lunedì 31 gennaio 2011

Un dissenso creativo per costruire la sfera pubblica


Da Ffwebmagazine del 31/01/11

Come recuperare l’apporto valoriale all’interno della gabbia democratica, in un momento in cui si discute solo di regole (spesso infrante)? Come bypassare indizi, prove, tecnicismi per tornare invece a seminare idee, proposte, bussole da utilizzare in chiave sociopolitica? Il dato di partenza è senza dubbio il riuscire a vivere responsabilmente la democrazia, ma in quale interstizio mentale individuare quell’epiteto? In quali atti, provvedimenti, comportamenti, iniziative riscontrare quel tratto di responsabilità che consente un’efficace presenza democratica? E a tutti i livelli, senza sbavature, incomprensioni o illusioni.

E al fine di distinguere tra particolare e universale, tra pubblico e privato, in una condotta di maturità civica che non può prescindere da quella che Giacomo Marramao definisce (assieme ad altre prestigiose firme ne Vivere la democrazia, costruire la sfera pubblica, quaderno della scuola per la buona politica della Fondazione Basso, edizione Ediesse) come “formazione continua”. In assenza della quale un cittadino semplicemente risulta acefalo, sprovvisto dei mezzi di sopravvivenza nell’agone democratico. Dove la conoscenza è l’aria che consente la vita, il sole che permette la fotosintesi clorofilliana dei pensieri, l’unica modalità di camminare nell’agorà sociale di una postmodernità che è ben oltre la postideologia, ma che, nonostante ciò, spesso si ostina a ragionare con lo specchietto retrovisore perenne, con lenti del passato. O falsamente incanalate verso fanatismi che, in quanto tali, coprono verità e rappresentazioni reali. Come escludere, quindi, il doloso tentativo di riportare indietro le lancette dell’orologio sociopolitico, al becero fine di criptare insuccessi o celare incapacità di leggere l’oggi?

Di contro si registra un doppio indebolimento dello Stato: verso l’alto, nell’ambito di una dimensione europea sempre più germanocentrica, e verso il basso, in municipalità che scalpitano in un tentativo glocalizzante di scardinare il concetto stesso di unità. Due piani critici nei confronti dei quali si rende imprescindibile un rafforzamento istituzionale che può trovare valido supporto in una nuova coscienza civile del cittadino. E non per una fittizia iniziativa intellettuale, come ormai da mesi certi commentatori superficiali definiscono ogni tentativo di dare un contributo di idee a problemi drammaticamente concreti. Ma perché sarà proprio ricostruendo una consapevolezza radicata e vivace da parte di ogni individuo di questo Paese, che verrà da un lato irrobustita la singola capacità di vivere la democrazia; e dall’altro stimolando lo Stato a offrire quella democrazia che tanto si decanta, anche nell’istante stesso in cui si tenta di demolirla.

Principale strumento del popolo, parafrasando Marramao, è quindi la conoscenza, la cultura, senza le quali un popolo semplicemente non è tale. Ma come pretendere di avere conoscenza di provvedimenti e opinioni, se non si creano i presupposti culturali alla comprensione di quei fatti? È questa volta sì futile utopia proporre fiumi di stampa e di notizie, ma senza offrire ai lettori gli strumenti per interpretare dichiarazioni, per scorgerne le contraddizioni, per avanzare controdeduzioni, per carpirne i significati più intimi. E non solo per smascherare pifferai e mistificatori che purtroppo abbondano sulla scena, ma principalmente per essere vivi, cittadini socialmente attivi, in grado di partecipare.

Eccolo il termine tanto di moda nella politica moderna dei gazebo e dei sondaggi, quella politica che mostra di sforzarsi sino all’inverosimile nel dare la parola agli elettori, o rispettare la volontà degli elettori, o che fa di tutto per non tradire il mandato degli elettori. Ma che poi non profonde il medesimo sforzo per educare gli elettori, per formarli, per allenarli a capire. Perché sarebbe proprio in quell’istante che l’elettore meccanico, quello per intenderci abituato e bere slogan o a firmare diseducativamente appelli contra, che imparerebbe a dissentire creativamente, ad eccepire offrendo un’altra strada da imboccare.

In poche parole, a essere cittadino veramente attivo e partecipe, per giungere così al culmine materiale della libertà, per averla tra le mani, per utilizzarla fino in fondo, per non sprecarla, per apprezzarla, per farne tesoro. Perché, come ha detto John Kennedy «la libertà senza l’istruzione è sempre in pericolo, e l’istruzione senza la libertà è sempre inutile».

domenica 30 gennaio 2011

Il Nuovo Polo: siamo pronti per guidare l'Italia


Da Ffwebmagazine del 29/01/11

Il Terzo Polo marcia compatto, si dice pronto a guidare il Paese e nel coordinamento dei parlamentari riuniti a Todi riflette a mente lucida sulla gravità del momento politico. Con un leader, il Premier in carica, che secondo Pierferdinando Casini mostra un altro “segno di impotenza” quando annuncia una nuova manifestazione per il 13 febbraio. Considera le elezioni inevitabili se il governo proseguirà nell’occuparsi esclusivamente delle vicende di Berlusconi, anziché procedere con le riforme.

“Il Paese è allo stremo- analizza il leader Udc- poi apre la televisione e vede che la politica si preoccupa del bunga bunga, se Berlusconi è distratto allora meglio che lasci il campo e si vada al voto, anche se un governo forte e credibile sarebbe meglio”. Ma quale l’alternativa ad uno schieramento che sino ad oggi si è distinto solo per asprezza e contrapposizioni anche forzate? Francesco Rutelli offre una chiave di lettura matura, quando annuncia che il nuovo polo non sarà “il polo delle vendette”, bensì un’aggregazione responsabile che allontani il più possibile quella stagione di accanimenti verso chi ha governato negli ultimi tre lustri. E poi incalza: “Noi garantiamo che la fine del berlusconismo non sarà alla Ben Alì”. Sgombra il campo dalle voci di intese elettorali con dipietristi e vendoliani, quando riflette che “giustizialisti e massimalisti devono sapere che con noi non ci sarà alleanza”, per sancire in seguito la strada che il nuovo polo percorrerà: “nasce il baricentro politico e programmatico dell’Italia futura, un’aggregazione destinata a formare le alleanze su cui l’Italia dei prossimi anni si misurerà”.

Rutelli difende anche il Presidente della Camera Fini dagli attacchi volgari degli ultimi mesi, proprio all’indomani della precisazione della Procura di Roma, secondo cui le carte di Santa Lucia “sono irrilevanti” e dice: “Difenderemo a viso aperto e con determinazione Gianfranco Fini che è stato un impeccabile presidente della Camera”, definendo l’aggressione che sta subendo “vile” in quanto indebolisce le istituzioni. Ma è il passaggio dagli anni della prima/seconda repubblica ad oggi che suscita l’attenzione dei partecipanti. Lorenzo Cesa riflette che sino a questo momento Berlusconi si è autodefinito come una novità del palcoscenico politico nazionale, ma “senza la Prima Repubblica, Silvio Berlusconi sarebbe un imprenditore brianzolo qualunque”, che si è seduto alla “tavola della Prima Repubblica, e ha ampiamente assaggiato tutte le portate”. E sulla nuova aggregazione ribadisce che non è un prodotto in scadenza come il Premier, ma “il futuro, la nuova unica grande casa dei moderati italiani”.
Per condannare definitivamente il populismo che ha incarnato da quando si è presentato agli elettori: “A Berlusconi diciamo una volta per tutte che in questa casa per i populisti non vi è posto”, chiudendo le porte a chi si sente padrone. Come sarà composto il nuovo polo? Non mancheranno le idee, che saranno le vere protagoniste, riunite per “scrivere un pezzo di storia nuova del nostro Paese”. Sull’agenda dei prossimi mesi Raffaele Lombardo auspica il ripristino delle regole che garantiscono ai cittadini piena rappresentanza, quindi pronti a nuove elezioni ma prima sarebbe meglio riformare la legge elettorale e risolvere una volta per tutte il conflitto di interessi.

Ma è la proposta di Italo Bocchino a spiccare per originalità e freschezza in questo conclave umbro, quando annuncia che sarebbe auspicabile un leader donna, “40enne e credibile” che guidi questa iniziativa di responsabilità.
Spazio anche a considerazioni sul federalismo,con Casini che precisa: “Capisco che la Lega sia preoccupata ma anche i sindaci leghisti si renderanno conto che questo è solo un federalismo delle tasse, come facciamo a votarlo?”. Mentre un altro richiamo alla sobrietà giunge dal mondo cattolico; questa volta viene dall’ arcivescovo di Milano, il cardinale Dionigi Tettamanzi, che incontrando i giornalisti in occasione della festa di san Francesco di Sales, si è premurato di ribadire che “da coloro che guidano il Paese tutti attendono esemplarità, nel pubblico e nel privato”.
Infine ancora una nota giudiziaria, perché si apprende che Carmelo Briguglio ha denunciato Panorama e Il Giornale “in relazione a servizi giornalistici, che prendono di mira anche i colleghi Bocchino e Granata, ritenuti dal parlamentare finiano diffamatori e lesivi dell'onorabilità”. Il tema è ancora il fango, ed il dossieraggio “berlusconiano per distrarre l’attenzione dallo scandalo Ruby”.

sabato 29 gennaio 2011

Santoro: «Siamo di fronte allo stravolgimento della democrazia»

Da Ffwebmagazine del 28/01/11

«Non vogliamo essere nemici di Berlusconi, noi siamo giornalisti e basta, come i magistrati sono magistrati e basta, per questo manifesteremo dinanzi al Tribunale di Milano il prossimo 13 febbraio, senza partiti e senza bandiere». Michele Santoro denuncia il livello di emergenza totale raggiunto dall’informazione italiana, e non solo all’indomani della telefonata in diretta del dg Masi. Intervento definito di “censura preventiva” andata in scena pochi attimi prima che nella puntata di Annozero (settemilioni e centomila telespettatori) andasse in onda la sigla. Perché qui si sta verificando un corto circuito pericoloso, dove i fatti sono chiari: c’è una striscia di approfondimento televisivo sul servizio pubblico che è seguitissima, con introiti pubblicitari importanti per la rete, che ovviamente batte gli altri programmi in onda sulle altre emittenti e per questo non è poi così gradita.

Ci sono le intercettazioni dell’inchiesta di Trani, da dove emerge la richiesta dello stesso Premier rivolta al commissario dell’Agcom Innocenzi di “chiudere Santoro”. C’è una vetrina sui fatti dell’indagine in corso da parte della procura di Milano a carico del Premier, ma non solo, dal momento che Annozero in passato si è occupata (spesso in solitario) anche di mafia, di immigrazione, di lavoro, di spazzatura. Mai però il bavaglio all’informazione che fa informazione (e dunque dà fastidio) era apparso così stringente.
Tra l’altro il ministro delle Comunicazioni Romani ha scritto al presidente dell’ Agcom per segnalare le violazioni che la Rai, a suo dire, “ha concretato nel corso della trasmissione del programma Annozero del 20 e del 27 gennaio in relazione ai generali obblighi derivanti dal contratto di servizio”. Ma come, si chiede Santoro, la Rai “in quanto servizio pubblico risponde semmai al Parlamento e non al governo”.

E poi c’è la questione degli ospiti: sino ad un’ora prima della puntata di ieri, l’ospite del Pdl doveva essere il capogruppo Cicchitto, ma negli studi della Dear ecco presentarsi un altro deputato, Francesco Paolo Sisto (legale di fiducia del Ministro Fitto), che «noi non avevamo invitato», prosegue Santoro. «Un partito non può decidere chi devo invitare nella mia trasmissione». Ecco allora che è giunto il momento di «indignarsi, perché non può essere tutto costruito sull’umoralità di Berlusconi, che non può nevrotizzare» l’intero sistema. Siamo di fronte allo «stravolgimento della democrazia», rileva Santoro, in nessun altro contesto democratico avvengono infatti episodi del genere.

