mercoledì 28 ottobre 2009

E se la soluzione fosse il pacchetto integrazione?

Da ffwebmagazine del 27/10/09

Non solo pacchetto sicurezza, ma adesso si studi un pacchetto integrazione - sì integrazione, checché ne pensi la Maglie che oggi su Libero ha definito "tremenda" questa parola - perché se è vero che integrazione e sicurezza viaggiano su binari differenti ma intrecciati, è altrettanto vero che senza una condivisione dei valori di fondo di una società, non vi potrà essere una completa integrazione. Coincide l’analisi del presidente della Camera Gianfranco Fini, con le valutazioni della Cei in occasione della presentazione del dossier statistico 2009 sull’immigrazione di Caritas-Migrantes. E non potrebbe essere diversamente considerati gli interessanti dati che sono emersi, senza i quali si rischierebbe di avere un quadro della situazione monco, e facilmente confondibile.

Quasi quattro milioni e mezzo di immigrati regolari sul territorio italiano (sopra la media europea); lavoratori stranieri che rappresentano il 7% degli occupati complessivi incidendo sul Pil per il 10%; il 37% degli alunni nelle scuole italiane è nato qui; la metà degli immigrati è di religione cristiana; i matrimoni misti sono ormai un decimo del totale; solo nel 28% delle denunce penali sono implicati stranieri regolarmente presenti. Numeri che offrono certezze assolute: non è vero ad esempio che la criminalità è aumentata parallelamente all’incremento degli stranieri nel nostro paese; falso che tolgono lavoro ai giovani italiani, dal momento che producono il 10% del pil nazionale occupandosi anche di libera impresa (ben 190mila), dando così lavoro ad altre 200mila persone; falso che prendano in servizi più di quanto restituiscono in tasse, dal momento che a fronte del 2,5% di spese pubbliche verso lo straniero da parte dello stato, gli immigrati assicurano in termini di gettito ben il 5%.

Statistiche e analisi che devono essere consegnati all’opinione pubblica, se si vuole evitare da un lato che passi un messaggio fuorviante, con la sola conseguenza di alimentare spinte xenofobe, dall’altro che il legislatore tenda a ignorare quelle percentuali e quei ragionamenti, indispensabili per ricreare una vera cultura dell’accoglienza. A oggi, sei italiani su dieci sostengono la stretta dipendenza tra immigrazione e delinquenza. Nulla di più sbagliato. E compito delle istituzioni è quello di agevolare la comprensione del fenomeno immigrazione, dal momento che, come ha evidenziato monsignor Nozza, direttore di Migrantes, «è come se il mondo ci fosse entrato in casa e non sarebbe saggio sbarrare le porte».

Vediamoli allora questi numeri. Tre le chiavi di lettura, proposte da Franco Pittau, coordinatore del dossier Migrantes. La prima riguarda la visione degli immigrati da irregolari a regolari: due milioni sono i lavoratori che sostengono il sistema Italia, 500mila i figli delle seconde generazioni che studiano, si formano e che formeranno una famiglia, con seimila laureati ogni anno. La seconda è quella che da delinquenti porta a considerare gli immigrati dei lavoratori: basti pensare che oggi il numero delle denunce penali in Italia è pari a quello dell’inizio degli anni ’90, quando il fenomeno immigrazione ancora non era delle proporzioni di oggi. Notevole è stato il loro inserimento occupazionale, ma avrebbero bisogno di più tutela e nonostante l’annus horribilis della crisi ben 200mila sono titolari di un’impresa.

Infine, l’equazione “da clandestini a cittadini”, considerando l’individuo non solo per quello che fa come forza lavoro ma soprattutto per quello che pensa, quindi chi paga le tasse perché non dovrebbe avere il potere di rappresentanza, votando alle elezioni? Sarebbe necessaria un’impostazione legislativa più equilibrata, ammonisce monsignor Schettino, arcivescovo di Capua e neo presidente della commissione episcopale Immigrazione, “perché accettando la necessità dell’immigrazione, faremmo un’opera preventiva, raccogliendone sollecitazioni ed istanze, e chiedendoci dove va l’Italia? Con quale progetto culturale?”.
E ancora, con quale modello di lavoro perseguire tale scopo? Il presidente Fini ha posto l’accento su due punti nevralgici: l’apporto strategico dell’informazione e lo snaturamento delle singole culture da impedire. In primis i media ed il loro indubbio potere di influenzare le masse: «Non sia contro informante nei confronti dell’opinione pubblica - ha rilevato la terza carica dello Stato -. Perché se un marocchino scippa una signora leggiamo titoli che puntano sulla non italianità del malfattore, e se invece a commettere il reato è stato un italiano questo non avviene? Sarebbe opportuno pesare correttamente parole ed enfasi, per impedire che inneschino quella paura che non fa bene né agli italiani, né all’integrazione».

Il riferimento è all’integrazione vera, veritiera e non frutto di marchingegni come le unioni di convenienza, proprio per quel senso di appartenenza all’Italia che caratterizza, ad esempio, un bambino cresciuto sul nostro territorio, che magari la domenica va allo stadio, che parla il dialetto della città dove risiede, che gusta le pietanze locali e che vorrebbe contribuire alla crescita sociale tramite la sua professione: «Beh questo bambino non può vedersi chiudere la porta della cittadinanza». Non sarebbe saggio e non aiuterebbe quell’intima consapevolezza di essere italiano che già ha, dal momento che parla la nostra lingua e vive a trecentosessanta gradi la quotidianità nostrana.

Quindi no al modello di assimilazione proposto in Francia, ha proseguito il presidente Fini, «perché non servirebbe cancellare le singole culture», e no al multiculturalismo dei paesi britannici, il cosiddetto Londonistan, «perché si produrrebbero molteplici identità chiuse fra loro e non amalgamate con la realtà di riferimento». Due strade da evitare, quindi, e che offrono lo spunto per perseguire magari un modello italiano di integrazione, che favorisca il conseguimento della cittadinanza a chi ha compiuto un percorso di studi qui, certamente nel rispetto delle regole imposte dalla legge ma non ancorato esclusivamente ad una dimensione formale da caserma che mortifichi aspettative e soggettive aspirazioni.

lunedì 26 ottobre 2009

SERGIO PIZZOLANTE: “MA NON PARLATE CON GLI ILLIBERALI”

Dal Secolo d'Italia del 25/10/09


“Occorre che si incentivi il dialogo interno al Pdl, dove convivono la destra liberale e la sinistra liberal-riformatrice dei vari Cicchitto, Sacconi , Brunetta, e non sprecare energie cercando punti di contatto con la sinistra sbagliata”. E’l’opinione dell’on. Sergio Pizzolante, deputato del Pdl e tra gli ispiratori della Fondazione Craxi, che interviene nel dibattito scaturito dalla tesi di Fabrizio Cicchitto, secondo cui la destra british, super partes e politicamente corretta, vivrebbe oggi in un altro pianeta, ignorando l’anomalia italiana.

D. E’una colpa, oggi, lavorare per una destra senza elmetto, che si impegni a ricercare il dialogo anche con gli avversari politici?
R. Non è una colpa, ma può essere un errore nel momento in cui tale sforzo non coincide con una capacità di comprensione dello scenario politico italiano, che non è certamente british. In Inghilterra vi è un confronto british perché il nuovo labour di Blair intende assorbire le innovazioni economiche Thatcheriane, e oggi Cameron sposa la cultura dell’innovazione di Blair. Un panorama completamente diverso da quello nostrano.

D. E in cosa è deficitaria dunque l’Italia?
R. Di fronte ad una destra che vuol essere moderna e liberale, non c’è una sinistra di pari grado.

D. La fase post-ideologica in cui ci troviamo, non potrebbe favorire nuove visioni più ariose della politica, così come fatto con la proposta bipartisan Sarubbi-Granata sulla cittadinanza agli immigrati?
R. Al di là del merito della proposta, credo che questo tentativo di dialogo sia fatto con la sinistra sbagliata: dimostra di non aver metabolizzato l’anomalia italiana.

D. Si riferisce alla tesi secondo cui il comunismo si è ricostituito in giustizialismo e fanatismo giornalistico? Ma la miglior risposta da parte di una destra matura non potrebbe essere, a questo punto, su un terreno diametralmente opposto?
R. Innanzitutto la destra dovrebbe comprendere lo stato delle cose, sentendosi figlia più della rottura dell’arco costituzionale, di quel dialogo fra la destra liberale di Tatarella con la sinistra liberale di Craxi, che di tangentopoli e quindi portata a ignorare gli effetti devastanti di quella stagione. Noi che siamo la sinistra liberale riformista che non a caso oggi risiede nel Pdl, crediamo che la destra perda tempo in un dialogo con quell’interlocutore.

D. Su quali basi e con chi allora costruire le famose riforme liberali?
R. Lo spazio esiste ed è in un dialogo più fecondo tra la destra liberale e la sinistra liberale. Quest’ultima sta nel Pdl, per questo serve una capacità di entrambi di aggiornare idee comuni sui temi della laicità. Personalmente sono a favore della legge sull’aborto, perché io sono contrario all’aborto. Una legge che nasce per contrastare le pratiche clandestine e non per affermare la libertà di abortire. Quella legge nella prima parte prevedeva l’impegno politico a difesa della donna, mirata al contenimento dell’aborto. Su quel punto la destra liberale assieme alla sinistra liberale dovrebbero profondere il massimo impegno comune, rompendo i vecchi schemi, innovando anche il concetto stesso di laicità.

