mercoledì 23 novembre 2011

Moriremo democristiani? Ma quando mai

C’è qualcuno che non ha capito, o fa finta di non capire, come il momento dell’Italia e del continente intero sia delicatissimo. Le pressioni finanziarie, gli speculatori in agguato, i conti che non tornano, cinquant’anni di casta che fanno sentire gli effetti sulla vita dei cittadini e sulle casse dello stato. Per questo la risposta della politica non può che essere di unione. Prima scomporre per rivitalizzare la proposta politica e poi ricomporre, magari in un secondo momento, per tornare a governare. Questo il senso dell’esecutivo Monti, nei fatti di grande coalizione in quanto tutti, o quasi, consapevoli dello sforzo da compiere. Chi continua ingenuamente ed erroneamente a chiedersi se moriremo democristiani sottovaluta fatti e strategie. Una semplificazione sloganistica simile dimostra sì il corto respiro. Perché il fatto di voler appoggiare responsabilmente un governo di grande coalizione non significa necessariamente tornare al passato. Ma, così come fatto con il Cln dopo la guerra, serve oggi unità e altruismo per ricostruire. Solo i democristiani moriranno democristiani, non è che questo assunto sia un dato di cui vergognarsi, ognuno ha origini e percorsi differenti da rispettare. Proprio per questo è da apprezzare lo sforzo che oggi tutti compiono. Mettendo per un momento da parte storie, appartenenze, identità, e convergendo su obiettivi concreti e collettivi. Chi si ostina ancora a ragionare per slogan, per frasi ad effetto, per salti in avanti ma che non hanno una solida base analitica, ancora di più mostra di non avere capito un bel niente. All'ordine del giorno non c'è quale fine farà questa o quella fazione, ma il destino di tutti. Che, piaccia o meno, oggi è molto incerto. Salvo per il tentativo di un governo che in appena una settimana ha già dato sfoggio di altro stile e altri modi. E allora a nulla serve chiedere la carta di identità ai compagni di viaggio, francamente poco importa. Conta solo la destinazione finale.

Fonte: ilfuturista.it del 21/11/11

mercoledì 16 novembre 2011

La narrazione politica di domani? E'già un'altra

Il passaggio politico dal quindicennio berlusconiano a un qualcosa di diverso e di nuovo potrebbe essere riassunto nel fatto che, comunque vada, i partiti di domani non saranno quelli usciti dalla guerra civile che ci lasciamo alle spalle. La narrazione politica, da oggi in poi, sarà un’altra. In questa consapevolezza, matura e decisiva, deve trovare spazio la proposta innovativa di un cambiamento epocale. Che sta già muovendo i propri passi. Che bussa alla porta della cosa pubblica proponendo una rottura, come da definizione della politica offerta da Ranciére: rottura specifica della logica dell’archè. Lasciandosi alle spalle la retorica del passato e superando le vecchie appartenenze che hanno trionfato nella visione berlusconiana. Distaccandosi da ricatti, da memorie e racconti feriti. Perché la politica rinasce solo abbracciando visioni differenti ma accomunate da nuovi orizzonti. Dando voce a chi non l’ha avuta, per uscire dalla logica della maggioranza di idee e pensieri, per rompere con baluardi culturali sino a ieri insormontabili. Che vanno superati senza quella smania novecentesca di categorizzare una proposta sulla base di classificazioni ideologiche vecchie. Finalmente ci lasciamo alle spalle l’emergenza: la parola clou del decennio. Tutto è stato emergenza, tutto affanno, delirio, corsa e rincorsa. Ora c’è l’occasione per riportare le cose al proprio posto e anche, chissà, per rimetterle successivamente in disordine un’altra volta in futuro. Ma, oggi, serve la ricomposizione. Il peso specifico del quadro politico che ci accingiamo a strutturare, o parafrasando Monti quando ha usato il termine ‘gestazione’, sta nell’osservare un mondo nuovo da intercettare e a cui rivolgersi. Senza nostalgismi o fazionismi d’annata.