L’ingerenza ormai è acclarata, ma il dato ancora più grave è che il Paese si stia abituando a tutto ciò: siamo cioè in presenza, rileva Marco Travaglio, di un «percorso di guerra evidente per chiudere la trasmissione». E cita un parallelo con l’Italia del 2002, quando Enzo Biagi fu colpito dall’editto “bulgaro” siglato proprio da Berlusconi. In quell’occasione nessun quotidiano parlò genericamente di lite tra il giornalista ed il Premier, dal momento che «era abbastanza evidente chi attaccava chi». Mentre oggi si assiste alla mistificazione, quando ad esempio alcuni giornali scrivono «lite Premier-Lerner», quando invece tutti sanno che si è verificato un attacco diretto e scomposto del Presidente del Consiglio ad una trasmissione, al suo conduttore ed anche alle sue ospiti. Eccolo il circuito del fango, del timore di chi pone domande e si interroga sulle cause di fatti ed opinioni.

Ma davvero il Paese che ha dato i natali a penne illustri come Dante, Montanelli, Leopardi, Pascoli, vive questo primo decennio del secolo con la minaccia di museruole mediatiche e ritorsioni burocratiche? Davvero la Nazione che possiede l’80% dei beni archeologici del pianeta, culla della storia e della cultura, vede così sfiorire il proprio nome e l’immagine di sé nel mondo, a causa della contaminazione forzata tra il pubblico ed il privato di una sola persona?

Il caso di Santoro, con le performances televisive di Berlusconi fatte a Ballarò e all’Infedele, assieme all’assurdo provvedimento di “spegnere i talk show” andato in onda lo scorso anno in concomitanza delle elezioni regionali, meritano sdegno dall’interno, ed attenzione dall’esterno del Paese. Perché non c’è rimpasto che possa sanare questa lacerazione così profonda, tale svilimento di professionalità e finanche delle stesse istituzioni, utilizzate per compiti diversi da quelli concernenti la res publica.

Semplicemente non si può continuare a inquadrare uno Stato, un servizio pubblico, un’istituzione come il Parlamento, alla stregua del proprio orticello o prato inglese, dove dare party o dove far eruttare vulcani con lava annessa. Perché quella lava, così bella e folkloristica da ammirare, altro non è che l’illusione finale di un mondo di plastica. Che sta bruciando.

giovedì 27 gennaio 2011

Che cosa c’è dietro il caos in Albania?


Da Ffwebmagazine del 27/01/11

Kosmos, mondo, universo. Ma anche altro, altri e ancora finestre su ciò che accade a longitudini e latitudini lontane, senza preclusioni per posizioni ed opinioni. Un approfondimento costante e sotto traccia, in collaborazione con L’interprete internazionale, per slacciare quel cordone ombelicale che troppo spesso lega l’informazione alla contingenza locale, impedendole di mettere il naso fuori dalla propria visione. (Per segnalazioni e commenti inviare una mail all’indirizzo: francesco.depalo@libero.it).
Prima il regime comunista, poi un moderato benessere, una vita democratica. Pochi giorni fa la piazza che si infiamma, morti nelle strade e un primo ministro accusato di corruzione. L’Albania del 2011 non è quella della nave Vlora, che in un’afosa mattina dell’agosto 1991 allagò il porto di Bari con il suo carico di speranza. Ma è una nazione avviata verso uno sviluppo solo tre lustri fa insperato, che si appresta a ricevere investimenti dall’Unione Europea per circa 250 milioni, ma anche “con corruzione a tutti i livelli ministeriali e ramificazioni della mafia italiana”, come spiega la parlamentare socialista Rudina Seseri dai microfoni de Settimana Internazionale. Gli scontri di pochi giorni fa hanno causato tre morti e decine di feriti, con da un lato il premier Berisha accusato di brogli elettorali dal capo dell’opposizione socialista Edy Rama, a sua volta accusato dal primo ministro di voler tentare un colpo di stato. Ma andiamo con ordine: Rama, a lungo vissuto in Francia ma da poco rientrato in patria per fare politica attiva, contesta i risultati delle ultime consultazioni politiche, a suo dire vi sarebbero state gravi irregolarità. Ma Berisha nega tutto, rifiuta il riconteggio e, anzi, come prescrive un’assurda legge dello Stato albanese, brucia le schede elettorali. A quel punto i socialisti si attivano per protestare pacificamente, con uno sciopero della fame attuato in una tenda montana dinanzi al Parlamento, abbandonando i lavori dello stesso in segno di boicottaggio, in quanto non ne riconoscevano la legittimità. Protesta che Rama è stato indotto a sospendere anche a seguito dell’intervento del Consiglio d’Europa, che ha sì fatto interrompere lo sciopero della fame ma dietro il preciso impegno di indagare sulle precedenti elezioni.

Ciò in realtà non è accaduto, tra l’altro in virtù di quell’anacronistica disposizione che cancella le prove di eventuali reati, ma non gli interrogativi sulla regolarità dell’esecutivo in carica. E con lo spettro di nuove consultazioni amministrative previste per il prossimo maggio, in un clima aspro e controverso. Ma dove nasce il caos albanese? Sali Berisha è il veterano della politica a Tirana: nel ’90 si fece largo dinanzi agli studenti che scioperavano contro il regime comunista. “Si presentò dapprima come un emissario del presidente in carica- ricorda Carlo Bollino, direttore della Gazzetta del Mezzogiorno ma a lungo corrispondente in Albania per l’Ansa- per poi fare il salto della barricata, mettendosi alla testa della protesta, e guidando la rivolta democratica”, per giungere in seguito al potere. Sino al ’97, quando il crollo della finanza piramidale avviò una sorta di conflitto civile che lo portò all’opposizione. Un anno dopo guidò quello che i magistrati definirono “un tentativo di colpo di stato”: i giovani che si riconoscevano nella sua leadership assaltarono la sede del Parlamento contro il governo di Fatos Nano. Il tentativo fallì, e oggi, da ormai due legislature è a capo del Paese.

Berisha accusa i socialisti che protestano per i presunti brogli di voler sovvertire il responso delle elezioni, quelle stesse elezioni di cui non si può accertare la regolarità a causa di schede ormai bruciate. Lecito chiedersi: chi salvaguardia i diritti fondamentali del popolo albanese? E ancora, cosa attende la Farnesina, più volte chiamata in causa proprio dal partito socialista assieme all’Unione Europea, per far sentire la propria voce? Tra l’altro è emerso che il capo della procura di Tirana, per il solo fatto di aver firmato le sei ordinanze di custodia contro gli uomini della Guardia nazionale che avrebbero ucciso i tre manifestanti, sarebbe anch’egli accusato da Berisha di tentare un colpo di stato. Ma il mosaico surreale di questo intrigo socio-politico si arricchisce di un ulteriore dettaglio, quando di apprende che il Premier Berisha si sarebbe reso disponibile dinanzi alla comunità internazionale come interlocutore per fare chiarezza sui fatti di sangue. Sulle cui indagini però si scaglia, accusando il procuratore.

Economia, politica, tessuto produttivo: l’Albania è anche una straordinaria produttrice di prodotti agricoli, che però non riescono ad essere esportati a causa della mancanza di macchinari moderni e di centri di distribuzione. Un intrigo, o meglio, una somma di fatti di cronaca che si intrecciano e sui quali si potrebbero scrivere romanzi gialli, in una sorta di calderone istituzionale dove i ruoli appaiono pericolosamente mescolati, con poteri che vorrebbero soppiantarne altri. Con da un lato “il grande vecchio” della politica del Paese delle aquile, e dall’altro un giovane intellettuale giornalista. Crisi manovrata? si chiede il vicedirettore di Panorama Pino Buongiorno. Infiltrati in entrambi i versanti della contrapposizione? Solo questioni personali dietro questa aspra battaglia per il potere? Domande, legittime, riguardo una realtà che sta faticando non poco a conservare quel minimo di benessere acquisito. E con sullo sfondo ingenti investimenti nel proprio territorio.

martedì 25 gennaio 2011

Ricordando il "nostro" eroe: nasce il museo di Caprera


Da Ffwebmagazine del 25/01/11

Il mito dell’eroe, la costruzione plastica di una narrazione che è essa stessa elemento portante di un museo dove non vi saranno solo cimeli o oggetti, o nature morte. Ma sarà la storia la vera protagonista, la favella che veicola emozioni e progetti unitari, il collante della rivisitazione di Giuseppe Garibaldi nel museo nazionale di Caprera. Dove trionferanno non fredde mensole con in bella mostra pezzi abulici del tempo che fu, non filamenti di coperte usate dal nostro o semplici luoghi in cui ha vissuto, ma un museo del racconto. Con in primo piano la parola con cui trasmettere ai visitatori quei valori, le pulsioni di “quei” giorni, le motivazioni che condussero a gesti impressi nei libri di storia, con buona pace dei revisionisti padani.

L’elaborazione di uno spaccato di storia attraverso la stampa popolare virtuale, dunque, i relativi primi scritti che amplificano la sua figura, il contributo pregnante di romanzieri come Alexandre Dumas nella trasfigurazione su pagine delle sue imprese e il cosiddetto manoscritto “Nathan”. Ovvero la testimonianza chiave che riporta le memorie dell’eroe dei due mondi, di proprietà dello Stato, con quell’unica peculiarità rappresentata dalla calligrafia esemplare e limpida di Garibaldi. Spazio poi alla collezione Birardi, ebbra di un’iconografia popolare dalla quale sono stati tratti numerosi allestimenti teatrali, con la presenza di sagome e quinte. Ma è l’elemento naturale, ancora una volta, che lascia sul posto gli altri, che ammaina velleità rappresentative diverse dalle proprie. Sì, proprio la natura, perché viva negli anni garibaldini, perché ancor più presente in quei due mondi, così agli antipodi, così diversi, ma accomunati dalla presenza di un personaggio. È quindi molto significativo il contributo della dimensione geografica e spaziale, con al centro della scena i grandi viaggi, le missioni, gli spostamenti, i conflitti.

Anche in virtù di alcune piantine curate dal generale Viviani e da Erika Garibaldi e pubblicate in Qui sostò Garibaldi. Itinerari garibaldini in Italia, edito dall’Istituto Internazionale di studi Giuseppe Garibaldi nel 1989. Il tutto con due chiavi di lettura determinanti, che attengono alle due dimensioni naturali per eccellenza, la terra ed il mare: entrambe non solo fortemente presenti nella vita e nelle vicissitudini di Garibaldi, ma determinanti anche nelle sue percezioni più soggettive. La dimensione agricola, molto ricorrente nelle vicende dell’epoca, perché tratto somatico di un Paese a forte vocazione agricola, con un rapporto intenso e profondo con la terra fatto di rispetto e di dedizione. Si pensi che una delle immagini più significative di Garibaldi viene dallo sforzo dello scultore Rutelli (nonno del deputato Francesco) che immortalò l’eroe, non nella consueta posa che è possibile scorgere in libri e raffigurazioni, ma a torso nudo e intento a lavorare la terra.

Testimoniando, quindi, la sua passione per l’agricoltura, intesa verso una più proficua organizzazione dell’intero comparto lavoro e con strumenti maggiormente all’avanguardia (concimi innovativi, aratri meccanici per agevolare la semina). E poi la dimensione marinara, ovviamente immancabile, con protagoniste le imbarcazioni, il relativo progresso tecnico, con quell’affascinante vettore che unisce territori e popoli, abbraccia coste lontane e continenti transoceanici. In un incontro di navi che hanno solcato i mari del sud America, in cerca di storie, di racconti, oltre che di rotte commerciali e avventure. Garibaldi si pose al comando di uno dei primi vapori italiani, in un lasso temporale dove la marineria nostrana venne attraversata da uno sconvolgimento tecnologico non indifferente, ma che gli armatori italiani non riuscirono ad intercettare con convinzione.

