i panni delle fazioni contrapposte in stato perenne di derby, evitare titoli sguaiati e offensivi, e aggiungiamo, riflettere prima di parlare. Niente, anche negli approfondimenti televisivi di ieri la stampa e la politica avrebbero potuto fare di meglio. Sì, anche la stampa, dal momento che come sosteneva Philippe Sollers «la scrittura è la contaminazione della politica con altri mezzi».

E invece si sono intestarditi nel compiere voli pindarici verso l’avversario, con l’indice perennemente puntato a mò di inquisizione, con il sopracciglio preventivo - quello costantemente alzato quando a parlare è l’interlocutore - adducendo argomenti improbabili, (come il funerale del bipolarismo o l’incubo del tradimento politico, che francamente nulla hanno a che vedere con la violenza di piazza Duomo) anziché fare tutti il mea culpa: un’altra occasione persa? Forse.

Quando si valutano superficialmente episodi e mal di pancia, senza analizzare con un minimo di profondità quali reazioni susciteranno tali prese di posizione, non si fa altro che ignorare la raccomandazione di Epitteto nel Manuale, secondo cui «non sono i fatti in sé che turbano gli uomini, ma i giudizi che gli uomini formulano sui fatti». Come si può pretendere, allora, che la politica faccia un passo indietro quando i media ne fanno settanta in avanti? Prudenza, circospezione, saggezza, misura: a nessuno sembrano interessare le massime incise accanto al tempio di Delfi dal discepolo di Aristotele Clearco, quelle per intenderci che consigliavano “la misura è la cosa migliore”, “nulla di troppo”, “riconosci il momento favorevole”, “conosci te stesso”. Questo serve perché il famoso clima di odio del paese smetta di essere tale. E chi dovrebbe contribuire a farlo cambiare se non chi veicola le notizie ai cittadini e chi, di quelle notizie, ne è il protagonista?

Si assiste invece a una predica quotidiana a compiere un’inversione di tendenza, a smetterla con le aggressioni verbali, a fare a meno di turpiloquiare, fomentando l’elettorato e disabituandolo così a ragionare, prima che inverire. E poi si mette in pratica esattamente l’opposto, quasi inscenando una gara tra quale partito abbia spruzzato più veleno nell’arena. Uno spettacolo che mette brividi. L’analisi di ieri avrebbe invece dovuto favorire una comune presa d’atto sullo stato dell’aria nel paese, oggettivamente irrespirabile. E insieme tutti avrebbero dovuto convenire sulla necessità di spalancare le finestre e cambiare passo.

Le parole di Bersani - «gesto da condannare, senza se e senza ma» - rappresentano un esempio di come iniziare un nuovo corso. Ma sarebbe auspicabile che abbiano un seguito anche da parte degli altri protagonisti, che a oggi rimangono purtroppo frastagliati in una sorta di costellazione di micro ragionamenti assurdi, distanti fra loro anni luce. «Gli uomini - diceva Immanuel Kant - non possono disperdersi isolandosi all’infinito, ma devono da ultimo rassegnarsi a incontrarsi e a coesistere». Quel momento è giunto da un pezzo. Serve incontrarsi, parlarsi, chiarirsi. Per ricominciare il confronto, franco, duro, serrato, ma non armato.

«Le pieghe amare intorno alla bocca - scriveva Hemingway - sono il primo segno della sconfitta». È ciò che appare sul viso della cattiva politica, quella di serie B che grida a squarciagola nei salotti televisivi, quella che non perde occasione per pompare adrenalina in una società ultra elettrizzata e allo sbando, dove il lume della ragione viene sacrificato e impacchettato, affinché si smarrisca in qualche polverosa soffitta. Il rugby è uno degli sport in assoluto più maschi. Corsa, mischie ruvide, infortuni frequenti. Ma al termine dell’incontro ecco le due squadre unirsi nel terzo tempo, in quell’abbraccio vero e sincero che riconosce il valore innegabile dell’avversario, anche di quello uscito sconfitto dall’incontro. No, non è buonismo, ipocrisia, retorica. Si chiama correttezza. Ed è un valore, per chi lo ignorasse ancora.

Tornano alla mente le parole rivolte da Giorgio Almirante a Gianfranco Fini, che gli chiedeva come mai si fosse recato da solo a rendere omaggio alla camera ardente allestita per Enrico Berlinguer a Botteghe Oscure: «Oltre il rogo non v’è ira nemica» rispose, a testimoniare uno spesso velo di quella correttezza e di quella onestà intellettuale che oggi tragicamente mancano. E che la politica, quella di serie B, non sembra per nulla interessata a recuperare.

venerdì 11 dicembre 2009

Se la burocrazia blocca la libertà di scelta


Da Ffwebmagazine dell'11/12/09


Quando si è cominciato a parlare di digitale terrestre, si è messo l’accento sul fatto che ne avrebbe guadagnato la libertà di scelta dei telespettatori. E, messa così, la questione sembrava interessante. E lo è. Pensiamo all’utente medio che tra le varie bollette da pagare - luce, gas, telefono e riscaldamento, quando non anche l’affitto a fine mese - di certo non ha i soldi sufficienti per permettersi un’ulteriore spesa per la tv a pagamento.
E allora, non potendo fare altrimenti è costretto a sorbirsi i soliti programmi delle sei o sette tv generaliste che non ti mandano in onda un film nemmeno se ti appelli alla Corte dei diritti di Strasburgo. Finalmente, arriva il digitale terrestre e la scelta dei canali – non a pagamento - aumenta vertiginosamente, e così anche la speranza di trovare anche un film, magari quello che si è perso al cinema qualche tempo prima. O di poter seguire, tutte le volte che lo voglia, documentari di storia, che non fa mai male. Se lo si guarda da questo punto di vista il digitale terrestre, dunque, sembra un innegabile strumento democratico e liberale. Per i telespettatori e anche per gli operatori.

Maggiore libertà nello scegliere un’offerta più ricca e diversificata, per gli uni, un mercato in cui misurarsi con una più marcata concorrenza, per gli altri. Impedendo l’avvio di “Cielo”, il nuovo canale di Sky entro i termini stabiliti, è venuto meno questo insieme di propositi. Chi è il colpevole, con chi prendersela? E perché?«Chiunque può arrabbiarsi, questo è facile- sosteneva Aristotele -. Ma arrabbiarsi con la persona giusta, nel modo giusto e al momento giusto per lo scopo giusto: questo non è nelle possibilità di chiunque». Con chi dovrebbe rivalersi un privato a cui è impedito lo svolgimento di un’attività che sottolinei i valori del liberismo e della concorrenza? Soprattutto come e con quali argomenti dovrebbe arrabbiarsi? E in quale misura? Quando la burocrazia stringe i lacci a nuove opportunità, ad un ventaglio di opzioni diversificate, a tipologie di scelte in più, è in quel preciso istante che, da strumento di azione, si trasforma in zavorra insostenibile, in cemento armato pazientemente stivato nella poppa di una barca, in ruvide catene che impediscono il volo.
E che costringono inesorabilmente a terra idee e iniziative. Ma la burocrazia, come insegna il ministro Brunetta, dovrebbe invece favorire l’amministrazione, quella buona, sorridere a chi la utilizza per le operazioni di cui dispone, essere di slancio ad un paese che procede con il freno a mano tirato. Accade però in questo paese, sempre quello che circola con le gomme sgonfie, e che gli rallentano la corsa, che taluni impulsi di liberismo e di applicazione pratica del principio di concorrenza, vengano per così dire sedati da massicce dosi di valium, da cesoie che puntualmente spuntano quelle timide presenze di erba fresca e nuova che pian pianino tentano di nascere su un terreno non sempre fecondo.

Il nuovo canale di Sky sarebbe dovuto partire lo scorso primo dicembre, allargando così un panorama di offerta e di scelta per i fruitori ed è fermo ai box perché - dicono dal ministero dello sviluppo economico - privo delle necessarie verifiche circa il possedimento dei requisiti formali, ovvero stato patrimoniale, frequenze. La legge stabilisce il termine di tale iter in sessanta giorni, estendibili anche a novanta. Ma la Newco ha già ricevuto il nulla osta dell’Agcom e soprattutto gli uffici del vice ministro con delega alle comunicazioni hanno già in mano la risposta di Bruxelles circa l’interpretazione degli undertaking firmati da Newco, in occasione della nascita di Sky Italia. La stessa Newco ha già chiarito che gli undertaking non precludono a Sky Italia di operare sul Dtt con un canale gratuito in chiaro. Quale il motivo dunque di un simile ritardo? Nel 2003 la New Corporation sottoscrive una serie di impegni, che le consentono di operare all’interno della pay-tv italiana, a seguito della fusione tra Tele+ e Stream. Essi sono recepiti favorevolmente dalla Commissione Europea con decisione del 2 aprile 2003. È previsto, come riportato dall’art. 9, che «con riferimento al Dtt, le società obbligate non dovranno agire in Italia in qualità di operatore di rete o operatore di servizi televisivi a pagamento al dettaglio e non potranno chiedere alcun titolo abilitativo al tal fine necessario. Tale obbligazione si applichera' sia durante la sperimentazione del Dtt attualmente in corso, sia, successivamente, per tutta la durata dei presenti impegni» (31 dicembre 2011). Termini che non ostacolano la trasmissione di un canale in chiaro.

Ma che ne è di un paese dove si chiude la porta in faccia a una nuova piattaforma? Che sia culturale, giornalistica, di intrattenimento non importa. Ma come, si chiederebbe il solito alieno che capitasse per caso in Italia, nel resto del mondo si assiste alla globalizzazione, al tutto per tutti, a una ventata di libero scambio – come l’apertura dell’area nel 2010 –, alla realizzazione pratica di principi strutturati da illustri pensatori e teorici del liberismo, Stuart Mill, Tucidide, Aristotele, Bobbio, Dostoevskij, La Pierre, Brandeis, Philips, Mac Arthur, Rand, Adams. Qui invece si fa un passo indietro nel tempo, quasi tornando a un secolo fa. A quando i vari regimi, diversi nei colori e nei rappresentanti, erano però unificati dall’assolutismo e dal voler strozzare ogni alito di vento non allineato.

Certo, in questa storia c’è chi potrebbe sostenere, come disse Edmund Burke che la libertà è uno “dei doni della Provvidenza”. Giustissimo, ma ciò che la eleva a dono elargito in seno alla collettività, è il fatto che poi dovrebbe essere allargata di fatto, in quanto la libertà al singolare “esiste soltanto nella libertà al plurale” , rammentando la postulazione crociana. Aveva forse ragione Nicola Matteucci, dunque, quando rilevava che “abbiamo tanti liberali fra loro diversi, ma non il liberalismo”? E che cos’è il liberalismo se non il riconoscimento delle libertà?

mercoledì 9 dicembre 2009

MA UN NEONATO NON PUO'MORIRE PER INDIFFERENZA

Da Ffwebmagazine del 09/12/09

Ma chi sbaglia, in questo paese, deve pagare? O è sufficiente schivarsi dietro commi e scorciatoie burocratiche per mettere al riparo responsabili e reati? La vergogna italiana, in questi giorni, abita in Sicilia, e indipendentemente dalle migliaia di pagine che verranno stampate per inchieste, verbali e scartoffie che puzzano di ipocrisia, nulla potrà cancellare lo sconcio per la morte di una bimba di pochi giorni, partorita dalla madre 23enne su di una sedia, senza che nessuno, ma proprio nessuno, si sia premurato di condurre la donna in sala travaglio. Nel silenzio generale, nel disinteresse collettivo.

