lunedì 31 ottobre 2011

Anni di piombo, per una memoria comune e pacificata


Il presente è ormai diventato egemonico, scrive Marc Augè in “Che fine ha fatto il futuro”, agli occhi dei comuni mortali esso non è più frutto della lenta maturazione del passato. Un passato che, in Italia, parafrasando Agnese Moro, dovrebbe essere definito come una grande tragedia nazionale. L’occasione è il seminario promosso dalla Rivista di Politica “La memoria del terrorismo e degli anni di piombo”, con i contributi di studiosi, scrittori e giornalisti. Un’occasione utile a comporre un forum a più voci, ragionando sul fatto se, per caso, la cattiva memoria che abbiamo di quegli anni non sia la ragione per cui, ancora oggi non riusciamo a spiegare agli altri quel che non abbiamo capito noi stessi. Perché in fondo, pur in presenza di una vasta sottoletteratura, mancano ancora le grandi sintesi storiografiche, quelle che contribuirebbero a creare un racconto d’insieme su quegli anni. Lecito chiedersi: cosa impedisce la strutturazione di una visione unitaria e non strabica? Che non sia intrisa di legami politico-ideologici e di passioni che impediscono la comprensione dei fatti? Ma che, invece, chiami con il proprio nome la violenza, la tragedia, l’orrore, la morte e la sopravvivenza di chi è sopravvissuto. Ancora oggi alcuni ritengono che esistano morti di serie A e di serie B e che ognuno delle fazioni abbia i propri morti da piangere isolatamente. Perché, ritengono, ognuno con il singolo peso specifico in quella battaglia sotterranea degli anni di piombo. E se invece si provasse finalmente a oltrepassare questo individualismo? Proprio questo è l’ultimo steccato da superare, come dimostra la recente vicenda relativa alla commemorazione a Roma di Walter Rossi, con suo padre intenzionato a ospitare rappresentanti di Comune e Regione, mentre i compagni di Walter fermamente contrari. Il condividere intimità, ha scritto Richard Sennett, tende a restare il metodo preferito, forse l’unico rimasto, di costruzione della comunità. Ecco la risposta alle domande di trent’anni: perché una memoria comune e condivisa non solo è possibile, ma è l’unico modo per chiudere un capitolo di storia italiana. E ricominciare a scriverne un altro.

Fonte: Il futurista del 04/11/2011

venerdì 28 ottobre 2011

Grecia, i conti che non tornano


Da Il Mulino- Lettere internazionali Atene, 28/10/2011

I conti non tornano. I casi sono due: o siamo in presenza di un bluff di portata mondiale, oppure qualcuno sta sbagliando i conti. In Grecia tutti si schierano contro le misure di austerità annunciate dall’esecutivo. Giornalisti, medici, impiegati. In piazza e tragicamente consapevoli che i sacrifici che il governo chiede loro non risolveranno il buco. Nell’Egeo si sta vivendo un paradosso a tratti kafkiano. Scioperi, chiusure, fibrillazioni: il Paese è bloccato dalle mobilitazioni sindacali e dalle occupazioni dei ministeri fino al simbolo maggiormente rappresentativo, l’Acropoli. Perché consapevoli che il licenziamento di 30mila dipendenti pubblici e l’aumento verticale di tasse e tributi non farà scendere il debito pubblico, destinato invece ad aumentare: ecco il cortocircuito più pericoloso. Che le cose non andassero bene lo si era già intuito prima dell’estate, quando era stato evidente che la recessione al -4% del pil e il debito che si ingrossava fino al 150%, di fatto, rendevano inutili i provvedimenti lacrime e sangue del governo. Si pensi che circa cinquantamila dipendenti pubblici nel 2010 non hanno ricevuto la tredicesima, mentre nel privato si valuta che un datore di lavoro su quattro non corrisponda i contributi. Al momento il debito pubblico è sopra il 160% del pil e per il 2012 si prevedono aumenti fino 170%. Come i tagli: a Frantzeska, impiegata in una banca di credito cooperativo, è stato decurtato lo stipendio di duecento euro. A Vassilis, medico della mutua, è stato detto che realisticamente potrebbe andare incontro ad uno stipendio di settecento euro per gli anni che gli mancano alla pensione. Sforzi sovrumani che non avranno un riscontro: questa la vera paura dei cittadini.
Ma è l’osservazione del quotidiano che può descrivere, meglio di analisi e commenti, cosa significa oggi vivere in Grecia. Secondo un sondaggio condotto da un’associazione di consumatori, nove greci su dieci hanno cambiato il proprio piano alimentare nell’ultimo anno. Un greco su quattro rivela di poter acquistare solo gli alimenti strettamente necessari. E il 20% degli intervistati ammette che la crisi è la principale causa delle nuove abitudini a tavola. Molti quelli che dicono di aver ridotto il consumo di carne di maiale a una volta ogni settimana. La salute è la vittima sacrificale della crisi, come rivela una ricerca della rivista “Lancet” e condotta da Alexander Kentikelenis, David Stuckler della University of Cambridge e Martin McKee della London School of Hygiene and Tropical Medicine: aumentano i ricoveri ospedalieri, i suicidi, il ricorso a psicologi per l’impennata di casi di depressione, oltre che di contagio da Aids. Senza contare il crollo delle indennità per patologia concesse dallo stato. Inoltre molti cittadini non vanno più dal medico per sottoporsi a visite (-15%). E l’offerta sanitaria subisce un taglio del 40%, tra personale, materiali, liste di attesa. A ciò si aggiunga un altro calo della produzione industriale: in agosto si è registrato -11,7% su base tendenziale, dopo le contrazioni di luglio (-2,8%) e giugno (-13,1%). Cala anche la produzione manifatturiera, -11% rispetto ai livello dello stesso mese dell'anno precedente (-2,3% a luglio). Il polso della criticità si avverte anche in un ambito tradizionalmente florido come l’editoria. Un calo almeno del 10% per i libri, con una riduzione di titoli passati da 10.200 a 8.900. La crisi tra l’altro è anche un vero e proprio tema editoriale. Si pensi all’ultimo romanzo di Petros Markaris “Prestiti scaduti” (Bompiani) dove un serial killer uccide banchieri e rappresentanti delle agenzie di rating. O a “Come la Grecia” di Dimitri Deliolanes (Fandango), o “Nel Sogno di Ulisse” di Makis Karagiannis. Su Atene, intanto, si profila il soffio di un meltèmi diverso dal possente ma affascinante vento che spira nelle Cicladi: un default controllato pari al 50% del valore dei bond ellenici, soluzione caldeggiata anche dal primo Nobel dell'economia cipriota Christopher Pissarides. Ma allora, se la prospettiva è quella, perché non dirlo subito? E soprattutto: perché chiedere lacrime e sangue ai cittadini?

