Il 22 aprile del 1912 il
primo numero della Pravda vedeva la luce. Cento anni dopo, e a
seguito di terremoti storico-sociali noti, quante altre Pravde
continuano ad esistere? Il pensiero corre subito, e non potrebbe
essere diversamente, ai casi italiani di oggi, dai giornali
berlusconiani di regime alle espressioni "al guinzaglio"
che ancora persistono in alcuni meandri della televisione di stato;
dalla Padania che rutta contro il tricolore ma non si indigna per i
diamanti di Rosi Mauro a un'idea solo militante dei media.
Mortificandone il senso più intimo, quella missione sacra che nessun
capocorrente o alto papavero potranno mai inficiare: fare
informazione, farla in modo libero, e montanellianamente parlando.
Senza padrini e senza padroni. Terreno fertile per un'informazione
acefala e legata a doppia mandata ad un'unica volontà, è la
mancanza di conoscenza, senza la quale un popolo non è tale. Ma come
pretendere di avere conoscenza di provvedimenti e opinioni, se non si
creano i presupposti culturali alla comprensione di quei fatti?
Nel
recente passato italico non sono mancati episodi giornalistici che
nei fatti hanno proposto fiumi di stampa e di notizie, ma senza
offrire ai lettori gli strumenti per interpretare dichiarazioni, per
scorgerne le contraddizioni, per avanzare controdeduzioni, per
carpirne i significati più intimi. E non solo per smascherare
pifferai e che purtroppo abbondano sulla scena, ma principalmente
per essere vivi, cittadini socialmente attivi, in grado di
partecipare. Proverbiale il caso della “nipote di Mubarak” a sua
insaputa, in un trionfo di volgare mistificazione che principalmente
ha mancato di rispetto all'intelligenza di lettori e fruitori di
quelle notizie. Un esempio che non è stato solo espressione di
Pravda biancarossaeverde dalle parti di due quotidiani del nord, ma
che ha inaugurato una nuova e più bassa forma di informare. Perché
non solo ha tentato di elevare la propaganda a metro unico e solo di
esercizio professionale, ma ha anche investito tempo e risorse
nell'opera di “rincitrullimento coatto” di milioni di lettori.
Ecco il corto circuito tutto italiano, un secolo dopo “quel”
giornale di partito e di regime.
Principale strumento del
popolo, come ha scritto il filosofo Giacomo Marramao nel volume
Vivere la democrazia, costruire la sfera pubblica, quaderno della
scuola per la buona politica della Fondazione Basso, (edizione
Ediesse), è quindi la conoscenza, la cultura. Tutt'altro rispetto al
megafono dei gazebo, che va tanto di moda nei giornali e nei comizi.
Dove una buona dose di responsablità l'ha avuta la cattiva politica,
quella che ficca il naso nei menabò di quotidiani e settimanali,
quella che cassa l'ospite sgradito in una trasmissione di
approfondimento, quella che non dà il via libera a un'inchiesta
scomoda, quella che pretende ancora di dettare il palinsesto della
Rai.
Ma che poi non profonde
il medesimo sforzo per educare gli elettori, per formarli, per
allenarli a capire. Perché sarebbe proprio in quell’istante che
l’elettore meccanico, quello per intenderci abituato e bere slogan
o a firmare diseducativamente appelli contra, che imparerebbe a
dissentire creativamente, ad eccepire offrendo un’altra strada da
imboccare. Ovvero a essere cittadino attivo e partecipe, per
giungere così al culmine materiale della libertà, per averla tra le
mani, per utilizzarla fino in fondo, per non sprecarla, per
apprezzarla, per farne tesoro. Perché, come ha detto John Kennedy
«la libertà senza l’istruzione è sempre in pericolo, e
l’istruzione senza la libertà è sempre inutile».
Fonte: il futurista
quotidiano del 22/04/12
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