Ecco che emerge il Garibaldi capitano, condottiero, aiutante, come quando nel 1833 è a Marsiglia e forse incontra Mazzini per rendersi disponibile a sostenerlo nell’insurrezione nazionale. Affiliandosi alla Giovine Italia sotto lo pseudonimo di Cleombroto, per poi due anni dopo imbarcarsi prima per il Mar Nero, poi per Tunisi, e infine per Rio de Janeiro. Sino alle vicende pre e post sbarco a Marsala, con uno scambio epistolare significativo, intercorso con Rosalino Piediscalzi, che ricevuto il messaggio dello sbarco, qualche giorno dopo ne riceve un altro che annuncia la vittoria di Calatafimi: «Caro Rosalino, ieri abbiamo combattuto e vinto: i nemici fuggono verso Palermo. Le popolazioni sono animatissime e si riuniscono a me in folla. Domani marcerò per Alcamo, dite ai siciliani che è l’ora di finirla e la finiremo presto. Qualunque arma è buona per un valoroso: fucile, falce, mannaia, un chiodo alla punta di un bastone».

lunedì 24 gennaio 2011

“I giovani vittime del disastro antropologico”


Da Ffwebmagazine del 24/01/11

Ha chiamato in causa i delicati e necessari equilibri che compongono l’esistenza democratica; ha sottolineato che il “disastro antropologico” del guadagno facile e dell’immagine che scavalca la sostanza ha come prime vittime i giovani in formazione; ha stigmatizzato la rappresentazione “fasulla dell’esistenza”, rammentando che chi riveste un ruolo pubblico deve rispettare “misura e sobrietà, disciplina ed onore”. E ha invitato ad uscire rapidamente dal turbamento e dalla delegittimazione, che la doppia deriva, data da “debolezza etica e fibrillazione istituzionale”, sta fomentando nel Paese, anche grazie ad una visione del “noi”, prima che dell’”io”.

Così il cardinale Bagnasco nella prolusione al Consiglio episcopale permanente ad Ancona, parla di “nubi preoccupanti che s’addensano” sull’Italia, una Nazione sgomenta che invece avrebbe urgenza di stabilità e serietà. Mesce res publica e società, fragilità politica con i conflitti tra poteri degli ultimi mesi, tranelli per cittadini (soprattutto giovani) nel pieno del percorso cognitivo, e desiderio speranzoso di uscire dall’empasse, esortando ad ascoltare la “voce del Paese che chiede di essere accompagnato con lungimiranza ed efficacia senza avventurismi”.
Ma è la responsabilità il primo capo chiamato in causa da Bagnasco, quando rileva che “la vita di una democrazia si compone di delicati e necessari equilibri, poggia sulla capacità da parte di ciascuno di auto-limitarsi, di mantenersi cioè con sapienza entro i confini invalicabili delle proprie prerogative”. Per impedire che, in seguito, l’intera comunità “guardi sgomenta gli attori della scena pubblica, e respira un evidente disagio morale”. Per questo serve fare “chiarezza al più presto” sulle vicende giudiziarie del Premier, “in modo sollecito e pacato”, anche in considerazione di un altro aspetto che richiama riferendosi al complesso di responsabilità che un uomo pubblico ha: “chiunque accetta di assumere un mandato politico deve essere consapevole della misura e della sobrietà, della disciplina e dell’onore che esso comporta, come anche la nostra Costituzione ricorda”.

Non manca di evidenziare l’atteggiamento “basato sull'artificiosità, la scalata furba, il guadagno facile, l’ostentazione e il mercimonio di sé”, dove i primi agnelli sacrificali non possono che essere i più giovani, dal momento che si stanno ancora formando, e che pagano lo scotto di questo “disastro antropologico”. I quali assistono quotidianamente ad un affresco ingannevole, ad “una rappresentazione fasulla dell’esistenza, volta a perseguire un successo” effimero. Da cui trae spunto anche per una reprimenda ai pm e ai media, dove abbondano “notizie che riferiscono di comportamenti contrari al pubblico decoro e si esibiscono squarci, veri o presunti, di stili non compatibili con la sobrietà e la correttezza, mentre qualcuno si chiede a che cosa sia dovuta l’ingente mole di strumenti di indagine”. Con la conseguenza di minare l’equilibrio generale, dove in troppi fecondano il “turbamento generale, una certa confusione, un clima di reciproca delegittimazione. E questo, è facile prevederlo, potrebbe lasciare nell’animo collettivo segni anche profondi, se non vere e proprie ferite”.

E con il rischio paventato che alcuni di questi veleni sottili “si insinuino nelle psicologie come nelle relazioni, e in tal modo, Dio non voglia, si affermino modelli mentali e di comportamento radicalmente faziosi”. Forse questo, si chiede il capo dei Vescovi, “non sarebbe un attentato grave alla coesione sociale? E quale futuro comune potrà risultare, se il terreno in cui il Paese vive rimanesse inquinato?”. Per tali motivi dunque invita a “fermarsi tutti e in tempo. Come Pastori che amano la comunità cristiana, e come cittadini di questo caro Paese, diciamo a tutti e a ciascuno di non cedere al pessimismo, ma di guardare avanti con fiducia. E' questo l'atteggiamento interiore che permetterà di avere quello scatto di coscienza e di responsabilità necessario per camminare e costruire insieme”.

E puntando ad una svolta, anche sociale, dove all’io egoistico e personalistico venga sostituito il “noi”, che annulli le tante singolarità, e si indirizzi verso una mentalità più inclusiva. Un noi che abbracci i soggetti deboli, le famiglie in difficoltà, le vittime della crisi, per questo “adesso più che mai è il momento di pagare tutti nella giusta misura le tasse che la comunità impone”. Infine richiama come un “obiettivo inderogabile” l’attuazione delle annunciate riforme, senza le quali le intenzioni sbandierate quotidianamente dell’esecutivo non trovano poi attuazione concreta, rimanendo semplicemente lettera morta.

Qualcuno si dimentica che il paese viene prima di tutto

Da Ffwebmagazine del 23/01/11

Il fatto che si discuta animatamente sulla mescolanza tra vita privata e vita pubblica del premier, in un ircocervo di ruoli e modalità di attuazione degli stessi, ma senza la giusta cognizione, merita davvero alcune precisazioni. Contrariamente, si continuerebbe a spargere sabbia in faccia a tutti, non solo agli addetti ai lavori ma soprattutto ai cittadini che si interrogano. Il paese è nuovamente bloccato, per via delle note e degradanti vicende di cronaca di questi giorni, con ipotesi di reato connesse. Il che rappresenta un fatto senza dubbio grave che però dovrebbe far riflettere, questa volta sì responsabilmente, chi governa.

Perché se è vero che c’è stata una violazione della sfera privata, con la conseguente indignazione di chi l’ha subìta, è altrettanto vero che questo non può costituire un ulteriore alibi per un governo che non governa. Si difenda in Tribunale il Presidente del Consiglio, e anche in fretta, ma poi torni a governare, dal momento che l’Italia non può certamente concedersi il lusso di altro immobilismo, deleterio e profondamente rischioso. Per il tessuto produttivo, per le imprese, per i lavoratori, per i cittadini tutti. Significherebbe procrastinare ulteriormente decisioni e valutazioni, far slittare proposte, evitare ancora una volta importanti scelte, che nessun altro paese democratico rinvia in tale modo.

Il caso italiano sta fecondando conflitti istituzionali macroscopici, con risentimenti da parte dei magistrati, delle forze di Polizia, della stampa estera. Poche sere fa intervenendo dagli Stati Uniti ad Annozero, Vittorio Zucconi ha detto che nella mentalità americana c’è una domanda che oltreoceano ci si pone con frequenza: ma perché gli italiani non reagiscono?

Puntando ancora una volta su quell’immobilismo che fa male, a tutti, perché fa più danni di scelte approssimative. Perché quella conservazione colposa dello status quo, questa condotta che temporeggia ignorando le emergenze italiane, dimostra nelle migliori delle ipotesi un mancato attaccamento al paese, un egoismo smisurato che mortifica il dovere che una carica così elevata impone a chi la impersona.

Ecco dove porta quella confusione di ruoli, pubblici e privati, che sono al centro del dibattito. Se Berlusconi è in grado di discernere seriamente le due vesti, prego si accomodi. Ma il coinvolgimento delle due sfere in un calderone pasticciato rischia, come sta facendo, di bloccare ancora una volta il paese. Come scrive Sergio Romano sul Corriere di oggi, il paese “viene prima” di tutto. E il Premier finge di ignorare che egli non è una persona qualunque, come le altre: ma riveste una carica, rappresenta l’istituzione, incarna il volto di una Nazione. Che non può attendere che abbia voglia o meno di presentarsi dinanzi ai giudici.

Senza dimenticare un’altra mescolanza che sa di confusione questa volta dolosa: la trasformazione dell’accusato in accusatore, di chi deve rispondere in chi fa domande. Altro corto circuito del quale non si sente il bisogno. Chi è accusato ha diritto a difendersi nelle sedi competenti, ma anche dinanzi a chi lo ha eletto e a chi non lo ha eletto, dal momento che rappresenta in questo mandato tutti gli italiani. Voler però trasferire il collegio difensivo nelle piazze, nei gazebo, nei salotti televisivi, contribuisce ulteriormente a far pagare il prezzo più alto alla comunità, che sarà privata delle scelte politiche che un governo ha l’obbligo di attuare. Il fondo di Romano conclude chiedendosi: Berlusconi «vuole davvero dimostrare che la sua vita personale è soltanto un affare privato? Lo dimostri facendo a tempo pieno il suo mestiere di uomo pubblico». E si impegni a governare, se può, nell’interesse di tutti...

La svolta di Veltroni: cambiare, non difendere


Da Ffwebmagazine del 22/01/11

“Berlusconi per una volta pensi all’Italia, si dimetta. E via ad un governo con tutte le forze”. E’solo uno dei messaggi lanciati da Walter Veltroni al Lingotto di Torino, in un discorso che ha detto anche dell’altro, dipingendo gli scenari sui quali una politica responsabile e veritiera dovrà muoversi. A partire dal racconto del reale lontano anni luce “dagli incubi e dalle favole”, una politica che dismetta gli abiti della fantasia, delle promesse, dell’illegalità, della congruenza con comportamenti scorretti.

Che abbandoni la singolare solitudine dell’unicum, per concentrarsi sull’orchestra, plastica metafora di una società diversa, dove ognuno dovrà recitare un ruolo, sforzarsi di fare la propria parte per migliorare le condizioni in cui si vive la collettività. E per incarnare il cambiamento, o meglio quella che Veltroni ha definito “la rivoluzione democratica” per il cambiamento. E attuarla compiendo una vera e propria inversione di tendenza, toccando temi concreti e lavorando molto sull’immaginario che la politica, quella con la P maiuscola, è chiamata responsabilmente a ricreare.

Sulla crisi dell’attuale maggioranza dice che “peggio sarebbe solo la livida prosecuzione dell’attuale esecutivo” , quindi se Berlusconi, colto da inatteso interesse per il bene dell’Italia dovesse fare un passo indietro, o ci sia “un Premier diverso che restituisca serenità, o un Governo di unità nazionale, che fronteggi le emergenze, anche per completare l’iter del federalismo”. Per arrivare ad un appello: non si ripetano gli errori del 1994, esorta l’ex sindaco di Roma, dove una serie di svarioni “spianarono la strada a Berlusconi”. Il nuovo ciclo necessita di condizioni, di vero bipolarismo, e “non di un confronto-scontro tra berlusconismo e antiberlusconismo”. Non si può tornare indietro alla frammentazione della prima repubblica, con 53 esecutivi che fecero lievitare il debito pubblico italiano. E una volta finita l’emergenza e superato il bipolarismo degli ultimi 15 anni, “entrare in Europa finalmente con una sinistra riformista ed un centrodestra liberale e moderato”. Invita anche, e soprattutto, a dotarsi di strumenti nuovi, distanti dalle “ideologie del ‘900, o dal populismo di sinistra per combattere quello di Berlusconi”. Esso, invece, va affrontato con le armi del riformismo, che sia “coraggio dell’innovazione, voglia di chiarezza”, per cambiare e non per difendere.

Sul lavoro: la manovra finanziaria vada di pari passo con le condizioni sociali, quindi pollice in su per l’accordo Fiat che consentirà di non interrompere la produzione grazie al canale americano aperto con Chrysler, ma “anche il contratto di Marchionne sia legato ai risultati”, per non creare lavoratori “di serie B, C o D”. L’Italia inoltre è il Paese dove solo un decimo della popolazione ha in mano la stragrande maggioranza della ricchezza, quindi dal momento che le condizioni socio-economiche accusano momenti di elevata criticità, “questi ricchi sostengano il peso del proprio benessere a vantaggio dei più deboli, e non perché il Pd sia contro la ricchezza, ma perché è contro la povertà”.

