lunedì 7 marzo 2011

SON TUTTE POLITICHE LE PIAZZE DEL MONDO

Dal Secolo d'Italia del 06/03/11

Ha scritto il poeta e drammaturgo indiano Rabindranath Tagore che “non puoi attraversare il mare semplicemente stando fermo e fissando le onde”. Perché non nascerebbe un germoglio da quell’immobilismo, non si raggiungerebbero terre lontane cementando quello status quo rifugiandosi sul bagnasciuga, non vi sarebbe la svolta auspicata rimanendo ognuno nelle proprie pigre abitazioni in attesa di un alito di vento. Occorre brio, movimento, iniziativa. Occorre spalancare porte e finestre in attesa di un uragano di neuroni che trascini azioni e sentimenti.

E in quale luogo meglio di altri la storia si manifesta se non nelle piazze? La piazza, quell’incontro ideale di carni e menti, dove pulsa il cuore di un Paese, che è altro rispetto ai numeri ed agli umori del Palazzo. Perché racchiude il nucleo originario di una forza centrifuga millenaria, dove si respira l’aria di un tessuto sociale, dove si tasta il polso ad una cittadinanza vera e reale, annusando l’humus di quell’istante, di quelle emozioni. Dove si tocca intimamente la membrana di una Nazione, la si radiografa accuratamente. E la si può osservare mentre si interroga, si contorce nella sua insoddisfazione, si domanda come eccepire, quando alzare un dito e pronunciare il proprio “no”. Nella piazza alberga il dissenso, quella meravigliosa energia per interrogarsi, come prescriveva il filosofo norvegese Jobtein Gaarder, “non devi mai piegarti davanti ad una risposta. Una risposta è il tratto di strada che ti sei lasciato alle spalle. Solo una domanda può puntare oltre”. Oltre l’effimero, oltre il contingente stanco e pachidermico, oltre l’accettazione supina di motti, fatti e false opinioni. Oltre il libro unico che invece, nella piazza, trova nuove e fiammanti pagine.

E’nella piazza che si anima il dibattito, lì nascono le grandi intuizioni, le svolte, le adunate oceaniche spontanee e di rilevanza storica. Perché la piazza è viva, si muove, si inebria, vorrebbe alzarsi in piedi e gridare senza timidezza il proprio disagio, la propria contrarietà ad un Palazzo che si allontana sempre di più dal vero nocciolo più intenso di una comunità. Piazza come orgogliosa rivendicazione, ma anche come gesto di ammenda. Riconoscendo l’errore di aver dato la propria fiducia a chi non l’ha meritata, e sforzandosi di cambiare il senso delle cose per andare oltre. Come scrisse Tolstoj, “per vivere con onore bisogna struggersi, turbarsi, battersi, sbagliare, ricominciare da capo e buttare via tutto. E di nuovo ricominciare e lottare e perdere eternamente. La calma è una vigliaccheria dell’anima”. Quell’animosità di sforzi, di azioni, di pensieri rapidi che devono tramutarsi in fare, proprio nella piazza si concretizzano. Lo sottolineava George Bernard Shaw: “non aspettare il momento opportuno: crealo”. Sì, nella piazza che è il centro, lì bisogna creare le premesse al salto finale, alla legittimazione, alla rivendicazione che sa di vittoria. Una vittoria che nelle piazze di ieri può essere identificata con due momenti, uno di pensiero in piazza, con la metafora dell’agorà ateniese, dove il dissertare ed il ragionare erano al primo posto. Ed uno di azione, dove nella piazza arde il desiderio di rivincita, di cambiamento. Perché fuori da quel consesso e lontano dall’unione di piazza, non si celebra il nuovo. Non è certo con l’immobilismo che si vincono battaglie, che si rafforzano convinzioni, che si lanciano proposte alternative. Lo diceva Diogene, “magari potessi farmi passare la fame solo grattandomi la pancia”.

