Che stato è un
paese che aumenta del 10% il prezzo del souvlaki,
(il piatto nazionale, come in Italia la pizza) e lascia praticamente illibate
le multinazionali e i patrimoni stipati in Svizzera che ammontano a 600
miliardi di euro (il doppio del debito attuale)? La Grecia del quasi default, che taglia (grazie al
memorandum della troika) il 20% a pensioni e salari, si affaccia alle nuove
elezioni con una macroscopica contraddizione, interna e esterna. La prima è
data dai due partiti che hanno firmato il piano salva Ellade, i conservatori di
Nea Dimokratia e i socialisti del Pasok. Che, oggi, pur aprendo alla
possibilità di migliorare quel piano, non hanno ancora spiegato agli elettori perché
lo hanno accettato a quelle condizioni, capestri per il ceto medio e per i meno
abbienti, ininfluente per i paperoni dell’Acropoli che si arricchiscono
ulteriormente alle spalle dei dieci milioni di greci costretti a un radicale
cambio di vita. E dal di fuori la mancata comunicazione su cosa è realmente
accaduto al paese di Socrate e Pericle, come mai nessuno, ad esempio, indaga
sui duemila miliardi che dal’Egeo si dirigono verso i paradisi fiscali di mezzo
mondo, perché la Chiesa non ha mai pagato un centesimo di tasse (i sacerdoti
non ricevono lo stipendio dalla Curia, ma dallo stato), perché i beni
sequestrati a chi commette reati contro la pubblica amministrazione non vengono
immessi nell’erario, come mai nessuno ha controllato dove andavano e come
venivano spesi i fondi europei. Con il risultato che, nell’anno della paventata
tragedia del calendario Maya, nel Mare Nostrum sta andando in scena la vera la crisi
del secolo, peggio di una guerra o di un’epidemia: perché a rischiare è un
continente intero chiamato a un bivio, rinnovarsi o morire.
Unione europea, ultima chiamata.
Le elezioni a cui la Grecia è chiamata il prossimo 17 giugno hanno una doppia
valenza: da un lato tentare di salvare ciò che resta di un’unione che, tale, è
solo sulla carta e nella geografia delle grandi banche; e dall’altro impedire
che la frusta europea che si è abbattuta su una popolazione intera, ad
eccezione delle multinazionali del petrolio e delle finanza, possa lasciare sul
campo morti e feriti. E soprattutto un paese che il giorno dopo la fine del
piano della troika sarà “svendibile” in quanto senza più un grammo di energia
propria. Al centro dell’Egeo la speranza di cambiamento al momento si dice
abbia un solo nome: quell’Alexis Tsipras a capo di una coalizione di sinistra
radicale che non solo ha messo sul tavolo un programma altamente innovativo,
politico ed economico (pubblico registro per gli appalti, trasparenza finanche
nei conti della Banca nazionale della Grecia, industrializzazione del paese,
salvaguardia di prodotti nazionali, tassazione delle rendite finanziarie). Ma
che sta basando la sua campagna elettorale su un semplice ragionamento: come si
fa a ridare fiducia alla stessa classe dirigente che ha prodotto l’attuale
debito della Grecia? Che ha impiegato dieci anni per costruire l’unica arteria
stradale che collega il paese da nord a sud? Che solo dopo trent’anni si è
accorta della presenza di gas metano nell’Egeo? Che ha consentito praticamente
a tutti di aggirare leggi e regolamenti grazie a mancati controlli? Che ha
acquistato dalla Germania un sottomarino che pendeva a destra? Che ha speso per
le Olimpiadi del 2004 più di quanto avrebbe incassato se ne avesse organizzate
cinque edizioni di seguito? Che non ha fatto luce su scandali come le tangenti
del colosso tedesco Siemens? Che ha favorito il più alto tasso di corruzione
dei paesi Ocse?
Ecco la tragedia “greca”: una
politica che per anni si è basata sull’illusione effimera del tutto possibile
per tutti, che non ha investito in infrastrutture e tessuti industriali, che ha
consentito ai ricchi di diventare sempre più ricchi e agli altri di giungere a
questo punto: a un passo dall’Ade. Uno scenario delicatissimo sul quale si
staglia un altro elemento: il voto di “pancia”, verso l’onda xenofoba di Alba
dorata, il partito nazionalista che dopo 40 anni per la prima volta ha fatto
ingresso in parlamento. Quel 7% conquistato un mese fa la dice lunga sullo
stato d’animo degli elettori: stufi di promesse, di contingenze irrisolte. Che
si sommano al 40% di astenuti: non solo record europeo, ma segnale allarmante
di uno sfascio a un passo.
Con, a fare da contorno, prima il
premier italiano che si dice ottimista (“Gli eurobond diverranno una realtà e
la Grecia manterrà la moneta unica”). E, nelle stesse ore in cui Monti rilascia
quell’intervista al quotidiano ellenico To
Vima, la “doccia fredda” della Bild,
secondo cui “per la Grecia è ormai tempo di abbandonare l'euro”. E aggiunge: “Qualcuno
tra i leader dell'eurozona dovrebbe finalmente dire ai greci la verità – scrive
Blome - questo nuovo inizio può essere raggiunto con un primo passo radicale e
questo significa lasciare l'euro”. Oppure, aggiungiamo, che a farla franca non
siano sempre e solo i soliti noti, protetti da un sistema in cancrena, con
vergognose mercificazioni umane e di anime. Che chiedono solo il dovuto: vivere
in una democrazia che non assuma le sembianze di una dittatura tecnocratica.
Fonte: Gli Altri settimanale del
l’8/6/2012
Twitter@FDepalo
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