Sul fisco: non solo lavoratori dipendenti ed autonomi, ma immaginare due nuovi soggetti che esistono da tempo, il popolo delle partite Iva, con cui confrontarsi costruttivamente e le famiglie, per le quali invita a riprendere la proposta avanzata dal Forum delle famiglie, ovvero la no tax area. Magari progettando per l’Italia “un’agenda 2020”, parafrasando quella adottata dalla Germania per uscire dall’empasse.

Sulla cultura: “Qualcuno dice che con essa non si mangia? La cultura invece si respira- ammonisce- e fa stare meglio”. Razionalizzare la spesa è utile, non tagliare indiscriminatamente sul sapere, sui beni archeologici e culturali, su un patrimonio che potrebbe rappresentare proprio l’occasione per fare utili, in quanto è proprio con la bellezza che "si può fare ricchezza”.
Sulla società: deve ridiventare “comunità politico sociale”, lontano da quell’individualismo che, oggi, non è la veste più idonea al momento storico attuale. Costruire quindi identità di cittadini che siano “orchestra” di un progetto globale. Fa riferimento, quindi, all’impossibilità di sostenere esigenze ed opere solo con contributi pubblici, esaltando il ruolo delle Pmi, dei privati che intervengono in partnership. Ma un società, per quanto forte e responsabile, non può essere tale senza diritti. Per gli immigrati “che lavorano e pagano le tasse, per i quali è utile un percorso di legittimazione sociale a partire dal diritto di voto alle elezioni amministrative”; per i più svantaggiati con interventi di welfare mirato; per gli imprenditori vessati dal pizzo. E cita il giudice Caponnetto, come pungolo alla reazione nei confronti delle criminalità; don Ciotti, in un atteggiamento sempre duro dello Stato nei confronti dei beni delle mafie.

Sulle opposizioni: non siano in perenne conflitto, ma pronte al cambiamento ed alla condivisione. “Vendola? Da non guardare con sospetto”, anche se su posizioni differenti. E il tutto “per rafforzare la proposta democratica del Pd”, solo allora le alleanze “verranno da sé” e lontano “dagli ismi che tutto giustificano e che assolvono senza distinzioni”. Per dare inclinazione a quel riformismo utile in chiave futura, quando il paese avrà una coalizione di centrodestra moderata ed europea, ed una riformista democratica su cui far rinascere una “politica che combatta finalmente per la realtà”.

Napolitano: «L'Italia ha bisogno di trovare i suoi "valori comuni"»


Da Ffwebmagazine del 21/01/11

«Non bisogna cercare di ritornare all’origine - diceva Alain de Benoist - perché non si può tornare indietro». Verso dogmi del passato, blocchi monolitici lontani millenni, infrastrutture socioculturali che necessitano di essere ammodernate. Perché l’evoluzione va interpretata, metabolizzata, affiancata da atteggiamenti disillusori, che prendano atto del cambiamento e si sforzano di guidarlo verso un benessere il più possibile collettivo. Governare l’oggi con schemi obsoleti, non è soltanto da stolti, ma è significativo di una classe dirigente dannosa, che non produce benefici, che ritarda le riforme, che stenta a comprendere le esigenze, che si mostra sorda ai richiami sociali.

Per questo le parole del Capo dello Stato in occasione di una cerimonia in ricordo del protagonista della Primavera di Praga, assumono un eco rilevante. Dice Napolitano: «Il fatto che ci ritroviamo insieme dimostra come antiche contrapposizioni ideologiche siano state superate e davvero ci siano le basi affinché in Italia ci si riconosca in un insieme di valori comuni, quelli in cui si è riconosciuto a suo tempo anche Alexander Dubcek». Ideologie, valori comuni, superamento, basi sociali: un invito rivolto non solo a chi ha voluto rendere testimonianza ad un esempio passato di libertà, ma soprattutto uno stimolo a quanti ancora ragionano (o fingono di farlo) con strumenti anacronistici, fomentando fanatismi, anche per evitare limpide valutazioni, pericolose perché reali e non suscettibili di mistificazioni.
Il ragionamento di Napolitano entra di diritto nel pantheon modernista di una politica che intende uscire dal ghetto delle sterili barricate, delle fazioni in guerra perenne e caratterizzate da un fare medioevale. Invece pungola a una definitiva maturazione di interpreti e cognizioni, e al fine di trasmettere ai cittadini ben altri messaggi. Rassicuranti, positivi, ma non fantasiosi o forzatamente in lotta.

Senza dubbio diversi da quelli, ad esempio, che sono stati lanciati in Veneto negli ultimi giorni, dove gli scrittori pro-Battisti sono stati esclusi dagli istituti scolastici e dove nelle biblioteche comunali non si trovano le opere di alcuni scrittori politicamente “scomodi” come Roberto Saviano. Un’ingerenza miope e gretta del fanatismo politico in un ambito, la cultura, che invece dovrebbe essere scevro da tali pregiudizi. Dove dovrebbero contare solo gli scripta, e se proprio qualcuno dovesse decidere di cassare da un programma una lettura per motivi di spazio o di tempo, che almeno lo faccia per una ragione di merito e non di colorazione politica.

Ecco a chi erano indirizzate quelle parole del Presidente della Repubblica, ecco cosa avrebbero voluto impedire, in termini di azioni e di provvedimenti. Perché in questa nuova fase invocata da Giorgio Napolitano, non è solo in gioco la strutturazione futura dell’impalcatura politico-culturale dell’Italia, ma non sarebbe un azzardo dire anche la sopravvivenza stessa del concetto di res publica, di responsabilità anche pedagogica di chi amministra, di chi si carica sulle spalle il fardello della comunità sociale in cui vive. E che non ne fa uso strumentale solo quando, ad esempio, motiva la nascita di gruppi parlamentari dove il termine responsabilità è utilizzato esponenzialmente, anche se spesso forse senza la giusta cognizione di causa.

Dal Quirinale giungono timori e preoccupazioni, e non solo per gli ultimi avvilenti fatti di cronaca, ma più in generale per una condotta politica che si sta avvitando pericolosamente su se stessa, che fatica ad individuare un terreno comune di dialogo, che lascia intendere come non sia così lontano quel medioevo tomba della ragione e del pacifico confronto. Quasi che le conquiste politiche dell’ultimo secolo siano in un momento annullate, quasi che l’agone politico venga visto come un fronte di guerra, dove ripararsi dal bombardamento avversario e dove fare la conta di morti e feriti. Relegando in secondo piano progetti di ampio respiro, iniziative lungimiranti, come la salvaguardia di diritti che con la crisi economica sono oggettivamente a rischio, il sostegno al motore produttivo del Paese, la valorizzazione della ricerca e della formazione scolastica ed universitaria.

Per questo le parole del Capo dello Stato vanno lette con attenzione: perché c’è bisogno di una nuova politica, fatta non di ideologie ma di idee, non di slogan ma di progetti, non di supereroi ma di persone normali. Che si sforzino di cambiare il paese.

venerdì 21 gennaio 2011

Arriva il richiamo della Santa Sede: «Moralità da chi governa»

Da Ffwebmagazine del 20/01/11

Turbamento, preoccupazione, moralità, rispetto. Da Oltretevere era atteso da giorni un cenno, una presa di posizione ufficiale, una reazione, seppur moderata e pesata ma esplicita, sul caos sociomediatico (e politico) scaturito dal caso Ruby. Quel cenno è arrivato. «La Santa Sede segue con attenzione e in particolare con preoccupazione» le vicende della politica italiana dopo gli scandali multipli innescati dalle abitudini del premier. E invita tutti coloro che ricoprono incarichi pubblici ad «avere un impegno più robusto per la moralità, la giustizia e la legalità».
Così il segretario di stato Tarcisio Bertone, a margine dell'inaugurazione di una casa per l’infanzia della Fondazione Ronald McDonald. Eccola la risposta, chiara e senza dubbi o fraintendimenti, anche se in verità l’Osservatore Romano pubblicando la nota del capo dello Stato aveva in qualche modo fatto trapelare già la sua visione dei fatti. Che ora invece è manifesta. Nello specifico il cardinale Bertone ha voluto fare riferimento all’intero contesto sociale e familiare italiano che osserva le cronache di questi giorni, e che si interroga. E richiamando alla «consapevolezza di una grande responsabilità soprattutto di fronte alle famiglie, alle nuove generazioni, alla domanda di esemplarità e ai problemi che pesano sulla società italiana».

Un’uscita, seppur a margine di un altro evento (l’inaugurazione di una residenza per minori a Roma), che rivela il disappunto del Vaticano e che ricalca il turbamento che Giorgio Napolitano aveva espresso solo ventiquattr’ore prima. La chiesa, ha detto il card. Bertone, «spinge e invita tutti, soprattutto coloro che hanno una responsabilità pubblica di ogni genere, in qualsiasi settore, amministrativo, politico o giudiziario, ad avere e ad assumere l'impegno di una più robusta moralità, di un senso di giustizia e di legalità», dal momento che proprio queste tre virtù rappresentano «i cardini di una società che vuole crescere e che vuole dare delle risposte positive a tutti i problemi del nostro tempo».
La Segreteria di Stato, dunque, stigmatizza i comportamenti del Presidente del Consiglio e non poteva essere diversamente. Ma, in precedenza, era stato Avvenire organo della Cei a vergare una dura analisi non solo sulle abitudini che attengono alla libertà personale di Berlusconi, ma sull’immagine compromessa del paese e invitando il premier a chiarire con decisione la sua posizione, stimolando l’apertura di una fase nuova: «Vogliamo cogliere l’occasione per una rigenerazione morale e corale - si legge in un editoriale - per far compiere alla società un soprassalto collettivo di dignità ed aprire una fase nuova». E ancora: «È di questo che abbiamo bisogno tutti noi, in particolare i più giovani, e soprattutto oggi: buoni esempi, dal momento che “i risultati dei cattivi esempi, dei cattivi maestri, della cattiva politica e della cattiva informazione sono sotto gli occhi di tutti».

Ma le dichiarazioni di Bertone si inseriscono in un più ampio ragionamento anche di opportunità politica, dal momento che fino a pochi mesi fa molti commentatori davano per solido il legame tra Berlusconi e le gerarchie vaticane, nonostante gli “incidenti” Noemi e D’Addario. Un rapporto, a questo punto di (s)fiducia, che sembra irrimediabilmente compromesso all’indomani del ben più grave caso Ruby, con le accuse di abuso di potere e di prostituzione minorile. E con sullo sfondo una violenta contrapposizione tra poteri, incrementata dall’ultimo messaggio televisivo del premier.

Dossier, minacce e scheletri: quando a crollare è la dignità


Da Ffwebmagazine del 20/01/11

Ciò che è accaduto sugli schermi del Tg4 è grave. L'immagine di Emilio Fede che da direttore, quindi da padrone di casa, nel riferire del caso Ruby, minaccia: «Attenzione, che di scheletri negli armadi ne hanno tutti», segna la plastica rifrazione di un confine ormai invisibile. Tra pubblico e privato, tra il caso personale di indagato e un tg che forse sarebbe stato più elegante evitare di condurre, magari lasciando a un volto più sereno. Che avrebbe dato le notizie senza minacce, senza ammiccamenti, senza coinvolgimenti che sanno di disperazione. Ecco la deriva (verrebbe da dire in perfetto stile putiniano) della tv che intima, che fa capire di…, che allude. Del mezzo di comunicazione utilizzato al pari di una bomba, da sganciare contro il nemico o i nemici, in un impeto rabbioso che di umano e razionale non ha nulla.

Il metodo non è nuovo, per la verità, dalle parti di certa politica. Di minacce sventolate in prima pagina o durante un servizio televisivo se ne sono viste e sentite in abbondanza, è sufficiente ripensare all’agosto scorso, o al caso Boffo. Ciò che inquieta è, più in generale, il degrado professionale di derive inqualificabili, la mortificazione di una professione, e ciò indipendentemente da come la giustizia farà il proprio corso. Dove la collusione tra le faccende personali e la mission pedagogica ed informativa che un mezzo di comunicazione deontologicamente possiede è oggettivamente disattesa. Quella minaccia, che certamente verrà derubricata a “battuta” così come ormai si tende a fare per sminuire responsabilità e condotte, è invece un fatto da stigmatizzare. Perché segna, qualora ve ne fosse ancora il bisogno, uno spartiacque decisivo tra ciò che è bene fare e ciò che non lo è. In una terra di nessuno dove fino a oggi è stato consentito che vi fossero mistificazioni, mescolanze, conflitti di macro interessi che a un certo momento strabordano, rompendo gli argini anche del buon gusto e del rispetto.