giovedì 27 ottobre 2011

La lezione di Sic, puro senza gobbo


Cosa lascia il giovane Marco Simoncelli, prematuramente scomparso nella “sua” pista di bolidi urlanti? Tante cose: emozioni, ricordi e affetti. Ma anche un altro rilievo, che, chissà, potrebbe essere di aiuto a un paese per vecchi e di vecchi. Sic era un puro, un puro senza gobbo. Incarnava cioè la metafora della semplicità, della realtà tangibile e non artefatta: perché non era un divo ma un ragazzo semplice, senza fronzoli, senza macchine blu o veli di protezione. Senza scudi, senza scorta, senza fard o sforzi di immagine. Ma puro così com’era e con i suoi difetti e pregi in evidenza. Con due genitori normali che si sforzano id sorridere nel dolore, con una ragazza non velina. Non è retorica volersi fermare un momento e ragionare sui modelli pedagogici. Ci si lamenta tanto della povertà di immagini, sostanze, espressioni. E poi, quando meno te lo aspetti, accade l’imprevedibile. Triste, doloroso. Ma con un germoglio di speranza che quel sacrificio ha lanciato. Simoncelli lascia una pesante scia di eredità sociale in un’Italia assetata di eroi e capibanda. E lo fa puntando su un aspetto troppo spesso sottovalutato negli ultimi tre lustri: la spontaneità, il genuino, il non artefatto, il non ri-costruito. Insomma, il reale che non inganna. Che è drammaticamente mancato a tutti i livelli. La semplicità dei rapporti umani, la sincerità di una faccia pulita che intervistato diceva ciò che pensava, col suo accento romagnolo, senza gobbo. La metafora di come si potrebbe migliorare un paese troppo spesso sordo al vero, e alla continua ricerca del perfetto e dell’istericamente costruito. Non solo la passione di chi lo ha conosciuto, dei familiari, degli amici, dei compagni di lavoro, tecnici, dei colleghi della stampa che lo stanno ricordando con vera emozione. Ma anche un lascito che un paese desideroso di migliorarsi, di abbandonare passati e derive necrofite, ha il dovere morale di capitalizzare. La spontaneità di Simoncelli, la sua voglia di straordinaria normalità sia di insegnamento per tutti. Per i più giovani, così da restare ben piantati con i piedi per terra. Avvinghiati alle proprie gambe e braccia, certamente impegnati a costruire sogni ma senza l’illusione che poi fa cadere con il muso per terra. Per i più grandi, nevroticamente impegnati nell’edificazione di un’apparenza falsa e misera, dove in primo piano ci sono solo l’immagine e null’altro. Per gli altri sportivi, troppe volte ricchi e viziati, insoddisfatti a vita. Ecco cosa ci può insegnare Sic, puro senza gobbo.

Fonte: Go-Bari del 26/10/11

Burocrazia vade retro: così rinasce la politica

C’è un corto circuito che la politica italiana deve evitare come la peste: la burocrazia psicologica che blocca le idee, che fa perdere prezioso tempo in attività che non servono all'obiettivo finale. Che prende le sembianze della cosiddetta retorica della base. In quanto la base di un partito moderno è rappresentata dai possibili elettori e non qualche migliaio di uomini di apparato, che si dilettano in bizantinismi e in commi. Dimenticando tutto il resto. Ovvero le nuove frontiere, gli orizzonti da varcare e colorare, senza paura e senza guardarsi indietro a ogni passo, come se si cercasse l’approvazione di un passato o una falsa legittimazione di sigle o slogan. Il futuro della nuova politica sta in geometrie sconosciute, da tracciare e seguire con coraggio e determinazione. E soprattutto lontano da prassi pachidermiche. Ma mettendo in comune prospettive, percorsi e forze. Perché, parafrasando Richard Sennett, il condividere intimità tende a restare il metodo preferito, forse l’unico rimasto, di costruzione della comunità. Perché l’incastrarsi dentro logiche polverose e improduttive impedisce ai neuroni e alle proposte di avere spazio. Uno spiraglio che può farsi breccia e sfondare definitivamente le resistenze del vecchiume, dando voce al movimentismo, alla rete di cui ancora qualcuno teme anacronisticamente la forza propulsiva. Lo ha saggiamente rilevato Sergio Lombardo: ciò che è più importante, e quindi più politico, è creare nuovi valori, nuovi scopi ideali, creare uomini meno confusi. E per farlo basta cassare ciò che è passato in questa Italia che si lecca le ferite del berlusconismo: meno apparati dunque, e più cittadini delusi da recuperare futuristicamente. Con l’azione e il dinamismo. Con la piazza e i movimenti. Con le idee, libere, da far circolare a più non posso, fino alla nausea. Ecco come fare.

Fonte: il futurista 24/10/11

La crisi del racconto? È finita, ora parla la piazza

La crisi del racconto è finita, finalmente ricomincia il film italiano: le piazze di ieri a Milano con Libertà e Giustizia e di Roma (la stessa piazza Navona con diecimila persone per Nichi Vendola) lo dimostrano ampiamente. La gente vuole tornare partecipare, anzi lo sta già facendo, senza tessere e con più movimenti: la civitas si è stancata di essere passiva nel subire strategie miopi e decisioni di corto respiro. È finito il tempo del silenzio, dell’accordo, della sottomissione al leader stanco e spoglio, o ai ras locali che hanno vissuto di rendita fino a oggi. È finita insomma la manfrina dei bizantinismi stucchevoli e arrendevoli, quelli che fanno dire a Angelino “custode” Alfano che no, lui non rinuncerà mai alla figura di Silvio Berlusconi. Ecco il caos, totale, imbarazzante, ingannevole e deleterio. Il caos da cui non nasce nulla di buono, né idee né prospettive. Solo rendite di posizione, da costruire e rafforzare; da raddoppiare e triplicare all’infinito e senza ritegno. Ma non un millimetro quadrato di novità per il paese. Osservare migliaia di italiani inneggianti alla ricucitura del tessuto socio culturale nazionale è più di un segno, è una bordata assordante lanciata nell’eco di quel berlusconismo al tramonto. Non è solo sintomo di attività, di speranza, o di rivolta: ma traccia la strada maestra da seguire. È l’agorà biancarossaeverde il futuro del paese post crisi economica e post berlusconismo, è la condivisione, il mettere in comune, il trasportare la prospettiva del singolo in un’alcova che parli plurale. Fuori dagli egoismi e dai leaderismi. Una rinascita comune che sta già spingendo l’Italia e i suoi umori quotidiani fuori dal medioevo in cui il pifferaio di Arcore l’ha affossata. La risposta al torpore, alla crisi del racconto degli ultimi anni, alla dolosa trasformazione del buio in luce e del vero in falso è in quelle piazze di ieri e nelle altre che si animeranno domani. Perché un nuovo rinascimento italiano è possibile, anzi obbligatorio.

