lunedì 23 aprile 2012

Cento anni dopo "quella" Pravda


Il 22 aprile del 1912 il primo numero della Pravda vedeva la luce. Cento anni dopo, e a seguito di terremoti storico-sociali noti, quante altre Pravde continuano ad esistere? Il pensiero corre subito, e non potrebbe essere diversamente, ai casi italiani di oggi, dai giornali berlusconiani di regime alle espressioni "al guinzaglio" che ancora persistono in alcuni meandri della televisione di stato; dalla Padania che rutta contro il tricolore ma non si indigna per i diamanti di Rosi Mauro a un'idea solo militante dei media. Mortificandone il senso più intimo, quella missione sacra che nessun capocorrente o alto papavero potranno mai inficiare: fare informazione, farla in modo libero, e montanellianamente parlando. Senza padrini e senza padroni. Terreno fertile per un'informazione acefala e legata a doppia mandata ad un'unica volontà, è la mancanza di conoscenza, senza la quale un popolo non è tale. Ma come pretendere di avere conoscenza di provvedimenti e opinioni, se non si creano i presupposti culturali alla comprensione di quei fatti? 
Nel recente passato italico non sono mancati episodi giornalistici che nei fatti hanno proposto fiumi di stampa e di notizie, ma senza offrire ai lettori gli strumenti per interpretare dichiarazioni, per scorgerne le contraddizioni, per avanzare controdeduzioni, per carpirne i significati più intimi. E non solo per smascherare pifferai e che purtroppo abbondano sulla scena, ma principalmente per essere vivi, cittadini socialmente attivi, in grado di partecipare. Proverbiale il caso della “nipote di Mubarak” a sua insaputa, in un trionfo di volgare mistificazione che principalmente ha mancato di rispetto all'intelligenza di lettori e fruitori di quelle notizie. Un esempio che non è stato solo espressione di Pravda biancarossaeverde dalle parti di due quotidiani del nord, ma che ha inaugurato una nuova e più bassa forma di informare. Perché non solo ha tentato di elevare la propaganda a metro unico e solo di esercizio professionale, ma ha anche investito tempo e risorse nell'opera di “rincitrullimento coatto” di milioni di lettori. Ecco il corto circuito tutto italiano, un secolo dopo “quel” giornale di partito e di regime.

Principale strumento del popolo, come ha scritto il filosofo Giacomo Marramao nel volume Vivere la democrazia, costruire la sfera pubblica, quaderno della scuola per la buona politica della Fondazione Basso, (edizione Ediesse), è quindi la conoscenza, la cultura. Tutt'altro rispetto al megafono dei gazebo, che va tanto di moda nei giornali e nei comizi. Dove una buona dose di responsablità l'ha avuta la cattiva politica, quella che ficca il naso nei menabò di quotidiani e settimanali, quella che cassa l'ospite sgradito in una trasmissione di approfondimento, quella che non dà il via libera a un'inchiesta scomoda, quella che pretende ancora di dettare il palinsesto della Rai.
Ma che poi non profonde il medesimo sforzo per educare gli elettori, per formarli, per allenarli a capire. Perché sarebbe proprio in quell’istante che l’elettore meccanico, quello per intenderci abituato e bere slogan o a firmare diseducativamente appelli contra, che imparerebbe a dissentire creativamente, ad eccepire offrendo un’altra strada da imboccare. Ovvero a essere cittadino attivo e partecipe, per giungere così al culmine materiale della libertà, per averla tra le mani, per utilizzarla fino in fondo, per non sprecarla, per apprezzarla, per farne tesoro. Perché, come ha detto John Kennedy «la libertà senza l’istruzione è sempre in pericolo, e l’istruzione senza la libertà è sempre inutile».


Fonte: il futurista quotidiano del 22/04/12


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