D. Ma un passo avanti in questo senso c’è già stato, è il documento comune delle Fondazioni Adenauer e Farefuturo, considerando legittima la libera rinuncia all’alimentazione e all’idratazione forzata.
R. Quelle delle fondazioni sono iniziative libere che vanno valutate per i singoli contenuti. Non ho condiviso l’iniziativa di quel gruppo di parlamentari, la lettera dei 100, perché in questa fase politica su una vicenda così delicata, è necessario un confronto più fecondo prima di tutto all’interno del Pdl tra le distinte aree culturali. Personalmente penso che non sia possibile regolare tutto e, come sostenuto da Giuliano Ferrara, credo che ci debba essere un’area grigia nella quale conti solo la volontà del singolo individuo, delle famiglie e delle competenze tecniche degli scienziati.

D. A proposito di dibattito intestino, trova fondati i rilievi sul fatto che proprio la cultura interna del Pdl risulti troppo spesso appiattita o sul populismo della Lega o sul moralismo teocon? Nell’ultimo quindicennio si sarebbe potuto fare di più?
R. Qui il Pdl dovrà fare di più. Certo, il partito è appena nato e c’è molto da lavorare, come impegnarsi a sviluppare un dibattito interno. E’cosa buona e giusta stimolare il confronto culturale, di contro non vedo appiattimento né sulla Lega né sul Vaticano. Con i primi credo dovremmo competere, sul terreno di un maggior collegamento fra l’attività di governo e quella di partito nazionale, riscoprendo l’impegno territoriale. Nel rapporto con il clero non denoto sudditanza, ma è impensabile immaginare che il Vaticano non possa sulla bioetica dire la propria. Sono più ottimista rispetto al passato, è meglio che oltretevere si intervenga liberamente, anziché farlo attraverso il partito unico dei cattolici.

D. E sull’apertura agli immigrati, prevedendo il diritto di voto per chi lavora e paga le tasse? Non è anche questa un’espressione di libertà? Ma da concedere.
R. La nuova destra, a cui guardo con attenzione nutrendo grandissima considerazione per Gianfranco Fini e per il ruolo che ricopre e che potrà svolgere in futuro, ha il difetto, ripetuto all’origine di ognuna di queste proposte considerate fuori schema, di risiedere invece proprio in uno schema vecchio. Quell’ammiccamento verso l’opposto è più un passaggio al passato che al futuro. Ribadisco che l’interlocuzione vera dovrebbe essere tra la destra moderna che sta nascendo a la sinistra liberare che già esiste nel Pdl, rappresentata da Cicchitto, Sacconi, Brunetta. Vedo questa ricerca di confronto tra gli opposti come un cedimento verso la cultura del political correct della sinistra. Mi sorprende che persone dalla grande intelligenza, che svolgono un ruolo vivo nel dibattito interno, non comprendano come sia un tentativo che li condurrà verso un confronto tra ex Msi ed ex Pci. Invece la destra liberale dovrebbe confrontarsi con altri soggetti, con la sinistra corretta, quella vera.

D. Non crede che così facendo, e richiudendosi su se stessi, si correrebbe il rischio di produrre una quotidianità diversa dallo stato del paese? Si veda, ad esempio, la singola adesione a Milano alle ronde a fronte di una legge non condivisa.
R. Ma questa non è una faccenda che si risolve strizzando l’occhio alla sinistra illiberale italiana. Per fare un salto di qualità occorrerebbe porre con maggiore forza l’esigenza di un confronto più vivo dentro il partito. I coordinamenti regionali e provinciali sono un inizio, facciamoli diventare luogo di dibattito nel quale possa crescere la capacità di dire la propria sui temi nazionali. Dovremmo preoccuparci di rendere vivi questi luoghi, e non parlare con una sinistra giustizialista e ormai morta.

venerdì 23 ottobre 2009

Augé: «Facciamo muovere le frontiere dell'ignoto»


Da Ffwebmagazine del 22/10/09

Marc Augé, etnologo e antropologo francese, è colui che ha coniato il termine "ideo-logic" per descrivere l'oggetto della sua ricerca, inquadrata come una logica interna alla rappresentazione che la società offre di se stessa. Nato a Poitiers nel 1935, è stato direttore della École des hautes études en sciences sociales a Parigi e direttore fino al 1970 dell'Ufficio della ricerca scientifica e tecnica d'oltremare (Orstom - ora Istituto di Ricerche per lo Sviluppo). Convinto dell’inutilità di concentrarsi su modelli preesistenti, sostiene che la politica dovrebbe prediligere lo sviluppo scientifico, basato sull’educazione, da cui partire e su cui investire. La sua proposta? «Facciamo muovere le frontiere dell’ignoto, così la politica diventa nobile».

D. Una sua definizione è che “il mondo è un’immensa città”. Ma come mai i cittadini, pur dotati di strumenti innovativi, faticano a comunicare fra loro, incrementando di fatto un’oggettiva e deleteria solitudine?
R. In realtà, tutte le città sono unite fisicamente, ma al tempo stesso ciascuna di esse sta subendo un decentramento perché i centri storici non sono più abitati. Non sono più i luoghi del lavoro, ma solo sedi di visita per i turisti. Il che fa sì che la città sia in un certo senso fuori di se stessa.

D. Quasi fosse snaturata del suo ruolo originario?
R. Non è più la stessa di prima, mi riferisco alle grandi tendenze. Da qui un sentimento di solitudine. In un posto come Parigi, ad esempio, i lavoratori trascorrono molto tempo nei mezzi di trasporto, come bus o metro, in un pendolarismo che li conduce da un punto all’altro della metropoli. Ed è un fenomeno generale.

D. Quale il rischio si corre nel “non luogo”, quello spazio “multi utilizzo”, solcato da soggetti che alla fine non si incontrano fra loro, ma transitano frettolosamente?
R. Lo sperimentiamo tutti i giorni, quando andiamo all’aeroporto, o aspettiamo il bus. Al tempo stesso tutto questo corrisponde a un cambiamento di scala. Disponiamo di immagini del mondo intero, siamo consapevoli del movimento dell’orizzonte, che si è mosso ed è cambiato. Se volessimo essere ottimisti potremmo pensare che in ognuno di questi spazi è possibile incontrare qualcuno, come nei romanzi del Medioevo dove improvvisamente nella foresta ci si imbatteva in un personaggio.

D. È proponibile riempire questi “non luoghi” dal punto di vista relazionale e culturale, attraverso, per esempio, mostre permanenti negli aeroporti, o agorà artistiche negli autogrill?
R. Sì, certamente contribuirebbe molto a riorganizzare i luoghi di incontro o di riferimento degli spazi che in passato non avevano tale vocazione. Penso ai grandi supermercati, dove viene fatta anche animazione. La distinzione luogo-non luogo non è empirica in assoluto, in quanto non è la stessa cosa lavorare in un aeroporto con il proprio personale tran tran quotidiano, fatto di colleghi e ritmi di lavoro, e transitarvi semplicemente allo scopo di partire. Ma sono due binari verso uno stesso viaggio.

D. Ha detto che linguaggio ed esperienza sono divise da un gap, apparentemente insuperabile: qual è il primo passo per farli relazionare in modo maggiormente produttivo?
R. Il solo modo per riunificare l’esperienza umana è l’educazione. Purtroppo, il dramma che viviamo ai giorni nostri è che non solo i più ricchi tra i ricchi hanno un reale scarto con i più poveri tra i poveri, ma anche chi è più vicino alla conoscenza è molto distante da coloro che sono analfabeti.

D. Ha senso allora, come propone Michel Maffesoli, tornare alla dimensione organica, dove il senso comune è il bene supremo, lontano anni luce dall’individuo che pensi da monocefalo?
R. Lui ha teorizzato un significato della parola "tribù" che mi ha lasciato sempre perplesso. Penso che il problema sia di sviluppare un individuo che sia sovrano, per queste ragioni pongo l’accento sull’educazione. Certo sono consapevole che l'educazione, l'istruzione, così come io la immagino sia ancora un’utopia.

D. Propone di investire le élite degli intellettuali di una maggiore responsabilità?
R. Non solo degli intellettualmente dotati. Direi che c’è una responsabilità enorme anche dei politici. Quello di cui avremmo bisogno è una vera e propria rivoluzione da questo punto di vista.

D. Di tipo culturale?
R. Non culturale, su quel fronte abbiamo già dato. Parlo di una rivoluzione nel senso che se si attribuisce la priorità assoluta a sviluppare l’educazione ciò richiederebbe delle somme straordinarie. È concepibile, per esempio, nelle zone più disagiate immaginare un’insegnante per soli cinque alunni? Se si modificassero le priorità, dando all’educazione una veste più rilevante, si avrebbero oggettivamente delle notevoli ricadute sociali. Per rivoluzione, nel senso letterale del termine, intendo un mutamento del senso delle cose.

D. A proposito di educazione, che cosa pensa della proposta di prevedere nelle scuole italiane l’insegnamento facoltativo e alternativo della religione islamica?
R. Tutto dipende da cosa si persegue: Non solo l'islamismo, quindi, ma la religione, in senso lato, che faccia parte dei programmi di storia. Per il resto, mi considero assolutamente laico e credo che l’insegnamento religioso faccia parte dell’ambito privato.

D. Come valuta dall’esterno la realtà italiana? Quale logica interna alla rappresentazione che la nostra società offre di sé riesce a percepire?
R. C’è molto da fare non solo da voi ma in tutte le realtà. In un progetto a lungo termine credo che sia la gioventù a essere più interessante per progettare il mondo di domani.

D. Su quali presupposti dunque favorire un reincantamento della politica, elevandola a valore grande in un’ottica di visione lungimirante e di bene comune?
R. Evidentemente tale sollevamento della politica dovrebbe provenire da chi fa la politica, e non solo. Penso che sarebbe utile che tutti facessero politica, e che al suo interno ci fossero delle finalità.