Non è bacchettonismo voler osservare dall’interno la validità di tali atteggiamenti, né è utile proseguire sulla scia del falso moralismo quando si scorgono episodi come quello di Fede. Il coraggio di definire un’azione “sbagliata” non è da intellettuali viziati, o da commentatori spocchiosi, o da amanti del cachemire o del fresco lana. Perché sembra che quando qualcuno intenda affrontare nel merito certe questioni, certi comportamenti, o certe espressioni, venga poi additato come pericoloso Savonarola? Da mettere al bando, da far tacere al più presto, da emarginare perché bigotto o tediosamente stucchevole? A questo scenario, dove la proprietà privata di un mezzo televisivo viene imbracciata come una clava chiodata, se ne affianca un altro se possibile dalla pari rilevanza. In quanto non sarà la connotazione giudiziaria che condizionerà, nel bene o nel male, l’utilizzo distorto di quella manciata di secondi del telegiornale Mediaset.

Una minaccia, resta una minaccia. Con le sue bruttezze, con le conseguenze nelle menti di chi ascolta (e si fa due calcoli), con la perdita della libertà di essere informati. Con una serenità che chi apprende le notizie semplicemente non ha più. Il tutto nella scia di altri episodi, come i dossieraggi, gli attentati presunti o reali, le rivelazioni poi sgonfiatesi come bolle di sapone, le accuse costruite ad hoc, gli inseguimenti tra ombrelloni o negozi di elettrodomestici.
Una minaccia è una minaccia. È un fatto grave, da non imitare, da non ripetere, da condannare. L’ordine dei giornalisti potrà intervenire o meno, ma il peso specifico dell’atto resta inquietante. Ci potranno essere provvedimenti, sospensioni, richiami, prese di posizione, difese, accuse: il quadro d’insieme, però, cambierà solo quando l’Italia dei conflitti smetterà di essere tale, quando libera penna in libero Stato sarà un principio valido per tutti, anche per i dipendenti dell’attuale premier.

martedì 18 gennaio 2011

Ruby leaks: il vicolo cielo e le minacce di Fede

Da Ffwebmagazine del 18/01/11

Paralisi, screditamento internazionale, imbarazzo, prospettive di immobilismo. Il Corriere della Sera punta sulle conseguenze e breve termine del caso Ruby e nel fondo in prima pagina a firma di Massimo Franco evoca palesemente il rischio del vicolo cieco. Non solo resa dei conti finale tra Premier e procura milanese ma, “e forse è peggio, sulla scia dell’inchiesta giudiziaria che riguarda la sua vita intima, può instaurarsi un equilibrio di fatto fondato sulla paralisi”. La strada chiusa che pericolosamente si scorge all’orizzonte, con “una terra di nessuno” dove il Governo non governa, senza decisioni vere, senza passi in avanti verso le riforme annunciate, ha un solo risultato: “la riduzione a livello internazionale dell’Italia a caricatura di un Paese occidentale”.

Ma come uscirne? Franco rileva che se Berlusconi avesse come interlocutore il Paese, prima ancora di chi lo accusa, sarebbe un “gesto di forza e non di debolezza” chiarire le cose dinanzi ai magistrati. E conclude la sua analisi osservando che in caso di elezioni (“non volute, ma subìte”) riproporrebbero “una situazione quasi immutata, esposta non solo alle aggressioni speculative, ma al ridicolo”. All’interno, invece, il Corriere ricostruisce asetticamente le dinamiche degli incontri, delle feste, delle cene, anche delle situazioni debitorie che riguarderebbero l’impresario Mora. Ma è ancora una volta la telefonata notturna partita dalla scorta del Premier alla Questura milanese a tenere banco. Dove si riferisce che lo stesso Presidente del Consiglio dopo aver appreso che la minorenne marocchina era stata fermata perché accusata di aver rubato tremila euro a casa di una sua conoscente, “il 27 maggio ha fatto pressioni sui vertici della stessa questura sostenendo di aver appreso che la ragazza era nipote del presidente egiziano Mubarak, in modo che la minorenne, invece di essere portata in comunità, fosse affidata alla consigliera regionale Minetti”, ex igienista dentale del Cavaliere, ex soubrette, eletta nel Listino bloccato di Formigoni, per Comunione e Liberazione, in occasione delle ultime consultazioni regionali in Lombardia.

Anche Repubblica punta sull’immagine dell’Italia fortemente compromessa quando nel fondo Il capolinea senza firma, (quindi del direttore Ezio Mauro) rileva che in un altro qualunque Paese normale, un Premier coinvolto “nel ridicolo e nello squallore di questo scandalo, si sarebbe già ritirato a vita privata, per difendersi senza coinvolgere lo Stato nella sua vergogna”. E titola: Le carte dello scandalo, con sotto una foto di Berlusconi assonnato ed assente. Mauro si chiede, inoltre, se possa governare un Paese democratico “un leader che da giorni è lo zimbello del mondo per i festini con minorenni prostitute, pagate e travestite da infermiere per eccitare il satrapo stanco”? Nell’ulteriore analisi, Il girone infernale del Sultano, si riflette invece sulle interconnessioni personali ed umorali della vicenda e non solo dello stesso Presidente del Consiglio, ma con preciso riferimento alle persone del suo entourage.

“Cade l’umore alla lettura delle 389 pagine che raccolgono le fonti di prova contro Berlusconi- scrivono Colaprico e D’Avanzo- anche chi non si è mai illuso della nobiltà dell’uomo o non ha mai apprezzato le sue qualità di capo del Governo, resta stupefatto”, puntando sullo sconcerto nell’apprendere dei dettagli più scabrosi e dequalificanti da parte di chi non si sarebbe certamente aspettato tanto degrado. E lo stupore, prosegue il pezzo, è dato “dallo squallore delle scene di vita che quelle carte raccontano”. Per giungere all’amara constatazione di un doppio piano esistenziale, non solo incidente sulla vita personale del Premier, ma con specifiche ripercussioni più in generale per la Nazione: “è un quadro prima malinconico, ma poi drammaticamente pericoloso per la credibilità delle istituzioni”.

In un altro articolo all’interno Privacy violata, stop ai pazzi si dà conto dello show intimidatorio di Emilio Fede (coinvolto nella vicenda ed anch’egli indagato) andato in onda ieri dagli schermi del tg4, con una minaccia che sa per l’appunto di minaccia, quando il direttore, nel ventennale del suo tiggì targato Medeiaset, dice “fate attenzione, perché gli scheletri nell’armadio ce li hanno tutti”. Lecito chiedersi: ce n’è abbastanza perchè l’Ordine dei Giornalisti valuti eventuali provvedimenti, su un atteggiamento che non attiene ad un telegiornale?

lunedì 17 gennaio 2011

Quei giornali che sviliscono l’informazione italiana


Da Ffwebmagazine del 17/01/11

Ha detto William Faulkner che «non abbiamo leggi contro il cattivo gusto, forse perché nella nostra democrazia il cattivo gusto è stato convertito in un bene di consumo». Da diffondere come una prima necessità, da irrorare a più non posso in tutti i livelli, sociali, culturali, letterari. Sì, anche letterari. Fa una certa tristezza questa mattina (e non solo questa mattina) vedere due importanti quotidiani italiani sviliti, retrocessi alla serie B dell’autorevolezza. Una critica, con tutto il rispetto che si deve, che sgorga senza vis polemica e indipendentemente dalla portata del caso Ruby.

Il primo dei due, è stato fondato nel 1944 da un galantuomo, e l’esordio in edicola è stato proprio all’indomani della liberazione della Capitale. Inizialmente la testata aveva come nome L’Italia, ma poi fu scelto Il Tempo. Oggi, a quasi settant’anni di esistenza in un altrettanto prestigioso palazzo romano, non mostra la cifra che gli è data dall’esperienza e dalla portata dei direttori che ha avuto, tra cui lo stesso Gianni Letta. Il secondo, fondato nel 1974 da un altro galantuomo, che in seguito rinunciò a guadagni sicuri (e sepolture faraoniche) per una cosa che si chiama libertà, venne diretto dalla stessa penna per vent’anni, salvo poi subire un’inversione imprevista e improvvisa: di tendenza, di stile, di composizione della proposta politica, sociale e culturale.

Oggi i due quotidiani titolano a nove colonne, non su di un fatto oggetto di analisi e valutazioni, non su di un dato politico, non su di un’agenzia uscita la sera prima, non su di un evento di caratura internazionale, ma sul fidanzamento del Premier dato per certo, quasi fossero due di quei fogli che si leggono sulla spiaggia in attesa che la mezza chiami a raccolta i bagnanti per un panino. Uno svilimento che non è direttamente proporzionale ai fatti, come un'indagine o l'iscrizione nel registro degli indagati. Ma che è la linea. Semplicemente qualcuno ha tentato di scopiazzare, e male, i tabloid inglesi, quelli peggiori, con il risultato di avere il marchio Signorini dappertutto. Nei titoli, nella cifra di alcuni articoli, persino nell’inclinazione di certa punteggiatura. Sarebbe interessante provare a mettersi nei panni dei poveri colleghi, magari gente di spessore, che ha studiato, che si interroga, che cerca fra le righe delle notizie e non si ferma alle briciole: beh, questi signori oggi sono costretti a "gossippare", a fare un giornalismo che tale non è. E solo strumentalmente.

Non solo tabloid di bassa leva, dunque, ma a questo punto eliminazione (dolosa o colposa poco importa) anche di contenuti e di quella capacità di valutare la portata dei fatti. Niente referendum in Sudan, né il dramma parlamentare della Tunisia, né la sempre invocata lotta alle mafie, né le proposte per la ripresa economica, né un accenno alla tanto di moda politica per la famiglia. Ma un’altra famiglia, questa volta allargata e con la mission di tenersi ben lontani dall’informazione di qualità. Lecito chiedersi: ma qualcuno avrà fatto lo sforzo di rileggersi le collezioni di quei due quotidiani? Qualcuna di quelle pink pen avrà osservato la portata di una storia giornalistica, delle battaglie sostenute, delle iniziative culturali avanzate, delle proposte politiche stimolate da due pezzi importanti della storia giornalistica italiana? Da cui sono transitate molte personalità autorevoli, le stesse che dovrebbero avere un sussulto di orgoglio.

Perché qui, non è più solo in gioco una credibilità che ormai è definitivamente compromessa (utilizzatore finale o meno), qui sta crollando un intero tessuto sociale, una generazione di personaggi pubblici che non si rendono conto di come il fondo sia stato abbondantemente raggiunto. Con il rischio che si vada ancor più in basso. Ma, indipendentemente dalle indagini, dalla vita privata, da quella pubblica, dai presunti reati, dalle possibili condanne o assoluzioni, sarebbe bello (e, diciamolo, edificante) se qualcuna di quelle penne, o anche uno solo di coloro che stampano siffatte notizie, ammettessero la paternità di quel prodotto: e le conseguenze culturali di quell’azione. Ma senza rancore, senza volontà persecutoria, senza che gli altri li guardino dall’alto in basso. Solo per rispetto alla storia di due quotidiani, ai direttori che li hanno firmati, e al Paese che li legge. E che meriterebbe ben altro.

E così il Rubygate fa il giro del mondo...


Da Ffwebmagazine del 16/01/11

La notizia del caso Ruby, e della convocazione in procura del Presidente del Consiglio italiano già per la prossima settimana, ha ovviamente fatto il giro del mondo sui media internazionali, offrendo un’immagine non certamente edificante dell’Italia. Quasi tutti titolano sull’ipotesi di reato, anche con ironia, mostrando dovizia di particolari circa la telefonata dello scorso maggio in Questura e dello stile di vita di Berlusconi.
Lo spagnolo El Mundo si rifà alla traccia di titolo del Corriere della Sera: “Berlusconi indagato per presunto reato di prostituzione”. Mentre sulla prima pagina dell’inglese Guardian troneggia la foto di Berlusconi, sotto la quale si sottolineano le indagini in corso per un caso di prostituzione minorile. La BBC riporta la notizia delle indagini a carico del capo del Governo italiano per la «ballerina teenager Ruby. Il Cavaliere è sospettato di abuso di potere per aver richiesto il suo rilascio» .