Fonte: il futurista 10/10/11

La Lega è morta: sceglie la carriera e tradisce la base

Riuscire a fare peggio dei boiardi di stato, della classe dirigente che ha ridotto così il paese, di chi ha continuato con prassi deleterie e fallimentari, sarebbe stato francamente difficile. Eppure la Lega ci sta riuscendo. Perché con il salvataggio del ministro Saverio Romano, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, il carroccio ha scelto chiaramente dove e con chi stare: dalla parte della carriera, tradendo la base. È ufficiale: oggi la Lega è morta. Non vi è più un centimetro quadrato del programma iniziale. Solo chiacchiere le promesse sul federalismo, sulla riduzione delle tasse, sull’affiancamento alle esigenze del popolo delle partite iva. Umberto Bossi e i suoi scagnozzi hanno giocato con un pezzo del paese: illudendolo, carpendone rabbia e risentimenti, trasformando quelle pulsioni in odio e voglia di secessione. E solo per fini carrieristici. Chi non ricorda le esternazioni del senatùr contro Silvio Berlusconi, la vecchia politica e la mafia? «Berlusconi mostra le stesse caratteristiche dei dittatori – disse nel 1994 - . È un kaiser in doppiopetto. Un piccolo tiranno, anzi è il capocomico del teatrino della politica. Un Peròn della mutua. È molto peggio di Pinochet. Ha qualcosa di nazistoide, di mafioso. Il piduista è una volpe infida pronta a fare razzia nel mio pollaio». E aggiunse: «Berlusconi è l'uomo della mafia. È un palermitano che parla meneghino, un palermitano nato nella terra sbagliata e mandato su apposta per fregare il Nord. La Fininvest è nata da Cosa Nostra. C'è qualche differenza fra noi e Berlusconi: lui purtroppo è un mafioso. Il problema è che al Nord la gente è ancora divisa tra chi sa che Berlusconi è un mafioso e chi non lo sa ancora. Ma il Nord lo caccerà via, di Berlusconi non ce ne fotte niente. Ci risponda: da dove vengono i suoi soldi? Dalle finanziarie della mafia?
Ci sono centomila giovani del Nord che sono morti a causa della droga. A me personalmente Berlusconi ha detto che i soldi gli erano venuti dalla Banca Rasini, fondata da un certo Giuseppe Azzaretto, di Palermo, che poi è riuscito a tenersi tutta la baracca». E oggi, dopo diciassette anni la dirigenza della Lega, salvando Romano, ha scelto la carriera e tradito la base. Oggi la lega è morta: è ufficiale.

Fonte: il futurista 29/09/11

Una scelta giusta, prima che utile

Dal Futurista del 10/09/11

I motivi di uno strappo, le ragioni di un no detto un anno fa, come ha ribadito da Mirabello Fabio Granata, sono da ritrovare in una scelta che ha a che fare con il giusto e non con l’utile. È in quell’interstizio, tra ciò che andava fatto e ciò che conveniva fare, che si è infilata quella nuova politica a cui il paese anela. Un passaggio che deve essere chiaro, senza altri tentennamenti o punti interrogativi. Basta con i volgarismi delle retromarce, allora, con gli sguardi persi dietro i ras di ieri che non hanno più nulla da dire, con gli ammiccamenti ebeti, con improbabili orecchie poste ad ascoltare altrettante improbabili voci. Qui è stata compiuta una scelta di coraggio, senza paure, senza calcoli, ma solo guardando al mare aperto. Fli è nata realmente su un gruppo di contenuti alti, declinati nel cosiddetto finismo. Laicità, patriottismo costituzionale, diritto alla cittadinanza, società della conoscenza, legalità reale e non di facciata. E per modellare un paese nuovo, lontano dai vicoli ciechi della seconda repubblica e da quella melma gelatinosa di una politica vischiosa e impresentabile. Una virata di coraggio? Certamente, di estremo coraggio, perché altrimenti a nulla varrebbe condurre a testa alta certe battaglie, non per un puntiglio personale ma per corroborare una precisa rotta da seguire. Che non a tutti conviene, questo è ovvio e lo si vede, perché più faticosa, difficile, impervia, perché comporta rinunce e sacrifici: non a caso è stata chiamata traversata nel deserto. Dove l’oasi più vicina è a migliaia di chilometri, senza provviste o agi di vario genere. Ma è la scommessa, forte e limpida che si staglia all’orizzonte. E va affrontata. Chi non se la sente si fermi lì, alla prima oasi. E non riparta.

Casta e crisi: l’occasione per rivoluzionare

Dal Futurista del 29/08/11

Perché non usare la crisi per decappottare la casta attuando finalmente la rinascita dell’Italia post berlusconismo? Non solo proponendo tecnicamente una contromanovra, con altri numeri e altri prelievi, ma approfittando dell’occasione contingente per un vero e proprio testacoda sociopolitico. Partendo da una forma moderna del concetto di big society, dove ciascuno debba fare la propria parte per la sopravvivenza del paese. Con le intellighenzie finalmente attive nell’agone, con non solo associazionismo e volontariato che contino di più, prendendo il posto di chi ha fallito, ma dove si gettino le fondamenta della terza repubblica. Sostituendo chi fino a oggi ha illuso sullo stato di salute di un'infrastruttura che, adesso, non riesce più a sostenere l'Italia. Cambiando la legge elettorale, stracciando il porcellum, dimezzando il numero e lo stipendio di parlamentari e consiglieri regionali. Puntando il dito su chi non ha saputo fare ciò per cui era stato eletto, inchiodandolo alle proprie responsabilità, un po’come abitualmente si fa in un'azienda che non produce utili, avvicendando l'amministratore delegato. Come non chiedere conto a chi ha sbagliato i conti, a chi ha detto che tutto andava bene? Per ovviare a un corto circuito colossale come la palude finanziaria in cui ci troviamo l’unica via di uscita è scompaginare lo status quo, ribaltare tavoli e gruppi di potere, allontanare le ombre dietro le quali in troppi si sono fino a oggi riparati, mandando altri in avanscoperta. Suonare il gong a chi ha giocato con il fuoco, finendo per non accorgersi che il palazzo sta bruciando. Dare l’avviso di sfratto a chi da anni non ha pagato la pigione del proprio impegno per la cosa pubblica, depredandola e sotterrandola.
Aveva ragione Primo Levi, quando scrisse che «ogni essere umano possiede una misura di forza, la cui misura gli è sconosciuta: può essere grande, piccola o nulla, solo l’avversità estrema darà modo di valutarla». Adesso dunque si vedrà chi è in grado di far politica: gli altri si accomodino fuori dal parlamento. Prima che ne siano esclusi coattamente.