D. Si riferisce a una politica che parta dal basso per elevarsi?
R. Innanzitutto che definisca i propri obiettivi. Quando mi riferisco all’educazione penso a una misura palesemente politica. Con la mondializzazione della globalità e, quindi, anche della società e della politica, quest’ultima dovrebbe darsi delle mete nobili, come la conoscenza dell’universo, la scienza. E in questo dovrebbe soprattutto pensare a quale sia il metodo migliore per ottenere il bene comune. Forse bisognerebbe rinunciare a partire, come si è molto spesso fatto, da modelli preesistenti. Cercando di imitare ciò che fanno gli scienziati, ovvero far muovere le frontiere dell’ignoto. Penso che per la gestione tra gli uomini potremmo fare la stessa cosa, migliorando l’esistenzialismo politico.

giovedì 22 ottobre 2009

La laicità: coraggio e responsabilità

Da Ffwebmagazine del 22/10/09


E se la laicità implicasse un senso di responsabilità più pregnante? E se con uno scenario intervaloriale si riuscissero a difendere meglio e più a lungo i principi della solidarietà, della carità, dell’uguaglianza? Essere laico, secondo Umberto Veronesi, scienziato di fama e pioniere nella lotta contro i tumori in Italia, vuol dire essere liberi ma eticamente più responsabili. In una conversazione-intervista con Alain Elkann, il fondatore della Scuola Europea di Oncologia spiega cosa intende per virtù laiche degli uomini. Diciamolo subito, non è il solito libro celebrativo, di quelli che non di rado si dedicano alla fine o al punto più alto di una carriera. Piuttosto un’approfondita riflessione sul dubbio comune dell’esistenza, su quello che viene descritto come lo spazio finito e sulle nostre origini.

Il prof. Veronesi, per sua stessa ammissione, non ha il dono della fede ma ripone molta fiducia nella consapevolezza che siamo animali molto evoluti, con un cervello che si è straordinariamente sviluppato, e lo fa giustamente nell’ottica della scienza, imprescindibile punto di riferimento che è anche una straordinaria conquista, attraverso la quale ipotecare un futuro diverso.

In Italia, afferma, non vi è ancora una vera e propria cultura scientifica diffusa, accade frequentemente che interi settori di ricerca rimangano sconosciuti ai cittadini. Per questo auspica, tra le altre cose, la creazione di autentiche agorà, innescando dibattiti in merito alle nuove scoperte. La sua ricostruzione parte dall’infanzia, dallo sconfinato affetto che lo legava a sua madre, dal quale è derivato un immenso amore per le donne e per le loro esigenze, come la procreazione assistita e la pillola abortiva. L’insegnamento principe era la tolleranza, ovvero in caso di conflitto cercare di capire il perché: «Se non rimuovi le ragioni profonde, non risolverai il dissidio».

Si chiede ad esempio il motivo che spinge i terroristi ad atti così estremi, in quanto l’analisi è parte integrante del suo modo di pensare. Che dalla scienza e dai fattori ad essa legati, si insinua nelle coscienze con queste pagine ricche di spunti. Nonostante il carattere pacato che lo ha portato a socializzare con una certa facilità, Veronesi nel suo intimo ha provato il desiderio di non allinearsi alle convenzioni. Ciò perché è giunto alla conclusione che gli individui siano ritmati da schemi precostituiti, frasi fatte, scelte somministrate. Da qui la perplessità sull’integralismo dell’insegnamento religioso. «Siamo animali con un senso etico molto evoluto», rammenta. Ma cosa c’è realmente in quelle due parole, senso etico? Cosa risiede in esse e soprattutto attraverso quali lenti leggerle?

Vuol dire sentirsi responsabili di seguire alcuni valori fondamentali: la libertà, la tolleranza, la solidarietà. L’anima per Socrate è la forza del pensiero, delle idee. E proprio le idee sono immortali, sostiene Veronesi. Per questo è convinto che morire sia essenziale per lasciare spazio a chi verrà dopo, e che l’immortalità sia una catastrofe biologica. Ma come si concilia siffatto ragionamento con la proiezione medico-scientifica rivolta al progresso e alla cura delle malattie? Ed è qui che Veronesi sorprende in positivo quando ammette candidamente che se le battaglie per il progresso sono ideologiche, ovvero per rimanere ancorati a scritti di millenni fa, beh queste battaglie vanno contrastate. Un esempio riguarda le donne mandate al rogo perché erroneamente ritenute streghe. La rivoluzione francese aveva combattuto sia l’enorme potere della Chiesa, sia le gravi conseguenze provocate dal fanatismo religioso, con riferimento proprio ai roghi, per cui ragazze sofferenti di epilessia venivano bruciate vive.

Il timore concreto di Veronesi è, con le dovute proporzioni, che si verifichi una teocrazia cattolica irrispettosa nei confronti di una forma di progresso civile, come accaduto quando si è incitato gli italiani a non votare per il referendum sulla legge 40. «Essendo un paese maturo- dice lo scienziato – con ovvie e provvidenziali opinioni diverse, dovremmo essere consapevoli del nostro pensiero, per questo alle leggi dire sì o no. L’atteggiamento ambiguo del non votare, fondamentalmente non chiaro, incrina i principi della democrazia». Facile fare un salto indietro nel tempo, a un altro esempio, quando il 70% degli italiani si espresse e favore dell’aborto, mettendo per un attimo da parte la propria religiosità. Semplicemente perché le donne, anche quelle cattoliche, compresero come quella legge fosse utile. Ma un richiamo alla divina ragione è venuto anche da Papa Ratzinger, che ha nel recente passato sostenuto il mantenimento dei comportamenti dei fedeli entro i confini etici, ed evitando in tal modo le patologie della fede, come il terrorismo.

Ancora la ragione viene innalzata da Veronesi a baluardo di scelte e decisioni che coinvolgono l’intero pianeta. Aver proibito l’incoraggiamento dei preservativi, ammette, che avrebbe impedito il contagio dell’Aids nei paesi sottosviluppati, non è parsa a tutti una raccomandazione giudiziosa da parte della Chiesa. E in questa direzione, quindi, come inserire il rapporto con la tecnologia? Se essa si limitasse a quegli eventi mediatici invasivi e fuorvianti, che alla fine soddisfano per lo più il mercato, allora sarebbero da tenere sotto controllo e da sottoporre a dibattito. Se invece lo scienziato perseguisse la finalità civilizzatrice della scienza, le prospettive cambierebbero nettamente. Oggi si è «smarrita la capacità critica, e la si sostituisce con l’esaltazione di un colore», di una fazione come in uno stadio durante una partita di calcio. Ma serpeggia anche un messaggio generale di «fermate la scienza, in quanto si vuol far prevalere l’occultismo». Il riferimento secondo Veronesi è al proliferare di maghi e imbonitori, «in televisione ogni dieci esorcisti c’è uno scienziato, ed è assurdo».

Emerge un ragionamento lineare e sufficientemente confortato da prove e controprove, che portano Veronesi a sostenere che la fede in Dio, e quindi la sottomissione alla sua volontà, implica necessariamente un vincolo evidente alla libertà di pensiero del singolo individuo. Scavalcare tale limite, sottolinea in conclusione, rappresenta un’espressione di coraggio, però dà vita a una nuova forma di responsabilità che si affianca a questo traguardo. Essere laici significa professarsi liberi, ma al contempo «eticamente responsabili. E non nei confronti di Dio, ma verso l’umanità. Con questi parametri la vita diventa più piena e più ricca».

lunedì 19 ottobre 2009

Goffredo Fofi: «No alla cultura che non fa pensare»


Dal Secolo d'Italia del 14/10/09


«Intrattenere per non far pensare, questa è l’ambizione palese o nascosta di un intero sistema». Il maestro Goffredo Fofi, saggista, critico letterario, d’arte e cinematografico, direttore della rivista Lo straniero e firma di Internazionale, Film Tv e L’Espresso, definito da Wikipedia «scrittore libero, maestro senza cattedra, da sempre senza salario e senza pensione», affronta a viso aperto quella che è considerata una vera piaga sociale. Ovvero l’involuzione di una certa cultura che nel nostro paese vive fasi alterne e l’intuizione su come foraggiare slanci di idee e ricchezza di contenuti, con due punti fermi: la costituzione e il volontarismo etico.

D. È plausibile, così come avviene ormai da tempo in molti paesi, riflettere su una cultura più libera, che parta dal basso, non necessariamente ancorata al cappio dei finanziamenti pubblici?
R. Io ho sempre avuto molta fiducia nel “fai da te”, e non mi ci sono trovato male. Le riviste che ho fatto, per esempio, sono sempre state poverissime – ho avuto a volte un minimo sostegno editoriale, di piccoli editori convinti, e in due casi un ricco amico di amici che mi ha dato qualche lira quando ero in difficoltà. Ma queste cose non erano decisive: le riviste sarebbero andate avanti anche senza di loro, poiché si basavano su quella che Capitini chiamava “persuasione” di chi le faceva, redattori e collaboratori e diffusori. Sono la prova vivente che si possono fare “le nozze coi fichi secchi”.