Dunque piazza di ieri per antonomasia è l’agorà ateniese, dal greco radunare, principale snodo sociale dell’antica Grecia. Diventando nel tempo centro della polis dal punto di vista commerciale, per via del mercato che lì aveva sede; religioso, per la presenza di luoghi di culto e di rappresentazioni sacre; e politico, perché divenne luogo in cui si esercitava la democrazia. Nell’agorà si affrontavano i problemi della comunità, si confrontavano opinioni e si proponevano soluzioni. Fu anche un’intuizione urbanistica che ebbe origine con Pericle nel V secolo a.C., e in quella sede venne anche condannato Socrate. Piazze di ieri, di un passato meno lontano, sono quelle che hanno voluto segnare la fine di un ciclo, e l’inizio di un nuovo corso. Tienanmen a Pechino per via di quell’immagine storica di un carro armato e uno studente “a confronto”; o place de la Concorde a Parigi, passaggio obbligato per i cortei durante la rivoluzione francese; o piazza Dam ad Amsterdam, dove i primi abitanti della città, pescatori, costruirono proprio lì una diga (che si chiamava il dam) nel XII secolo e che negli anni settanta fu luogo di attrazione e incontro del popolo hippy; o Times Square a New York, luogo magico di aggregazione ultramoderna, con sullo sfondo la vita di personaggi come Fraid Astaire e Charlie Chaplin.
Piazze di oggi, dell’oggi più recente, sono quelle dell’area euromediterrenea: Atene, Teheran, Tunisi e Tirana. Per poi spostarsi più a ovest, con le rivoluzioni di piazza in questi giorni al Cairo e a Bengasi.

Come non ricordare due anni fa piazza Syntagma nella capitale ellenica, poche ore dopo la morte del quindicenne Alexis Grogoropoulos, colpito dagli spari di un agente di polizia. Furono giorni di guerriglia, di aspri combattimenti, che misero e ferro e fuoco il centro ateniese, con la crisi economica che prepotentemente invadeva le famiglie greche. Infrangendo le vetrine della dolce Plaka, dove quarant’anni fa Alekos Panagulis passeggiava inneggiando alla libertà. Dove Ugo Tognazzi amava perdersi nei caratteristici bouzouky, ascoltando le note di Tsitsannis assieme a Melina Mercouri in una miscellanea di arte, società e profumi orientali di cui si sente tragicamente la mancanza. O in odòs Ermou, dinanzi alla piazza del Parlamento, dove solo poche settimane fa, manifestanti inferociti contro le rigide norme imposte per il default ellenico, chiedevano giustizia, picchiando purtroppo selvaggiamente un sottosegretario e premendo i blocchi per entrare nella Camera. In una spirale di violenza da smorzare.

Onda in piazza è quella che si è avuta nelle strade di Teheran, con la rivoluzione verde sbocciata nelle intersezioni di un Paese guidato da un dittatore “vestito” da leader democratico, con il sacrificio della giovane Neda, per cui tutto il mondo si indignò. Chiedendosi, oggi, cosa abbia significato quell’esperienza in chiave socio-politica, come abbia contagiato altre piazze ed altre menti sulla scia di una voglia di libertà e di partecipazione. Con numeri rilevanti, dove il 60% degli studenti iraniani è di sesso femminile, al pari della metà degli scrittori del paese. Ottenendo una vitalità femminile – coraggiosamente in piazza- che andrebbe incoraggiata dall’Europa.
Piazza e pane nella rivolta tunisina dello scorso Natale, con manifestanti che denunciavano le sperequazioni sociali, le grandi disuguaglianze che infilzano come una preda inerme i giovani diplomati del Paese. Che non scorgono un futuro all’orizzonte, sempre più preda di una forma endemica di disoccupazione. Ed eccoli scendere in piazza non avendo proprio più nulla da perdere, sfidando le forze di polizia, per gridare la loro disperazione. Come quella del cinquantenne Moncef Ben K, venditore ambulante, arso vivo nel mercato cittadino di Sidi Bouzid. Tre settimane dopo il primo sacrificio per lo slogan “pane-dignità-libertà”, quando a darsi fuoco fu un giovane ventiseienne nella stessa città. Tra civili massacrati barbaramente e con cariche della polizia, finanche contro un corteo funebre, ordinate dal Premier Ben Alì in fuga dal Paese e dal futuro della Tunisia.