No, non si vuole incolpare preventivamente gli operatori dell'ospedale di Canicattì, ci mancherebbe. Preventivamente no, ma a posteriori, dopo aver valutato la gravissima omissione a cui la madre è andata incontro, si vuole denunciare. Si vuole alzare la mano, civilmente ma con fermezza, per esprimere rabbia, sdegno, urla di disapprovazione, di rigetto, di tutto fuorché questo a cui si è assistito. Si sta parlando del diritto primario alla salute, quello di una donna attanagliata dalle doglie, che grida il proprio dolore in una sala del pronto soccorso. E che viene lasciata dare alla luce in solitudine una bellissima bambina su quella sedia, salvo essere aiutata nel taglio del cordone ombelicale. Tutto bene? Niente affatto, perché dopo sette giorni la bimba cessa di vivere. Infezione, addome gonfio. Non contano le valutazioni mediche. Nemmeno quelle tecniche tediosamente devianti sulla natura del problema.

Il caso toglie il velo a un palcoscenico semplicemente aberrante, dove un'ammalata non viene nemmeno ascoltata, abbandonata lì al proprio destino, con solo il marito accanto che tentava di rincuorarla. Nell'indifferenza di un presidio medico, nella noncuranza di addetti alla salute, non di passanti presenti lì per caso. È stato stimato che in Italia i luoghi più a rischio per morti "sanitarie" siano la sala operatoria (32%), i reparti di degenza (28%), i dipartimenti di urgenza (22%), l'ambulatorio (18%). Le quattro specializzazioni più a rischio invece sono ortopedia e traumatologia (16,5%), oncologia (13%), ostetricia e ginecologia (10,8%) e chirurgia generale (10,6%). Numeri che fanno impallidire, se è vero come è vero che i casi di malasanità si verificano frequentemente in quelle regioni dove altissima è la spesa per la sanità e dove sovente, vedi Calabria, Sicilia e Puglia, si oltrepassa pericolosamente il budget. Dove finiscono quei soldi? E con quali risultati?

Il diritto alla salute, quello citato a gran voce dall'articolo 32 della Costituzione, quello che si applica a tutti, ma proprio a tutti, anche ai prigionieri di guerra, ai nemici, agli avversari, ai poveri, ai miscredenti, ai terroristi, ai diversi, a tutti. E che viene ancora calpestato, in un paese che si traveste di modernismo e progresso, popolato da benpensanti e tradizionalisti solidali, che quotidianamente si sforzano di cucirsi addosso la contraffatta targhetta di custodi dei diritti - prima per gli italiani però -, dove sembra che il mondo si sia fermato in un punto esatto della penisola. Oltre il quale non v'è certezza del nulla.
Bisogna dire basta a simili scenari, utili solo a far contorcere budella e far sdegnare, opponendo questa volta sì un muro invalicabile contro tali scempi. Non sarà in questi casi che si attiveranno le diplomazie, gli accordi, i "si risolve tutto". Non si risolve un bel nulla, invece, quando in gioco c'è la vita umana, come nel caso siciliano, o in tanti altri. I responsabili dovranno pagare, tentare di riparare al danno causato, a una micro vita spezzata barbaramente, senza il benché minimo rispetto. Perché qui c’è stata una vera barbarie umana.

Chi si assumerà il gravoso compito di dire a Manuela Daniela Gradinariu e a Valentin Paun, giovani genitori della piccola salita in cielo, che la loro bambina non c'è più? E non per un comprensibile e possibilissimo errore medico durante un intervento chirurgico o durante una terapia rischiosa. Ma per una colposa condotta irresponsabile e nauseante, per quel "non mi interessa" troppo spesso pensato e pronunciato da chi ha precisi doveri nei confronti dei malati. Verso persone con sangue nelle vene, con un cuore, con un dolore vivo.

Vengono in mente le parole di Martin Luter King, «la disumanità dell'uomo verso l'uomo non si materializza solo negli atti corrosivi dei malvagi, si materializza anche nella corruttrice inattività dei buoni». Quella stessa inattività che dovrà essere punita severamente, senza se a senza ma. Senza scorciatoie e senza inghippi burocratici dell’azzeccagarbugli di turno. Perché alla barbarie non si può rispondere con un semplice scappellotto dietro la nuca.

martedì 8 dicembre 2009

Ma le morti bianche non sono reati di serie B


Da Ffwebmagazine del 08/12/09

Rischio di reati di serie B in Italia? Ovvero, i morti sul lavoro sono meno importanti di altri? Il magistrato torinese Raffaele Guariniello, autore di indagini note come le farmacie negli spogliatoi del calcio italiano o i decessi alla multinazionale Eternit, alza la mano e accusa certi pm: sarebbero troppo pigri con le morti sul lavoro. E non vi sarebbe la necessaria comunicazione fra le procure europee dove, mentre le aziende si parlano alla velocità supersonica di email e social network, i tribunali fanno ancora i conti con la carta e le lunghe attese.

Argomento delicato, questo, non poco ingarbugliato, specie dalle nostre parti. Ignorando per una volta il monito di Sun Tzun - «non bisogna mai accamparsi su di un terreno pericoloso» - sarebbe molto utile fermarsi invece a riflettere su quei morti e su quelle cause, anche a rischio di impattare su realtà crudeli. Le settemila vittime sul posto di lavoro degli ultimi cinque anni non rappresentano una cifra da poco. E se anche lo fossero ciò non giustificherebbe certa approssimazione nell’affrontare la questione, anche da parte di alcuni media.

Il procuratore aggiunto di Torino ha ragione quando sostiene che in Italia si assiste a una diseguaglianza di «trattamento giudiziario a danno dei lavoratori e delle stesse aziende». I processi in piedi per infortuni sul lavoro e per malattie professionali corrono il rischio di essere prescritti in Cassazione. Pochi quelli che si celebrano, anche con il corollario di tempi biblici. Il risultato non è soltanto il mancato riconoscimento di un diritto previsto dalla legge al lavoratore, ma anche uno squilibrio evidente per l’intero sistema economico-professionale. Perché si produce un innegabile corto circuito tra operaio, impresa e welfare. Perché quell’operaio che ha sacrificato tempo e salute per il proprio lavoro non uscirà dal tribunale con una coscienza rafforzata. Si vedrà invece dimezzata la fiducia nella giustizia e anche in se stesso, dal momento che, come accade in molti casi, non potrà più riprendere il precedente ritmo di lavoro, oppure, come purtroppo accade in altri più tristi casi, non avrà nemmeno la possibilità di riprendere la precedente esistenza. Vengono in mente le parole di Leonardo Sciascia, quando affermava: «Si suol dire che l’Italia è culla del diritto, quando evidentemente ne è la bara».

Perché non approfittare, allora, della riforma della giustizia in cantiere, per prevedere misure risolutive, accelerando così l’iter delle cause per le morti sul lavoro? Perché non inserire norme che tutelino maggiormente il lavoratore monoreddito, magari con più di due figli? Intervenire insomma concretamente sul welfare, sui bisogni reali e concreti di un operaio, la cui esistenza dipende da quel posto di lavoro, da quel salario e della sua salute nel conservarlo al meglio.

Le morti bianche. Dove il bianco appare un colore smunto, pericoloso perché indefinito, non sufficientemente rassicurante, privo di certezze. Un bianco dove lo Stato deve impegnarsi a puntare dei paletti, severi e duraturi. Come ha sottolineato il ministro Maurizio Sacconi in occasione della giornata del volontariato, non è più sufficiente circoscrivere gli incidenti sul lavoro a eventi racchiusi nel circuito della legge e della relativa applicazione. Urge una rivisitazione del problema, magari analizzandolo da una prospettiva meno giurisprudenziale e più sociale. Intendendo creare un dialogo più intenso tra imprese, lavoratori e Stato, con una formazione che sia finalmente all’altezza, con provvedimenti invasivi da avviare anche all’interno dei cicli scolastici. Spazzando via l’attuale geografia nazionale con tante Italie, ciascuna dotata di tempi e modi diversi, come testimoniato dalle sole ventuno denunce di incidenti sul lavoro in dieci anni, segnalate alla procura di Vibo Valentia. Un’assurdità.

Bene prevenzione e formazione, dunque, ma si potrebbe anche andare oltre: la sicurezza dovrebbe essere una cultura, e non solo un diritto o un obiettivo, per quanto nobile esso sia. Una vera educazione alla sicurezza, come intima convinzione civica ad appannaggio dei lavoratori e degli imprenditori. E dove le imprese e la politica dovrebbero sforzarsi di portare il peso maggiore, venendo incontro alle esigenze dei più deboli.

«La repubblica è la nostra famiglia - diceva Calamandrei - la nostra casa. Un senso di vicinanza e di solidarietà in cui ci riconosciamo». Proprio quella solidarietà che trasuda, copiosa, dal parco inaugurato l'altro giorno a Torino dedicato alle vittime della Thyssen, a due anni dalla tragedia che costò la vita a sette operai. Un segno - verde - dagli spiccati connotati di speranza. Perché chi deve garantire l’equilibrio della giustizia si impegni a farlo sul serio, lasciando da parte luci e palcoscenici. E concentrandosi un pizzico di più su certe zone tristemente grigie, dove la vita umana troppo spesso conta meno di un tot.

lunedì 7 dicembre 2009

Vertice di Copenhagen, speriamosia soltanto l'inizio...

Da Ffwebmagazine del 07/12/09

«Tutti pensano a cambiare il mondo- diceva Tolstoj- ma nessuno pensa a cambiare se stesso». Se da oggi, inizio del vertice del clima di Copenhagen, tutti i paesi decidessero di cambiare veramente le regole dell’inquinamento, si potrebbe tentare di consegnare ai nostri figli un mondo senza rischio di autodistruzione. E, perché no, utilizzare la green economy per produrre anche un vantaggio finanziario, vitale in questo biennio di crisi.

In Groenlandia i ghiacci si sciolgono a una velocità che non era stata prevista dai calcolatori elettronici. La temperatura in aumento sta modificando completamente i sistemi di vita animale e vegetale: fioriture sfasate e presenza di specie mai viste prima. Il Bangladesh è il paese con il più alto numero di bimbi morti annegati, causa le copiose inondazioni. Molte zone del pianeta, fra cui Spagna e Italia, sono vittime della desertificazione. Altre, come l’Olanda e isole come Maldive e Seychelles, potrebbero sparire, ingurgitate dal mare. Proprio la crescita dei mari di circa un metro e mezzo, associata alla massiccia dose di Co2 presente nell’atmosfera, sta portando la morte negli oceani. «Serve un impegno per il futuro e il rispetto delle leggi della natura», ha ammonito Benedetto XVI. Ma quante volte sono stati avanzati i medesimi propositi?

È chiaro che se l’appuntamento danese dovesse risultare l’ennesima assise internazionale in cui a regnare incontrastate sono ipocrisia e buone intenzioni, non solo non si risolverebbe il problema, ma - se possibile - lo si aggraverebbe in maniera esponenziale. Decantare mediaticamente ecologia e uso delle energie sostenibili, e poi non incentivare le auto elettriche, i pannelli solari nei palazzi di nuova costruzione, le piste ciclabili almeno in tutte le strade dei centri cittadini, la creazione di nuovi parchi pubblici (veri e propri polmoni naturali), significa fare terrorismo ambientale. E mostrare un “corto respiro” estremamente dannoso.

Che senso ha sedersi al tavolo con altri cento capi di stato del mondo pur continuando a inquinare con industrie che, è il caso di Città del Messico, causano il maggior numero mondiale di problemi respiratori tra i cittadini?