Un movimento globale che ri-nasce da zero, moderno, europeista e riformista deve avere la sua base nella misticanza culturale, nella sperimentazione sociale ma ancor più nella consapevolezza che nulla sarà più come prima. E chi non lo avrà compreso ne rimarrà inesorabilmente fuori, trascorrendo il proprio tempo a rimuginare su polemiche ingiallite, a dividere anziché unire: insomma, ragionando ancora in termini (politicamente) obsoleti.

Fonte: ilfuturista.it di oggi

lunedì 14 novembre 2011

Mecenati, fatevi avanti: la cultura ha bisogno di voi

Che paese è un paese che anela come fosse ossigeno vitale a ogni alito di cultura, per poi rendersi conto che non è vento ma spiffero, briciole di una pietanza che non arriverà mai sulla tavola? La cultura d'Italia è sempre più appesa al filo del mecenatismo, anzi, a pticcoli interventi basati sullo sforzo delle fondazioni bancarie o piccoli esempi di filantropia che, rispetto 'al mecenatismo europeo o statunitense, sono poca roba. Il problema vero è che nell' Italia di oggi e del secoto breve una vera e propria cultura della "filantropia non c'è mai stata, solo interventi dignitosi ma disarticolati, perché forse manca del dare senza ricevere, e si intende l’arte e l’intero panorama nazionale come fosse un peso da far portare a chi ha più muscoli. La cultura e l'arte d'Italia rappresentano di fatto non il patrimonio di un singolo paese, ma almeno di quattro, se si volesse considerare l'epoca romana, medievale, rinascimentale e barocca. Ragion per cui l'intero sistema di infrastrutture che affianchi questo sterminato pedigree italiano dovrebbe essere ampio ed efficace. E invece non lo è, preda di tagli indiscriminati e spesso anche di deficienze cognitive imbarazzanti. Ovviamente lo Stato da solo non è sufficiente, e anzi, si assiste dal 1985 a una progressiva diminuzione dei fondi destinati alla cultura e all'arte. Con i picchi dell'oggi, in virtù di una manovra che lascerà sul campo solo macerie, oltre a quelle già esistenti ad esempio a Pompei. Il problema, come più volte rilevato da Andrea Carandini, presidente del consiglio superiore per i beni culturali e paesaggistici, è legato a una classe dirigente impreparata e svogliata, che si occupa di cultura solo in tempi di vacche grasse. Nella consapevolezza che una grande crisi, come: l'attuale, si può anche passare, magari rinchiudendosi - In una grotta e attendendo che la nottata sia terminata-. Ma Oggi all'Italia accade un fenomeno ben più grave di un evento estemporaneo: latita una dirigenza complessiva che comprenda il significato della cultura, e coniugato proprio in questa terra, patria di "bellezza" che tanto ha dato alla società di tutti i continenti. A cui manca una sera e propria industria culturale, e in cui spesso chi dovrebbe proteggere questo grande fiore all'occhiello bianco rosso e verde si perde in battaglie ideologiche (come accaduto a Sandro Bondi nella sua avventura al dicastero del Collegio Romano). Ma una percentuale di responsabilità alberga anche in quella fascia a imprenditoriale che non ha osato scommettere sulla cultura, tranne casi sporadici. Ma andiamo con ordine. Il mecenatismo si sviluppa nel periodo umanistico-rinascimentale e prende il nome da Gaio Mecenate, scrittore uomo politico romano (69 a. C). Che, una volta ritiratosi a vita privata decise di contornarsi di artisti e poeti, incoraggiandone le opere: il potere politico attirava alla propria corte quelle energie capaci di eccellere nette arti, nelle lettere, nel diritto. Così da offrire lustro con il proprio impegno. Si leggano le pagine vergate da Baldassare Castiglione che nel Cortigiano consiglia l'intellettuale di: «voltarsi con tutti i pensieri e forze del suo animo ad amare e quasi ad adorare il principe a cui serve, compiacerlo nelle sue voglie senza adularlo...Non sarà vano e bugiardo,vantatore e adulatore inetto, ma modesto e ritenuto, usando quella riverenza e rispetto che si conviene al servitore . verso il signore».