Un sottile filo rosso ha unito sul web le piazze di quel grande lago salato che è il Mediterraneo. Si prenda la piazza di Tirana, esplosa solo un mese fa, con tre morti e decine di feriti, in una contrapposizione che ha visto da un lato il primo ministro Berisha accusato di brogli elettorali dal capo dell’opposizione socialista Edy Rama, a sua volta accusato dal primo ministro di voler tentare un colpo di stato. Rama, a lungo vissuto in Francia ma rientrato in patria come sindaco di Tirana, contesta i risultati delle ultime elezioni a suo dire con gravi irregolarità. Però Berisha nega tutto, dice no al riconteggio delle schede, anzi, in ossequio ad un’assurda legge albanese, brucia le schede elettorali. A quel punto i socialisti si mobilitano per protestare con uno sciopero della fame in una tenda montana dinanzi al Parlamento, abbandonando i lavori dello stesso in segno di boicottaggio, in quanto non ne riconoscevano la legittimità. Protesta che Rama ha poi sospeso per l’intervento del Consiglio d’Europa.

Piazza che scaccia un leader, invece, è stata quella egiziana di pochi giorni fa, con centinaia di cittadini asserragliati in piazza Tahir, costringendo il premier Mubarak, non solo a non ricandidarsi alle prossime elezioni, ma a cedere il passo. Con il procuratore generale che ha decretato il divieto di espatrio e un ordine di congelamento dei fondi nei confronti dell’ex presidente. E con la richiesta avanzata dalla “Coalizione dei giovani della rivoluzione del 25 gennaio”, di fatto l’organo che gestisce il Paese, rivolta al Consiglio Supremo delle Forze Armate, di sciogliere il governo. E nominando un esecutivo di tecnocrati, procedendo alla liberazione dei detenuti politici ed al rinvio a giudizio dei responsabili dei massacri civili della rivolta.
Il mosaico di piazze contemporanee si completa con la rivolta libica, con le piazze di Bengasi trasformate in teatro di morte e di folli esecuzioni. Dove i fedeli di Gheddafi proseguono una lotta feroce contro chi sostiene il cambiamento, contro chi pensa al futuro in termini diversi e pacifici. Sangue, corpi senza vita trasportati su fuoristrada improvvisati, messaggi televisivi in stile talebano da luoghi improbabili, non stanno però fermando le piazze di un Paese che grida il suo dolore al mondo. Contagiando anche realtà metropolitane distanti migliaia di chilometri, come le piazze cinesi dei Gelsomini.

Dove proprio in queste ore il regime di Pechino è in allarme per le proteste interne che ricalcano quelle delle piazze nordafricane, con la conseguente censura governativa verso la rete, che ha oscurato di fatto i motori di ricerca dei risultati circa la caduta del premier egiziano Mubarak. Agenti in divisa ed in borghese pattugliano le piazze di Pechino, mentre a Shangai duemila manifestanti scesi in piazza sono stati respinti con l’uso degli idranti. In un contesto politico culturale dove manca il supporto comunicativo dei media, dal momento che non essendoci adeguata copertura internet, non si riesce a dare risalto a quest’altra enorme piazza del mondo che sta gridando la propria voglia di libertà.
Ma piazza di oggi è quella italiana in cui sono scesi gli studenti per dire no alla riforma universitaria, o quella di poche settimane fa “Se non ora quando?”, in occasione della quale tante donne, ma anche tanti uomini, hanno protestato contro una concezione machista del corpo femminile. Che, all’indomani degli sgradevoli fatti di cronaca del Ruby-gate, è al centro di una contesa tra chi non sceglie scorciatoie e chi invece le giustifica, erroneamente, a tutti i costi, anche scomodando riferimenti antigiacobini e falsamente antipuritani. Piazza di domani, tanto per rimanere alla cronaca, sarà quella del 12 marzo prossimo.