Parallelamente alla distruzione terrestre, cresce nel mondo anche la quantità di popolazione che lo abita. Continuando di questo passo, è stato stimato che entro settant’anni si giungerà a nove miliardi di persone, che però dovranno rivedere i loro modi di vivere. Perché, inevitabilmente, non potranno condurre la medesima esistenza e soprattutto non potranno farlo nei medesimi luoghi.

Una rivisitazione urbana in chiave ecosostenibile non solo è possibile, ma potrebbe rappresentare una soluzione anche per ottenere un ritorno economico. È il caso dei centotrenta progetti elaborati dal comune di New York per ripensare lo sviluppo cittadino a trecentosessanta gradi. “Grattacieli che respirano” ha proclamato il sindaco Michael Bloomberg, e il riferimento non è esclusivamente alla questione ecologica. Strutturare ex novo la crescita dei quartieri, la relativa evoluzione negli spazi e, perché no, nelle vite dei cittadini, equivale a creare nuovi posti di lavoro, a dare luce a specializzazioni fino a oggi semisconosciute, ad aprire nuove possibilità di esplorazione scientifica. Insomma, aspirare aria nuova, sotto tutti i punti di vista. Vorrebbe dire innescare un circolo virtuoso dove formazione, università, industrie, edilizia e vita umana, si troverebbero avvolti in un unico fazzoletto di buon senso. Consapevoli che dalla riuscita dell’uno dipende la vittoria dell’altro.

Un punto di partenza, attuabile in tutti i comuni d’Italia, potrebbe essere la costruzione di abitazioni - di vario genere o di edilizia popolare - completamente autosufficienti dal punto di vista energetico, con pannelli solari impiantati sui tetti. O su tutti gli edifici pubblici, come le sedi di regioni, province, comuni, tribunali. Per poi trasferire tale modus operandi al maggior numero possibile di palazzi. Diffondendo, velocemente e con la necessaria completezza, informazioni utili a una vita che sia essa stessa ecosostenibile.

Non è concepibile che uno dei più grandi acquedotti d’Europa, l’Acquedotto Pugliese, perda sistematicamente il 25-30% dell’acqua a causa di condutture difettose o obsolete. O che a causa delle gomme non sufficientemente gonfie, molti automobilisti italiani consumino il 20% di carburante in più. Sono numeri da paesi culturalmente sottosviluppati, che una democrazia matura, una democrazia che guardi al di là del proprio naso, deve sforzarsi quantomeno di dimezzare. E con piani di azione specifici: non siamo più agli albori delle crisi climatiche, quando le nozioni sul tema risultavano frammentarie, o quando veniva tutto declassato come il solito catastrofismo.

La situazione, a oggi, è grave ma ben visibile, soprattutto per restare ai confini nazionali, in alcune realtà specifiche dove, tanto per fare un esempio, la raccolta differenziata è ancora una chimera. O, per dirne un’altra, dove in alcuni uffici pubblici anche parecchio importanti, si spreca un’incredibile quantità di carta per distribuire documenti senza dubbio importanti, ma che potrebbero essere veicolati a costo zero grazie alla tecnologia (vedi file in formato elettronico, o e-mail).

E allora, Copenhagen non sia un evento inutile. «Non sia l’arbitro finale del successo né il punto di arrivo dell’azione globale» ha detto il segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon. Magari la sua chiusura fra dieci giorni, con la relazione finale di Barack Obama, potrebbe segnare l’inizio di mini eco-congressi nei singoli paesi, dove si passi rapidamente dalle parole ai fatti, con la consapevolezza che il problema coinvolge tutti, senza esclusione. E che non sarà sufficiente la solita soluzione tampone per chiudere una falla di proporzioni epocali.

venerdì 4 dicembre 2009

Alla lotta per i diritti umani serve un'informazione libera

Da Ffwebmagazine del 04/12/09


E se i giuristi di tutti i paesi islamici si riunissero in conclave? E se facessero uno sforzo comune per delineare problemi e soluzioni , spronando così gli stati nella battaglia per i diritti umani? La proposta viene da Mario Lana, avvocato e direttore della rivista I diritti dell’uomo che, a vent’anni dall’uscita del primo numero, apre una riflessione sul rapporto sotterraneo fra la dignità della persona e la libertà di informazione. Un intreccio che, parafrasando Roberto Saviano, poggia l’uno sull’esistenza dell’altro, dal momento che nonostante tale consapevolezza sia ormai un dato ampiamente acquisito, «in Italia l’informazione sgomita costantemente per affrancarsi da manifestazioni di tifoseria da stadio. O con noi o contro di noi, questo sembra essere il concetto. Come fossimo in una guerra dove è impossibile ragionare oltre una logica di schieramento».

La guerra. Atrocità che si presta a molteplici immagini visive. Dove armi impugnate e sangue versato non sono solo quelli del Vietnam di ieri, o dell’Afghanistan o delle stragi nel terzo mondo di oggi. Ma sono anche le vite spezzate di Peppino Impastato, di Giancarlo Siani, di Giuseppe Fava, di Anna Politkovskaja, di don Pino Puglisi, di Ilaria Alpi, di Milan Hrovatin, di Maria Grazia Cutuli. Giornalisti, idealisti, attivisti che hanno combattuto- e scritto- per vari diritti civili. Non importa se denominati con nomi diversi, mafia, signori della guerra, assolutismo. Ciò che conta è l’impegno, quello sì eguale per intensità e onestà intellettuale. O come la vita strappata a Stefano Cucchi. È anche quello un esempio di diritti civili, o no? Ecco che l’informazione diventa fondamentale, perchè può scavare sui fatti o farne a meno; può precisare o generalizzare; fornire alibi o inchiodare a responsabilità; diffamare o esaltare; aprire dibattiti o centralizzare il tutto antidemocraticamente. Ma come preservare il fruitore da un’informazione drogata, rammentando allo stesso tempo ai media il proprio ruolo di campanello d’allarme nei confronti dei diritti civili? Nel 1921 Walter Lippman evidenziava come la persuasione fosse divenuta «un’arte deliberata e un organo regolare del governo popolare», rafforzando la posizione del famoso quarto potere.

Già Stuart Mill predicava l’esigenza di «proteggersi dalla tirannia dell’opinione. Se tutti gli uomini, meno uno, avessero la stessa opinione, non avrebbero più diritto di far tacere quell’unico individuo di quanto ne avrebbe lui di far tacere, avendone il potere, l’umanità». Primario diritto della persona è quindi la libertà di pensiero e di idee. Ma tale diritto deve anche essere in parte alimentato da una panoramica visione globale. Quanti giornali, ad esempio, nell’ultimo mese hanno dedicato ampio ed approfondito spazio ai morti in Niger, o agli operai asserragliati sul tetto della azienda per cui lavora(va)no, o alla possibile introduzione del reato di tortura, o alla mancata ratifica del trattato contro il traffico degli esseri umani, o allo sgombero forzato di migliaia di rom dalle città italiane? O, per certi versi, a coppie a cui è impedito di avere dei figli artificialmente, o a cittadini a cui non è ancora consentito di rifiutare l’accanimento terapeutico, o a individui non nati qui che non possono votare i propri rappresentanti in parlamento? Interrogativi legittimi, che dovrebbero porsi, non solo quanti nella società vivono e crescono in maniera non superficiale, ma soprattutto coloro che quella società foraggiano di impulsi e di direttive. Piccole, medie o grandi che siano.

Un quadro che entro il prossimo febbraio sarà al centro di un focus da parte delle Nazioni Unite, che provvederanno ad analizzare, tramite controlli procedurali, la situazione dei diritti civili in tutti i paesi. Dove il raggiungimento di risultati nell’azione pro diritti civili , in questo senso sarà inevitabilmente proporzionale alla qualità dell’informazione assicurata a tali tematiche.

Uno spunto a sostegno potrebbe essere quello di prevedere e diffondere una strategia culturale di difesa dei diritti dell’uomo. Con l’ausilio di assise internazionali che non siano solo l’ennesima occasione di scambiarsi cifre e fredde valutazioni statistiche su fame nel mondo e sugli squilibri democratici patiti da molti cittadini. Ma che rappresentino il laboratorio per sperimentare soluzioni nuove, sforzandosi di assistere maggiormente realtà che già operano su territori difficili, come Medici senza frontiere o Amnesty International, tanto per citarne due. E non per organizzare sontuosi e costosi meeting dove la portata principale è sempre più spesso un’abbondante porzione di ipocrisia, condita da laconici propositi per l’anno successivo. Una tavola imbandita a cui l’informazione, quella buona, non dovrebbe accomodarsi, preferendo se possibile il digiuno. Digiuno da milioni di “farò”, da accordi con paesi antidemocratici, da stati che alla vita umana non riservano la necessaria considerazione, da pagine e pagine di memorie inutili al cambiamento.

Un’informazione che dovrebbe tentare di essere non soltanto corretta, obiettiva, non faziosa, nè di parte, come tra l’altro da molti mesi si legge nei rilievi quirinalizi, ma per usare le parole di Saviano, «un’informazione che non sia diffamante, che non estorca consensi, è premessa necessaria a molte battaglie civili, che altrimenti morirebbero asfissiate da montagne di parole».

giovedì 3 dicembre 2009

VEDERE E APPARIRE: LO SGUARDO CHE DISTORCE LA REALTA'


Da Ffwebmagazine del 03/12/09

Siamo circondati da una “camera obliqua”, formata da telecamere presenti in tutti gli angoli delle strade, che produce un quadrilatero – l’immagine reale, gli occhi che la osservano, la camera che la riproduce, l’immagine riprodotta – dove più che il vedere, si potenzia il far vedere. Ovvero, il costruire fenomeni al solo fine di esibirli, in una sorta di raddoppio del reale: accanto al livello delle cose tangibili che accadono, c’è un altro sottolivello, parallelo e artefatto, composto da elementi prodotti esclusivamente per apparire.

Anche questo rappresenta il vedere nella modernità, rispetto alle diagnosi aristoteliche o, per rimanere a ragionamenti più recenti, a quelle formulate da Hannah Arendt, che ne La vita della mente sosteneva che nessun altro senso che non sia la vista riesce a stabilire distanze di sicurezza tra soggetto e oggetto.
Ma cosa si intende per vedere? Nell’ortogenesi del singolo individuo, quando si scopre la lettura concentrandosi sui singoli caratteri, è in quel preciso istante che accade qualcosa di rilevante nel cervello, come sostenuto da Mary Anne Wolf in Proust e il calamaro e da Stanislas Dehane in I rumori della lettura. Si tratta di un frangente nel quale si creano nel lettore le connessioni celebrali che rimarranno per sempre, attive al fine di agire in futuro come un vero sistema di apprendimento.

“Vedere”, secondo Raffaele Simone, linguista dell’Università Roma Tre, è un termine povero rispetto a quello che l’occhio potrebbe fare. Due riflessioni possono aiutare l’analisi: castità della vista, in quanto via di percezione; e ascesa di una tipologia di visione detta “alfabetica”. La prima è intesa come espressione stessa della vista: essa è la regina dei sensi. D’altronde i greci accostavano il vedere al sapere, con la metafora “ho visto dunque so”. Aristotele nella Metafisica sosteneva che, anche senza avere intenzione di agire, l’uomo preferisce il vedere, perchè rende manifeste le differenze delle cose. Eraclito asseriva che gli occhi sono testimoni più acuti delle orecchie, come si ritroverà più avanti nel diritto processuale. Platone scriveva che l’occhio è, tra gli organi di senso, quello che per aspetto ricorda più il sole, e per questo ne garantisce il primato.

Ma S.Agostino aggiungeva un aspetto al panorama celebrativo sin qui descritto: «Benchè sia la prima, la vista è esposta al rischio per l’accesso alla bellezza delle forme». Particolare che si presta a una doppia considerazione: se da un lato vi è il piacere di osservare “il bello” e ciò che tale azione comporta, dall’altro vi è il rischio di farsi infatuare da ciò che appare bello a un primo impatto, ma che in seguito si rivela fasullo o, peggio, brutto.