Nel 2009 il 19% dei finanziamenti alla Cultura.: è venuto da privati, a metà tra mercato e mecenati. Questi ultimi sono sempre più rappresentati dalle fondazioni bancarie che, come ricordato dal presidente dell'Acri Giuseppe Guzzetti, hanno una funzione maieutica, perché non solo danno un contributo noto a tutti, ma assolvono una dinamica delicatissima. In quanto attirano gli interventi privati e sovente si sostituiscono al ministero (assente) sotto forma di cabina di regia. Molti sono gli imprenditori, osserva il vertice dalla Fondazione Cariplo, che non sanno a chi rivolgersi per restaurare una chiesa o per avviare una manutenzione di un museo. Una strada perciò è quella dei distretti culturali, ovvero interventi mirati sul territorio che abbiano un grande sguardo comune, un progetto insomma ad ampio respiro, che non facciano di quello sforzo economico un interessamento isolato. Ma venga ricompreso all'interno di una dinamica più generale, stabilendo in concreto un'armonia di interventi legati all'arte, alla cultura, alla scienza. In questo però rifiuta la cosiddetta funzione bancomat, in quanto il rischio è che chi richiede un intervento nello specifico dette fondazioni bancarie, alla fine voglia solo liquidità per meri scopi di un ritorno pubblicitario. Il pensiero corre a un sito come il Colosseo. O come a Pompei, dove vi sono al momento tutti i presupposti per procedere al salvataggio, grazie a più di cento milioni di euro che però dovranno essere gestiti con serietà e rigore, per impedire che attirino gli appetiti della criminalità. In questo senso va interpretata la presenza in loco del commissario europeo. Come dire che anche la cultura italiana corre il rischio di essere commissarsata. Ma un passo in avanti e possibile, lo dimostra l'associazione Amici degli Uffizi, gestita da una branca di Confindustria: Confcultura, a cura di Patrizia Asproni. Che è riuscita ad attirare donazioni, straniere (precisamente di venticinque milionari 80enni residenti a Palm Beach che hanno staccato un assegno ciascuno di venticinquemila dollari invogliati dal fatto che l'Italia è la culla mondiale della cultura e va salvaguardata), ma con precise garanzie. E soprattutto mutando il termine mecenatismo in quello che gli anglosassoni definiscono "fundraising". Un interessante punto di partenza, che però deve essere considerato tale, dal momento che solca un mercato come quello statunitense già florido di Mecenati. E con la speranza che anche qui in Italia si assista a un minimo scatto di orgoglio da parte di chi, da questo paese, ha ricevuto tanto in termini di produzione, manodopera, dividendi e che adesso, proprio adesso quando tutti i rubinetti sono chiusi, dovrebbe fare di più, ora che lo Stato non assolve al suo compito. Il Ministero della Cultura, oggi, ha delle indubbie criticità: rifiuta un ammodernamento tecnologico, ha una dinamica organizzativa lenta, ma non per questo va abbandonato al suo destino. Perché, come ammonisce lo stesso Carandini, se crolla il ministero crolla la cultura. L'auspicio è che una nuova borghesia nutra il sentimento di appartenenza a una cultura comune, che si adoperi materialmente in misura sempre maggiore per dare ciò che dalla società ha avuto. Anche, perché no, grazie all'aiuto di veri e propri moderni operatori, che gestiscano una sorta di grande industria nazionale della cultura, ergendosi a interfaccia qualificato e competente tra le esigenze di un paese millenario come l'Italia, la sete di cultura e i fondi da "rastrellare" e gestire con oculatezza. In fondo è stato forse l'eccessivo statalismo italiano del passato a non consentire lo sviluppo di un vero e proprio mecenatismo. Si pensi al fatto che un colosso industriale e politico come Gianni Agnelli di fatto ha lasciato solo un patrimonio in quadri, devolvendo a Torino la sua pinacoteca. Un po' poco per chi per decenni si è visto inondare di finanziamenti pubblici per avviare stabilimenti in tutta Italia. O no?

