sabato 12 maggio 2012

Il voto condanna il governo. Il governo condanna il voto


ATENE- Un’implosione. Dai meandri di una terra che ha vissuto nei secoli peripezie e invasioni. È come se Zeus si fosse ribellato, avesse armato Gea e volesse ribaltare tavolo e sedie. Buttando all’aria un sistema ormai in cancrena, per rifarlo ex novo, ma senza tornare a quella pangea immobile e grumosa da cui un nuovo Rinascimento sarebbe troppo complesso. Le elezioni in Grecia sono state uno tsunami continentale, anzi, mondiale, per una miriade di motivi. Non solo un big bang della politica, radicalizzata dalla crisi, con il vento del meltèmi xenofobo che spira, cruento, dall’Acropoli sino ai fiordi settentrionali. Ma una sorta di big crunch, una risacca restauratrice, un ritorno al passato che non ha prospettive reali di crescita. Almeno a breve termine. Perché chi è uscito con le ossa rotte dalle urne per proprie deficienze strutturali e programmatiche, non può pretendere di comportarsi come se nulla fosse, modificare i programmi elettorali magari solo per arraffare un esecutivo instabile e claudicante. Sembra acquisito il dato dell’esautorazione democratica: la maggioranza dei greci non ha votato per i due grandi partiti, i conservatori di Nea Dimokratia al 18,8% e i socialisti del Pasok al 13,2%, che invece si preparando a comporre un governo di unità nazionale. Con tanti saluti alla rappresentatività popolare. Ecco il corto circuito, grave e ingannevole, che il bipolarismo muscolare e farlocco che ha “guidato” molti paesi europei ha prodotto, lasciando sul campo macerie partitiche e un malcontento popolare pericoloso e dall’esito incerto. Lasciamo stare per un momento la risposta dei mercati, con le borse continentali e asiatiche in picchiata, ma guardiamo negli occhi chi si è recato alle urne per esprimere un voto. Ha ancora un peso specifico e partecipativo reale? O corre il rischio di essere maciullato dalla deriva antidemocratica non solo di chi siede in pianta stabile nei ministeri di un paese senza più sovranità autonoma, ma finanche da quegli stessi partiti che dovrebbero quantomeno garantire la propria indipendenza nazionale. E che invece si arrabattano alla meno peggio, senza rispondere alle domande della crisi, senza che nessuno abbia invocato una sorta di Norimberga per ministri e deputati che, di fatto, hanno truffato la Grecia e l’Europa. 

Ioannis è un insegnante in pensione da due anni. Prima del piano della troika ogni mese riceveva 2.180 euro, oggi solo 1.500. Mi guarda fisso, dopo aver fatto un bagno da trentotto gradi alla sorgente naturale delle Termopili (dove Leonida si immerse duemilacinquecento anni fa prima di affrontare Serse) e mi chiede: ma la pensione è un diritto dei lavoratori o un regalo dello stato? “Io l’ho pagata con quarant’anni di servizio e di contributi, in base a quale principio oggi mi viene decurtata di ben 500 euro? E per garantire chi o cosa? Forse le banche francesi o tedesche?”. È un dato acquisito, anche da parte degli elettori più radicali, che non si poteva andare avanti con il metro con cui la Grecia è stata governata fino ad oggi, aggiunge, ma “la colpa è della cattiva politica che ci ha condotti sino a questo punto di schiavitù e di mancata dignità”. Per queste ragioni lui è stato tra quelli che hanno contestato fuori dalla Voulì un mese fa con il famigerato lancio di yogurth, per questo si augura che la classe dirigente che ha prodotto lo sfacelo attuale esca sconfitta dai riverberi post elettorali. Come è cambiata la sua vita? Si consuma meno carne, il carrello della spesa è tendenzialmente più leggero, addio alle gite domenicali, i prestiti con le banche vedono il 75% dei clienti morosi con almeno sei mesi di arretrati. Insomma, ci si prepara ad un inverno freddo, e non solo per via dell’aumento del prezzo dei riscaldamento. Ma la cosa peggiore è che “hanno tolto a tutti un futuro, vallo a spiegare il piano della troika a quelli che prendono la pensione minima di 250 euro”. Mentre un paio di telegiornali danno la notizia (non ancora confermata) che le mogli di alcuni deputati sarebbero state assunte in parlamento, anche con una buonuscita da decine di migliaia di euro, mentre Ioannis ha atteso più di un anno per la sua liquidazione. “Con quale coraggio gli stessi politici che hanno ingannato di conti, che non hanno vigilato, che hanno anche scommesso azioni sul default, oggi ci chiedono nuova fiducia? Non se la meritano”.

Ecco che allora lo scenario si arricchisce di una chiave di lettura più ampia. A questo punto non c’è solo da interrogarsi sul voto di protesta verso le “ali” estreme, come i neofascisti di Alba dorata al 7%, o i comunisti più ortodossi del Kke all’8,4%, senza dimenticare l’astensione al 40%. Piuttosto politologi ed analisti, ma soprattutto l’intera classe dirigente continentale farebbe bene a guardarsi allo specchio e ragionare senza pregiudizi o paraocchi su una nuova forma di unione che al momento latita. Che sia meno ingiusta di quella che si è vista fino ad ora, attenta a tutte le fasce sociali, non solo ai banchieri o ai centri di potere rimasti illibati dalle misure di austerity. Chiedere più Europa, non significa essere accusati di antieuropeismo dunque. Lo ha fatto la vera sorpresa delle elezioni elleniche, il 37enne Alexis Tzipras alla guida del Syriza, secondo partito del paese: che non ha cavalcato il facile populismo del “fuori dall’Europa subito”. Ma ha puntato sulla rinegoziazione del piano della troika, guadagnando consensi trasversali, anche al di qua dell’elettorato classico di sinistra.

Serve allora un’idea, una rupture, uno sforzo propositivo innovativo, non un rinchiudersi all’interno di consuetudini vecchie che puzzano di chiuso e di marcio, ma almeno rispettando la volontà popolare (a meno che non si voglia ufficialmente considerarla carta straccia). E allora, al di là di numeri, bizantinismi e possibili gattopardismi in salsa ellenica (il vero pericolo), quello che conta è il macroelemento post urne: il duo “Merkozy” è già ieri. Adesso, prima di ogni altra cosa, serve ripensare l’Europa su cui calibrare stati equi, sociali e intimamente democratici. E farlo seriamente, senza pericolosi ritorni al passato. Per far cambiare idea al triste Ioannis, che sostiene come “nella culla della democrazia, oggi non è solo morta quella forma di governo e di convivenza di popoli nata proprio qui: oggi è morta la speranza”.

Fonte: Gli Altri settimanale dell'11/5/2012
Twitter@FDepalo

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