Ma la modernità ha sparigliato tutto, aprendo di fatto una seconda fase di pensiero sul vedere. La tecnologia non è stata solo la causa di un cambiamento oggettivo, ma la ragione di un ripensamento totale. Si pensi al cinema o ad altre forme di vedere – le telecamere dei telefoni cellulari o la web cam del pc – separate da oggetti che li rappresentano, e che per questo introducono elementi nuovi. O si pensi agli effetti speciali, dove non solo ciò che appare potrebbe non essere fisicamente presente in quel luogo, ma potrebbe anche non esistere affatto in quanto riprodotto artificialmente. Provocando quindi un distacco tra ciò che si vede e l’occhio che osserva. Come riportato da Hans Blumenberg nelle pagine di Naufragio con spettatore dove si sostiene che è “bello” osservare un naufragio stando lontano, sia perchè non è possibile aiutare alcun passeggero, sia perchè si assiste anche a un grande spettacolo.

Allontanarsi dall’oggetto visto dal soggetto vedente, e quindi il vedere a distanza, garantisce la distanza di sicurezza. D’altronde si possono vedere rivoluzioni, incidenti, stragi, senza per questo esserne protagonisti. Ma c’è un altro aspetto che caratterizza la visione: il taglio, l’indifferenza nei confronti di un pezzo di ciò che si osserva, quello che viene definito “cut off”. Nel campo della visuale esso rappresenta un organo settore, che isola un’immagine decontestualizzandola e disinteressandosi del resto, per concentrarsi su un focus preciso. Si insinua nella mente umana attraverso la cosiddetta fascinazione, dove la cosa vista esercita un’attrazione più forte di qualunque altro stimolo sensoriale, perchè “il vedere ci attrae”.

Oggi osserviamo ad esempio una persona per strada, ma non sappiamo effettivamente chi e cosa rappresenti, anche a causa di due passioni associate alla visione: la vergogna e la vanità. La prima indica una sofferenza morale di chi è visto in condizioni in cui non vorrebbe essere visto. O di chi è costretto a vedere cose di cui farebbe a meno. La seconda, molto più frequente, implica il far vedere immagini in cui il se stesso è esaltato. Due elementi in forte antitesi, con la vanità in forte ascesa e la vergogna in triste declino. Quest’ultima,tra l’altro, anche al centro del volume Sul declino della vergogna di Bauman.

Il quadro visionale moderno, dunque, se da un lato registra un incremento della possibilità di visioni grazie alla tecnologia, dall’altro accusa il rischio di vedere uno spettacolo al posto della realtà, perdendo il contatto con essa, facendosi ingannare da sfavilii e da scenari di comodo, come ad esempio il raggiungimento di un risultato senza sforzo. Arrivando a convivere con una realtà che è essa stessa effetto speciale, o troppo vera, come nel film The Truman show. Convinzione che Giorgio Manganelli definiva “troppezza”. Mentre Debord imputava alla commistione scriteriata tra reale e finto la produzione di un mondo a sè.

Che poi rappresenta il doppio errore della società di oggi e della politica: potenziare a dismisura il far vedere e l’apparire, mortificando il vedere oggettivo scevro da artifici; e rivolgere lo sguardo esclusivamente all’oggi, limitando colposamente il campo visivo e impedendogli non solo di guardare, ma soprattutto di immaginare il domani.

giovedì 26 novembre 2009

Il viaggio del poeta e le città complici

Da Ffwebmagazine del 26/11/09

Il poeta è in esilio? Ama le numerose città che visita, Retimno, Roma, Napoli, Sidney, Catania, Palermo, Mosca, Venezia. Ma in fondo non amandone nessuna in particolare perché tutte si fondono in un unico grande agglomerato. Circumnaviga tessuti urbani e strati trasparenti di persone ed emozioni, spazia lungo latitudini che in seguito si uniranno grazie a puntini invisibili, trasfigura città su nomi di donne tutti stranieri, cerca nascondigli e chiede protezione. E poi il buio che dice più del bianco, rassicura perché non è fonte di minaccia, come accade anche nella pittura.

Michalis Pieris, poeta e letterato cipriota, affronta un viaggio lungo, circolare, intenso, anche grazie alle sue poesie e, in questo, intende superare Ulisse. Perché non ha nostalgia della sua Itaca, che sarebbe incarnata in Eftagonia, il piccolo paesino dell’isola di Cipro che gli ha dato i natali, e che in italiano sta per sette angoli. No, qui Pieris viaggia di continuo e senza nostalgia in un grande mare aperto, perché tutte le città che tocca e nelle quali si insinua diventano un unico luogo dove ritrova l'essenza stessa della vita. Abbracciando idealmente strade, case, parchi, fiumi e laghi. Perché abitare uno spazio, vuol dire chiedergli rappresentanza. Una, dieci, mille rappresentanze. E poi affogarle nella gaiezza del luogo diverso, nella novità estemporanea che, in virtuù della sua peculiarità, compone il nuovo e arricchisce il nocciolo di partenza.

«Voglio una città che mi nasconda, che sia accogliente», − recitano i versi di Una città inseriti nell’affascinante raccolta intitolata Metamorfosi di città − dove pone l’accento sui pezzi ideali, urbani e mentali che vorrebbe staccare da ogni dove. «Una città più adatta a una vita segreta − prosegue − che complotti, che esploda e si lasci trascinare, che si apra e copra misfatti con il suo bell’aspetto». Ed ecco la bellezza che, come un sole frenetico nelle prime giornate di primavera, trionfa sulla scena in modo preponderante. È il binomio viaggio e bellezza. Non solo assenza di reticenza nel chiedere amore, protezione, familiarità, complicità alla città o forse alle città. O forse a nessuna in particolare. Ma bellezza, meraviglia, entusiasmo, affiancando le città, e quindi il mondo, a visi angelici di donne, ai loro sguardi intriganti rivestititi di passione e sensualità.

La città cretese di Retimno, splendido esempio di influenza veneziana testimoniata da castelli e fortezze, è stato il suo primo approdo. Vi avvia la carriera universitaria ed è lì, tra incroci storico-culturali variopinti e profumi intensi di cui Creta è portatrice sana, che incuba il suo viaggio. I sonetti dedicati alle città assumono quindi le vesti di progetti ambivalenti: la città è donna, e la donna è città. Un’emozione che diventa presto allucinazione, anche grazie al fatto che le poesie cipriote sono scritte in dialetto, ma non quello popolare bensì quello colto, così come nell’Italia del ’500. Pieris nelle sue opere non cita letterature, ma semplici esperienze di vita, si spoglia della veste accademica per farsi uomo. Una notte trascorsa nelle viuzze di Palermo, tra gli odori di fritti, e tra le mille contraddizioni di Napoli con le sue donne-apparizioni, la sua sporcizia, le sue parole in greco, pronunciate a Spaccanapoli, nelle cui viscere si trova un treatro greco, a significare la storia più profonda di ognuna di queste città. Oppure ore intere trascorse a leggere le pagine di un grande autore con il quale dialoga idealmente.

Improvvisamente i singoli luoghi diventano uno, formando un paesaggio mitico, che culmina nella ricerca della nostra volontà, un’Itaca nuova per certi versi, diversa. È il dramma interiore dell’uomo contemporaneo, con l’improbabile esistenza di una sola Itaca. I versi di Una città continuano implorando «firme sconociute, bei posti da visitare ogni sera. Una città che riscaldi, si commuova, consoli e sia tepore della mia mente». La confidenza con cui si rivolge alle singole città emerge da precise scelte di vita. Infatti ha abitato dentro molte città, mettendo mano all’interno degli strati urbani, negli impasti di storia. Pieris riprende spesso altri grandi poeti ellenici, Kavafis, Sinopoulos, e in passato ha portato in scena anche Mahiaras con trasposizioni teatrali. Il nome del suo paesino, Eftagonia, è stato anche il suo pseudonimo nei primi scritti, a testimoniare un legame non solo con il luogo d’origine ma con il nome assolutamente peculiare. Eftà gonia, sette angoli, quindi non uno. Sette vite, sette anime, sette sogni, sette aspirazioni. Un punto di partenza che è già poliedricità, multiforme e plurianime. Sta tuttta qui l’essenza e l’ampiezza di questo poeta mansueto e docile, per nulla intimorito dagli eventi storici che nel passato e nel presente hanno interessato Cipro. E forse per questo già pronto a proiettarsi nel domani, nel nuovo viaggio che verrà. In altre città a cui chiedere confidenza e protezione, con cui bisticciare e poi riappacificarsi. In altri tessuti urbani dove rintanarsi e dove insinuarsi, in una sorta di limbo di intima quotidianità. In un mare aperto.

lunedì 23 novembre 2009

Fini e Aznar: «Per l'Europa è arrivato il tempo delle idee»

Da Ffwebmagazine del 19/11/09

«È arrivato il momento delle nostre idee». Così ha detto Josè Maria Aznar, presentando a Roma il Rapporto di ricerca "Europa: proposte di libertà", uno studio sull’Unione europea promosso dalla sua fondazione Faes (Fundaciòn para el analisis y los estudios sociales), e di cui la fondazione Farefuturo ha curato l’edizione italiana. All’incontro hanno preso parte oltre all’ex primo ministro spagnolo, il presidente della Camera Gianfranco Fini, i ministri Andrea Ronchi e Adolfo Urso, i responsabili esteri delle due fondazioni, Federico Eichberg e Alberto Carnero, oltre al professor Vittorio Emanuele Parsi e al direttore di Aspenia Marta Dassù.

«Le idee hanno precise conseguenze - ha proseguito Aznar - quindi qualsiasi progetto politico senza idee non è altro che un contenitore vuoto». Da qui la rilevanza degli approfondimenti che seguono le idee, cardine di iniziative come la ricerca presentata. Tre le fondamenta dell’Unione Europea: l’attualità della democrazia liberale, concetto che trova esplicazione in tutti i principi che si incentrano sulla tutela della dignità della persona; la pace, che manca se non vi è il rispetto dei diritti; l’economia di mercato, con cui le nuove generazioni potranno sviluppare la propria creatività. Ma la preoccupazione più impellente, secondo l’ex primo ministro spagnolo, riguarda il futuro.

Spazio quindi a politiche lungimiranti, che non siano dettate dalla contingente emergenza, ma che si sforzino di dialogare con la quotidianità in proiezione futura, strutturandosi come iniziative di ampio respiro, che investano risorse ed idee per la progettualità dell’Europa di domani. Elemento che è stato ripreso, e non da oggi, dal presidente della Camera Gianfranco Fini, il quale ha sostenuto che «sarebbe miope non constatare che, malgrado la strada compiuta, l’Europa degli ultimi anni ha il fiato corto». Urge quindi un’azione concertata allo sopo di rafforzare l’europeismo nei cittadini, per impedire episodi di disaffezione come quelli in occasione del referendum irlandese, olandese e francese. Ecco che in soccorso di un senso europeo che sia radicato e metabolizzato può intervenire la cultura, attraverso un’azione mirata verso i più giovani per stimolarli a riconoscersi in un’identità europea, pur nel rispetto delle singole peculiarità nazionali.