Fonte: Il futurista settimanale del 05/11/11

Kalispera Atene

Forza Grecia, perché significa forza euro. Il destino della moneta unica passa inevitabilmente dalle Cariatidi che osservano da pochi metri il Partenone, sotto un cielo plumbeo. Lì, sul punto più alto della capitale ellenica, dove sventola la bandiera bianca e azzurra, assieme a quella dell’Unione, i destini continentali si incrociano con quelli della porta d’oriente del vecchio continente. Il partito (politico, speculativo e quindi anche mediatico) di chi vorrebbe una retromarcia verso i bassi lidi della moneta nazionale non ha bene calcolato lo tsunami finanziario che ne deriverebbe. Toccando interessi non solo dell’eurozona, ma soprattutto in chiave di geopolitica mondiale. Perché proprio al centro del Mediterraneo si sta giocando una partita ad altissimo rischio dove le pedine non sono solo lo spread o le montagne di prestiti scaduti che Atene detiene nel proprio portafoglio. Ma vi sono anche altri fattori che vanno considerati, vedi l’influenza e le mire dell’area pacifica che sta prepotentemente guadagnando terreno. Come mai nonostante le misure anticrisi il debito pubblico ellenico l’anno prossimo aumenterà? Perché il duo “Merkozy” si ostina a non considerare l’opzione eurobond che stimolerebbe gli appetiti di liquidità cinesi? C’è chi invoca addirittura il ruolo di cavia per la Grecia, viste le deficienze strutturali, perché la crisi non è ellenica, bensì europea. Ma andiamo con ordine. Innanzitutto si sgombri il campo da facili illusioni: i conti in Grecia non tornano e, almeno ufficialmente, non per colpa di altri. Ma per decenni di spreco di denaro, politiche miopi e corruzione multilivello. La Grecia è tutt’ora il paese in cui lo stato è il maggior datore di lavoro ed è il primo cliente del settore privato. Bisognerebbe certamente impattare questo strapotere statale che è all’origine della crisi, ma sarebbe servito farlo senza scatenare la tremenda recessione attuale. L’accordo del 26 ottobre è servito invece per alleggerire il debito in modo che, pur in condizioni critiche, ci sia in futuro una speranza di ripresa. Ma non è sufficiente, perché la Grecia è storicamente stata crocevia di scontri. Prima la dominazione ottomana, staccatasi solo a inizio del novecento (Creta è stata l’ultima a liberarsi nel 1914, nonostante la rivoluzione fosse partita nel 1821), poi i due blocchi monolitici del patto atlantico e della cortina di ferro, che proprio in mezzo all’Egeo incrociavano le lame. Passando oggi per la nuova era delle altre potenze, Cina su tutte e con la Russia di Putin a svolgere un ruolo non solo di spettatore. Si aggiungano gli scandali in occasione delle Olimpiadi del 2004 che hanno interessato il colosso tedesco Siemens, le fibrillazioni in Medio Oriente e gli ostruzionismi continui della Turchia in chiave di un’ “ottomana” vocazione espansionista, adesso indaffarata a tessere trame con l’Iran di Ahmadinejad e a litigare con Atene per il petrolio e per il gas presente nelle acque greche, senza dimenticare l’ingiustificata occupazione di Cipro con 50mila militari turchi presenti in loco dal 1974. Uno scenario tutt’altro che semplice da gestire e comprendere. Un fatto, però, è rappresentato dai numeri: in rosso per l’Atene di oggi, con sperequazioni sociali assurde, con una fetta di cittadini costretta a variare finanche le abitudini alimentari perché senza gli euro di ieri, con l’aumento di suicidi e di depressioni, con servizi statali nella sanità dimezzati. Ma in rosso anche per lo stato