D. Ha detto che la cultura è diventata uno spettacolo che serve ormai per manipolare le coscienze invece che liberarle: quale la medicina per questa cultura così ammalata?
R. Nella tradizione italiana c’erano una volta il mecenatismo di ricchi con qualche senso di colpa o qualche snobismo che finanziavano persone o gruppi di intellettuali determinati (e a volte mettevano in gioco i loro denari per far loro le cose, da editore-intellettuale), ma credo che sia scomparso del tutto, se non nelle forme molto ambigue (e a volte losche) degli “sponsor” e delle banche. Restano l’assistenzialismo, una delle piaghe d’Italia, e oggi le figure dominanti dei mediatori, in tutti i campi, dalla politica al cinema, dalle case editrici ai festival e feste e saloni… E anche nei campi non culturali. Perché la cultura è diventata un nuovo oppio del popolo: intrattenere per non far pensare, questa è l’ambizione palese o nascosta di un intero sistema (sì: sistema nell’accezione di una volta, marcusiana). Come uscirne? Non ci sono ricette, ci sono volontà e rigore morale, una forma di saggezza che non esclude il dialogo (anche con le istituzioni, benché la mia esperienza e di altri sia disastrosa: si spende 100 per ottenere 10, e il 90 per cento del denaro va ai funzionari e ai mediatori…) ma spesso con risultati pessimi: se ne esce sempre disillusi. La mediazione è sempre politica, e spesso ti senti dire: a te non do una lira perché hai parlato male del mio assessore o del mio partito, come se i soldi non fossero dello Stato e ottenuti dal lavoro di tutti, ma fossero proprio loro, come se li avessero guadagnati personalmente! E a ogni cambio elettorale si ricomincia daccapo. Credo nella Costituzione, che dice sia dovere dello Stato assistere i poveri e i meritevoli, ma non mi pare che siano in molti ad applicarla. Credo anche nel “volontarismo etico”, anche se di pochi, e nella dimostrazione concreta che è possibile fare anche senza quelle mediazioni.

D. Potranno essere le minoranze, citate nel suo La vocazione minoritaria a rappresentare una soluzione avanguardistica alle manchevolezze della cultura di oggi?
R. Credo proprio di sì, anche se un personaggio di Malraux dice in uno dei suoi romanzi asiatici che in ogni minoranza c’è una maggioranza di imbecilli! Ma non sempre, non sempre, almeno nelle minoranze che ho frequentato… E non si tratta di avanguardie, ma semplicemente di un modello di “ben fare” che sa resistere alla corruzione dei tempi, perché è vero che molte minoranze si sono lasciate ricondurre alla logica dominante di piccoli privilegi in cambio del non dar fastidio, o di oliare i meccanismi, mentre lo scopo di quelle serie sarebbe di mettere zucchero negli ingranaggi, i bastoni tra le ruote, nello stesso tempo che di sperimentare e proporre modelli altri, più sani. La mia preoccupazione maggiore è vedere come anche i piccoli gruppi autonomi siano stati conquistati dall’autoconsolazione: sono bravo, sono onesto, mi diverto a fare cose che mi piacciono con quattro amici, trovo anche chi mi dà un po’ di soldi per farle, e tanto mi basta. Per dirla in breve: credo che oggi tutto ciò che consola sia new age e menzogna, e che ha dignità soltanto chi sa guardare in faccia la realtà, ne studia i meccanismi generali e locali e individua i modi giusti per modificarla nel senso dell’assunzione di responsabilità di ciascuno nei confronti della collettività (e oggi questo è come dire nel futuro dell’uomo!). Quest’azione rimanda, per me e per la mia formazione nonviolenta, alla necessità della disobbedienza civile come forma di lotta da privilegiare su tutte le altre.

D. Crede sia possibile pensare con più decisione a un ruolo formativo per le letture, al fine di dare nuovo slancio alle sorti culturali nostrane?
R. Non credo che la situazione italiana sia così disastrosa: abbiamo ancora molti grandi o buoni artisti, in cinema, letteratura, teatro, fumetto e altro, e anche saggisti più seri e meno “di spettacolo” di altri. Ma il contesto in cui si muovono è più difficile di un tempo: la cultura è diventata uno strumento fondamentale per la gestione del potere, la “comunicazione” vi uccide l’arte e la creatività e la diversità, e la “comunicazione” è uno strumento fondamentale per la manipolazione del consenso, è stordente o addormentante al pari della televisione e di tanti altri media, e i ricatti della società dello spettacolo (che sono anche economici) pesano molto nella capacità di pensare e creare. Ma per esempio nel campo delle lettere siamo messi meglio di altri paesi, dove la mercificazione della cultura è più avanzata e più perfezionata che da noi. Una lettura che mi ha preso molto, fatta proprio in questi giorni, mi conferma che c’è chi pensa e ragiona e fa romanzo all’altezza dei compiti che la letteratura dovrebbe avere oggi e proprio oggi, qui e proprio qui, è Riportando tutto a casa di Nicola Lagioia, un romanzo Einaudi che, anche se non perfetto, racconta e spiega ottimamente gli anni Ottanta, che sono stati quelli della grande mutazione e della sconfitta delle utopie, nel mondo e da noi. E penso anche ai romanzi di Walter Siti, che raccontano ottimamente la mutazione avvenuta: la “plebeizzazione” delle classi alte e medie e la piccolo-borghesizzazione, nel nome del consumo e dell’apparenza, dei proletari e sottoproletari.

D. Ha scelto di raccontare personaggi minoritari che pur trovandosi in minoranza, cercano di proporre alternative: perché oggi chi ragiona sul cambiamento si trova quasi in una terra straniera?
R. Lottare per la liberazione di tutti, commisurando con molto rigore i fini e i mezzi (non si lava con l’acqua sporca, si diceva un tempo parlando dei comunisti, ma vale anche per altri, anche oggi…) ma non accettando i ricatti e l’ipocrisia del potere e delle ideologie e dei modelli che propaga. Pensando con la propria testa e in gruppo, non facendosi soffocare e stordire dal rumore con cui ci si assedia, non lasciandoci anestetizzare.

sabato 17 ottobre 2009

E se fossero gli aeroporti le agorà del futuro?

Da Ffwebmagazine del 16/10/09

Una nuova agorà della cultura, un grande luogo dove comunicare, da cui partire ma soprattutto anche dal quale ricevere impulsi e scambi di individui e di informazioni artistiche. Gli aeroporti nell’era post moderna sono un cantiere a cielo aperto, che potrebbero riservare molte e gradite sorprese, a patto che le classi dirigenti intercettino questo trampolino di lancio verso un domani ormai prossimo. Il che significa aprire finestre sul futuro,debitamente intrecciate nella capacità di immaginare soluzioni per problemi reali ad attuali, con una particolare attenzione riservata agli aspetti ambientali. E poi non perdendo di vista il mutamento antropologico della geografia dei trasporti, spostatasi drasticamente dal continente al Mediterraneo, oggi più che mai vero punto di raccordo fra l’Europa e due comparti investiti da un notevole sviluppo, come Africa ed Asia.

Anche per questo nel prossimo gennaio Roma ospiterà Gate XXI, dall’ultraleggero al satellite, la prima esposizione internazionale promossa in Italia incentrata sul mondo dell’aeronautica, dello spazio e degli aeroporti. Una vetrina su un qualcosa che sarà, su un futuro che bussa con insistenza alle porte italiane anche in considerazione di ingenti ricadute industriali. Un cambiamento che corre a velocità supersonica, basti pensare al controllo del traffico, passato dal radar al satellite, ma sul quale il nostro paese ha fino ad oggi fatto scelte in controtendenza. “Affittando” un satellite e spendendo più per il noleggio rispetto a quanto avrebbe investito per costruirne uno di proprietà. Ed ecco che la vetrina romana, oltre che per ammirare ultraleggeri e velivoli interamente innovativi nell’ottica di un riavvicinamento dei cittadini a queste forme di arti e di progresso, punta a stimolare gli esecutivi, che dovrebbero far convergere risorse pubbliche e private in nuovi slanci produttivi, predisponendo indirizzi ad hoc e potendo contare su eccellenze tutte italiane come Finmeccanica.

Ma che succede al comparto aereo in Italia? C’è stata una fase storica nella quale il contributo italiano alla ricerca ed allo sviluppo spaziale è stato notevolissimo, si pensi agli studi di Crocco, Amaldi, Broglio. O si pensi alla più recente realizzazione del 50% della stazione spaziale internazionale, o alle progettazioni tutte italiane di tecnologie straordinarie, come i radar che cercano l’acqua su Marte, o come quelli attualmente in orbita nel punto dove sole e luna si annullano. A testimonianza di un’eccellenza nostrana indiscussa. Ma poi scorgendo dati e numeri, emerge ad esempio che la Nasa investe diciotto miliardi di euro all’anno per la ricerca aerospaziale (arrivando a ventuno il prossimo anno) mentre noi no. Come invertire la rotta per non disperdere quell’immenso patrimonio scientifico di cervelli che il nostro paese produce?

Una possibile strada da percorrere potrebbe essere la liberalizzazione del volo privato in Italia, in considerazione del fatto che un chilometro di strada per le auto costa quanto un chilometro di pista per aerei, con la differenza che si potrebbe innescare un meccanismo virtuoso che porti velivoli ultraleggeri ad affiancarsi al trasporto tradizionale su rotaia o su gomma. E non è un’iperbole dettata dal troppo progresso, ma un risultato facilmente raggiungibile anche nell’ottica di aerei senza pilota che tra non molto potrebbero affacciarsi nei nostri cieli. Un’altra opportunità potrebbe riguardare la commercializzazione degli slot, con livelli strutturali e giuridici che impongano la ricerca di nuovi meccanismi diretti verso un bene quanto mai prezioso. Ma accanto a strumenti così innovativi e destinati a trasformare nel medio-lungo termine abitudini ed opportunità, ecco che un ruolo primario lo dovranno rivestire i contenitori, ovvero quei luoghi da dove gli aerei decollano, dove atterrano e che sono meta simbolica di scambi non solo di merci e di persone ma a questo punto anche di visioni.