La presentazione del rapporto ha preceduto la sigla di un accordo quadro tra le due fondazioni, al fine di intensificare la cooperazione bilaterale. La visione comune dell’Europa, dunque, è elemento imprescindibile per offrire un futuro alla nostra Unione, ha detto il segretario generale di Farefuturo Adolfo Urso, dal momento che si tratta di un modus operandi che già emerge da precedenti partenariati con la fondazione tedesca Konrad Adenauer Stiftung e con la stessa Faes: «solo un’Europa forte, unita e consapevole del proprio ruolo può incarnare il terzo soggetto della nuova governance globale, accanto a Stati Uniti e alla Cina», ha aggiunto il viceministro.

Certamente si renderanno necessari anche altri spunti, magari in ambito economico, come proposto da Aznar. Il riferimento è a riforme strutturali imprescindibili, che consentano la crescita e che incitino al dinamismo per fuoriuscire dalle secche della crisi. Come ad esempio un limite all’eccessivo deficit e all’indebitamento fuori misura, accanto a due paradigmi indicativi: meno monopoli e più concorrenza; meno protezionismo e più apertura. Un doppio binario che, secondo il presidente della fondazione Faes, potrà venire in soccorso a un’Europa che già deve soffrire per una demografia in declino e per un certo rafforzamento del G2 Usa- Cina.

Introdurre criteri di mercato per ampliare possibilità di sbocchi occupazionali potrebbe essere un’altra strada da percorrere, nella consapevolezza che, come ha sottolineato il presidente Fini, vi è la marcata inscindibilità del processo di integrazione europea dal consolidamento di un forte legame transatlantico. Ecco il superamento dell’agenda di Lisbona, nel suo decennale: la sfida di una nuova strategia che miri a rafforzare ulteriormente l’Europa per far sì che «diventi finalmente la più competitiva e dinamica economia della conoscenza del XXI secolo».

Pensiero e azione: una fusione पैर il futuro del paese


Da Ffwebmagazine del 22/11/09

Pensare e fare dovrebbero essere fusi in un unicum. Perchè aspettare che una proposta, o un’intuizione, trovi attuazione, significa oggi arrivare fino fino al punto in cui diventa anacronistica. Semplicemente, è questioe di mancanza di tempismo, in assenza del quale si alimenta sempre più quel corto circuito che, poi, fa precipitare il paese in fondo alle classifiche europee e mondiali.

Il tema della velocità dei cambiamenti è stato al centro del Barcamp della Luiss, un esperimento socio-culturale distribuito in otto sessioni specifiche. È stata anche la prima occasione per far interfacciare i think thank del paese: Arel, Farefuturo, Glocus, Fondazione Sussidarietà, Magna Charta, Mezzogiorno Europa, 360°, Italia Futura e Italianieuropei. Una vera e propria vetrina multipartisan e decisamente aperta anche a studenti e a semplici interessati, per un’analisi congiunta sulla velocità dei cambiamenti, sugli spazi d'azione e sui tempi di reazione di partiti e istituzioni.

Collegare, dunque, l’impianto paese alle nuove esigenze. Ma come? Un primo passo è stato compiuto. La voce delle fondazioni culturali, che fanno analisi politica e sostengono con spunti e idee il dibattito politico, non deve fermarsi alla semplice “presenza”, per quanto costante e proficua. Perchè non prevedere un maggiore raccordo con le istituzioni? Perchè non veicolare quelle proposte e quelle valutazioni ai piani alti dello stato, così come fatto ad esempio da Farefuturo e Italianieuropei in occasione del meeting di Asolo sull’immigrazione? Questo potrebbe produrre una velocizzazione maggiore nell’intrecciare, concretamente e in tempo reale, le idee con le effettive necessità. Una sorta di conferenza stato-fondazioni, ma che non si risolva nell’ennesimo tavolo tecnico caratterizzato da prese d’atto e da promesse, seppure in buona fede. Che sia, piuttosto, braccio operativo delle menti. Che sia soggetto attuatore - in tempi rapidi - di ciò che è in agenda, ma anche di ciò che in agenda non è ma che è utile a far ripartire il paese.

Ad esempio: proporre di installare pannelli fotovoltaici su tutti i palazzi pubblici d’Italia (comuni, province, regioni, tribunali). E senza attendere la burocrazia nostrana, che per concedere nulla osta, autorizzazioni e vidimazioni varie, sarebbe capace di far slittare i tempi anche di alcuni anni, rendendo l’idea vecchia e quindi inutilizzabile. O procedere a una revisione della legge sul fine-vita che protegga il diritto alla vita ma anche la libertà dei singoli individui, senza spaccare il paese come sul caso Englaro. O accelerare la modifica per concedere la cittadinanza e il diritto di voto a quegli immigrati che hanno completato un ciclo di studi e che nei fatti sono già perfettamente integrati in Italia, senza attendere che diventino cittadini della terza età.

Se le idee non mancano, e lo certificano, ad esempio, i successi dei ricercatori italiani impegnati all’estero, o le iniziative funzionali che spesso purtroppo non fanno notizia, ciò che latita è la parificazione della politica alla velocità del mondo, dove per velocità è da intendersi una serie di temi specifici.

Le istanze dei singoli individui: si pensi al mondo dei social network, dove tutti, grandi e piccoli, possono esprimere pensieri e bisogni e dove quindi la politica può intercettare – ma non lo fa- il malessere; ma proprio i singoli non hanno modo di dialogare direttamente rendendo palesi le proprie idee. E sarebbe utile farlo dal vivo, quindi non solo in rete, ma guardandosi in faccia, come nell’antica agorà ateniese. Una sorta di forum permanente tra politica e laos, per far sentire la presenza della politica nell’intimità di un cittadino sempre più sfiduciato.

Il mutamento delle tipologie occupazionali: altro che mito del posto fisso, la crisi ha prodotto una selezione naturale del “job”, quindi non è più proponibile un modello lavorativo come quello dell’ultimo trentennio. La politica dovrebbe sostenere i giovani nelle scelte, questo lo si promette da sempre. Ma anche proponendo un monitoraggio del panorama occupazionale, incentivando professioni di cui vi è effettivo bisogno e magari evitando di avere migliaia di laureati in lettere o materie giurisprudenziali, che, a oggi, soffrono più di altri la difficoltà dell’indotto.

Approfondire la velocità dei cambiamenti: deputati e senatori potrebbero dedicarsi non solo a legiferare, ma anche ad analizzare tendenze e possibili criticità. E ciò in virtù dello stato di emergenza assoluta in cui versa il paese, a causa di una politica che di fatto si è sedimentata attorno a circuiti standard, ingessati e poco propensi all’elasticità decisionale.

Intercettare le possibili vie di fuga: nessuno dispone della bacchetta magica, questo è ovvio, ma una politica che non abbia il fiato lungo e che non programmi con lungimiranza esigenze e cambiamenti sociali, è destinata a produrre cattivi frutti. Si pensi alla questione dell’immigrazione e della cittadinanza, materia nella quale l’Italia si trova già in colposo ritardo e per la quale sarebbe utile una corsia preferenziale per legiferare bene e in poco tempo.

Alla luce di tali valutazioni, appare evidente come l’apporto delle fondazioni possa contribuire affichè la politica si velocizzi. Ma questo potrà essere fatto per quanto concerne le idee, la loro strutturazione e gli obiettivi che si vuol perseguire e non circa le procedure, che la politica ha l’obbligo di rivedere autonomamente. Ma potrebbe anche innescare uno stimolo nuovo, così come avviene nel resto d’Europa e negli Stati Uniti. Stimolo perchè la politica italiana si guardi allo specchio, e prenda atto del fatto che viaggia ad una velocità inferiore non solo alle esigenze del paese, ma soprattutto ai cambiamenti mondiali. E, responsabilmente, o si prepari ad evolvere drasticamente adeguandosi a tempi e modi, o più semplicemente, sostituisca gli ingranaggi obsoleti.

domenica 15 novembre 2009

E se lo Stato non può, ci pensa il cittadino


Da Ffwebmagazine del 15/11/09

Dove non può lo Stato, arriva il cittadino, o i carabinieri in borghese. Singolare la sorte del capitano Ultimo, autore il 15 gennaio del 1993 dell’arresto di Totò Riina dopo un trentennio di latitanza indisturbata. Rimasto senza scorta, in pochi giorni ha visto centoventi volontari attivarsi con auto proprie e fuori dall’orario di servizio, per offrire protezione all’uomo che fu condannato a morte dai vertici della mafia all’indomani di quell’arresto storico. Singolare l’intera vicenda, perché si pone a conclusione di una serie di eventi irrituali. Nel 1992 Ultimo, all’anagrafe Sergio De Caprio, dette vita al Crimor, organismo combattente dei Ros che, quattro anni dopo aver messo le manette a Riina, venne soppresso. Fine di quegli uomini che per anni avevano fatto squadra, persone senza volto e senza nome, con nottate intere trascorse impegnati in appostamenti o a studiare movimenti e comportamenti, seguendo tracce e piste di indagini. Tutto finito. Uomini sostituiti, destinati ad altri incarichi.

Da quel momento iniziarono le anomalie: il trasferimento al nucleo operativo ecologico di Roma, l’indagine a suo carico per non aver effettuato la perquisizione del covo di Riina –assolto in seguito perché il fatto non costituisce reato – e tanti, troppi silenzi. Ultimo teme per la propria incolumità, e anche per quella dei familiari a lui vicini. Nonostante avesse inoltrato precisa richiesta ai suoi superiori di due auto veloci e di quattro agenti appartenenti al suo nucleo storico, ovvero le identiche modalità con le quali aveva lavorato – e con successo – sin da prima di quel giorno di inizio 1993. Ma niente, nessuna risposta positiva, anzi.

Qualcuno ha scelto di non considerare Ultimo un soggetto a rischio, anche se come raccontato da alcuni pentiti di mafia, fra cui Totò Cancemi, furono proprio i capi della cupola in prima persona – Provenzano, Bagarella, Ganci – sedici anni fa a firmare ufficialmente la sua condanna a morte senza appello. E non una semplice esecuzione. I particolari forniti dal collaboratore di giustizia illustrano anche le modalità con le quali sarebbe stata tolta la vita al capitano Ultimo: prima sequestrato e condotto in un luogo usato dalla mafia come prigione, poi torturato e infine ucciso, dandone notizia all’intero paese.

E la gravità del rito è da ritrovarsi in quel gesto che Ultimo compì, ovvero mettere faccia a terra Riina durante l’arresto. Un dettaglio che avrebbe aggravato la sua posizione agli occhi della mafia. Ma nonostante la testimonianza di alcuni pentiti e le oggettive ripercussioni sull’uomo che è entrato di diritto nella storia della guerra fra Stato e mafia, nessuno ha ritenuto opportuno garantire la sicurezza di quel carabiniere.

Cosa succede quando chi deve provvedere all’incolumità degli uomini dello Stato, non lo fa? Ecco che la molla civile, il senso dello Stato, finalmente gridano la propria presenza. Perché dove c’è bisogno di solidarietà, la fiammella della speranza non si spegne. È in quel momento che qualcosa si muove, il singolo fa la sua parte e ciascuno recita il proprio copione.