Secca ma non meno efficace la CCN: “Premier italiano coinvolto in caso di prostituzione”, al pari del The Telegraph ,“Berlusconi indagato per concussione e prostituzione minorile”. Il francese Liberation titola “Ruby, il sassolino nel bagaglio del Cavaliere»: Rubygate è il nome dello scandalo che «ha scosso l’Italia, dal nome della marocchina che Berlusconi avrebbe assunto come escort. Il Premier è anche sospettato di aver abusato del suo ufficio» , riprendendo la telefonata alla Polizia milanese. E continua: «Alcuni giornali citano escort-girl e raccontano di feste orgiastiche nelle sue residenze private. I Pm lo convocheranno e breve».
Il quotidiano greco Tà Nèa punta sulla metafora: “Ruby brucia Berlusconi”, riferendo nell’articolo in prima pagina che poche ore dopo la decisione della Consulta sul legittimo impedimento spunta «il caso di una prostituta minorenne, l’ormai nota Ruby» . Riferendo dell’ingerenza del Premier nell’ormai nota telefonata notturna alla Questura di Milano e citando anche l’inasprimento delle pene proprio per il reato ipotizzato a suo carico. Il belga Le soir evidenzia il fatto che Ruby, diciottenne da pochi mesi, «ha ammesso di aver frequentato almeno una volta la residenza di Berlusconi, ma ha detto di non aver mai avuto rapporti sessuali con lui».

La notizia ha raggiunto anche i media d’oltreoceano. L’americano New York Times ricostruisce gli ultimi due anni di vicissitudini berlusconiane, dalle prime avvisaglie date dalla lettera della sig.ra Veronica Lario «al nomignolo papi affibbiatogli da stormi di giovani donne, comprese minori, partecipando a vivaci feste nelle sue residenze private» . Fox news invece titola: «Da Berlusconi settemila euro ad una minorenne» . Specificando che la Procura di Milano indaga su di lui per aver fatto sesso con una minore marocchina, avendo poi abusato del suo «potere per cercare di coprire gli incontri» . L’adolescente, una ballerina di nome Ruby, ha dichiarato: «ero appena arrivata a Milano e lui sapeva della mia difficile situazione familiare e voleva aiutarmi» . Aggiungendo che i procuratori convocheranno il Premier già il prossimo venerdì.
L’australiano Daily Telegraph scrive: «Giudici italiani indagano il Premier per prostituzione» . Aggiungendo che «avrebbe pagato una 17enne per sesso e abusato dei poteri del suo ufficio, cercando di coprire il collegamento» . Il quotidiano argentino Buenos Aires Herald: «Primo ministro italiano indagato per sesso con una ballerina di night-club. Lo stesso premier si difende: “un tentativo grottesco di distruggermi politicamente”». «L'inchiesta – prosegue l’articolo- arriva in un momento delicato per Berlusconi, dopo la raschiatura con un voto di fiducia il mese scorso e potrebbe perdere l'immunità da procedimenti giudiziari dopo una sentenza della Corte di questa settimana».

Spostandoci in Asia il quadro non cambia. La CCN Japan riferisce che i pubblici ministeri milanesi sospettano che il Capo del Governo italiano abbia fatto sesso a pagamento con una 17enne: «Ora Berlusconi è sotto inchiesta con l'accusa di prostituzione minorile, abuso di potere e di complicità. Ha fatto avviare l'inchiesta della procura di Milano, la pressione che il primo ministro ha fatto per liberare la ragazza, arrestata dalla polizia per furto nel dicembre 2010. Il primo ministro ha negato il coinvolgimento nell'incidente. Tuttavia, le circostanze del primo ministro restano gravi».

Sospetti gravi e verità necessarie

Da Ffwebmagazine del 15/01/11

«Non è moralismo, non si parla in questo caso di stile di vita, ma una condotta che la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica considererebbe in contrasto con la dignità che la carica istituzionale di un governo reclama». Così Pierluigi Battista in un fondo sul Corriere della Sera di oggi, commenta il caso Ruby e la richiesta dei magistrati del rito abbreviato a carico di Silvio Berlusconi, indagato per concussione e prostituzione minorile. Proprio il quotidiano di via Solferino, per prassi moderato ed equilibrato, offre una panoramica attenta e scevra da strumentalizzazioni sul fatto del giorno.
«Un pessimo biglietto da visita» proprio alla vigilia delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità, prosegue Battista, per questo si rende necessario che ai cittadini venga offerta chiarezza: e sotto il profilo politico e morale, prima ancora che su quello squisitamente giudiziario. «La verità prima di tutto» è il filo conduttore, dal momento che non sarà un momento particolarmente costruttivo quello in cui i giornali di tutto il mondo, daranno rilievo a un paese al cui vertice siede un premier accusato di tali reati».

Una verità, sottolinea Battista, da perseguire «senza ostacoli, dilazioni, ostruzionismi». Così come l’intero centrodestra è libero di credere di essere ancora una volta oggetto di una campagna contra, anche la pubblica opinione è altrettanto libera di richiedere un rapido chiarimento dal premier, e considerata la cifra delle accuse. La tesi apparsa sul Corriere punta non solo sull’immagine dell’Italia, che sarebbe inevitabilmente colpita dal punto di vista della credibilità internazionale. Ma evidenzia come un chiarimento dovrebbe «essere in primo luogo richiesto proprio dal capo del governo».
Per allontanare sospetti, per riprendere la marcia dell’esecutivo, per eliminare ogni minuscolo indizio di colpevolezza. Perché se le accuse si rivelassero fondate «sarebbero ancora più gravi le implicazioni morali, istituzionali e politiche, che rischiano di travolgere di discredito non solo il premier ma, e stavolta immeritatamente, tutt’intera la compagine governativa». Per questo Battista sostiene che non si possa epitetare come “moralismo” lo sconcerto pubblico suscitato all’indomani delle notizie del caso Ruby, né concernente uno stile di vita personale, discutibile ma «pur sempre confinato nel recinto di una dimensione privata che reclama protezione dallo sguardo intrusivo di un’inquisizione etica». Questa volta, invece, e qualora i fatti dovessero corrispondere a verità, si aprirebbero scenari che la maggioranza dell’opinione pubblica, anche quella che ha votato centrodestra, non condividerebbe.

A Berlusconi non può essere «toccato il diritto di difendersi in presenza di contestazioni infamanti - scrive l’editorialista - tra l’altro rese pubbliche, con uno zelo che autorizza ogni genere di malizioso accostamento temporale», e proprio all’indomani della pronuncia della Consulta sul legittimo impedimento, che di fatto smonta lo scudo giudiziario a suo favore. Ma è imprescindibile che gli «italiani sappiano».
Inoltre il rito abbreviato chiesto dai magistrati, e sul quale il premier si è espresso con durezza («i giudici sovvertono la democrazia») e che i suoi difensori hanno bollato come «sintomo di eccessiva fretta», è visto nel ragionamento di Battista come un’occasione. Per uscire dalla non conoscenza dei fatti, per impedire storture. E per ottenere ciò, servirebbe un chiarimento immediato che «dovrebbe essere chiesto in primo luogo dal capo del governo, che si dice forte delle sue ragioni, e che dunque non dovrebbe avere alcun interesse a sottrarsi ad un giudizio in tempi brevissimi». Una condotta che se osservata da parte del premier con scrupolo e moderazione avrebbe un duplice risultato: da un lato sarebbe la testimonianza di un rispetto di se stesso fuori discussione, come è giusto che sia. Dall’altro, conclude l’analisi sul Corriere, rappresenterebbe una segnale di rispetto anche nei confronti «dei cittadini e del nome dell’Italia nel mondo. Senza ombre e senza equivoci».

venerdì 14 gennaio 2011

Ma l'allarme sociale fomenta solo false paure


Da Ffwebmagazine del 14/01/11

Un indecifrabile calderone di paure, dove tutto viene fatto confluire spargendo timori tra la gente, costretta a respirare un’aria malsana, fautrice di quel grado zero del pensiero che avvia una rivoluzione all’indietro. È la società della paura, della propaganda ansiogena, dove eventi e fatti vengono esponenzialmente veicolati sotto il comune denominatore della sicurezza, erroneamente divenuta ormai il vero nemico sotterraneo che si aggira per città e quartieri.

Ma che cosa s’intende oggi per sicurezza? Perché viene così esageratamente invocata, da tutti, in ogni dove? Dai politici di tutte le fazioni, in ogni comizio, dai sindaci, dai capicondomini, dai giornali e dalle televisioni, dai commercianti, dagli insegnanti. Come mai, nonostante il tasso di criminalità in Italia sia più o meno identico da dieci anni a questa parte (dati Caritas Migrantes) si continua a proclamarne l’incremento a causa della presenza degli immigrati? Ha detto Amartya Sen “non dobbiamo permettere mai che la nostra mente sia divisa in due da un orizzonte”. Perché impedisce di scorgere i particolari delle cose, gli interstizi che ne determinano poi cause ed effetti reali. Perché rilevanti all’ennesima potenza, perché lontani anni luce da rappresentazioni e spiegazioni grossolane, improntate al facile populismo, alle analisi pressappochiste, dove contano solo slogan e facili applausi. Talmente facili da rivelarsi controproducenti, non solo per chi li riceve illudendosi di fare il bene comune, ma soprattutto per chi li quegli scrosci di mani e dita fa partire illusoriamente.

E invece la società post moderna, della globalizzazione, del progresso, dove tutti possono tutto, con uno slancio ipertecnologico notevole, con traguardi nuovi e innovativi, proprio quel tessuto socio-culturale è oggi avviluppato attorno al tema sicurezza. Quasi che si fosse attorno ad un falò, accovacciati in attesa della prossima violenza. Di cui dissertare in ogni ambito, da cui far partire ragionamenti sui battiti di ciglia e proposte effimere, a cui imputare paranoie e mistificazioni della realtà. Senza rendersi, invece, conto di come ciò corrisponda a una falsa narrazione, dove sono state spruzzate dolosamente paure e false descrizioni di un mondo che semplicemente non c’è. E che viene visto con lenti sfocate, che contorcono il panorama veritiero.

Una stratificazione antirazionale che è stata piacevolmente raffigurata nel volume Dieci in paura, a cura di Maria Nadotti (edizioni Epochè), nato dall’idea di Mariano Bottaccio e del Cnca (Coordinamento nazionale comunità di accoglienza). Dove con dieci racconti diversi e peculiari, si cerca di rispondere, magari partendo da quella massima di Hannah Arendt secondo cui «dove tutti mentono riguardo a ogni cosa importante, colui che dice la verità, lo sappia o no, ha iniziato ad agire».

Perché non è sufficiente condannare una deriva sbagliata, evidenziarne le criticità, ma si rende imprescindibile spostarsi nella direzione opposta, far comprendere come le paure si possono e si devono combattere grazie alla libertà di pensiero, alla logica soluzione degli enigmi della mente, scrostando i luoghi comuni e le facili assonanze, come immigrati uguale criminali, o disoccupazione per gli italiani. In quanto è vero esattamente il contrario, dal momento che essi contribuiscono al Pil italiano per il 10% (dati Istat e Caritas Migrantes), perché senza il loro apporto molte imprese agricole, edilizie, manifatturiere chiuderebbero, oltre ai milioni di anziani che rimarrebbero senza le preziose badanti. Piccoli dati, fra le righe di un simpatico volume, che non farebbe male a quegli amministratori che, proiettati nella quotidiana attività politica e comunicativa, dimenticano di approfondire dati ed analisi prima di parlare apertamente e con sorprendente convinzione di sicurezza, immigrati, vita reale e piani di emergenza.

Un’emergenza che, a questo punto, è solo nella mente di cittadini e politici. Preda, a seguito della caduta del muro di Berlino, di una «fulminea narcosi della ragione», definita nel libro «ebbrezza del modello unico, stordimento divorante: promessa di consumo per tutti, garanzia di profitto per pochi». Con precise responsabilità da parte dei media, ancora una volta inscientemente presenti nell’amplificare notizie, per bypassare commenti e valutazioni in chiave sensazionalistica, lontani sideralmente da ciò che invece accade. Sarebbe sufficiente scorgere qualche titolo nei pezzi di cronaca per rendersene facilmente conto, come quando si dà notizia di un reato puntando sulla nazionalità di chi lo ha commesso, tralasciando la notizia in sé. Perché fa comodo instillare il germe epilettico della diversità, perché non serve uno sforzo culturale nello spiegare, magari terra-terra, che è sempre colpa degli altri.