Quando, Costituzione e Tricolore, saranno al centro di una difesa alta ed estrema. Perché si intrecciano, non solo nel 150esimo dell’unità d’Italia, ma purtroppo anche come doppio bersaglio di certa politica. Che da un lato punta a delegittimare la madre di tutte le leggi, quella Carta, frutto di unione e condivisione post conflitto mondiale: quel tentativo così straordinariamente affascinante e determinante fatto dai padri costituenti, che oggi è al centro di un vero e proprio attacco concentrico, supportato da coloro che invece dovrebbe vigilarne l’osservanza, che dovrebbero proteggere ed elevare spiritualmente quella Carta. E dall’altro sbeffeggiando il simbolo di una Nazione, ma non soltanto con l’ironia fuoriposto della Lega o con le ricorrenti uscite folkloristiche in chiave secessionista: ma come svilimento dall’interno di quel simbolo, con atteggiamenti che nei fatti minano l’unità storico-sociale di un Paese. E’quello l’insulto peggiore, è chi intende staccare progressivamente i pezzi che hanno composto un unicum ad essere il responsabile di un vero e proprio attentato all’Italia. Che va fermato, soprattutto ascoltando i richiami di un Paese che sta già cambiando. E che vorrebbe far sentire la sua voce, riversandosi nelle piazze e nei luoghi di comunione.

Rifletteva Longanesi “un’idea che non trova posto a sedere, è capace di fare la rivoluzione”. E quell’idea, oggi più che mai, si trova nelle strade che da latitudini differenti giungono nella piazza. In quelle piazze dove riversarsi e dove essere presenti, con serenità ma con determinazione. Certamente rifiutando la violenza e la contrapposizione da stadio che altri modelli vorrebbero invece più comodamente proporre a tutto e a tutti. Perché è più facile equiparare, o disinnescare la piazza con gli idranti. Mentre è ben più difficile e scomodo ascoltare quelle voci, tendere l’orecchio e valutare la portata di quella piazza, e di conseguenza mettersi in discussione, specchiarsi e osservare un’immagine non senza criticità. Ma occorre smuovere le coscienze, destare i cittadini dal lungo sonno in cui purtroppo sono caduti, risvegliare le idee. Perché “non si possono prendere trote con i calzini asciutti”, ammoniva Miguel Cervantes de Saavedra. Ma è necessario andare, presentarsi, testimoniare il proprio io, esserci in quell’adunata, in quelle nuove e meravigliose agorà del terzo millennio, tra notizie ed appuntamenti che corrono in rete e mani umane che si intrecciano in quel luogo significativo. Proprio la rete rappresenta la piazza ideale di chi non può esserci fisicamente. Con i social network si può essere in piazza assieme all’Onda iraniana, o ai già citati Gelsomini cinesi a cui stanno strappando le ali del web, o ai giornalisti russi sempre più a rischio della propria vita per il solo fatto che scrivono e non trascrivono.

Ecco la grandezza sociale di quella piazza che in fin dei conti pulsa in ognuno di noi, batte nel petto di ciascuno e che va solo assecondata, in una sorta di scia emotiva da cui essere contagiati. Lì si è compiuta la storia, lì si sono svolte le maturazioni, le rivoluzioni, i grandi cambiamenti epocali. Lì, dove oggi chi governa non va più: perché ha capito che il vento sta cambiando e spira contro. Scriveva Bobbio che principi istituzionali del liberalismo sono la garanzia dei diritti di libertà, la divisione dei poteri, la pluralità dei partiti, la tutela delle minoranze politiche. E allora si inneggi alla piazza per il rispetto di quei principi, la si preservi dai filtri, la si rafforzi come megafono autentico di un Paese.
Tutti in piazza, perché, come diceva Aristofane, nessun uomo libero può starsene a dormire

mercoledì 2 marzo 2011

Manfredi: «Un leader per accendere il fuoco del sogno politico»