di domani: nel 2012 è calcolato che il debito pubblico salirà al 170% del pil (oggi è al 160%): come mai? Significa che le ricette imposte dalla troika composta da Fmi, Ue e Bce all’economia greca in un primo tempo avevano sottovalutato l’impatto negativo che avrebbero avuto grazie ad una rapida liberalizzazione dell’economia. È come se si contrapponessero specchi ad altrettanti specchi. Ma il governo che fa? Approvato un esecutivo di larghe intese per scongiurare le elezioni anticipate e dare il via libera al piano di salvataggio, anche se lo shock vero è stato l’annuncio di un referendum sulle misure, proposto dal premier Papandreu e dopo 48 ore ritirato anche per le pressioni dei mercati continentali collassati giusto il tempo di quell’annuncio. Papandreu: un cognome che significa molto in Grecia, al pari di altre due famiglie, Karamanlis e Bakoyannis che nella politica fanno il bello e il cattivo tempo ininterrottamente da quasi un secolo. Ma ecco Iorgos: figlio dell'ex primo ministro greco Andreas (fondatore del Pasok al termine del regime dei colonnelli) e nipote di Geórgios (primo premier della Grecia al termine dell'occupazione nazista nel 1944), ha spiazzato tutti con quella boutade. In occasione della festa nazionale del 28 ottobre lo hanno accusato di tradire la sua Grecia. Un venduto agli stranieri insomma e che a loro ha ceduto gran parte della sovranità del paese. Iorgos l’Amerikano (così lo epitetano) è nato infatti negli Stati Uniti da famiglia mista, sua madre è l’ex radicale americana Margaret Chant, crescendo e formandosi in America e in Svezia. Un greco della diaspora, che ha trascorso la maggior parte della vita all’estero, dalla pronuncia greca incerta: per questo lo accusano. Ha anche detto di non vedere la vita politica come una professione: ma allora perché non ha fatto un passo indietro? Chi ne ha seguito la carriera politica afferma che il mansueto George, che preferisce l’inglese al greco quando dialoga con il suo staff e ama fare jogging al mattino, la vede come un’eredità lasciatagli dal padre e dal nonno: non ha vissuto drammi politici perché è un principe ereditario. Comportandosi di conseguenza e decidendo senza consultare nessuno. All’indomani del pacchetto di accordi post summit europeo del 27 ottobre, i nemici di Papandreu hanno affilato un’altra arma contro di lui. Dal momento che la cancelliera tedesca era riuscita nell’impresa di affrancare l’economia ellenica con un “controllo permanente” della troika fino al momento in cui il paese non fosse stato capace di essere autonomo. Ma il nemico numero uno resta il partito antieuropeo e antieuro. Che in patria è rappresentato dal partito comunista, mentre fuori dai confini nazionali prende il nome di speculazione. Sì, certo, c’è la Bild che scrive che per premunirsi contro il rischio di un'uscita della Grecia dall'euro il maggiore tour operator tedesco ed europeo, Tui, stia sottoponendo ai partner alberghieri greci contratti in dracme. Il quotidiano tedesco scrive che in caso di ritorno alla dracma, il calo del valore della nuova valuta potrebbe arrivare fino al 60%. Ma cosa accadrebbe con un’eventuale uscita della Grecia dall’euro? In primis una fuga dei depositi, ovviamente ciascun risparmiatore ritirerebbe subito il proprio denaro in euro anziché attendere di avere in tasca “solo” dracme svalutate. Con il rischio di fallimenti bancari a catena, oltre a costi sociali non indifferenti perché il governo sarebbe costretto a nazionalizzare le banche. Senza dimenticare che, come rilevato