L’Italia post-manovra? A brandelli

Dal Futurista del 27/08/11

Perché non lo si dice chiaramente e senza il timore di fare una magra figura internazionale? Il debito dell’Italia non è come quello degli altri paesi, dal momento che è composto essenzialmente da costi esorbitanti della cosa pubblica che si autoalimentano in modo abnorme. Come nemmeno in certe repubbliche dittatoriali africane: non è fantascienza, bensì il reale stato delle cose, anche se la casta biancarossaeverde non lo dice, o forse nemmeno lo sa. Lo si può facilmente appurare sbirciando non demagogicamente numeri e analisi sulla (de)crescita. Che, chiunque succederà a Silvio Berlusconi, si dovrà architettare nel tradurre in provvedimenti concreti, lasciando da parte le promesse da buontemponi e i penosi comizi da venditori di pentole. Debiti diversi dunque. Un esempio? La Spagna. Si è indebitata perché ha speso miliardi in grandi opere come autostrade, ferrovie, aeroporti. Una massiccia infrastrutturazione in chiave turistica che ha sì prodotto esborsi ingenti ma che, una volta passata la crisi, ritorneranno (sta già accadendo) sotto forma di presenze turistiche e (altre) commesse alle imprese. E ancora, il calcio spagnolo sta surclassando i concorrenti italiani e inglesi, le sponsorizzazioni, i grandi eventi: in parole semplici, la Spagna di domani sarà un paese con gli strumenti per far ripartire l’economia (per non parlare della Germania, un vero alieno, che punta entro il 2050 a disporre di una rete ferroviaria completamente spinta da energia pulita, altro che dibattiti sulla tav). La miopia italiana, invece, sta tutta in una manovra che sarà inizialmente un placebo con la felicità della troika Fmi, Ue e Bce. Ma poi tra 10 anni ci consegnerà un paese a brandelli, con il ceto medio divenuto povero, dunque incapace di spendere, con un ritardo ancora più marcato rispetto al continente, con treni e ferrovie ante bellum, con imprese in affanno che produrranno altri disoccupati, con emigrazione massiccia verso chissà la Cina o il Turkmenistan, con un turismo ancora provinciale (non è possibile che l’aeroporto di una capitale disti 50 minuti dal centro città, bene che vada).
Non sbaglia Jacques Delors, uno degli ultimi padri socialdemocratici dell’Europa ancora in vita, quando dice che chi dovrebbe vigilare sta facendo finta di niente. E lancia l’allarme sull’euro a un passo dal baratro, ma sul cui destino pochi si preoccupano realmente. Con la delusione rappresentata proprio da tutti i vertici politici continentali che avrebbero dovuto osservare di più, a partire dalla Grecia (anziché concederle prestiti e valanghe di euro) ma passando anche da quelle altre economie che oggi si trovano con l’acqua alla gola. Chissà cosa direbbe l’ex presidente della commissione europea dei bilanci scandalosi del belpaese e del pasticcio governativo di Tremonti e Berlusconi autori di una manovra farsa. O degli aerei di stato usati come caramelle, dei vergognosi privilegi dei deputati e consiglieri regionali italiani, delle mille e più consulenze esterne che le amministrazioni italiane usano fare, dei cantieri sulla Salerno-Reggio in un giro oscuro di appalti e subappalti (tanto paga pantalone), delle multe per le quote latte, dei mancati incassi per l’erario dalla banda larga e da sgravi fiscali a enti religiosi, di leggi salva qualcuno che è uno solo mentre il resto del paese affonda miseramente.
Va bene la crisi mondiale, si è già detto tutto del sorpasso cinese nei confronti degli Usa o dei partner di Putin con le tasche piene di petro-rubli. Ma adesso è arrivato il momento di parlare chiaro a chi ha pagato il contributo per entrare nella moneta unica, a chi ha investito sul concetto di unione, a chi ha valutato e valuta ancora come un’occasione l’Ue, a chi ogni mattina tira su la saracinesca della propria attività, a chi dopo una vita di lavoro ha diritto alla pensione e al proprio tfr. La franchezza manca drammaticamente: ma all’Italia più di tutti.

Basta fronzoli e promesse

Dal Futurista del 13/08/11

Nessuno stato, scrisse Einaudi, può esistere e durare se non sono saldi i pilastri fondamentali. Fermezza che non può certamente essere alimentata dalla politica dell’apparenza. Così come fatto dal governo in questi anni. I tempi del tutto va bene sono finiti, così come del ghe pensi mi, o del “non mi hanno fatto governare”. Negli ultimi due lustri solo per ventiquattro mesi Silvio Berlusconi non è stato presidente del consiglio. Quindi se c’è da indicare un responsabile che non ha fatto le riforme, che ha perso mille occasioni per modernizzare il paese, per completare la Salerno – Reggio Calabria, per migliorare la giustizia nazionale (e non solo la sua), per costruire il ponte sullo Stretto, per attrarre più investitori stranieri, per rinvigorire le imprese (e non solo la sua) beh quello è proprio il cavaliere. Ma si badi, non per un vento di coatto antiberlusconismo come sordi commentatori si ostinano ancora a dire, bensì semplicemente per il reale stato delle cose. È stato a palazzo Chigi per più di otto anni e non ha fatto quello che ha promesso, unico caso in Europa e forse anche nel resto del mondo democratico (altrove certi primi ministri vengono fatti accomodare alla pensione). Una situazione che è andata peggiorando, ovviamente, all’indomani della crisi economica mondiale.
Ma alzi la mano chi non ricorda le rassicurazioni dello stesso Berlusconi, quando gigioneggiava asserendo che l’Italia non avrebbe fatto la fine della Grecia, perché con i conti al sicuro. Come sono, oggi, quei conti che lui spacciava per lontani anni luce dal rosso? Se Tremonti ieri era il salvatore della patria, oggi che ruolo ha? Ancora una volta la politica berlusconiana si vanta di risultati che o non ha raggiunto o che raggiungerà in un prossimo futuro (un po’come i pagherò), ma i fatti restano tristemente a zero. Fatta eccezione per la manovra lacrime e sangue che graverà sulle spalle dei soliti noti. A questo punto logica vorrebbe che la politica della casta alzasse bandiera bianca e ammettesse candidamente il proprio fallimento: almeno ne guadagnerebbe di dignità quando gli storici si diletteranno nel riferire la grama fase che stiamo vivendo. Consapevoli che al paese, ricorrendo a una metafora alimentare, non servono né l’indigesta polenta padana né le pur deliziose crostate di casa Letta. Ma i più genuini e semplici cappellacci, che saziano ma non tradiscono. Perché la politica italiana in questo momento ha bisogno di ricette semplici e terribilmente efficaci, non di annunci o paillettes.