«Questi gesti uniscono, soprattutto in un momento particolare per l’Arma». Così il Cocer, sindacato dei carabinieri, ha preso posizione. Netta e chiara. Ultimo va protetto e se non lo si può fare in via ufficiale, con modi e tempi stabiliti da qualche superiore, nessun problema. Ci penseranno centoventi militari del nucleo scorte di Palermo. Ci penseranno quei militari, una volta chiuse le uniformi negli armadietti e depositata in garage l’auto di servizio. Ci penseranno i militari che ogni giorno ed in prima persona rischiano la vita. Propria e di mogli e figli. A volte con le volanti senza carburante, sacrificando feste e domeniche in famiglia. Confrontandosi con la dura realtà criminale della strada. Ci penseranno i militari che quel giorno del gennaio 1993 trionfavano suonando il clacson dell’auto che conduceva il capo dei capi in caserma. Sarà loro compito proteggere quello che era stato il “loro” capo e quello che quei clacson contribuì a farli suonare per le strade di Palermo. Con centinaia di persone che ai bordi della strada applaudivano.

giovedì 12 novembre 2009

Speriamo che l'italiano non diventi archeologia

Da Ffwebmagazine del 12/11/09

Il dialetto ha la faccia scura è il titolo di un interessante libretto scritto da Giovanni Ruffino, linguista dell’università di Palermo, che prende spunto da una frase pronunciata da una bambina veneta di dieci anni. E vuol significare molto di più di una semplice battuta, magari dettata dall’ingenuità infantile. Ha precise implicazioni perché rappresenta il termometro di quel corto circuito, sintomo di pregiudizi, che si è pericolosamente innescato anche nel mondo della scuola. Un pregiudizio linguistico in chiave etnica.

Gli esempi e le espressioni presenti nel volume, che spaziano dalla Valtellina a Lampedusa, in modo leggero ma esemplificativo, pongono sullo stesso piano lingua ed etnia. Un campanello d’allarme per gli addetti ai lavori in primo luogo perché i dialetti in Italia sono circa diecimila - si pensi che nel resto del mondo l’Unesco ne riconosce in totale settemila - e poi perché essi sono prezioso punto di riferimento di identità storiche e culturali, ma proprio per questo non debbono in alcun caso minare il valore primario dell’unità nazionale linguistica e culturale che hanno contribuito ciascuno a comporre.

Concetto che sarebbe così semplice, non solo da apprendere ma anche da metabolizzare all’interno di un ragionamento, se solo fosse condotto con il metro della logica, spogliata di quel populismo localistico che tre mesi fa ha innescato uno stucchevole dibattito su proposte fuori luogo intorno alle bandiere regionali, a diversi inni nazionali e - ultima non per importanza, ma prima per demenzialità- quella dell’insegnamento dei dialetti nelle scuole. Il tema, se chi vi si approccia si premurasse di osservare dati e numeri, scivolerebbe in una elementare conseguenza: ovvero, che è improponibile. Quei dati e quei numeri dicono che innanzitutto la nostra lingua si è impoverita. Grazie all’uso di un vocabolario ristretto, a un analfabetismo di ritorno, alla prevalenza della lingua parlata rispetto a quella scritta e, soprattutto, all’impeto del linguaggio pubblicitario.

«Poniamo un freno a questo imbarbarimento», riflette Umberto Croppi, assessore alla Cultura del Comune di Roma, dal momento che in Italia abbiamo avuto una nostra letteratura in lingua ben prima di una strutturazione politica dello Stato. In secondo luogo, quella proposta andrebbe derubricata a semplice idea strampalata perché il dialetto va incontro a una fortissima variabilità: si pensi che in Friuli ci sono venti differenti modi per chiamare l’arcobaleno. Quale dovrebbe essere preferito allora in un ipotetico sussidiario dei dialetti da adottare come testo scolastico? E con quali criteri preferire l’uno all’altro senza suscitare risentimenti in una provincia o in un comune? Sarebbe evidentemente il caos.

È ovvio che, a voler leggere la questione con un minimo di cognizione storica e letteraria, non sarebbe complesso passare oltre per concentrare riflessioni e proposte, invece, su come coniugare la risorsa delle identità culturali italiane all’interno dello spirito nazionale e unitario, che sta alla base delle celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. Tema sul quale si è soffermato un seminario promosso dalla Società Dante Alighieri, dal titolo “Lingua e dialetti: l’italiano tra federalismo e Unità d’Italia”. Proprio centocinquant’anni fa Carlo Cattaneo sosteneva che le nostre città «sono il centro delle comunicazioni ed il cuore del sistema». Mentre, da un decreto siciliano del 1951, si evinceva che «i valori della tradizione regionale fini a se stessi sarebbero inutili e diseducativi. Una scuola deve essere regionale e nazionale». Due citazioni che affrontano a chiare lettere il significato dei dialetti e il loro riflesso opportuno all’interno di una visione di insieme.

Non esiste un unico binario tra locale e nazionale, semplicemente perché, nel rispetto delle singole identità storico-culturali, non è proponibile una conseguente mortificazione dell’ambito nazionale, presente da Bolzano a Lampedusa in egual misura. Sarebbe poco saggio porre sul medesimo piano regione e nazione, dal momento che appartengono a due livelli diversi. E come tali vanno considerati. Il fatto di avere sul territorio nazionale quasi duecento città, ritenute complessivamente molto rilevanti e non due o tre come accade in altri paesi del mondo, non deve innescare la logica campanilistica della mia lingua, o della mia storia o delle gesta del mio eroe regionale. Piuttosto dovrebbe essere visto come un prezioso elemento che favorisce l’integrazione all’interno di un tessuto più ampio, che non si limiti di fatto a pochi agglomerati urbani. E un altro errore macroscopico potrebbe essere riscontrabile nell’insegnare la lingua dialettale senza la cultura dialettale, che è espressione di quella lingua. «Faremmo solo dell’imperialismo», secondo Ugo Vignuzzi, linguista dell'università La Sapienza di Roma.

E, allora, ci si dovrebbe interrogare, più che su dialetti, bandierine o inni regionalizzati, su cosa significhi utilizzare la lingua italiana, su come implementarne la promozione socio-culturale, al fine di incrementare la parificazione degli individui. Quarant’anni fa mai avremmo pensato che oggi uno dei più grandi motori di ricerca del mondo sarebbe arrivato a scannerizzare le biblioteche italiane, «offrendo sì un servizio globale, ma anche conducendo in California le nostre proprietà intellettuali», come ha sottolineato Paolo Peluffo, vicepresidente della Società Dante Alighieri.

L’auspicio è che, non solo si proceda alla strutturazione di una multicittadinanza europea riflettendo sulle lingue mondiali - e quindi osservando la questione in modo arioso - ma soprattutto che si eviti l’impoverimento della cifra nazionale a causa di assurdi centralismi regionali. Perché non pensare a che ne sarà della lingua italiana nel 2061, quando si celebrerà il bicentenario dell’Unità d’Italia? Speriamo non sarà ridotta ad archeologia linguistica.

mercoledì 11 novembre 2009

Abdel Aal: «Forse non lo vedete, ma l'Islam sta cambiando»



Da Ffwebmagazine dell'11/11/09

Una fiction sulle reti egiziane tra due mesi, un ciclo di conferenze e presentazioni in giro per il mondo subito dopo. Ghada Abdel Aal, di professione farmacista, è per la prima volta in Italia. A trent’anni e senza averne il minimo sentore, è diventata la scrittrice più famosa d’Egitto. Il diritti del suo primo romanzo, Che il velo sia da sposa, sono stati venduti in Stati Uniti, Germania, Olanda, Polonia e Inghilterra, al Cairo si è già alla settima ristampa di un simpatico libro, nato per caso dalle riflessioni matrimoniali sul suo blog “Voglio sposarmi”. E sì, perchè in Egitto capita spesso che, non appena una ragazza termini gli studi universitari, suo padre si adoperi per cercarle l’uomo da sposare, invitando il prescelto in casa propria. La protagonista del romanzo, Bride, continua a ricevere in casa improbabili pretendenti e le sue sensazioni e perplessità, in chiave ironica e sarcastica, sono il passepartout dell’autrice per scoperchiare una società che sta cercando di migliorarsi, ma che come riflette sinceramente, «in occidente dovremmo imparare a conoscere meglio».

D. Da blog a romanzo, il passo è stato breve.
R. Ho iniziato a pubblicare alcune riflessioni sul mio blog, che è stato visitato da numerosissime persone. Dar Shahrukh, la più grande casa editrice egiziana, ha notato la straordinaria attenzione da parte dei giovani e ha colto questa occasione per collegare i frequentatori dei blog con il mondo delle pubblicazioni cartacee. Così mi hanno proposto di dare un riscontro alle mie emozioni e ai racconti di episodi reali. Ed è nato questo libro.

D. Può uno stile ironico e leggero favorire la comprensione di temi come l’emancipazione femminile?
R. Il diversivo del blog è stato un modo per non rendere il libro troppo drammatico, così da far fluire in modo più semplice e rapido a tutti le mie idee e l’argomento del matrimonio. In un anno e mezzo siamo dovuti ricorrere a sette ristampe, che per l’Egitto sono numeri rilevantissimi.

D. Come è visto il matrimonio dalle sue coetanee? Sogno da inseguire o evento da prendere con più tranquillità?
R. Nel mio paese la donna si sposa perchè è l’unico modo per avere dei figli.

D. Come immagina il suo matrimonio? Ammesso che ci pensi.
R. Lo immagino come preludio ad una vita che sarà molto comica.

D. Nel libro, a un certo punto, sceglie il matrimonio adducendo quindici ragioni legate alle piccole vicissitudini quotidiane: un tentativo di spogliare l’evento da quella pesantezza e da quelle ingombranti aspettative che in alcune società non mancano?
R. Ho voluto soltanto far trasparire che in Egitto le ragazze non chiedono assurdità o non inseguono utopie irraggiungibili, ma le loro aspirazioni sono legate in fondo a cose semplici, che fanno parte della quotidiana convivenza. Non tutte cercano per forza una casa lussuosissima o il principe azzurro.

D. Dopo un appuntamento, la protagonista del libro si chiede: “Come ho potuto rifiutare un buon partito?” Quale la risposta dell’autrice in carne ed ossa?
R. Molte volte la gente si domanda perchè una ragazza dica di no, nonostante magari l’uomo in questione abbia una buona posizione, o svolga una professione interessante e dalle prospettive invitanti. Io dico che questi aspetti, seppure importanti, non sono sufficienti. Non si può affrontare una scelta così importante senza valutare anche altri fattori non materiali.

D. Quanto conta questa libertà di scelta per affermarsi come individualità?
R. In Egitto la libertà per le ragazze di scegliere un uomo non è a lungo termine, anzi, si tratta di una libertà che potremmo definire quasi a tempo determinato, oltre il quale non si può andare. Perchè esattamente un momento dopo il compimento del trentesimo anno di età, la ragazza in questione che non ha trovato marito, è considerata come una fallita.

D. E scegliere, ad esempio, di non scegliere?
R. No, semplicemente perchè ogni donna egiziana ha il sogno di diventare madre.

D. In Egitto dite che il matrimonio è come un’anguria, o rossa e gustosa, o bianca e sciapa. Come immagina il suo?
R. Non lo immagino. So solo che se fosse un’anguria rossa andrebbe bene, ma se fosse bianca, beh, allora sarebbe impossibile da far diventare rossa.

D. Perché solitamente ai bimbi si chiede quale lavoro intendono fare da grandi, mentre alle bambine si finisce per chiedere con chi vorrebbero sposarsi?
R. Ma per il fatto che il matrimonio incarna il fine ultimo della società, e se una ragazza non riuscisse a realizzarlo, diventerebbe agli occhi di tutti una donna a metà. Basti pensare che in Egitto una donna, anche se fosse ricchissima e svolgesse una professione di grande prestigio, anche se fosse primo ministro, sarebbe comunque considerata fallita in assenza di una famiglia, di un marito e dei figli. E la gente la guarderebbe con estremo dispiacere.

D. Perché non iniziare a ignorare tali giudizi della gente?
R. Ci provo, infatti non vorrei mai sentire dentro me stessa l’impeto o l’impulso di sposarmi solo per soddisfare un certo modo di vita impostomi dall’opinione pubblica. In ragione di ciò ho scritto queste pagine, per gridare a tutti che l’unico legame è con la soddisfazione personale. Il matrimonio è per se stessi e non per gli altri.