Mentre invece si sta pericolosamente inceppando l’immaginazione sociale, la delucidazione politica anche di un inconscio personale allo sbando. Con giornalisti trasformatisi in istigatori di paure sociali, che evitano accuratamente di agire sugli stereotipi per abbatterli, per scacciarli definitivamente, per tornare a parlare, ad ascoltare, a ragionare, senza quell’elettricità diffusa a tutti i livelli. Senza quell’isteria che va dai consigli su come perdere i chili post festeggiamenti natalizi ai suggerimenti per evitare le truffe agli anziani, dagli squilli anonimi (che inquietano uno dei personaggi raccontati nel libro) alle più dure politiche di repressione degli stranieri «che rubano il lavoro agli italiani». Non volevamo fare un libro, scrivono in coda gli autori, ma «aiutare a pensare, a diffidare di un nuovo senso comune».

E Bondi dice quel che Berlusconi pensa...

Da Ffwebmagazine del 14/01/11

«Oggi la Consulta ha stabilito la superiorità dell’ordine giudiziario rispetto a quello democratico». C’è qualcosa di nuovo sotto il sole: Sandro Bondi si fa ventriloquo del premier, e semplicemente riferisce ciò che Berlusconi non dice. In una sorta di rappresentazione plastica del pensiero altrui, sembra un toro che sta per essere matato, spalanca gli occhi, si agita, si contorce. Irride la sentenza della Corte Costituzionale che poche ore prima il Capo dello Stato aveva definito «equilibrata, ponderata e seria», che per come è maturata la pone la Consulta al riparo dalle solite accuse di “faziosità”. E allora il conflitto tra poteri dello Stato viene riacceso dal ministro della Cultura, che accusa: è stata rimessa «nelle mani di un magistrato la decisione ultima in merito all’esercizio della responsabilità politica e istituzionale. Siamo di fronte al rovesciamento dei cardini non solo della nostra Costituzione, ma dei principi fondamentali di ogni ordine democratico».

Parole pesanti, che invece il premier, intervenuto telefonicamente a una trasmissione sulle sue reti tv, evita di pronunciare, pur proseguendo nel ritornello di sempre: la tenacia ideologica dei giudici di sinistra, il record assoluto della storia dell’uomo per quanto concerne processi e indagini, un fumus persecutionis che dura dalla sua discesa in campo, nessuna conseguenza per l’esecutivo, un allargamento a breve della maggioranza grazie ai gruppi di responsabilità nazionale, il no a elezioni anticipate (anche se Bossi le prospetta un giorno sì e l’altro no) di cui il paese non ha bisogno. Senza far mancare una frase che strappa un sorriso: «Il legittimo impedimento? Non l’ho chiesto io, ma alcuni parlamentari del Pdl».

A dimostrazione della volontà precisa di raccontare un’altra storia. «Non mi aspettavo nulla di diverso», dice Berlusconi commentando la sentenza della Consulta, essa «non ha demolito l’impianto originale della legge, in quanto saranno i giudici di volta in volta a stabilire la validità dell’impedimento. Ciò sospende il calcolo dei tempi della prescrizione, quindi nulla di traumatico», né tantomeno «nulla di così favorevole». Entrando nel merito tecnico della pronuncia, riflette sul fatto che «la sentenza ha migliorato la situazione precedente, non sarà così facile per i miei difensori ottenere un atteggiamento favorevole dei magistrati di sinistra», sancendo l’avvio dell’ennesima rivendicazione contro il potere giudiziario. Lo stesso che «mi perseguita dal 1994 anno della discesa in campo, con 100 indagini, 28 processi (record assoluto della storia dell’uomo) e 2600 udienze, quindi una al giorno compresi i fine settimana quando invece i magistrati non lavorano».

E il premier non rinuncia, ancora una volta, a dipingere un mondo (la magistratura) che fantastica reati e inventa procedimenti a suo carico. Quindi elenca i successi che ha registrato in tribunale: «Ho ottenuto 10 assoluzioni, 13 archiviazioni, spendendo 300 milioni in difesa. Mi ha salvato la prescrizione? Vuol dire che le tesi dell’accusa non erano poi così forti se è trascorso il tempo previsto dalla legge». Elenca le assoluzioni perché il fatto non sussiste, ma “dimentica” quelle perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato.

E ora che succederà, gli viene chiesto da un Maurizio Belpietro stranamente fiacco e molto conciliante nelle domande? I processi ancora in corso «sono ridicoli e inventati. Fatti che non esistono, lo giuro sulla testa dei miei figli e nipoti. Se nei collegi vi saranno solo giudici di sinistra, sarò costretto ad andare in televisione a spiegare questi fatti, che sono certi e inoppugnabili».

Una doppia strategia comunicativa, quindi, che punta a far passare due messaggi, distinti ma paralleli. Lontani i tempi in cui Berlusconi accusava direttamente le istituzioni, o le tacciava palesemente di essere antidemocratiche. Oggi è stata inaugurata un’altra linea, dove il Premier si limita alle solite teorie sulla persecuzione ideologica comunista, lasciando al ventriloquo Bondi il compito di “sporcarsi le mani” con la dura accusatio rivolta alla Consulta di aver sovvertito non solo la Costituzione ma anche l’ordine democratico del paese. Ma che, nella sostanza, non muta il problema: figure istituzionali che dovrebbero osservare ben altra condotta…

mercoledì 12 gennaio 2011

Quel coraggio di dire “no”, anche a chi offre uno stipendio


Da Ffwebmagazine del 12/01/11

Quando Pablo Neruda non era ancora Pablo Neruda, ovvero quando lo era ma la gente non lo sapeva, il cileno, che divenne Premio Nobel nel ’71, era solo un poeta universitario. Tra i morsi della fame, come ricorda in Confesso che ho vissuto, in una stanzetta presa in affitto nei pressi della facoltà di Pedagogia di Santiago. Ma nella quale l’animo libero e arioso di Pablo non durò molto, per via del fare invadente del padrone di casa, il quale spiava la sua corrispondenza, controllava i suoi libri con fare, appunto, padronale. Un atteggiamento semplicemente respinto da Neruda, pagando il prezzo che si doveva (e che si deve) alla libertà, quel coraggio di scegliere un’alternativa a qualunque costo. Fuggì in un altro alloggio, situato in una soffitta altissima, dove restò a lungo: povero, ma libero. Niente compromessi, niente servilismi, niente teste basse o sguardi svuotati. Ma coraggio allo stato puro: di scrivere, di dedurre, di testimoniare.

Il coraggio di dissentire, di rinnegare, di parlare apertamente e con franchezza di tutti, amici e non, di datori di lavoro vecchi e nuovi. Come fece Indro Montanelli all’indomani della sua uscita dal Giornale che aveva fondato. L’episodio è stato ripreso, tra mille altre cose (per lo più piccoli retroscena o presunti tali), in un’intervista fiume che Vittorio Feltri ha concesso al quotidiano Italia Oggi. L’ex direttore del Giornale di famiglia ora editore di Libero assieme a Maurizio Belpietro, colpito da un provvedimento dell’Ordine dei giornalisti di interdizione per alcuni mesi, non avendo quindi facoltà di scrivere, si è dato alle analisi a trecentosessanta gradi. Con risultati sorprendenti. «A Cortina? Faccio anche del cabaret, delle battute». Come mai, gli viene chiesto, nonostante sia un ateo si è sempre circondato di esponenti di Comunione e Liberazione? «I giornali non devono essere monocordi – risponde - non mi sono mai posto il problema di Cl». E sui rapporti con il presidente del Consiglio: «Gli ho presentato io Sallusti, non lo conosceva, sbagliava pure il cognome». Sì, certo, come quando in una conferenza stampa che chiudeva l’incontro bilaterale Spagna-Italia, anziché Gianpi Tarantini, chiamò l’imprenditore pugliese Tarantino.

E ancora: «Berlusconi mi disse che suo fratello Paolo era soddisfatto del mio lavoro», facendo intendere che addirittura il premier riferiva a un sottoposto del gradimento del familiare editore, in una mescolanza di ruoli che fa certamente sorridere. Parla anche del Riformista, giusto per non farsi mancare nulla e non far mancare nulla ai lettori: «Un giornale che non aveva senso, proprio come la parola riformista. In Italia tutti i guai sono arrivati proprio dalle riforme». Del duo Sallusti-Santanchè, direttore e responsabile della pubblicità del Giornale oltre che sottosegretario, invece, dice: «Sono una coppia, ma non so se sono un’accoppiata».

Ma il meglio, o il peggio, lo riserva in coda all’intervista, dettaglio che quindi ci ha costretti a leggerla tutta, quando ricorda di Montanelli: «Da Santoro disse che Berlusconi era un manganellatore, e giù insulti. Lui non poteva attaccare così uno che gli aveva pagato lo stipendio per 17 anni». E no, a quest’ultima frase non si può non eccepire. Ecco la mentalità padronale, dove basta un capo che con una busta paga acquista menti e dita che scrivono per spegnere megafoni e idee. Dove sono in voga i verbi assecondare, asservire ed eseguire. Una deriva che, nonostante le prese di distanza siderali dal vecchio mondo sovietico, proprio a esso si ispirano, tra nomenklatura che decidono ed editti contra.

Ma quei 17 anni di stipendio berlusconiano non sono però riusciti nell’impresa delle imprese: zittire una voce libera, un professionista dalla schiena dritta, senza padrini e senza padroni. Un esempio da non dimenticare, da scolpire in tutte le bacheche delle redazioni, e di cui periodicamente ricordare la valenza.
Quel “no”, quel “non ci sto”, piaccia o meno a Feltri, è sinonimo di libertà. Libertà vera.

martedì 11 gennaio 2011

E la vecchia politica ha casa a Gemonio


Da Ffwebmagazine del 11/01/11

C’era una volta la vecchia politica, del teatrino di teatranti, o dei «maneggioni della vecchia politica» (copyright Silvio Berlusconi), che faceva male al Paese. Perché legata a microricatti e giochetti di palazzo, a improvvise inversioni e repentini cambiamenti, anche di modalità di azione. Basata sugli umori, o solo sulle contingenze. Ce n’è stata poi un’altra, che si dichiarava del fare e lontana anni luce dai calcoli del passato. Che si diceva del realizzare, del lavorare, dell’andare avanti.

Quando Umberto Bossi, ai giornalisti che gli chiedevano come mai cambiasse opinione sul voto un giorno sì e l’altro pure, ha detto «non si vota a marzo? Con questo sole, direi di no», dimostra di appartenere proprio a quella vecchia politica condannata dal suo stesso Premier. Perché figlia dell’improvvisazione, della mancanza di un progetto politico serio, come quando ha aggiunto che «in certi giorni c’è il sole e in certi altri meno. La politica è lo stesso. È fatta da persone».
No, non siamo d’accordo. La politica non è come il meteo, non vive e si comporta a seconda del tempo che fa, se piove, fa freddo, nevica o fa scirocco. La politica, quella vera, quella alta e ragionata, quella che denuncia i reati alla magistratura, quella che riflette sul futuro del Paese e non di un solo pezzetto di nazione, quella che ascolta e parla con i cittadini di tutte le età e di tutte le provenienze, quella che provvede alla ripresa del tessuto produttivo, quella che indaga sulle vittime dell’uranio impoverito, quella che lavora perché tutti paghino le tasse, quella che sa leggere fra le righe degli eventi, quella che investe nella cultura, quella che non fa mancare la benzina nelle auto dei poliziotti, quella che si chiede come mai le tariffe assicurative continuano schizzare alle stelle, quella che non insulta i giudici, quella insomma che governa una Nazione, non la si fa con un sigaro in bocca e scrutando l’orizzonte alla fantasiosa ricerca di cirri o folate di maestrale. Per comportarsi gattopardescamente di conseguenza.