Gli aeroporti italiani sono il biglietto da visita di questo paese, ha riflettuto Mario Valducci, presidente della commissione trasporti della Camera e potrebbero assumere una dimensione nuova, quasi di cattedrali laiche da cui lanciare ponti verso le destinazioni del mondo, spargendo cultura e attirando chi quella cultura vuole ammirare. Non sarebbe una forzatura immaginare gli hub di Roma e Milano come luoghi che abbiano la mission futura di collegare, recependoli, stimoli artistici, rendendo quegli aeroporti contenitori e intrattenitori anche di arte, allestendo mostre al loro interno, ed esponendo pezzi da museo. E non per una non meglio precisata voglia di mutazione a priori, ma in virtù di una pregnante esigenza di trasversalità della comunicazione culturale. Pensare agli aeroporti come magazzini di arti figurative e visive, come consolati italiani della cultura che accolgono i turisti appena sbarcati da un volo, non rappresenta un sogno o un’astrazione , ma una naturale e imprescindibile innovazione per un paese che solo rimettendosi in discussione potrà cogliere i frutti di un passato storico ed artistico così importante, desideroso di essere attualizzato.

martedì 13 ottobre 2009

Biopolitica, al centro ci sia l'individuo

Da Ffwebmagazine del 12/10/09

«Chi si modera raramente si perde» sosteneva Confucio: se applicassimo questa massima a tematiche delicate e controverse, come ad esempio la bioetica, si potrebbero dischiudere scenari interessanti e senza dubbio risolutivi. Una breccia è stata aperta in occasione dalla giornata di studi promossa dalle fondazioni Farefuturo e Konrad Adenauer Stiftung, intitolata “Bioetica e biopolitica” alla presenza di Adolfo Urso, Wilhelm Staudacher, Benedetto Della Vedova, Laura Palazzani, Karlies Abmeier, Walter Schweidler, Klaus Tanner, Winfried Kluth, Lorenzo d'Avack, non solo al fine di approfondire tematicamente le differenti legislazioni in Italia ed in Germania, ma soprattutto per estrapolare dagli interventi degli illustri giuristi che vi hanno partecipato contributi utili a reperire una strada maestra da seguire. «La scelta è stata incentrata non su grandi convegni ma su seminari contenuti e mirati – ha detto Federico Eichberg, responsabile esteri di Farefuturo – perseguendo quelli che saranno i tratti somatici delle politiche future». L’attività di partenariato tematico tra le due fondazioni ha avuto altri momenti di incontro durante l’anno in corso, come dimostrano i seminari promossi sulla dignità umana, sugli individui e sullo stato nell’epoca post-globale, sul futuro del parlamentarismo. Un percorso comune che, dopo l’appuntamento della bioetica, proseguirà con un seminario conclusivo sul lago di Como sul futuro della democrazia.

Contro l’eutanasia, contro il suicidio assistito, ma anche contro l’accanimento terapeutico: queste le linee guida tracciate da Adolfo Urso, vice ministro alle attività produttive e segretario generale di Farefuturo. «Noi siamo chiamati a legiferare per tutti, senza scadere nella solita contrapposizione tra guelfi e ghibellini». Proprio la ricerca di una soluzione condivisa, in attesa che prosegua l’esame del ddl Calabrò, è lo scenario più saggio e utile per giungere ad una visione d’insieme che tenga conto della eccezioni sollevate dalle due correnti di pensiero, come ha sottolineato la professoressa Laura Palazzani ordinario di filosofia del diritto alla facoltà di Giurisprudenza della Lumsa di Roma. Da un lato vi è chi, in uno scenario etico soggettivistico, ritiene che il diritto sia abbia una funzione neutrale, rispetto a valori inconciliabili. Vi è qui un forte richiamo al diritto di autodeterminazione, preservando il sacro diritto individuale. Dall’altro c’è chi crede che l’uomo sia in grado di conoscere valori universali assoluti, che il diritto deve veicolare. Quindi un forte diritto alla vita in ogni fase dell’esistenza, in questo senso le norme giuridiche sarebbero volte a tradurre il tutto in legge.

Il panorama offerto dalla prof.ssa Palazzani, è stato completato dagli interrogativi suscitati dal professor Lorenzo d’Avack, ordinario di filosofia del diritto all’Università Roma Tre, che si è chiesto: «La giurisprudenza è dominante? Dovremo farcene una ragione?». Il riferimento è all’attuale vuoto normativo del nostro paese che conduce all’inevitabile intervento della magistratura, come testimoniano gli ultimi episodi di cronaca, con i vari casi al’attenzione dell’opinione pubblica. «Il paziente dovrebbe uscire dall’alleanza terapeutica per svolgere correttamente le proprie volontà», ha proseguito d’Avack, indirizzando la riflessione su quello che per consuetudine è chiamato paternalismo medico, ovvero quando accade che, come molti giuristi italiani sostengono, il diritto alla salute garantito dall’art. 32 della Costituzione, venga valutato alla stregua di una scelta oggettiva, lasciando confinata in un angolino la libera scelta dell’individuo. «In Italia sulla bioetica vi è un enorme vuoto all’interno del quale poi opera il giudice, per questo vorrei vedere riconosciuto almeno al paziente capace di intendere e di volere, cito il caso Welby, la possibilità di essere staccato da una macchina che gli farebbe compiere un percorso meccanico di sopravvivenza».

Che si limiti la regolamentazione normativa, ha esortato Benedetto Della Vedova, deputato del Pdl, secondo cui quanto è più grande e incombente dal punto di vista sociale la materia, tanto più dovrebbe ridursi la regolamentazione. È pur vero che le tecnoscienze negli ultimi anni hanno subito un’evoluzione alquanto rapida, e forse da parte di qualcuno scarsamente prevedibile, ma ad oggi «registriamo che bioetica e biodiritto non coincidono, si pensi che vi è anche un dualismo etico all’interno del mondo cattolico».

Ma la materia, oltre che essere vasta, è anche suscettibile di rapidi cambi di fronte, come ha suggerito il professor Tanner: «Quello di cui si discuteva cinque anni fa sulle cellule staminali oggi non è più attuale, e non perché qualcuno ieri abbia mentito, bensì a causa dell’intervento di innovazioni e nuove scoperte». Di qui la domanda: è legittimo che le chiese chiedano che la legge tuteli la vita? Ma a chi spetta il compito di decidere, alla democrazia degli stati o alle coscienze dei singoli individui? Logico e ragionevole sarebbe non prescindere in alcun caso dalla volontà personale, come previsto dalle dichiarazioni. Umberto Scarpelli sosteneva: «l’etica è senza verità, quindi il singolo faccia le proprie scelte senza creare danno al terzo».
Da qui il paradigma sul quale dovrebbero saggiamente convogliare le aperture di tutti, ovvero che una disciplina giuridica è buona solo se coincide con i fatti e solo con questi. E anche, aggiungiamo, con le vere intenzioni dei singoli individui

domenica 11 ottobre 2009

ARTE E ROCK PERCHE'NO?