D. Come far sì che la donna non venga confinata solo nel ruolo di sposa e basta?
R. Un punto di partenza nuovo e dalle molteplici possibilità è proprio il blog. Dopo il mio, se ne sono aggiunti molti altri sulla stessa lunghezza d’onda. Parola dopo parola, commenti postati dopo commenti postati, la gente leggerà ciò che scriviamo, che pensiamo e che vorremmo fare, e quindi inizierà a porsi delle domande. Solo in quel momento sarà possibile comprendere il reale stato delle cose, delle emozioni, dei sogni. Certo, sarà necessario del tempo per incunearsi nelle menti delle persone, ma il difficile è iniziare. In occidente avete un’idea della nostra società vecchia di un decennio. Stiamo cambiando, pian piano, ma credo che gli alcuni di voi non siano interessati a vedere i nostri reali progressi.

D. E come osservare meglio l’oriente, non circa i suoi progressi di oggi, ma verso quelli del prossimo decennio?
R. Con la cultura, confrontandosi con alcune letture, e non con una sola. Non è sufficiente sfogliare un libro sull’Africa per avere la percezione di cosa il continente nero sia. Valutare più opinioni invece serve a comprendere l’essenza dell’oriente, e anche i possibili passi in avanti che farà.

lunedì 9 novembre 2009

Don Ciotti: «La lotta alle mafie riguarda tutti i buoni cittadini»



Da Ffwebmagazine del 09/11/09

«Incontrare le paure e le fatiche degli altri, così è possibile abbattere pregiudizi, confrontarsi con il diverso e lavorare per mediare i conflitti». La riflessione di don Luigi Ciotti - da anni in prima fila nella lotta alla criminalità con la sua associazione Libera - non vuol essere solo un consiglio o una rimostranza su atteggiamenti sbagliati, ma uno sprone per le coscienze ad aprirsi e a far conoscere le positività che ci sono e che spesso non fanno rumore.

D. «Sono felice di spendere la mia vita per saldare la terra con il cielo» ha detto recentemente: come procede quest'opera di ricongiungimento?
R. Sono un sacerdote chiamato alla testimonianza cristiana e alla responsabilità civile. Credo che la parola di Dio sia utile a tutti anche per rimettersi in gioco costruendo percorsi di legalità, giustizia e libertà. Mi viene in mente il documento della Chiesa italiana Educare alla legalità del 1991, dove si afferma che non è possibile inseguire soltanto i grandi principi o i massimi sistemi, ma serve entrare nella storia portando il proprio contributo.

D. La mafia è cambiata, spara di meno e fa più affari: si è modificata anche la metodologia dello Stato?
R. Nel documentario Malitalia, storie di mafiosi, eroi e cacciatori di Enrico Fierro e Laura Aprati, con testimonianze dirette di magistrati, investigatori e forze dell'ordine di grande valore, si scorgono coraggio, impegno, grande intelligenza. Ma anche una lettura nuova: personaggi forse meno noti che però agiscono con notevole profondità nei singoli contesti. A dimostrazione che, da un lato, si sta facendo tanto, non c'è giorno infatti che non si abbia notizia di risultati pratici con dati interessanti. Dall'altro, vi è una trasformazione rapidissima delle organizzazioni criminali, che utilizzano strumenti differenti per penetrare nella società. Parlo di una generazione nuova che si è strutturata, come emerge da segnali chiari.

D. E le antenne della società civile?
R. Preferirei denominarle della società responsabile, perché il termine società civile oggi è un po' come l'acqua bagnata. Il singolo individuo deve fare la sua parte, ma di concerto e non da solo. Anche il nostro osservatorio Libera, con scuole, università, migliaia di altre realtà territoriali, percepisce che vi è un cambiamento in atto. È vero che non c'è al momento una guerra di mafia, ma è altrettanto vero che ogni giorno c'è comunque qualche morto e abbiamo tanti morti vivi. Mi riferisco a persone che vivono ma sono vittime di tale violenza, come usura, racket, lavoro nero, tratta di esseri umani, ecomafie. E allora è necessario che tale morso sia interfacci con l'accelerazione della risposta, prevedendo ruoli determinanti per la società civile e responsabile, per il mondo della scuola, per le istituzioni e i media.

D. Come crede si sia evoluto nell'ultimo decennio l'approccio al fenomeno mafia da parte dei più giovani, diciamo dalla strage di Capaci in poi?
R. È stata fondamentale la componente educativa della scuola e dell'università. Aveva ragione Nino Caponnetto che considerava Falcone e Borsellino come suoi figli. Era il capo di quella procura e aveva costruito quella squadra e quel pool. Per questo in seguito non esitò a dire che la mafia temeva in realtà più la scuola che la giustizia. L'istruzione infatti indebolirebbe dalle fondamenta la cultura mafiosa. Libera ha portato avanti protocolli di intesa con il 70% degli atenei italiani. Significa che vi è una maggiore presa di coscienza e sete di conoscenza sul fenomeno. Ma i progetti non sono sufficienti, rispetto all'immensità di ciò che andrebbe fatto. In base a quella corresponsabilità che poi alla fine ci chiama in causa, è necessario fare di più, non solo con coerenza ma anche con umiltà. Quella che in Italia troppo spesso è venuta meno è la continuità. Se all'indomani di vicende drammatiche ci sono state risposte di grande valore, in seguito nel tempo tutto si è perso.

D. Da un lato il carcere duro per i mafiosi, dall'altro maggiore dignità per impedire altri casi Cucchi: su quali basi strutturare un nuovo sistema carcerario?
R. Cresce lo Stato penale e diminuisce quello sociale nel nostro paese, in nome della sicurezza e dell'orientamento alla paura da parte di molte persone. Sia chiaro, il diritto alla sicurezza è legittimo, ma si rischiano delle semplificazioni e una demagogia un po' razzista. Il diverso viene visto, infatti, quasi con un rifiuto e cresce anche una certa paura fasulla. Mi rendo conto del pregiudizio: per questo dobbiamo essere capaci di incontrare tali paure, confrontandoci con chi non la pensa come noi, di incrociare la fatica degli altri, lavorando per la mediazione dei conflitti. Ci vorrebbe una mobilitazione che andasse incontro a chiunque, perché ciascuno di noi non può ritenere di aver ragione risolvendo le questioni dall'alto delle proprie sicurezze. Sarebbe utile tenere conto proprio delle insicurezze di tutti, delle fragilità, di ciò che l'altro ha vissuto, ha letto, ha visto, ha percepito. È il nodo della prossimità, che considero la prima dimensione della giustizia. Aveva ragione don Bosco quando ai suoi ragazzi diceva, a metà dell'800, che non bastava essere buoni cristiani, ma serviva essere anche buoni cittadini.

D. In occasione degli stati generali dell'antimafia, ha detto: «Dobbiamo capire se abbiamo rispettato gli impegni presi». Quali sono le novità sull'autorità unica contro il riciclaggio e il testo unico della legislazione antimafia?
R. Due cose che ancora non ci sono, purtroppo, e che chiediamo vengano approntate. Noi siamo una piccola realtà, ma l'articolo 4 della Costituzione, che ci ricorda l'importanza del contributo dei singoli cittadini nella dimensione materiale e spirituale, credo vada preso come un invito a non delegare. Due sono gli atteggiamenti di fondo rilevanti. Prima sconfiggere il peccato del sapere, ovvero la grave mancanza di profondità. Abbiamo necessità di un sapere che scenda nelle viscere, dal momento che oggi tutto è un sentito dire, spesso semplificato, facilmente etichettabile. Serve, invece, conoscenza, approfondimento per mettere la gente in grado di poter contare su strumenti critici per orientarsi e superare le fatiche. E per cercare la verità. In secondo luogo, dovremmo prendere cognizione che tale cambiamento ha bisogno dello sforzo di ciascuno di noi. Non dimentichiamo che viviamo in prima persona questa spina nella carne della presenza criminale. Un sorta di legalità sostenibile perseguita da chi confonde lecito e illecito.

D. Negli ultimi mesi non sono mancate operazioni sul territorio, come arresti e sequestri. Ma accanto alla repressione, cosa in concreto lo Stato dovrebbe fare quanto a prevenzione ed educazione alla legalità?
R. Non usciremo mai da questa impasse se non investiremo nella grande progettualità educativa, nella dimensione della grande sfida culturale. E poi il lavoro e le politiche sociali, un'attenzione vera alle vittime e ai testimoni. Occorre una visione di lungo respiro e di continuità. Ricordiamoci anche delle tante piccole cose positive che vengono fatte, ma che non fanno chiasso e che invece meriterebbero attenzione. Facciamo conoscere questa positività.

D. Non aiuta, però, il fatto che un Comune del nostro paese abbia deciso di togliere una targa intitolata alla memoria di Peppino Impastato, non crede?
R. Mi è dispiaciuto molto, ma la risposta migliore è venuta dalla congregazione del sacerdote con cui il sindaco avrebbe voluto sostituire la targa di Peppino. Loro hanno detto di no, preferendo il nome che c'era prima. Un atto di grande delicatezza.

sabato 7 novembre 2009

Banda larga addio,l'Italia rinuncia al futuro



Da Ffwebmagazine del 07/11/09

E la banda larga finisce nel congelatore. Quello di casa nostra. La possibilità di dare una scossa alla crisi in atto con un piano di investimenti lungimiranti, fondati sullo sviluppo tecnologico della banda larga, si infrange contro il muro del niet pronunciato dal Cipe. Ben ottocento milioni che sarebbero serviti a dare seguito al miliardo e mezzo di euro, promesso dal vice ministro con delega alle Comunicazioni Paolo Romani per il comparto Ict (Information and comunication technology) avranno altra sorte. E a nulla purtroppo serviranno i commenti ovviamente tranchant di queste ore - “Un danno al paese” dice Confindustria - a meno che non inducano il ministero dell'Economia a una sana retromarcia.

A conti fatti non appare comprensibile, in termini economici e occupazionali, come si possa rinunciare, preventivamente e a cuor leggero, a investire in un comparto che si calcola potrebbe offrire ricavi del 200%. Parliamo di cifre non da poco, ovvero investimenti che potrebbero produrre due euro di guadagno per ogni euro impiegato. Così come intelligentemente fatto da altri governi, non proprio nelle retrovie delle graduatorie mondiali. La Corea del sud è al vertice dei paesi dove la banda larga rappresenta ormai un dato acquisito. E non solo in termini di cittadini raggiunti da internet, quanto al conseguente indotto che ne deriva, e che rappresenta il vero valore aggiunto. Un circolo virtuoso che ha consentito ad altre - purtroppo - realtà di attrezzarsi adeguatamente e, loro sì, con scelte di ampio respiro, per emergere dal pantano della crisi grazie al rimorchio di investimenti che presentano un doppio beneficio: modernizzano il paese strutturando un rinnovamento tecnologico oggettivo e contemporaneamente creano posti di lavoro e circolazione di danaro. Ma, a quanto pare, accade spesso che in Italia tali valutazioni vengano sottovalutate o relegate a temi di secondaria importanza, impegnati e concentrati invece in altre definizioni di priorità, come le prossime elezioni regionali.