Ma la si struttura responsabilmente e con rispetto, facendo le cose che si dice di voler fare (sempre se si è in grado di farle). Costi quel che costi. E ciò include tutte le riforme strutturali che necessitano all’Italia, come gli sgravi fiscali alle imprese, o gli interventi per le famiglie numerose, o iniziative per avviare finalmente l’industria dell’energia pulita, o l’alta velocità in tutte le regioni, o il rifacimento della Salerno-Reggio Calabria, o la chiusura di aeroporti inutili e dispendiosi, o l’eliminazione delle province, o delle auto blu finanche per i consiglieri comunali della Capitale. E non solo il pur interessante federalismo. Perché pare, invece, che tutt’un tratto proprio il provvedimento tanto caro alla Lega, sia improvvisamente diventato il motore trainante per avviarsi felicemente alla futura prosperità, l’uovo di Colombo per uscire dall’empasse. «La Lega Nord lo vuole subito, altrimenti si vota», ha detto il ministro Calderoli. Che, anziché semplificare, minaccia.

Per carità, il federalismo, se solidale, resta un’idea sulla quale lavorare trasversalmente per eliminare sprechi e ridistribuire le tasse. Ma farla passare per l’unica e sola ragione utile per non andare alle urne, sembra appunto una motivazione da vecchia politica. Che non ha poi così tanto da dire.
E allora l’uscita di Bossi altro non è che la spia della non-politica: non è con l’improvvisazione giornaliera o con battutacce buone per qualche manifestazione a base di ampolle e riti improbabili che si confezionerà una strategia di lungo respiro. Eccoli i vecchi giochetti da vecchia politica di cui qualcuno in passato si è lamentato, altro che finiani o traditori. Il retaggio pachidermico e burocratico del cambiare per non cambiare nulla, abita a Gemonio.

lunedì 10 gennaio 2011

Ma l'Italia è un paese transculturale


Da Ffwebmagazine del 10/01/11

«L’Italia può essere il Paese della storia, del presente, del futuro e della transetnicità, della transculturalità che va oltre la multietnicità, perché basata sulla trasmissione di saperi e vite, sulla creazione di nuove identità e non solo sul molteplice che rimane separato e distinto». Potrebbe essere un nuovo manifesto socio-culturale per inaugurare i secondi centocinquant’anni di unità nazionale, o molto più semplicemente un vademecum per amministratori distratti, per cittadini che delegano e poi si lagnano, per analisti superficiali.

È invece una delle stimolanti riflessioni di Noitaliani, di Gianguido Pagi Palumbo, pensieri su carta nella scia di una o molte identità, che da millenni popolano lo stivale e che si incrociano, si incontrano, si sfiorano, si scontrano, per poi amalgamarsi. Per dare i frutti che la storia ha poi scritto, con gli eventi, le guerre, le divisioni e finalmente le unioni, che hanno caratterizzato un Paese a volte buffo, malandato, ma capace di grandi imprese e scoperte di rilevanza mondiale.
Magari avviando l’analisi dalle parole di Francesco Remotti, secondo cui «l’identità è l’ultima risorsa che rimane quando c’è penuria di strumenti per immaginare un futuro diverso, quando si chiudono gli occhi di fronte alla possibilità dell’alterazione». Ma identità, o complesso di identità, è anche e soprattutto il concorso di anime, di sensibilità, di percezioni che, assieme, costruiscono un’impalcatura socio-culturale che solo a seguito di tale incontro/scontro forma le coscienze unitarie di un Paese. Quelle stesse anime hanno però bisogno di vivacità, di brio mentale, in quanto «ogni sapere da cui non scaturiscono nuove domande - disse Wislawa Szymborka - diventa in breve morto, perde la temperatura che favorisce la vita».

L’autore miscela passato e presente identitario, per comporre un quadro orientato il più possibile al futuro. Passando dalle divisioni storiche della politica italiana, tra destra e sinistra coniugate con, da un lato il trinomio Dio-Patria-famiglia, e dall’altro quello materia-mondo-moltitudine. O con, da un versante il trittico di verbi credere-obbedire-combattere, e dall’altro dubitare-discutere-comunicare. Per addivenire all’assunto che «non è vero che non si possono rilanciare un orgoglio nazionale, basato su veri valori, offuscati ma vivi, per rafforzare la capacità di condividere una nuova identità continentale europea, ed una nuova identità internazionale e planetaria». Porgendo lo sguardo al di là del proprio cono di visuale, allargando gli orizzonti comunicativi, anche grazie a quello straordinario strumento che si chiama rete.

Il libro è un diario delle identità nostrane, con flash back del passato preunificazione, con dettagliati riferimenti alla questione meridionale, alle influenze delle criminalità organizzate di ieri ma soprattutto di oggi, alle miopie strategiche della sinistra che ha perso l’occasione di incarnare un riformismo reale, con un pizzico di invidia per una foto pubblicata da un quotidiano spagnolo, che ritrae una donna incinta camminare fra le truppe dell’esercito, in quanto ministro della Difesa, e che segna un “abisso civile”. Coniando poi il termine di orfani politici, ovvero coloro che non comprendono come reagire, cosa fare per non «rinchiuderci istintivamente nelle nostre vite private e sfogarci tra noi simili». Evitando di restare a lungo passivi e inattivi, succubi dell’inadeguatezza e incapacità “dei nostri ex referenti politici”. Ma individuando una reazione preziosa, dunque, nel dialogo, nel non tenersi tutto dentro, senza delegare ma assumendo la paternità di proposte e scelte.
E allora l’orgoglio di essere Italia ed italiani secondo l’autore è non solo attuabile, ma necessario proprio all’interno di un processo propositivo di “reciproca influenza” tra una nuova coscienza umana-planetaria, ed una geoculturale locale e territoriale. Ma senza cedere forzatamente e ingenuamente in nuovi nazionalismi, eurocentrismi o occidentalismi. E individua sei motivi di orgoglio nazionale.

La bellezza, che abbraccia idealmente cultura, scienza, formazione, innovazione, come un grande progetto nazionale che coinvolga tutti i cittadini e non solo gli addetti ai lavori; la creatività, base della geografia culturale italiana, nota a tutte le latitudini; la solidarietà, testimoniata dagli scatti umanitari della storia recente e passata; le municipalità, valore tutto italiano da coniugare però come un plus, uno spirito glocale che non venga inteso come deminutio in chiave antiunitaria; la microimprendiorialità, come motore indiscusso dell’economia nostrana, a cui servirebbero provvedimenti per la ripresa; e il meticciato, forse il nodo socio-culturale più intrigante, dal momento che intreccia idealmente e contemporaneamente la complessità di fattori nazionali che hanno attraversato il Paese tra millenni. L’italiano infatti è uno dei popoli maggiormente mescolati del pianeta, frutto di contaminazioni storico-sociali vecchie di secoli.
Di contro, oggi è territorio naturale dove fecondare nuove forme di accoglienza ed integrazione. Un passaggio che per essere attuato con efficacia e senza sbavature sociali, ha bisogno di un massiccio supporto di investimenti: nella cultura, nei tessuti cittadini, nelle coscienze, nelle scuole. Per favorire quella convergenza trasversale che ha di fatto costruito l’Italia, osservandola come una ricchezza, come occasione di progresso, di slancio verso il futuro, ma a patto che lo si faccia senza fanatismi e pregiudiziali ideologiche, compiendo perché no anche un intenso lavoro sulle modalità di dialogo e di comunicazione.
A volte purtroppo ferme al medioevo della favella.



Gianguido Pagi Palumbo
Noitaliani
Ed. Infinito
pp. 208, euro 14,00

domenica 9 gennaio 2011

Quanto ci manca la "carità di patria"


Da Ffwebmagazine del 07/01/11

Come impedire luoghi comuni e sottovalutazioni, nell’immaginario collettivo, di un paese come l’Italia? Di un paese che possiede nel proprio bagaglio storico-culturale una miriade di risultati, di testimonianze artistiche, di fattori che hanno contribuito a farne un baluardo mondiale di notorietà. E come favorire, di pari passo, una differente consapevolezza della propria cifra particolare?

Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera, a proposito del caso Battisti e dell’atteggiamento di Brasile e Francia, diagnostica la mancanza della cosiddetta “carità di Patria”, quel sentimento che, pur nell’oggettività di commenti e valutazioni, è collante sociale prima e culturale poi, di un popolo lontano dalle proprie case. Senza dimenticare il mancato investimento di conoscenza, dato indispensabile per “contare”.

Il caso Battisti, scrive l’editorialista di via Solferino, ha costretto l’Italia a guardarsi allo specchio, a scrutarsi, a interrogarsi insomma su quale immagine appare di noi all’estero. Si prenda il Brasile, che ha considerato il nostro paese alla stregua di un alleato minore, «cui assestare uno schiaffo con la certezza di non subire conseguenze». Come dimostrato dalle dichiarazioni del premier Berlusconi, certo che il caso non determinerà alcuna conseguenza nei rapporti commerciali.

Si prenda poi la Francia, dove commentatori e intellettuali, oltre a giustificazioni di vario genere (spesso anche futili) si sono prodigati in una lezione all’Italia sul terrorismo, sugli anni di piombo, e sulle “supposte manchevolezze” nostrane. Un atteggiamento che secondo Galli della Loggia deve essere valutato attraverso due piani analitici. Sotto il versante diplomatico vi saranno (almeno questo è l’auspicio) risposte condotte attraverso i canali delle ambasciate e dei consolati. Ma è dal punto di vista sociale che individua un’interessante chiave di lettura, quando verga che se la pubblica opinione italiana si limitasse a recitare la parte degli offesi, sarebbe un innegabile errore, in quanto «reazione adontata e dai toni vagamente sciovinisti, echeggiati per esempio in certe dichiarazioni governative». Invita invece a prendere spunto proprio dal caso Battisti per fare ammenda, per renderci conto di come l’accaduto «rispecchi piuttosto un dato permanente». E cioè che presso la stragrande maggioranza dei pubblici stranieri l’Italia così com’è «è una realtà largamente ignorata».

E questo in varie coordinate socio-culturali, come la storia unitaria, con particolare riferimento agli ultimi tre lustri. È altresì sottostimato il modus operandi dei suoi organi costituzionali, prosegue Galli della Loggia, soprattutto la giustizia. Oltre al tenore della quotidianità pubblico-politica, il peculiare patchwork delle relazioni sociali, dei mores diversificati, senza contare la cifra qualitativa del dibattito intellettuale. Si prenda ad esempio la plastica raffigurazione stereotipata dell’Italia anche per uno straniero colto, il quale ha di fronte a sé un paese appiattito su: la figura di Berlusconi (considerato oltralpe «mistero orripilante, premessa di ogni male»); la straripante azione delle mafie; e il «pervadente oscurantismo del Cattolicesimo». A cui, sostiene nel fondo sul Corriere di oggi, affiancare il consueto trittico di deminutio mediterranee, composto da «approssimazione, insufficienza e arbitrio».

Una situazione da imputare innanzitutto alla responsabilità interna, come la miopia della Farnesina nel sottostimare gli istituti di cultura italiana all’estero, o i corrispondenti della stampa straniera in Italia, o la traduzione di opere italiane. Il tutto per stimolare la conoscenza globale del fattore Italia. Galli della Loggia divide quindi le responsabilità anche con quegli intellettuali nostrani che all’estero strizzano l’occhio di fronte a critiche sovente irrispettose, o ad analisi pretestuose che ignorano cause ed effetti di fatti e provvedimenti. Quelle menti che «compiacciono senza fiatare le opinioni più raffazzonate e sommarie che capita loro di ascoltare quando si parla dell’Italia». Perché scelgono più semplicemente di apparire oppositori e basta dello status quo politico, anziché sforzarsi di spiegare analiticamente situazioni e decisioni.

Insomma, la sua riflessione punta a evidenziare l’assenza di carità di Patria nelle menti di certi italiani colti lontani dall’Italia che, assieme a quel tedioso provincialismo culturale che predilige a priori ciò che italiano non è, contribuisce ad una mancata conoscenza del passato. Che impedisce una serena valutazione del presente e ovviamente del futuro. Un concorso di deficienze socio-infrastrutturali che Galli della Loggia attualizza all’indomani del caso Battisti, negli atteggiamenti irriverenti e supponenti di Brasile e Francia, per evitare i quali non si può prescindere dalla conoscenza della propria storia e della realtà attuale. Punto di partenza per strutturare una Nazione che intenda “contare qualcosa”.