Un paese alla rovescia

Dal Futurista del 08/08/11

Quando alla fine della prima repubblica i politologi ragionavano su quali basi si sarebbe poggiato il passaggio a una fase globalmente nuova della politica e della società italiana, non si sarebbero certamente aspettati la schizofrenia derivata vent’anni dopo. Un’instabilità valoriale e mentale cronica, dove tutto appare drammaticamente rovesciato. E non con quella dose corretta e in fin dei conti utile di lucida follia, un toccasana per uscire dalle sabbie mobili dello status quo. Ma una deleteria deriva che imbroglia e disorienta, che annacqua ragionamenti e valutazioni. Insomma, un paese alla rovescia, dove si offre un microfono anche a chi poi si rende protagonista di assurde vulgate. L’Italia appare spaccata a metà, come una mela. Da un lato il buon senso del vero padre del paese, quel capo dello stato che quotidianamente non risparmia indicazioni e consigli su come affrontare lo tsunami socio-finanziario che ci sta investendo. E che ieri ha ancora una volta predicato la coesione come vero collante, come il valore aggiunto che potrebbe rappresentare l’arma ideale per risollevare il paese. E dall’altro la sciatteria dei calciatori italiani, i quali dall’alto di guadagni spropositati che incassano si permettono il lusso di minacciare uno sciopero. Ecco le due facce dell’Italia di oggi: una discreta, inappuntabile, orgogliosa e rassicurante senza lesinare critiche e prese d’atto anche crude. E l’altra volgare, inopportuna, sciatta e assurda. Uno spaccato sociale netto, con sbalzi drastici. Quasi incredibili, a volerli osservare in un quadro d’insieme. Ma davvero c’è ancora qualcuno che non si è reso conto della tempesta nella quale tutti sono coinvolti? E che persevera in questa overdose di mancato buonsenso? Lo scriveva Bobbio che «l’unica via di salvezza è lo sviluppo della democrazia, verso quel controllo dei beni della terra da parte di tutti e la loro distribuzione egualitaria, in modo che non vi siano più da un lato gli strapotenti e dall’altro gli stremati». Utopia? Forse, ma allo stato delle cose l’unica via d’uscita per un paese alla rovescia, desideroso di un sano equilibrio.

Ieri i boiardi di Stato, oggi i ministri per caso

Dal Futurista del 07/08/11

Nonostante una storia e una cultura da fare invidia a tutto il mondo, l’Italia sta vivendo il suo peggior momento dal dopoguerra a oggi. Ma non per la crisi economica, per la disoccupazione, per il welfare insufficiente. Bensì per la pochezza di alcuni suoi ministri, che semplicemente la infangano appena aprono la bocca. Questa non è la solita stupidata pronunciata da Umberto Bossi in uno di quei ridicoli ritrovi estivi, tra lambrusco e polenta, ma è un insulto bello e buono. Di quelli che dovrebbero far vergognare chi lo pronuncia, di quelli che i nostri genitori avrebbero bollato come porcherie degne di un paio di ceffoni. Sull’euro ha detto che è un errore storico, troppo forte per un paese debole. Sul sud: «Non faceva un c..., come la Grecia. La Padania ce la farebbe, da sola». Questo signore, il cui figlio a stento ha preso un pezzo di carta, e che si è ritrovato consigliere regionale alla faccia della vulgata sui raccomandati del sud, ha bisogno di una lezione: di stile, di gergo, di vita. Perché non conosce la storia, la nazione in cui vive, la cultura di quell’area geopolitica che ha dato i natali alla civiltà mediterranea, sulla quale oggi lui siede. Ma che ne sa il povero Bossi della Grecia, dell'agorà della filosofia, di Alessandro Magno, delle Termopili, di Salamina? O di Papanicolaou che ha inventato il pap test, o di Vulgaris che fondò la nota catena Bulgari, o di quel greco che disegnò la Mini Minor? O della potenza strabordante dell'imprenditore (vero) Aristotele Onassis, (chissà come avrebbe risposto al ministro in canottiera, forse rovesciandogli addosso un quintale di banconote in segno di disprezzo). O della green economy che si sperimenta oggi a Creta o degli sforzi che il paese di Omero sta facendo?

Qui c'è un ministro che ignora: soprattutto l'Italia da cui riscuote un lauto stipendio. Perché non lo restituisce quell’assegno, allora? Assieme agli euri che definisce deboli con cui paga il suo staff, i suoi collaboratori, ovvero quelli che magari dovrebbero scrivergli un paio di battute prima di consegnargli un microfono?
Triste il destino della nostra amata Italia. Ieri le meraviglie di Mattia Preti, Carlo Sellitto, Corrado Giaquinto. E ancora Croce, Guttuso, Salvemini, De Filippo, Rosi, Campanella, Sciascia, Bene, Dulbecco, (caro Bossi, nel caso non conosca questi nomi di meridionali famosi, si munisca di enciclopedia). Poi arrivarono i boiardi di Stato, che propiziarono il buco che, oggi, scopriamo voragine. E infine i ministri per caso: i peggiori della storia.

Silvio? Più giovane che intelligente

Dal Futurista del 25/07/11

Silvio Berlusconi è più giovane che intelligente: senza offesa, naturalmente. Perché si ostina ancora a diffondere giustificazioni puerili, come quelle addotte per la storia del ministeri, anziché aprire la finestra di palazzo Grazioli e dare uno sguardo al mondo reale. Sostiene che è tutto un equivoco montato e pompato, anzi, la situazione nel paese è florida e con la Lega di Bossi nessun problema. E ancora, il governo va avanti con fiducia anche se, tra le altre cose, dovrebbe fare i conti con una serie di problemini non da poco: non ha un nome spendibile per via Arenula, l'alleanza di maggioranza al governo è ufficialmente incrinata, la crisi finanziaria e industriale italiana è irrisolta, la manovra tremontiana è durissima e anche lo stesso ministro dell’economia ha subìto il metodo Boffo. Non c’è che dire, tutto va bene. Ma il premier trova anche il tempo di dolersi del fatto che in Sardegna è stato costretto a osservare la legge: ovvero ha dovuto attendere mesi per installare una fontana. E ha osservato: «Ho un cantiere bloccato perché non si riesce a ottenere dal comune una variante». Anche se poi il sindaco di Olbia ha precisato che non c’è alcuna pratica bloccata. Peccato non abbia sentito il bisogno di spendere due parole per i costi del federalismo, che appaiono finalmente più chiari: aliquote rc auto aumentate in dodici province italiane, addizionale irpef aumentata (o introdotta) in quasi centottanta comuni, oltre che in cinque regioni non proprio ricche come la sua Lombardia: Molise, Campania, Puglia, Lazio e Campania. Insomma il cavaliere sembra ibernato in una sorta di ebete limbo. Dove si diletta con esercizi di ottimismo e rassicurazioni a cui neanche più i suoi cortigiani credono più. That’s hall mister Silvio: cali il sipario. Per favore.

Il fondo? Già raschiato

Dal Futurista del 20/07/11

Che succede quando cultura e politica vanno in pericolosa contiguità? Nel senso che l’una non stimola, come dovrebbe, l’altra. Non la pungola, non ne rileva le criticità. Anzi, la prima si asservisce alla seconda, ne diviene megafono deleterio, appiccicoso e molliccio. Perché storpia le proposte, cassa le punte e le idee fuori dagli schermi, così come le intellighenzie che si definiscono tali dovrebbero saggiamente fare. E come, niente altro, accade anche nel resto dei paesi democraticamente moderni e presi a modello. Invece in Italia, luogo liquido sui generis, c’è chi si duole contro la malagiustizia e la malapolitica e semplicemente vorrebbe voltare le spalle a tutto in segno di salomonico disgusto. Così come vergato da Marcello Veneziani nella sua rubrica Cucù sul Giornale di famiglia. Troppo comodo far finta di nulla, troppo facile dire oggi che il punto di non ritorno è già qui. Quel limite è stato varcato molto tempo prima, quando le penne sono state riempite di inchiostro monocolore, quando il pensiero del libro unico e della berlusconizzazione degli eventi mondiali ha preso il posto di un filone intellettuale che sarebbe dovuto restare libero. Di pensare, di controbattere, di alzare un dito per eccepire, di avere il coraggio semplicemente di dire no, come fatto da Indro Montanelli in un pomeriggio milanese.