dall’economista Jesus Castillo, l’inflazione comporta un abbassamento del potere d’acquisto delle famiglie. A ciò si aggiungono altri fronti. La questione dei giacimenti presenti nell’Egeo o nella zona esclusiva di Cipro, la cui esistenza è nota sin dalla fine degli anni settanta, ma che non sono mai stati sfruttati per le pretese turche. Tra l’altro l’unico paese al mondo che non ha aderito alla relativa convenzione delle Nazioni Unite, avanzando al contempo diritti assurdi. Si era giunti però ad un compromesso, proprio quando Papandreu era ministro degli esteri, dopo aver rischiato in molte occasioni l’episodio “caldo”: sospendere le ricerche nell’Egeo in vista della definizione bilaterale dei confini. Cosa abbastanza difficile, perché la Turchia ha delle idee tutte sue che non trovano riscontro in alcun codice legislativo, come il fatto che le isole non abbiano diritto ad una piattaforma continentale. Insomma, problematiche croniche: e se vi è una responsabilità, sta nel fatto di non averli risolti a monte. E questa volta non per colpa dei governi greci, in verità la Turchia ha mostrato più intransigenza del dovuto in svariate occasioni, con la comunità internazionale a vigilare sonnacchiosamente, come sull’invasione di Cipro, ancora oggi capitolo tristemente irrisolto. C’è poi il capitolo Germania: Albrecht Ritschl, professore di Storia economica alla London School of Economics, intervistato dalla rivista tedesca Spiegel ha detto che la Grecia non ha un centesimo per restituire i prestiti, mentre è la Germania in passato ad aver sperimentato i più grandi fallimenti del ventesimo secolo, dal momento che, accusa, “il famoso miracolo tedesco era sulle spalle degli europei, per questo non dimentico i greci”. E a supporto della sua tesi ricorda i documenti ufficiali che dimostrano come i tedeschi dovrebbero riconoscere alla Grecia solo per anticipi l'ammontare di 91,99 miliardi dollari. Che, se pagate in occasione della riunificazione tedesca, come esplicitamente definito dai tre accordi internazionali a Roma, Londra, Parigi annullerebbero oggi il debito ellenico.
Tutto ciò si lega, ancora, a un gap comunicativo: nessuno ha provveduto a informare l’opinione pubblica ellenica su che cosa avrebbe comportato l’adesione all’euro. È così, tra quotidiani schizzati anche a un costo di sei euro e un caffè italiano che in alcune zone di Atene sfiorava i cinque euro, che si sono ritrovati in questa situazione a dir poco disagevole. Certo, quelli de Le Monde continuano a proporre il paradigma argentino, auspicando una ricostruzione ellenica che parta dalla competitività, al momento zero per via dello scarto d’inflazione accumulato dal frangente del suo ingresso nell’euro. E puntando sul deprezzamento della sua moneta, uscendo dall’euro, come panacea a tutti i mali. Ma gli analisti francesi dimenticano che la Grecia non è l’Argentina, non fosse altro che per la diversa estensione geografica e per ben altre dinamiche continentali. Perché in fondo nemmeno l’area euro mediterranea è come gli Stati Uniti, o forse Parigi lo dimentica? La dracma servirebbe solo a spingere verso il terzo mondo finanziario la cosiddetta Europa del sud, che a quel punto includerebbe altri paesi Piggs oltre alla Grecia come l’Italia (cosa che solo Berlusconi ignora). Ma dando il definitivo addio alla moneta unica e alle ultime briciole di speranza di avere un’area continentale che sia comunitaria e autorevole. Con il brindisi di chi, ad un’Ue compatta e monolitica, non dispiacerebbe poi tanto rinunciare.