Da Ffwebmagazine del 28/02/11

«Ci vuole cuore per far politica. E infiammare il sogno di giovani, pronti, che aspettano solo buoni esempi che parlino loro». Valerio Massimo Manfredi, archeologo, scrittore, ricercatore e autore di programmi televisivi di qualità come Stargate, non è tra quegli italiani che condannano a priori le nuove generazioni, preda del tutto pronto e subito, o imbevute di modelli fasulli e basta. Ma spicca per un singolare ottimismo propositivo, dal momento che la sua quotidiana attività di ricerca e divulgazione, lo porta ad avere contatti diretti proprio con quei ragazzi e con quegli studenti. Traendone spunto per comprendere ciò che realmente manca al Paese e alla sua classe dirigente, un campione vero che sappia parlare alle anime.

Il male che reputa peggiore: essere governati da un leader vecchio, o vivere in uno Stato che non sa più essere giovane?
I giovani appaiono soli, senza una speranza. Anche corrotti da un sistema che ha veicolato una comunicazione distorta, con messaggi devastanti. In un quadro generale dove il Paese, per il momento, non vede la luce. Anche perché nel confuso agitarsi delle varie forze politiche non si vede emergere l’uomo che possa battersi contro questo signore. Ricordo quando i laburisti tirarono fuori l’asso nella manica che si chiamava Tony Blair. Nessuno conosceva chi fosse, lo avevano allenato e costruito per poi lanciarlo come un missile. Se non avesse commesso madornali errori in occasione della seconda guerra del golfo, forse oggi sarebbe ancora lì.

Quali riscontri registra nei suoi frequenti incontri proprio con i giovani: cosa si aspettano?
Certo, io incontro già un tipo particolare di studenti e giovani. Ma anche uomini della generazione di mezzo, trentenni e quarantenni, e riscontro che non mancano le persone coraggiose, intelligenti, carismatiche e capaci. Che potrebbero sfoderare un entusiasmo pronto ad incendiare la palude. Bisognerebbe che chi è già un anziano della politica, vada nella provincia italiana a cercare queste eccellenze. A prepararle adeguatamente, magari di nascosto come i carbonari, per poi contrapporre al leader anziano un campione vero. L’Italia è il Paese delle cento classi dirigenti - non ci mancano individualità di qualità - al cui interno vive però anche un popolo che appare addormentato da messaggi fuorvianti, che al momento non sembra in grado di reagire.

Azzardando una metafora storica, dunque, potremmo dire che alla politica italiana manca un Trasibùlo di Atene? Quel personaggio che nel 410 a.C. dopo l’esilio di Sarno successivo alla guerra del Peloponneso, rientrò in patria alla guida dei democratici.
Potrebbe essere la persona indicata per dare fuoco alle polveri. Un personaggio che esiste già nel Paese, ma che va formato. E allora invito a monitorare i giovani più in gamba, facciamo loro sapere che li stiamo osservando, che li aiutiamo, che siamo pronti a portarli avanti e a dargli il posto che gli spetta di diritto. Lì si annida il Trasibùlo, non tra i veterani che non hanno più lo smalto e l’entusiasmo necessario. Quando incontro i giovani nelle scuole e parlo loro utilizzando una terminologia desueta che magari non utilizzano più, vedo che si infiammano. Si alzano in piedi, manifestano un bisogno disperato che qualcuno creda in ciò che stanno dicendo. E che dimostri di possedere quel fuoco, quella fede, quella voglia di amare ciò che dice, di amare gli altri prima che se stesso, di darsi da fare per gli altri prima che per se stesso.