Quando, senza pensarci due volte, si rifiutò di fare da portavoce a un’altra idea, lontana anni luce da un certo modo, alto, di intendere la comunicazione e l’indipendenza dei media. Non è difficile, basta dirlo chiaramente, senza nascondersi dietro bizantinismi o scuse puerili. Il disgusto non è di oggi come rileva Veneziani. Bensì lo hanno provocato, da anni, coloro che hanno aderito non alla causa di un padrone, scelta legittima anche se non condivisibile. Ma a una loro dipendenza camuffata da verve intellettuale. Bastava dirlo dall’inizio. Senza scomodare il salomonico disgusto.

Ma la crisi non è di oggi

Dal Futurista del 15/07/11

Silvio Berlusconi, che non parla da sei giorni, assicura di non essere in crisi. Ma volendo approfondire minimamente contingenze e percorsi politici, crisi non è quando cadi. Crisi è prima. È quando non comunichi fatti e valutazioni al paese che rappresenti. È quando sbagli previsioni e programmazioni che appaiono fragili e arruffate. È quando ti occupi di altro, anziché della gestione amministrativa dello stato che dovresti preservare. È quando non hai altri mezzi a tua disposizione se non le frecciate del Giornale di famiglia, da scoccare contro avversari e contro chi alza un dito per eccepire. È quando non riconosci uno strumento fondamentale come il dibattito e il contrasto, da cui poi nasce la soluzione finale. È quando ti ostini a macchiare l’immagine di una nazione, semplicemente perdendo ogni secondo che passa la credibilità che si deve avere sulla scena internazionale. È quando perdi il controllo della situazione, personale e politica. È quando anteponi i tuoi interessi a quelli della comunità. È quando ti nascondi dietro la carica che occupi per non rispondere di condotte e derive dinanzi alla legge. È quando approfitti di quella veste per riscrivere le regole a tuo piacimento. E allora dal punto di vista politico questo è un governo in crisi, ma non per via della manovra economica, di rimpasti (annunciati e attuati) di cui ormai si è perso il conto, quasi che fosse un porto di mare, tanto è il flusso di chi va e di chi viene dal consiglio dei ministri. Questo è un governo in crisi innanzitutto con se stesso e con la sua anima. Per le contraddizioni ataviche che si porta dietro, per gli scompensi emotivi e culturali del suo premier. Ma soprattutto è in crisi con la politica e con il paese. Da troppo tempo.

Manovra o grande bluff?

Dal Futurista del 14/07/11

C’è un qualcosa di incongruente nel rapporto di questo governo con termini come tagli, riduzioni, manovre, risparmi. Come se fossero realizzabili unidirezionalmente, come se questo esecutivo, che è stato eletto con una maggioranza solida. E che ha passato fiducie e forche caudine con l’aiuto dei responsabili, avesse smarrito la bussola su una tematica di eccezionale rilevanza come la finanza. Si taglia nei settori che avrebbero più bisogno di fondi: l’istruzione, la cultura, le forze dell’ordine, il welfare solo per citare qualche caso noto. Non si taglia in quelli che, invece, potrebbero proseguire il proprio status anche con la metà esatta delle attuali risorse: benefit, stipendi e sprechi della politica. Salvo, poi, ascoltare l’ennesima voce del megafono Berlusconi, intento a rassicurare elettori e cittadini sul fatto che nessuno avrebbe messo le mani nelle tasche degli italiani (per poi scoprire ad esempio piccole ma significative detrazioni sulle liquidazioni degli statali). Ma proprio questo governo, non solo sta andando contro i principi per i quali era stato eletto, la riduzione delle imposte, il rilancio delle imprese che sono stati ampiamente disattesi. Ma sta per approvare il più grande aumento delle tasse degli ultimi decenni. E nonostante i quindici miliardi che l'erario incasserà in più dal 2013 grazie alla riduzione di deduzioni e detrazioni Irpef. Considerando anche l’aggravio fiscale sul risparmio e sul reddito d'impresa. E senza dimenticare i mancati incassi che questo governo ha, nei fatti, deciso di inseguire come dimostrato dai ritardi della banda larga, dove il ministro competente ha manifestato tutta la sua dipendenza dalle volontà del capo. Non è insubordinazione o spirito antiunitario, a questo punto, interrogarsi analiticamente se la manovra in questione sia corretta o inopportuna. Non è un’esclamazione folle e fatta senza il lume della ragione chiedere delucidazioni su una decisione che potrebbe essere l’ultimo grande bluff di un ventennio ormai pronto ai titoli di coda.

Chi ha paura della terza via?

Dal Futurista del 09/06/11

Provane un'altra. Quando una soluzione non aggrada, quando non è quella che risponde alle esigenze o alle aspettative, beh, semplicemente un neurone libero e dotato di un minimo di logica, cerca un'alternativa. Una terza via, originale, diversa, affascinante: che non sia speculare alle precedenti deficitarie. Ma offra le risposte che si cercano, soddisfi bisogni e aspirazioni. Il fatto che Michele Santoro prosegua la sua esperienza professionale molto probabilmente sugli schermi de La7, e con altri big della Rai fortemente in bilico (che potrebbero non trovare spazio né alla tv di stato né su Mediaset), rafforza la strada della terza via, anche in campo televisivo. Ovvero la prospettiva di ricercare altre soluzioni quando due blocchi massificati non danno lo spazio che serve. Come la metafora di due energumeni che si fronteggiano, ma finiscono per pareggiare. Perché di forze pari si tratta. Accade, come rilevato dal sociologo inglese Anthony Giddens, teorico della terza via concretizzata da Tony Blair, che sulla scena politica dove si esaspera la divisione netta fra sinistra e destra, essa sia meno evidente che in passato. Potrebbe essere proprio questa, adesso, la soluzione mentale e attuativa per interpretare il futuro. Il riferimento è a una logica del tutto nuova, che osi, che alzi lo sguardo, con coraggio e determinazione. L'esempio televisivo di Santoro, in questo, dice molto più di commi o contratti. Ma mette l'accento su scelte che vanno fatte quando, come accade ormai da tempo in Italia, la saturazione del vecchio sta spingendosi ben al di là di ragionevoli limiti. E allora la sfida futura, ma sulla quale sarà necessario investire già dall'oggi, non può che ispirarsi alla capacità di criticare il presente, sottolineandone di blu contraddizioni, sperequazioni e incongruenze: e proponendo altro. Questo il nuovo che potrà vivacizzare, non solo la politica, ma soprattutto una società vogliosa di modernità. E di partecipazione.