Da Il Secolo d'Italia dell'11/10/09

Musei come luoghi dell’utopia? Del pensiero elastico lanciato verso orizzonti aperti? L’arte si sbarazza del suo bozzo e si libra in cielo diventando così la protagonista delle notti. A pensarci bene non ha nulla in meno di teatri, cinema, ristoranti, lunge bar. Anzi, ha proprio qualcosa in più. Ed è la magia dell’improvvisazione, alla ricerca di quel pizzico di sregolatezza che trasforma la cultura statica e amebica in un vento di colori, immagini, suoni, sguardi. Tutto trascina tutto in un turbinìo di arte. Ma non solo.
Perché non provare a pensare ad una cultura libera, che parta dal basso, strutturata diversamente da logiche di appartenenza che ne limitano nei fatti azione ed efficacia? Il direttore del Louvre, Henry Loyrette, interrogato a proposito dell’apertura di una nota catena alimentare all’interno del celebre museo parigino, ha replicato sostenendo che il nostro è il museo dei musei, che guarda all’avvenire svolgendo un ruolo di diplomazia culturale universale. Partendo dal presupposto che la cornice sociale ed ambientale dei contenitori culturali si è nel tempo modificata, seguendo numerosi parametri legati all’evoluzione dell’uomo e della società in cui vive, ne consegue che anche la cultura tradizionale, storicamente ancorata a certi principi dogmatici, dovrebbe interrogarsi su come interfacciarsi con un pubblico che, nei fatti, è come se fosse nuovo.
Ad esempio, una delle domande da porsi potrebbe essere: si può fare cultura indipendente senza subire conseguenze strutturali che ne impediscano o ne condizionino il pieno e corretto svolgimento? Luigi Tamborrino, direttore del Rialto di Roma, prova ad abbozzare una risposta, partendo dal presupposto che la fruizione culturale è radicalmente cambiata. Si pensi che ad oggi la maggior parte dei musei è lontana da un logico utilizzo quotidiano. La novità potrebbe essere rappresentata dall’interpellare luoghi che invece appaiono più dinamici, con una composizione naturalmente differente. Creare un polo culturale indipendente quindi è la scommessa della cultura futura, dove il termine indipendenza sia riferito alla distanza da una dimensione economica pubblica.
Divieto assoluto a divisioni con l’accetta- sostiene Tamborrino- dove da un lato ci sia la cultura di serie A, quella canonica con sostegni e contenitori, e dall’altro la cultura di serie B, quella più libera e conseguenzialmente sganciata da un discorso di contributi. Poi è necessario fare chiarezza su un altro punto, ovvero cosa vogliamo farne della cultura? La consideriamo a ragione un tema popolare, quindi con i rilievi valutativi conseguenti, oppure la releghiamo a elencazione utile solo alle accademie?
Cultura vicina al popolo, dunque, pur nelle sue molteplici e peculiari diversità, ma proprio per questo interlocutore della gente. Impedire una corretta e lucida fruizione della cultura o appesantirla con una qualsivoglia deminutio, significa impedire nuove presenze, innalzando una barriera tra la cultura e il divertimento. Giova ricordare che i musei di arte contemporanea sono luoghi di sperimentazione di nuovi codici, di nuovi linguaggi, di nuova cultura. Soprattutto questi contenitori rappresentano innovative occasioni in cui è possibile finalmente scrostare residui del passato, picconando le barriere che dividono i confini. L’obiettivo finale è consentire agli individui di mischiarsi fra loro sotto il comune denominatore dell’arte e delle singole espressioni, arricchendo così la conoscenza, lo scambio di sensazioni, e perché no partecipando attivamente alla costruzione comune di idee e comportamenti creativi.
Pulsioni innovative che hanno avuto un moto ispiratore al Museo Madre di Napoli che, anticipando di fatto quello che in seguito hanno realizzato in altre sedi, come al Guggenheim di Venezia, o al Moma di New York e San Francisco, o al Louisiana di Copenaghen, all’interno del consueto programma di offerta con esposizioni di arte contemporanea, ha inserito anche dell’altro. E dove sta il problema, direbbe qualcuno? Ben vengano moti di sperimentazione, di ampliamento della visione culturale dei musei. Occasioni di includere nuovi fruitori, come i giovani che frequentando l’evento aperitivo, hanno in regalo un biglietto per visitare il museo il giorno successivo. E allora? Dove sta l’eresia, se di eresia si vuol parlare? Ma l’Italia è un paese strano, governato da input burocratici, con valanghe di marche da bollo che spesso influenzano e decidono. E’successo che il Museo Madre abbia organizzato feste e manifestazioni diciamo più leggere, con musica e aperitivi. E’capitato che in quella circostanza alcune persone iniziassero a ballare. Ballando, la struttura da museo è nei fatti diventata discoteca, e ciò ha implicato una serie di autorizzazioni e adempimenti burocratici diversi da quelli necessari per un semplice museo, come luci, uscite di sicurezza e quant’altro. Il museo è stato chiuso, con sequestri e sopralluoghi, oltre a polemiche con la commissione comunale incaricata.
Il museo si è quindi messo in regola dal punto di vista amministrativo, ma una volta regolarizzato tutto, ecco il regalo inatteso: quando c’è un evento come una festa o una serata musicale, contemporaneamente il museo non può essere aperto. Per questo la direzione del Madre ha anche fatto ricorso al tar e promosso un appello rivolto al Capo dello Stato.
“Una limitazione assurda- ci dice il direttore Edoardo Cicelin- che non è contemplata in nessuna norma”. La legge nello specifico fa riferimento al Tulps, il Regio Decreto 18 giugno 1931, n. 773 meglio conosciuto come " Testo unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza ", che disciplina l’attività nei vari locali. Quindi una normativa del passato lontano, che non prevedeva nemmeno le uscite di sicurezza perché non servivano: in quanto la polizia controllava direttamente all’epoca chi entrava e chi usciva.
Ulteriore riferimento normativo più moderno è la legge culturale Ronchey, del 1982, ma che non è nemmeno questa esaustiva, perché nel 1982 non c’erano ancora in Italia i musei di arte contemporanea. “Quindi basterebbe una piccola integrazione alla legge del 1982- propone Cicelin-, magari inserendo la possibilità ampia di allargare la tipologia di eventi e manifestazioni da inserire nel calendario di un museo di arte moderna, evitando la vergogna del caso Napoli.”
Ma al di là di codici e di commi, serve comprendere come si possa compiere un decisivo passo in avanti nella marcia di avvicinamento della cultura alla gente, è questo il nodo da sciogliere. Una strada praticabile potrebbe essere quella della condivisione, ovvero pensare ad una forma culturale allargata, che si affacci materialmente agli occhi dei cittadini partendo dal ventre della società, semplicemente includendoli in spazi nuovi e maggiormente dinamici.
“Rovesciamo tutto e tutti nelle strade, torniamo ad essere parte integrante dell’arte- sostiene Gianluca Iannone di Casapound- riempiamo le strade di arte, colori, di monumenti. Credo che questa potrebbe essere una soluzione rivoluzionaria per riavvicinare i giovani e la gente all’arte”, senza dimenticare anche un altro valore sociale intrinseco al ragionamento. “Vivere nel bello- prosegue Iannone riprendendo, aggiungiamo noi, una vecchia massima di Dostoievskij, ‘la bellezza vi salverà’- porta a seguire una linea più armonica rispetto alla massa di negatività ed alla bruttezza che ci circonda. Fare cultura in luoghi chiusi ed elitari, alla lunga stufa ed esclude. Il ragazzo non si avvicina più, perché tutto si risolve in una massa pretestuosa che non trasmette nulla. Il problema sta nell’assoggettamento dell’arte a situazioni legate al potere, che appartengono ad una linea politica di condotta sempre più stucchevole. L’arte ha anche un aspetto consumistico a livello del politicamente corretto”, conclude Iannone prima di avanzare la sua personale proposta: “Chiudiamo i musei, perché personalmente credo diano un’immagine di magazzini dove lasciare morire delle cose messe lì, invece l’arte dovrebbe sprigionare energia libera.”
Ma intanto proprio questa energia, che per essere tale e per sprigionare tutto il suo potenziale dovrebbe apparire libera e spogliata da lacci e vincoli, viene in alcuni casi come a Napoli limitata da disposizioni restrittive e da chiusura mentali. Basta leggere l’opinione di Antonio Natali, direttore degli Uffizi di Firenze, per comprendere come una certa libertà sia imprescindibile. “Sarebbe arrogante- sostiene- non prendere in considerazione nuove strade da percorrere”. Lasciando intendere che non apparirebbe una scelta saggia e dettata dal buon senso, circondare la cultura e l’interezza del suo ambito museale, con una cintura protettiva che impedisca il raffronto con tempi e modi cangianti.
Questo non vuol dire snaturare necessariamente l’essenza del museo in quanto struttura, anzi un ragionamento simile intende proprio far aprire nuovi ed inimmaginabili scenari, in virtù dei quali accrescere l’offerta culturale. E’di questo che un paese moderno ha bisogno, non di tornare indietro, ripiegando su se stessa quella che potrebbe essere una nuova forma di progresso socio-economico.
“Noi non siamo una discoteca- continua il direttore Cicelin- e se anche può capitare ad un certo punto della serata che qualcuno si metta a ballare, non abbiamo ovviamente 600 persone che danzano, ma altre sono in giro per il museo”. Ma nel momento in cui quella situazione è definita come discoteca scattano una serie di meccanismi burocratico-organizzativi conseguenziali.
L’elemento che ha fatto scattare la protesta del museo Madre e in seguito alla quale è stato promosso l’appello al Capo dello Stato (vi hanno già aderito più di millesettecento firme, tra artisti, professionisti e gente comune, come Kounellis, Bonito Oliva), è l’impossibilità a svolgere un’attività collaterale perché si vuol definire a priori la tipologia del contenitore. “Si tratta di un’odiosa interferenza, tale limitazione è illegittima e irragionevole, in quanto- prosegue Cicelin- se noi stabiliamo che quella sala che è separata dal resto del museo, e la possiamo ovviamente controllare grazie ad una serie di uscite di sicurezza, non si comprende perchè nel resto del museo la medesima attività culturale sia interdetta”. Obbligando la direzione a mantenere aperta solo una parte della struttura che ospita in quell’occasione una manifestazione, si ridurrebbe il museo a semplice discoteca o a sala da ballo, invece l’operazione che sta nelle corde della ragionevolezza e di una visione ariosa della cultura, è di tipo diverso e più ampio, dal momento che intende coinvolgere in maniera intrigante quanta più gente possibile in un discorso globale di cultura.
Un primo intervento, rapido e risolutivo, potrebbe essere quello di inserire poche righe nel codice per i beni culturali, prevedendo negli edifici concepiti per l’arte contemporanea che si possano svolgere altre attività ricomprese in un ampio ventaglio. Per dare un segnale, per dire alla gente che i musei sono accoglienti, che rappresentano occasione di arricchimento vero. E sano.

Marcegaglia: «Adesso è il momento della serietà»

Da Ffwebmagazine del 10/10/09

«Questo è il momento della serietà, non di polemiche, risse e delegittimazione». Apre con queste parole Emma Marcegaglia il suo articolato intervento a Salerno in occasione del seminario sul sud promosso dalla fondazione Farefuturo e da Mezzogiorno nazionale. «Non servono elezioni, ma serve un governo che, con grande concentrazione, lavori per uscire dalla crisi. Urge un esecutivo solido che non rimbalzi le polemiche, amplificandole, ma prosegua la sua marcia per risolvere i problemi veri del paese». Così il numero uno degli industriali, prima di approfondire le grandi questioni drammaticamente irrisolte che attanagliano il Mezzogiorno dinanzi a una platea ampia con Luigi Angeletti (Uil), Raffaele Bonanni (Cisl), Guglielmo Epifani (Cgil), Giorgio Guerrini (Confartigianato), Renata Polverini (Ugl), Federico Vecchioni (Confagricoltura).

«La sanità è uno scandalo, si mandino a casa gli amministratori incapaci, mentre la banca del sud non sia un carrozzone«, auspicando che un istituto del credito del sud sostenga imprese e cittadini ad avere i soldi al giusto prezzo. Sono i due temi con i quali ha esortato a far ripartire l’azione di governo, anche programmando riforme strutturali e interventi forti in tema di occupazione di sgravi fiscali. Le ricette per il mezzogiorno passano inevitabilmente da una maggiore flessibilità salariale, al fine di far convergere produttività e salario, e soprattutto dal finanziamento del credito di imposta. Ma l’attenzione non deve essere puntata esclusivamente su provvedimenti mirati, bensì sarebbe utile anche un’azione di contesto sulle quattro emergenze ataviche del sud, ovvero sanità, istruzione, giustizia e lotta alla criminalità.

Circa la sanità, decisa contrarietà è stata espressa da Confindustria sull’utilizzo dei fondi Fas per ripianare perdite e voragini finanziarie, piuttosto si attivino riforme concrete per dare nuovo impulso a scuola ed università. Il riferimento è ovviamente alle esigenze delle classi medio-basse, dal momento che è imprescindibile garantire loro un adeguato livello di istruzione, «in modo da evitare la mobilità sociale».