In un colpo solo questo provvedimento strozza di netto l'occasione di innovare un paese indubbiamente pigro quanto a modernizzazione e svecchiamento, e di dare un segnale a tutte le componenti, dalle piccole e medie imprese ai lavoratori. Estendere la banda larga alla gran parte del territorio avrebbe rappresentato una svolta epocale, anche in considerazione del fatto che, a oggi, i numeri di casa nostra sono tutt'altro che incoraggianti. Solo una famiglia italiana su due possiede un pc e solo nell'ultimo semestre si è verificato un incremento più insistente della digitalizzazione di numerose procedure, come pagare le bollette o ordinare la spesa online, anche da parte di soggetti anziani e disabili che avrebbero nell'informatica un alleato in più. Inutile allora dissertare di società della conoscenza, di progettualità del terzo millennio, di partenariati comunicativi, quando siamo ancora all'abc. Pare che non si stia dando a internet e al comparto Ict la necessaria rilenanza, concentrandosi troppo sugli schemi obsoleti che ruotano esclusivamente su radio e tv.

Senza innovazioni non si ottiene né progresso - imprescindibile per risultare al passo con i tempi -, né un ritorno economico. Invece, si persegue lo status quo senza farsi spingere da proposte innovative che avrebbero il vantaggio, reale e non liquido, di autoalimentare il paese. Siamo al trentottesimo posto al mondo per qualità della connessione, nel vecchio continente al vertice c'è la Svezia che ha appena attivato un ambizioso progetto: entro due lustri il governo coprirà il 100% della popolazione, ma nei prossimi anni potrebbe perdere la prima posizione in Europa a vantaggio della sorprendente Finlandia, il cui esecutivo ha annunciato che dal prossimo luglio tutti i cittadini avranno libero accesso alla banda larga, potendo contare su una velocità di almeno 1 Mbps, che dopo cinque anni sarà portato a 100 Mbps. Numeri che da queste parti potremo solo invidiare.

Addio, quindi, a internet facile e per tutti, così come il ministro della funzione pubblica Renato Brunetta aveva annunciato solo un mese fa, e che avrebbe favorito il grande progetto della informatizzazione totale. L'economista veneziano, infatti, aveva dato per certe le priorità del governo in materia di telecomunicazioni: banda larga, fibre ottiche, superamento del digital divide. Tutte azioni che avrebbero fornito prezioso carburante per l'ambizioso piano denominato della “cittadinanza digitale”, al fine di assicurare copertura al 95% della popolazione italiana.

Poi la scure del Cipe ci ha fatto tornare con i piedi per terra. Pazienza, anziché scambiarci mail e commenti postati, vorrà dire che torneremo alle vecchie lettere scritte a penna. Peccato però che dall'altro versante dell'oceano ci sia un presidente che è stato eletto anche grazie al contatto informatico diretto con milioni di cittadini. Ma questa è un'altra storia.

giovedì 5 novembre 2009

Giulio Giorello: «La verità? Non potremo mai possederla...»


Da Ffwebmagazine del 05/11/09

Perché temere l'insegnamento di altri credi religiosi? Se lo chiede Giulio Giorello, docente di filosofia della scienza all'Università degli studi di Milano, secondo cui non c'è bisogno di alcuna religione della scienza che «è un'attività critica, che deve guardarsi da rischi come le forme di potere consolidato». Studioso e critico della conoscenza, autore di ventisei volumi, si è concentrato sui legami tra scienza, etica e politica. Già presidente della società italiana di Logica e filosofia della scienza, dirige la collana Scienza e idee ed è elzevirista per il Corriere della Sera.

D. Lessing diceva che «non è il possesso, ma la ricerca della verità che rende l'uomo un uomo di scienza». Come insegue la verità l'uomo di oggi?
R. Essa si cerca senza gabbie ideologiche che piegano i fatti alle proprie idiosincrasie, ottenendo il risultato contrario al binomio coraggio-modestia. Vedo la verità come un'idea limite alla quale tendiamo senza mai possederla. Sarebbe sufficiente in campo scientifico che non ci accontentassimo dei risultati ottenuti fino a oggi, ma cercassimo di andare avanti, e in questo aveva ragione Brecht quando diceva «ciò che scriviamo oggi sulla lavagna, domani lo cancelleremo». Concordo con la teoria del grande matematico italiano Bruno de Finetti , innovatore della concezione della probabilità e uomo molto attento ai mutamenti sociali, quando sosteneva che l'idolo di una scienza assoluta, infranto, non implica la fine della scienza stessa. Vuol dire che è terminata una certa concezione della stessa, ma se ne è aperta un'altra, più duttile, plastica, «compagna delle nostre speranze e delle nostre sofferenze».

D. E le verità esistenziali?
R. Ciascuno dovrà risolverle all'interno della propria sfera intima, l'importante è non imporre nulla agli altri. Un radicale pluralismo da questo punto di vista credo sia oggi ineliminabile in una società democratica matura. Che l'Italia lo sia ho qualche dubbio. Alcune recenti polemiche su una proposta che a me sembrava di puro buon senso, come l'ora di religione di altre confessioni, avanzata dal vice ministro Urso, ha suscitato un vespaio di polemiche che mi fanno dubitare della maturità del nostro paese. Oggi l'Islam, e domani, perché no, anche il voodoo.

D. Ha scritto che le idee hanno talora più forza delle cose, e nella scienza sanno incarnarsi in congegni materiali. Come convive oggi l'uomo con questa moltitudine di congegni? Li teme, non li usa in modo adeguato al proprio benessere...?
R. La tecnologia incarna le idee e offre maggiore libertà all'uomo. Il mondo della tecnica, se utilizzato correttamente, ci libererebbe da numerosi vincoli, consentendo ciò che prima era impensabile. Pensiamo per un attimo all'astronomia galileiana, quest'anno ricorre l'anniversario dell'osservazione lunare fatta con il suo cannocchiale. Senza tale strumento che potrebbe apparirci una cosa da poco, non avremmo oggi i grandi telescopi spaziali orbitanti.

D. Conosciamo il nostro dna, andiamo sulla luna, ma poi?
R. Le considero enormi esperienze di liberazione, però credo che l'uomo abbia anche paura delle conquiste scientifiche in quanto ha paura della propria libertà. Essere liberi non è facile. Più comodo donare il proprio cervello ad altri, non necessariamente a un dittatore, ma a un leader che pensi al posto tuo. Diverso invece assumersi responsabilità, decidere in prima persona ed eventualmente pagarne le conseguenze. Più libertà ci sono, quindi, più l'uomo corre il rischio di sentirsi smarrito, ma di contro le grandi conquiste della civiltà vengono fuori proprio dalla lotta contro tale paura. E ciò vale sin dai tempi in cui Assiri e Babilonesi inventarono le mura e la scrittura.

D. Ma come mai l'uomo non riesce a spogliarsi da questi timori?
R. Perché siamo animali abitudinari. Qualcuno che pensi al nostro posto fa sì che le scelte diventino consuetudini. Attraverso il conflitto con altri esseri umani, contro delle idee, soprattutto quando non è puramente distruttivo, si riesce a raggiungere un livello di consapevolezza nuovo. Ezra Pound diceva «è molto meglio una Ferrari che gli dei del sangue». Mentre questi ultimi richiedono un tributo di sacrifici umani garantendo la stabilità sociale, la Ferrari spazza via tutto questo. E al posto della gloriosa vettura di Maranello potremmo citare anche altro, ad esempio la bomba atomica. Ne Il vero dottor stranamore di Peter Goodchild, si racconta la storia di Teller, il grande guerrafondaio che, già quando si otteneva la bomba A, pensava di progettare la H. Possiamo criticare anche nel merito questo individuo come militarista, ma non possiamo non riconoscergli di aver capito come la scienza era di fatto il veicolo di un gran potere. Da usare per la propria libertà e non per sottomettere gli altri. Detto brutalmente, se non ci fosse stato Teller, io e lei adesso faremmo un'intervista in lingua russa.

D. Ha definito la matematica una «magia che funziona, ma occorre che accanto alla verità propriamente detta, dia spazio all'interesse»: l'uomo oggi ha coscienza di quell'interesse?
R. Sono convinto che la matematica susciti ancora una forte passione legata alla conoscenza, certo oggi abbiamo demandato settori della ricerca ai computer. Ma essi da soli non bastano, il piacere della scoperta matematica è ancora molto intenso. Lo dimostra il fatto che interessanti problemi emergono non solo dalla fisica, ma anche dall`economia. È stato un grande personaggio come John von Neumann che ha mutato radicalmente le carte in tavola, o il matematico John Harsanyi, teorico dell'utilitarismo, premio Nobel. Grandi figure il cui merito è stato di far capire, anche a un pubblico di non specialisti, quanto sia affascinante l'applicazione matematica. Continuo a ritenere che la matematica sia uno dei terreni in cui meglio si realizza la creatività umana, forse è paragonabile alla grande musica o alla grande architettura.

D. Pensa che l'approccio alla scienza da parte dell'uomo sia a volte troppo retorico?
R. Dalla biologia viene una grande lezione che sintetizzo in due parole: coraggio e modestia. Coraggio perché è indispensabile una notevole forza per abbattere la costellazione di pregiudizi stabiliti. Modestia perché dalle scienze spesso abbiamo risposte che abbassano il nostro orgoglio. Pensiamo alla teoria darwiniana sulla genealogia dell'homo sapiens. Forse sarebbe stato meglio illuderci di essere parenti stretti di diavoli e angeli, piuttosto che di scimmioni. Non è un peccato di orgoglio, ma coraggio di fare tali affermazioni da Darwin in poi con molta modestia, visto che in fin dei conti non siamo i signori del creato ma semplicemente scimmioni, spero, abbastanza intelligenti.

D. Quindi teme la retorica scientista, anche quando si insinua in ambiti come le leggi sul fine vita?
R. La scienza non ha bisogno dello scientismo. I grandi teorici ottocenteschi dello scientismo avevano come avversari i matematici dell'école polytechnic. In realtà non c'è bisogno di alcuna religione della scienza, in quanto essa è un'attività critica, che deve guardarsi da rischi come le forme di potere consolidato. Penso alla scienza asservita ad un partito come fece Stalin. Gli scienziati devono vigilare in qualità di cittadini democratici. Ma non ritengo che per salvare la scienza si debba tirare in ballo una sua supremazia assoluta. Bastano il coraggio e la modestia.

D. Nel suo volume Di nessuna Chiesa. La libertà del laico, ammonisce sul fatto che troppo spesso ci si dimentica che il contrario di relativismo è assolutismo. Non crede che oggi si giochi troppo con il confondere contenitori e contenuti, mortificando una più sana indipendenza ideologica?
R. Molto del relativismo contro cui si polemizza anche in discussioni politiche, mi sembra un feticcio inventato intenzionalmente per cucirvi una querelle ideologica, senza alcuna rispondenza con gli sviluppi intellettuali di punti di vista pluralistici. Questi ultimi sì che costituiscono una forma nobile di relativismo, richiamata anche da Leopardi quando nel suo Zibaldone diceva «il mio sistema non è contro l'assoluto, anzi lo pluralizza». Lasciamo che ci siano molti assoluti che si confrontano. Vorrei ad esempio continuare a leggere William Furley anche se tiene per i sudisti americani, o Ezra Pound senza che nessuno mi consideri fascista, o Maiakowskij senza che qualcuno mi dia del comunista.

D. Ha definito la libertà un'aria in cui «respirano tutti, che non può essere sequestrata né da una religione, né da un'ideologia»: ma capita che l'uomo, quando l'ha conquistata, poi non ne faccia un uso corretto sino in fondo...
R. San Paolo e S.Agostino si chiedevano, «perché se sono portato al bene, continuo a fare il male?». Perché vi è una volontà di asservirsi, un desiderio di servitù volontaria. È un grande problema che ritrovo in tutti i maggiori pensatori occidentali, che Machiavelli ha esaminato con non poco coraggio. Giordano Bruno in alcune delle sue pagine più strazianti si ritrova in John Stuart Mill, ovvero il paradosso dello schiavo o volontario. La soluzione? Bisogna resistere, non c'è altro da fare.