Le tasse? Solo un pretesto

Dal Futurista del 08/06/11

Ancora un vertice nella maggioranza. A sorpresa, perché notturno. Con il premier e il ministro dell’economia che, pare, abbiano discusso animatamente su aliquote e riduzione del carico fiscale. Ma con il richiamo dell’Unione europea, secondo cui è imprescindibile evitare il deficit. Ma le tasse sono un pretesto, la verità è che adesso tutti nel Pdl e nella Lega hanno paura. Che un sistema decennale sia giunto al capolinea, che certezze granitiche e blocchi di potere registrino una breccia che si allarga sempre di più. E a nulla servono le giustificazioni di Berlusconi, Bossi, Tremonti, e chi più ne ha più ne metta. Non reggono le spiegazioni, più o meno improvvisate, o le elaborazione dalle parvenze più complesse o articolate. L’immagine del centrodestra che continua a riunirsi per non decidere nulla, o che scimmiotta proposte e scelte lungimiranti fino ad oggi ignorate, assomiglia a quello studente universitario che, seduto di fronte al professore per sostenere un esame, inizia a bofonchiare risposte approssimative. A improvvisare teoremi balbettati e improbabili. Senza il coraggio di ammettere di essere palesemente impreparato. Ecco ciò che manca al centrodestra di governo, il coraggio di chiudere dignitosamente una parentesi, di rimettere i ferri del mestiere nelle proprie borse. E di avviarsi pacificamente alla fine. Senza strappi, senza urla disperate, senza il tedioso ritornello di sempre, con scambi di accuse tra chi va e chi viene. Insomma, con la consapevolezza che un ciclo si è chiuso. E con la maturità di non far perdere altro tempo al paese. Tutto qui.

Mai così in basso

Dal Futurista del 27/05/11

Ha detto Arnoldo Mondadori che “bisogna cercare di capire un minuto prima cosa ha in testa quello che ti sta di fronte”. Per prevedere, per attuare un ragionamento che non sia preda della contingenza e dell’emergenza. Ma con Silvio Berlusconi questo non si può proprio fare: perché nessun altro leader politico occidentale si è avventurato, come il cavaliere sta stoltamente facendo, in un quotidiano stillicidio di assurdità. Nessuno ha trasformato gli ultimi giorni della propria esistenza politica in un massacro di immagine, in un calvario comunicativo così deprimente. Insomma, in una via crucis così mortificante per il paese che rappresenta. E che dovrebbe difendere, di cui dovrebbe fare gli interessi, e non coprire di ridicolo quando va in gita fuori porta a vertici tipo il G8.
Perché di gita fuori porta per lui si tratta. Il premier evita gli approfondimenti analitici, non si concentra sui grandi temi di rilevanza continentale, non si sforza di elaborare una strategia condivisa, non punta a guadagnare credibilità con gli altri partner. Ma, come ha fatto ieri a Deauville, è ossessionato dalle sue micro questioni elettorali, di cui francamente, uno come Barack Obama farebbe volentieri a meno di ascoltare dettagli e giustificazioni. Voltando lo sguardo indietro di qualche lustro, non si ricordano episodi simili. Per caso De Gasperi, Nenni, Andreotti, Moro, Craxi hanno utilizzato vertici europei o mondiali per sfogarsi su crisi di governo o sgambetti dell’opposizione con altri leader politici?
Ormai non abbiamo più la faccia di presentarci agli incontri ufficiali, un Berlusconi così non se lo immaginava proprio nessuno. Non gli credono più, tutti lo evitano, sono perfino imbarazzati nel salutarlo o nel farsi immortalare con lui. Il problema a questo punto, non è solo rappresentato dalla tragedia di essere guidati da un “tiranno vecchio”, ma dal fatto che ha perso il limite della sua azione. Perché, come diceva Seneca, «il comando più difficile è comandare se stessi». E questo il presidente del consiglio, proprio non lo sa fare.

Caro Veneziani, senza “patriottismo costituzionale” ci resta solo il bunker

Dal Futurista del 15/04/11

“Si può pensare davvero che un paese possa restare unito dal Patriottismo costituzionale?” Se lo chiede Marcello Veneziani sul Giornale di famiglia, ragionando anche sull’immutabilità della carta costituzionale italiana. Già il semplice porsi una domanda simile, ci fa comprendere ancora di più il perchè siamo, e saremo, distanti anni luce da quel modo di fare giornalismo, analisi, politica, o di intendere l’intimità più profonda di una Nazione. Il patriottismo o è costituzionale o non è: altrimenti diventa nazionalismo, imposizione. Chi mette in dubbio l’unico collante, alto, che oggi è rimasto, è chi tradisce non solo i suoi valori o i suoi ideali. Ma quelli comuni di una intera comunità. Veneziani esordisce con una sintesi sul bilancio della contesa politica italiana: “L’opposizione in Italia è barricata dietro la Costituzione e Berlusconi si è riparato dietro gli italiani”. Non è così: le opposizioni oggi difendono i principi della Carta, che spesso il Governo mostra di non conoscere, o di ignorare colposamente o dolosamente, o in alcuni casi (vedi la Lega e certe leggine) di calpestare. La barricata, in verità, è un’altra: quella che è stata permanentemente allestita all’interno del Parlamento dove pur di difendere l’interesse del singolo si sta mortificando il benessere collettivo. Non è vero che il premier si è riparato dietro gli italiani: chi può dimostrare che il popolo gli sta facendo scudo? Più logico sostenere che si sia riparato invece dietro il proprio personale potere istituzionale.

Quanto alla Costituzione, troppo facile addurre l’anacronismo in sé senza argomentarlo: più volte è stato sollevato il dibattito su un adeguamento della Carta alle nuove esigenze della collettività, dato sul quale si può serenamente riflettere, ma senza stravolgere a proprio uso e consumo il senso di quella bussola che è ancora valida ed efficiente nei suoi principi basilari.
E allora l’interrogativo di Veneziani sull’utilità del Patriottismo Costituzionale offre la cifra di un certo modo di vedere le dinamiche sociali del paese. Mettere in dubbio quell’elemento di unione e comunione, significa pugnalare l’unico perno unificante rimasto oggi in un’Italia lacerata da condotte secessioniste e derive da bunker.Che hanno l’unico obiettivo di separare, di fazionizzare, di irritare, di dividere ancora una volta una comunità che invece dovrebbe essere invitata a ricompattarsi. Per inseguire il rasserenamento. E stringersi, finalmente, a coorte. Oggi più che mai.