Sugli incentivi: «bene la fiscalità di vantaggio – evidenzia la Marcegaglia – ma ad oggi non è ancora completamente applicabile perché è necessario un raccordo negoziale con l’Unione Europea che andrà trovato al più presto». Riguardo i dati Ocse, secondo i quali Italia e Francia sono i paesi che meglio di altri stanno avviando la ripresa, debbono servire da incentivo, perchè «è vero che i segnali di ripresa ci sono, ma è altrettanto vero che vi è da recuperare un meno 18% di produzione». Come sostenere dunque un panorama economico-imprenditoriale desideroso più che mai di scorgere segnali di ottimismo? Si parta dal taglio dell’Irap, propone la leader degli industriali, ragionando sul fatto che già in altri ambiti europei è stata abolita o sensibilmente ridotta, come in Francia e in Germania, dove non mancano tagli al carico fiscale delle imprese.

Inoltre in poco tempo sono già andati esauriti i plafond sino al 2011, quindi sarebbe auspicabile l’utilizzo del credito di imposta automatico sugli investimenti. E poi la giustizia, altra nota dolens: la Marcegaglia punta dritta sulla riduzione dei tempi nei processi civili e sulla certezza del diritto, senza la quale un qualsiasi imprenditore è scoraggiato nell’investire i propri danari al sud. Ma è necessario un impegno maggiore, senza indugi, aggiunge il segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani, dal momento che «sino ad oggi non si è fatto proprio nulla». Boccia l’azione del governo avviata per ovviare alle gravi deficienze del sud, e chiede a gran voce che come primo passo vengano inclusi nel circuito quei fondi che già sono a disposizione. Si tratta dei fondi per le aree svantaggiate oltre a quegli europei. Senza dimenticare la necessità di avanzare incentivi per tutte quelle imprese che decideranno di aprire nel mezzogiorno. «Inutile discutere di occupazione- prosegue Epifani- se poi al sud si lascia che le industrie chiudano».

Nota polemica di Cristina Coppola, vice presidente di Confidustria con delega al sud per l’assenza del ministro dell’economia Giulio Tremonti: «Malgrado le defezioni – ha rilevato – siamo soddisfatti che comunque venga data testimonianza di impegno verso il sud e la presenza dei vertici confindustriali lo dimostra».

Ma il vero nodo da sciogliere sarà quando le regioni meridionali usciranno dall’area Obiettivo Uno dei finanziamenti europei, in virtù dell’allargamento dell’Unione ad altre zone più sensibili. Sarà proprio in quel frangente che si manifesteranno ulteriori criticità, per questo sarebbe necessario arrivare a quella scadenza con un pacchetto di interventi non solo programmati ma già attuati. Perché non ci si svegli di soprassalto, colti inconsapevolmente dall’ennesima emergenza. Il tempo per farvi fronte, anche se poco, c’è tutto, è sufficiente quindi mettersi al lavoro. Con determinazione.

giovedì 8 ottobre 2009

NON CI SONO PIU'ALIBI


Da Mondogreco del 08/10/09

E adesso che si fa? Se lo saranno chiesti i ministri in pectore del nuovo esecutivo targato Giorgios Papandreou, desiderosi di iniziare quanto prima quella che è considerata da tutti una sfida titanica, ovvero far quadrare i conti di una Grecia messa male.

Se lo saranno chiesti le migliaia di persone, appartenenti alla generazione cinquecento euro, quelli che lavorano sette mesi e poi chissà, speranzosi di essere chiamati dall’Asep o dall’Ika. Quelli, per intenderci, che proprio non ce la fanno con quello stipendio non solo a vivere ad Atene, ma nemmeno a Trikala.

Se lo sarà chiesto anche lo stesso Primo ministro, consapevole di essere rimasto uno dei pochi in Europa, a tenere la barra del socialismo, se si considera la crisi della sinistra in Germania, Gran Bretagna, Francia, Italia. Ma il nipote e il figlio di due Primi ministri, ha dalla sua un vantaggio non da poco: una certa sobrietà di intenti e di azione che ricordano, seppur con le debite proporzioni, i tratti somatici della Cancelliera da poco riconfermata al vertice della Germania.

Se lo saranno chiesti, in positivo, i milioni di elettori che, tra affezionati al Pasok e acquisti dell’ultimo minuto, hanno deciso di voltare pagina e di mettere il punto ad una fase non troppo esaltante della Grecia moderna. Karamanlis infatti si portava dietro ben altre speranze. Eravamo nell’Ellade olimpica, con fari e riflettori puntati sull’Egeo da tutto il mondo. Facile forse farsi abbagliare dal jet set e da quella che è stata definita universalmente un’Olimpiade ottima, in quanto ad organizzazione e ad accoglienza. Ma purtroppo non è stata sufficiente a strutturare un governo stabile e duraturo, che risparmiasse al paese non solo la crisi, perché è stata su scala mondiale e quindi di difficile previsione. No, semplicemente perché un governo liberale e conservatore avrebbe dovuto indirizzare la propria opera amministrativa in un’altra direzione. Ovvero favorire la piccola e media impresa, investire nella green economy, contrastare la corruzione che è ormai insinuata a tutti i livelli della società, dove troneggiano fakellakia e ingiustizie, dove il welfare per i più deboli è una lontana ed irraggiungibile utopia, dove insomma si salvi chi può.

E poi, non dimentichiamolo, un governo di centrodestra desideroso di lasciare un segno e interpretare quella voglia di cambiamento, avrebbe dovuto con tutti i mezzi abbattere la spesa pubblica, mettendo il freno alle sperequazioni sociali, ai prezzi schizzati all’improvviso grazie ad un euro fuori controllo. Provvedendo inoltre a regolarizzare i rapporti con le gerarchie ecclesiastiche, a impegnarsi nei rapporti con la Turchia, proponendo una qualche soluzione per la vertenza cipriota. Nulla di tutto ciò è stato francamente pensato.

Perché non è soltanto colpa degli scandali se i greci si sono ribellati, dando il proprio consenso anche ad un partito nazionalista, il Laos, che ha preoccupantemente raddoppiato i propri voti. Non è soltanto a causa di un incidente, quello che costò la vita al giovane Alexis lo scorso dicembre nella guerriglia ateniese, che la società si è come risvegliata da un torpore mostrando il peggio di sè. No, sarebbe quantomai opportuno approfondire le viscere delle sensazioni elleniche, senza nascondersi dietro i numerosi luoghi comuni che in questi anni hanno colposamente contribuito a ignorare cause ed effetti.

Non è più tempo di utopistiche e speranzose idee lanciate durante la campagna elettorale, a cui la gente non crede più. La Grecia ha bisogno di essere rivoltata come un calzino, con serietà, decisione, valutando eventuali conflitti di interessi, innescando un virtuoso principio di bene comune, di senso dello stato che è tragicamente mancato, sostituito da politiche stolte e controproducenti, capaci solo di mortificare le energie positive.

Due esempi su tutti: il fatto che non si costruiscano nuove università comporta gravissime ripercussioni sul territorio. Le città e le regioni accusano un mancato introito, culturale ed economico, le famiglie si indebitano per via del perverso meccanismo delle Panellinie, che costringe gli studenti non ammessi alle facoltà elleniche a trasferirsi all’estero. Urge una regolamentazione sana e lucida del problema istruzione. Partiamo dalle scuole, con i ragazzi impegnati di giorno negli istituti scolastici e di pomeriggio con i numerosi doposcuola. Ma quanto tempo poi della giornata resta loro per studiare? Dunque, imprescindibile una riforma della pubblica istruzione, senza la quale non si potrebbe nemmeno abbozzare un discorso sulla classe dirigente di domani.

In secundis, impedire lo sfruttamento fine a se stesso delle risorse greche, per invece ragionare su quali peculiarità del territorio possono rappresentare un’eccellenza. Il turismo, l’enogastronomia, la cultura. E i risultati, seppure inizialmente minimi, non tarderanno a ramificare benefici e agevolazioni. Non è ammissibile che nel 2009 stuole di adolescenti popolino per ore intere i cafeneia, senza un vero progetto per la propria vita, sciorinando vacue intenzioni di vivere di rendita, o al massimo con la prospettiva di aprire una caffetteria. Non è una visione pessimistica della società, è solo la fotografia reale di un paese unico che fino ad oggi non ha fatto nulla per investire nelle proprie qualità. E’un’analisi dura e puntuale, non semplice da affrontare a viso aperto. E’come se una donna si guardasse allo specchio prima di uscire e, anziché valorizzare i propri punti di forza, si sforzasse di coprirli e celarli.

Ha scritto Lord Byron: “Ciechi gli occhi che non versano lacrime vedendo, o Grecia amata, le tue sacre membra razziate da profane mani inglesi, che hanno ferito ancora una volta il tuo petto dolente”. Questa volta non potranno intervenire risolutivamente solo i grecofili, o gli amanti della Grecia, i cui colori cangianti e profumi orientali scorrono meravigliosamente nelle vene di coloro che, come chi scrive, si considera non solo un semplice appassionato ma un prodotto culturale di quella terra. No, questa volta, e senza appello, spetterà ai greci e solo a loro rimboccarsi le maniche e salvare una patria che non è solo terra e case, ma è storia, è il pan, è cultura. In una parola è madre del mondo.

domenica 4 ottobre 2009

«La politica non deleghi alla magistratura»

Da Ffwebmagazine del 04/10/09

Luciano Violante, magistrato ed esponente di spicco non solo di Pci, Pds e Ulivo ma anche istituzionale in quanto già presidente della Camera e al vertice della commissione antimafia, va dritto al punto della questione, conversando sul suo ultimo libro Magistrati, appena uscito per Einaudi. Maggiore attenzione alle interpretazioni delle leggi e distanze certe e severe tra sistema giudiziario e mezzi di informazione.