Tra l’altro potendo contare sulla conoscenza diretta che lei ha avuto dell’Italia della rinascita, quando un Paese intero venne ricostruito dal nulla…
Erano gli anni in cui il lavoro veniva da te e non il contrario. Se mi avessero detto che ci saremmo ridotti così, non ci avrei creduto.

Uno spettacolo degradante che, dagli schermi televisivi o dagli scranni del Parlamento, si riverbera poi nelle vite di ognuno: come uscirne?
Solo con l’arma della politica, all’interno della quale si continuano a proporre pur dignitose figure che hanno perso però la fiamma. Persone dimesse, come dire, svuotate di quello spirito iniziale.

Si riferisce a una sorta di Obama italiano?
No, non abbiamo bisogno di imitare nessuno, al massimo sono gli altri che per secoli hanno imitato noi e che, in tanti casi, continuano a farlo. Potremmo individuare un italiano a cui Obama avrebbe potuto benissimo ispirarsi. Gianfranco Fini si è accorto, tardi, della presenza di anime antipatriottiche. Ci sono dei valori che non si possono neanche discutere, oggetti sentimentali e intellettuali che non si possono vendere.

Possono essere sufficienti a spiegare il caso-Italia, le parole di Pietro Citati, che si chiedeva «perché è così complicato essere italiani?».
A questo non ho mai creduto, pur rispettando e stimando Citati, uno dei nostri intellettuali di punta. Vengo da una famiglia dove si sono sempre rispettate le leggi, i rappresentanti dello Stato. In cui si è chiesto prima a se stessi (e poi agli altri) la fatica, il lavoro, l’impegno. In cui è sempre stata la natura a dettare le regole, e contro la natura non si poteva scioperare. Oggi vedo ogni giorno centinaia di migliaia di persone che fanno ancora il proprio dovere: per questo non credo all’assioma che gli italiani siano ingovernabili. È vero, hanno una propria particolare peculiarità. Ma necessitano di un entusiasmo per credere in qualcuno. Sono gli inganni, in molte occasioni, che li hanno disillusi. Se qualcuno dimostrasse di credere, di essere degno, di non essere in vendita a nessuno e per nessun prezzo, penso che avrebbe un seguito. Non dimentichiamo che gli italiani sono quel popolo che ha preso una nazione che era al numero centodue nel mondo e la cui economia è stata spinta sino alle prime dieci posizioni del pianeta in vent’anni. Ci vogliono organizzazione, senso del dovere, disciplina, impegno, fatica: ma chi altri ha compiuto un’impresa di tal genere? Gli italiani sono quelli che si sono reinventati completamente un Paese, che hanno creato nel dopoguerra una cultura che ha sbalordito il monto intero, nel cinema, nella letteratura. In fondo oggi, nel mondo, se una persona vuol vestire bene veste italiano, se vuol abitare o mangiare bene abita e mangia italiano. Insomma, una civiltà straordinaria. Ma non dimentichiamoci che per far funzionare un Paese non c’è mica bisogno delle SS, o di essere tutti in un collegio. È sufficiente pensare al fatto che questo signore (Berlusconi, ndr) abbia un seguito così massiccio: non ci dimostra allora che gli italiani sono anche pronti a obbedire? Purtroppo, alla persona sbagliata.

Intende una scelta fatta per disperazione?
Credo che sarebbero ben contenti di seguire una persona che sapesse parlare anche al cuore della gente. Qui invece siamo solo “dalla cintura in giù”, ci siamo limitati a questo. E allora come si può sperare di uscirne se non con la consapevolezza di chi, trovandosi nel posto giusto per agire, molli una volta per tutte le beghe, le ripicche, le rivalità senza senso. E per andare alla ricerca del seme di una rinascita, di una politica nuova, con qualcuno che abbia finalmente il coraggio di dire la verità, sfidando anche l’impopolarità.