Berlusconi a Tunisi: più che amici, amici miei

Dal Futurista del 04/04/11

Eccolo lì, circondato dagli amici. Ma più che amici, “amici miei”. Un po’ la brutta copia del celebre film, solo che qui non ci sono schiaffi in stazione o pseudo spostamenti della torre di Pisa, ma zingarate immobiliari e promesse da buontempone. Signore e signori, è la politica internazionale del premier. Ormai è tutto uno scherzo, ci sarà un acquisto di ville anche a Tunisi? Con promessa di casinò annessa? Magari con qualche palcoscenico allestito pro conferenza stampa. E per non farsi mancare nulla, come quando Gheddafi venne in visita a Roma, perché no anche una grande manifestazione pubblica, con folla oceanica e parata militare. E poi promesse, promesse e un mare di promesse. Sarà servito thè nel deserto, accompagnato dalle solite pennette tricolori tanto gradite al cavaliere. Seguito da un gelato ufficiale, da tante strette di mano e dagli annunci di ritorno: “a Tunisi siamo i benvenuti”. Tutto bello, tutto grande, tutto così vittorioso. Solo che poi, quando quei flash si spengono e quando sono trascorse le fatidiche 48 ore, ecco che le parole nel vento pronunciate da Berlusconi fanno ciò che, da quindi anni, hanno fatto: si sgonfiano, si scoloriscono. Ben Alì, Gheddafi, Putin. E dopo Obama. Sono tutti amici suoi, sembrano i suoi amici su facebook, invece sono leader passati e presenti, forse futuri, del resto del mondo. Con i quali un Paese normale ed un premier normale intrattengono rapporti istituzionali normali. E non questa cosa, che non si chiama politica estera. Ma politica del cucù.

Staiti di Cuddia: «Ma sì, tiriamogli pure le uova marce, è un nostro diritto»

Dal Futurista del 04/04/11

Un libro che va chiuso, quello dell’attuale centrodestra di governo, per riaprirne uno nuovo, nel quale far confluire pagine bianche dove possano trovare spazio regole per “stare assieme”, riflette Tomaso Staiti di Cuddia delle Chiaie, esponente di primo piano dell’Msi, parlamentare per tre legislature. E magari per invitare i cittadini a protestare non con il lancio delle monetine, bensì con quello delle uova, “possibilmente marce, una manifestazione sacrosanta, che non fa male a nessuno, con radici storiche molto nobili, per esprimere dissenso”.

Che destra è questa che insulta le istituzioni, che sbraita, che mostra poco attaccamento quantomeno ad un comportamento esemplare?
Devo dire che purtroppo c’era già in luce tale scenario. Con due destre, ammesso che si possa parlare di destra, che convivevano. Recentemente, ad esempio, hanno avuto il coraggio, per ricordare Beppe Niccolai, di mettere insieme esponenti di questa destra che rappresentano esattamente il contrario di ciò che Beppe intendeva. A questo punto probabilmente hanno solo il bisogno di recuperare il nostalgismo, per ragioni interne al Pdl. O tentare di impadronirsi di tutto ciò che può ricordare un passato comune, che però è finto vista la cifra di quelle persone.

Destra, ieri, era sinonimo di legalità e ordine: oggi, allora, chi ci governa?
Il riferimento era ad un concetto di perbenismo apparente, un po’ fuori a quel tempo. Oggi però visto che sono gli stessi reggitori della cosa pubblica che vivono nelle leggi e portano disordine, queste parole dovrebbero avere ben altro significato. Legalità, giustizia, capacità di organizzare uno Stato: tutte cose che oggi appaiono difficili, perché hanno distrutto il concetto di Stato che, come diceva Prezzolini, è una necessità che nasce dall’accordo fra briganti: stufi di ammazzarsi l’uno con l’altro chiedono di darsi delle regole. Adesso i briganti vorrebbero potersi ammazzare senza avere più alcuna regola.

Nemmeno in sudamerica si chiudono più talk show o programmi televisivi: siamo all’inizio della fine, ormai prossima?
Questa volta ho l’impressione di sì. Quando finalmente il cialtrone di Arcore toglierà il disturbo e smetterà di fare questo avanspettacolo a cui ci ha abituati, ripetendo lo stesso copione, penso che dovremo dire, “va bene, questo libro è riuscito male. Chiudiamolo e ricominciamo da una pagina bianca e cerchiamo di scriversi insieme cose che possano servire a stare assieme”.

La Lega chiede ogni mese la dimissioni di Fini, una deputata diversamente abile viene insultata, Berlusconi promette casinò a Lampedusa: non si rischia un certo risveglio sociale di protesta?
Lo spero vivamente e mi auguro che nessuno si sia abituato a tutto questo. Un moto istintivo di protesta: penso che il lancio delle uova sia una manifestazione sacrosanta, non fa male a nessuno, ha radici storiche molto nobili ed esprime dissenso. Meriterebbero di essere presi, non a monetine perché di questi tempi ce ne sono poche, ma a uova in testa. Marce possibilmente, in modo che sia loro consentito, visto che hanno tanti benefici che derivano da cariche e posizioni, di avere almeno il disprezzo popolare.

Berlusconi aveva promesso che entro 48 ore avrebbe liberato Lampedusa: ancora la politica degli annunci e delle bugie?
Lui ha fatto i soldi con gli spot e con le televisioni. Raccontando balle, rientra nella categoria di bugiardi più pericolosi. Mentre il bugiardo che te ne racconta una, poi ride perché sa di avertela raccontata, lui no, perché continua a sostenere che sia la verità. Per chi ancora lo ascolta, si tratta della solita scena: lo ha detto almeno cento volte. I giudici di sinistra, i pm, la Corte Costituzionale, una recita che va bene per il suo pubblico di massaie e pensionati che affollano ogni pomeriggio le sue reti.

C'è la prova, Berlusconi è un bugiardo

Dal Futurista del 01/04/11

Aveva detto che in 48 ore avrebbe risolto tutto e invece i migranti sono ancora lì. Ecco la prova: Silvio Berlusconi è un bugiardo. Perché come al solito spara alto per ottenere gli applausi immediati, i flash, i titoli, le mani speranzose di gente in difficoltà. Ma poi quando si stratta di tradurre in fatti i fiumi di parole, il bluff si scopre. E noi ci ricordiamo delle cose dette, di quelle inventate, o di quelle altre proposte: “Tanto- pensa il cavaliere- nessuno se ne cura”. Come la storiella della villa che vorrebbe acquistare sull’isola. Ma sulla quale ci sarebbe stata già una marcia indietro, per via dei frastuoni del vicino aeroporto. Altro che casinò. Come il milione di posti di lavoro, come meno tasse per tutti, come la frottola degli interessi del singolo che però si inseriscono in quelli della collettività: non ci crede più nessuno, nemmeno il suo amico Gheddafi. Non cambia nulla, il ritornello è sempre lo stesso. Come per il terremoto in Abruzzo: sistemo tutto io, scendo in campo, sono un presidente operaio con l’elmetto. Classica bugia da leader populista che vorrebbe vendere un condizionatore finanche al polo. Ma stavolta non funziona, perché il teatrino è scoperto. Perché in questo gioco non ci sono in palio voti e poltrone, né obiettivi materiali buoni forse per allargare consenso a responsabili o disperati. Qui ci sono in gioco vite umane. E lui se ne è dimenticato.