D. Quale ruolo dovrebbe avere la magistratura all’interno di questo nuovo sistema politico?
R. Stiamo assistendo a un cambio di ruolo da parte della magistratura, dal vecchio modello continentale del giudice puro applicatore della legge e del giudice che la interpreta, a un modello più vicino a quello statunitense, con un giudice dei diritti, che sindaca anche la validità del provvedimento. Quest’ultimo si mostra più libero rispetto a quello dell’Europa continentale. Da questo punto di vista credo che il giudice italiano debba tener conto in modo assolutamente vincolante del peso che hanno le interpretazioni della legge.

D. Si riferisce alla interpretazioni e alle decisioni della Cassazione, ad esempio?
R. Nel libro sostengo che la stabilità dell’interpretazione delle norme è requisito essenziale per la competitività del paese. In assenza di regole certe gli imprenditori poi vanno a investire altrove, per dirne una. Non vi è quindi un problema di legge ma di interpretazione. Il secondo dato poi è quello di impegnarsi a tenere il più distante possibile giustizia e mezzi di informazione. Si sono verificati casi di intrecci troppo stretti nella storia repubblicana tra media e inchieste. Anzi, mentre nel passato i giornali facevano le inchieste e su quelle i giudici celebravano i processi, oggi accade esattamente il contrario.

D. Chi e perché, secondo la sua opinione, si è lasciato attrarre dalle luci scintillanti di questa sorta di moralismo giuridico?
R. Ci sono stati momenti di alta tensione all’epoca di Mani pulite, ma penso anche ad altri casi in cui la magistratura ha fatto molto di positivo. A un certo punto però, quando la politica delega alla magistratura non l’applicazione delle norme nei confronti dei singoli casi, come può essere il corrotto o il mafioso o il terrorista, ma le conferisce il compito di combattere la corruzione o la mafia o il terrorismo, in quel preciso istante carica la magistratura di una responsabilità politica e morale. Ma dal punto di vista istituzionale chi è venuto meno ai suoi compiti è stato la politica, delegando alla magistratura la risoluzione di un problema.

D. È in quest’ottica che ha riportato nel libro alcune espressioni di Borrelli?
R. È un uomo che stimo moltissimo, ha detto che si voleva spargere sale e tagliare le mani, ovvero un compito di politica generale che intanto la magistratura si accolla o tende ad accollarsi in quanto la politica non svolge il proprio mestiere. Mentre altri paesi hanno avuto una reazione precisa e ferma, sia Francia che Gran Bretagna, contro le corruzioni quando queste sono emerse, in Italia no. Da noi purtroppo l’istinto delle dimissioni per responsabilità politiche mi pare che non sia particolarmente affinato, tranne sporadiche eccezioni. Se da un lato è innegabile che si siano verificati degli eccessi, dall’altro la risposta è stata un po’nevrotica.

D. Come ricomporre oggi un quadro d’insieme che sia il quanto più possibile armonico?
R. Proprio nel libro io denuncio una reazione scomposta, più rivolta alla tutela delle posizioni dei singoli che a quella del sistema giudiziario. La politica in Italia non si è data regole morali, e tutto ciò che si può giuridicamente fare è lecito anche moralmente: però in questo modo si attribuisce al diritto un peso eccessivo all’interno della società. Faccio un esempio concreto, anche se forse farà sorridere qualcuno: ritengo particolarmente importante il fatto che il Parlamento italiano, così come in altri paesi, si doti di un comitato etico che valuti i comportamenti immorali. L’etica non deve certo pretendere di essere la misura di tutto, ma mi auguro che trovi il suo spazio, all’interno del quale stigmatizzare atteggiamenti sbagliati. In questo modo si consentirà anche al diritto di rientrare nei ranghi.

D. Ma a volte c’è un uso immorale della questione morale?
R. Accade che i parametri etici vengano utilizzati al puro fine della lotta politica. Ciò è profondamente sbagliato.

D. Magistrati che rispettino l’autonomia della politica, quindi, senza vestirsi con l’abito del moralizzatore. Questo libro nasce quindici anni fa?
R. Avevo alcuni appunti sul rischio di un governo dei giudici che ho segnalato nel 1993, ma contrariamente a quello che in genere si pensa di parte del mondo politico e dell’informazione, io sono sempre stato un osservatore abbastanza severo delle deformazioni dell’ambito giudiziario, conoscendolo con qualche approfondimento. A me pare che oggi sia emersa una duplice necessità. Da parte della magistratura di caricarsi di una responsabilità di tipo nazionale, salvaguardando tutti i principi di unità. Da parte della politica di dotarsi di regole morali. Senza dimenticare che anche l’avvocatura dovrebbe fare una riflessione sul ruolo che riveste, perché opera assieme alla magistratura, quindi non può essere che tutto il bene o tutto il male si trovino solo da una parte.

sabato 3 ottobre 2009

Un giallo sul Bosforo: il dialogo passa anche da qui


Da Ffwebmagazine del 03/10/09


Profumi mediterranei, suoni orientali frutto di millenni di commistioni di popoli e culture. E poi ricatti, criminalità, omicidi politici, rivisitazioni delle ideologie passate. I libri di Petros Markaris, mai banali, sono zeppi di fatti e di eventi che si incrociano ritmicamente sotto un pergolato all’ombra del Partenone, e con lo sguardo girato di tanto in tanto alla città che ha dato i natali al giallista greco. Costantinopoli, o Istanbul, come si preferisce: ma il prodotto non cambia. Quella che è stata la patria della filosofia e della democrazia, è oggi lo scenario naturale per una forma suggestiva e intrigante di romanzi noir.

In La balia, una donna scomparsa e una scia di morti sospette conducono il commissario Kostas Charitos a interrompere una vacanza sul Bosforo per dedicarsi al suo lavoro, che è anche la sua vita: le indagini. Affrontate, e qui sta il bello, assieme a un collega della polizia turca. Dapprima con diffidenza, poi con una cortesia apparente ma sempre con certa circospezione, fino allo scontro, che porta i due personaggi, ritrovatisi dinanzi a una succulenta tavola imbandita di pietanze smirniotiche, a collaborare insieme nella consapevolezza che gli interessi comuni cancellano le vecchie ruggini.

Greci e turchi: un binomio caratterizzato da criticità storiche del passato, però alla ricerca di un nuovo inizio. L’autore, originario di Costantinopoli, ha collaborato in passato anche con Theo Angelopulos, e in nove anni ha firmato sei romanzi, inaugurando uno stile sobrio e profondamente umano. Il protagonista, il commissario Kostas Charitos non è il rude poliziotto tutto armi e muscoli, non il perfetto investigatore dalla soluzione sotto mano. È una persona semplice, figlio della classe media, allergico a una società plastificata dalla globalizzazione e dal frenetico consumismo. Insomma uno “vero”, dotato di anima, che pensa, soffre, che ha rimorsi, accompagnato da una coscienza profonda, e da una consapevole voglia di imparare che lo porta a sfogliare quotidianamente il suo vocabolario.

La Balia viene dopo Ultime dalla notte, Difesa a zona, Si è suicidato il Che, La lunga estate calda del commissario Charitos, I labirinti di Atene: romanzi che raccontano di casi singolari nell’Ellade pre e post Olimpica, di amori e delusioni, di truffe nel mondo del calcio. Spaccati di vita vissuta al confine tra oriente e occidente, in quella miscellanea di culture e tradizioni che è la Grecia, a cavallo tra due millenni. Un affresco verosimile e, perché no, piacevolmente romantico dell’Atene di oggi, ebbra di contraddizioni sociali enormi e di sperequazioni economiche, ma terra quantomai fertile di passioni, dove cultura e folklore allo stato puro sono radicati profondamente, divenendo un humus tangibile che trasuda da ogni scorcio.

Il dinamismo dei romanzi di Markaris, finalista lo scorso anno al Premio Ostia e ospite quest’anno del Festival di Mantova, è così spiegato. L’aver dato un risalto, per nulla sforzato e costruito, anzi fin troppo reale, a una Grecia estremamente diversa da quella di trent’anni fa, dove la globalizzazione e la crisi economica stanno erodendo pezzi della società. Fenomeni che per questo, però, incontrano un (purtroppo fino ad oggi) debole argine nei piccoli gesti quotidiani, come il rito del caffè consumato nelle caffetterie, o talune preparazioni di cibi appartenenti alla tradizione culinaria della Polis. La Città, così veniva chiamata Costantinopoli, anche dopo gli eventi che costrinsero brutalmente i greci lì residenti a fare marcia indietro e a lasciare quelle case e quei ricordi.

Sta tutta lì l’essenza letteraria di Petros Markaris, avvolta in un foulard di colori e suoni, come quelli che sgorgano dagli aromi che da qui transitavano lungo la via della seta, o dalle note del bouzouky giunto a noi attraverso la penna di Nikos Kazantzakis e le gesta di Zorbas (che di fronte alla tragedia di aver perso tutto, si limitava a dire “non fa nulla”), o più semplicemente come le immagini mozzafiato di alcuni monasteri in terra di Grecia, come quelli sul monte Athos, dove ci si riconcilia con una spiritualità troppo spesso lontana, o come i lunghi dialoghi con l’informatore di Charitos, un ex comunista appartenente a quella frangia anticolonnelli ma che dopo trent’anni si riconcilia con il poliziotto e anche con l’uomo.

«Scrive gialli dai sincronismi perfetti», hanno rilevato su di lui i francesi di Le Monde, ma non si tratta semplicemente di attimi che si intersecano, seppure con maestria. Accanto alla musicalità di espressioni e desideri, Markaris lascia i pensieri liberi di vagare verso un immaginario, quello del mare, il suo, il nostro Egeo, che attraversa vite ed esistenze; quel mare che è l’attore protagonista di partenze e di arrivi, che ispira navigazioni lunghe e laboriose, ma che per questo è habitat naturale di una visione ariosa della vita.