Fonte: Il futurista settimanale del 17 novembre 2011

lunedì 7 novembre 2011

Festeggiamo ogni topo che abbandona la nave di B.


Il nodo sta tutto lì, in quell’equilibrio. Perché questo non è il momento di fare gli schizzinosi. Siamo nel pieno della battaglia finale e chiunque molla Silvio Berlusconi non potrà che essere festeggiato. Dopo ci sarà tempo per ragionare sugli scenari futuri. La maggioranza si sbriciola ogni secondo di più e, nonostante l’ostinazione del presidente del consiglio, il governo, di fatto, non è più in piedi. Le defezioni, gli abbandoni, i distacchi dal fu Popolo della libertà sono il segno tangibile della fine. Quei deputati e senatori che non vogliono più metterci la faccia rappresentano la plastica raffigurazione del “the end”. Senza appelli. Certo, chiede qualcuno, ma non è che adesso si ricomincia con cavalli di ritorno e figlioli prodighi? Nessun ingresso e ponti levatoi alzati, sia l’imperativo. Però a ogni "topo" che abbandona la nave del Cavaliere permetteteci di festeggiare. C’è anche qualche sostenitore che affida a facebook la propria riflessione, come Antonio C., secondo il quale per fare cadere il governo ben vengano le migrazioni dal Pdl, ma non si dimentichi che questi personaggi non aiuteranno a vincere le prossime elezioni, in quanto chiederanno in cambio zattere di salvataggio. E allora il primo comandamento resta quello di parlare agli elettori (non agli eletti) e si eviti di mortificare i militanti, per dare spazio ai migranti della politica. «Un conto è reperire i numeri in parlamento per mandare a casa il governo - scrive - altro è mantenere un comportamento coerente nei confronti degli elettori. Stiamo quindi attenti a non snaturare Futuro e libertà. Dopo la caduta di questo governo dovremo presentarci agli elettori e certamente non gradiranno i riciclati». Un ragionamento che non fa una piega, perché frutto di coerenza e determinazione. Ma buono tra un momento. Perché adesso, nel nanosecondo in cui l’impero del Cavaliere crolla sotto i colpi dei suoi stessi amici, è il momento di festeggiare quelle fughe.

Fonte: ilfuturista.it di oggi

Dalla classe alla casta


Ha ragione Sabino Acquaviva quando ammonisce sulla trasformazione della società italiana, che da essere composta da classi sociali si è ridotta, oggi, a essere divisa morfologicamente in caste. Perché hanno bloccato l’ascensore sociale, perché si è investito nelle cricche e non nel sistema, negli amici degli amici e non nello strato sub sociale nazionale, nei desiderata di pochi svilendo il futuro dei tutti. L’Italia è un paese ingiusto, per mille ragioni. Esempio principe: tutti inneggiano alla meritocrazia e nessuno la metta in pratica. Ma al di là delle deficienze strutturali storiche o contingenti, come accade nel resto d’Europa, qui sta montando dell’altro. È la consapevolezza rassegnata di chi non vede la luce in fondo al tunnel, di chi si rende conto ogni attimo di più che la classe dirigente è sempre meno qualificata, aggrappata ai tanti troppi Scilipoti che sporcano il nome e le fattezze di una nazione. Che servirebbe un Einaudi che non c’è e non ci sarà, che basta promettere un tot per restare in sella. A questi cittadini giustamente delusi, che osservano un sogno disintegrarsi, che fanno veramente i conti con la crisi sulla propria pelle, non si può obiettare solo con lo strumento della fiducia coatta.
Né si può dire semplicemente loro che tanto domani sarà un altro giorno, migliore dell’oggi ma peggiore del dopodomani. Storie vecchie che non funzionano più. Invece serve accarezzare i loro dubbi, le paure, le disillusioni, ascoltare sfoghi e ragioni, discutere anche animatamente delle piaghe sociali che, nell’Italia del bunga bunga e delle grandi opere che non si fanno, stanno tornano drammaticamente a galla. Qui si muore ancora di lavoro nero, si malasanità, di alluvioni. Di cassintegrazione, di nuove droghe per poveri disperati, di prestiti scaduti che stanno arrivando prepotentemente nel motore socioeconomico della nazione. A questa gente, che rappresenta la maggior parte della popolazione, non interessa quanti deputati in più ha la maggioranza, o chi staccherà la spina, o chi verrà messo nel listino bloccato perché figlio, delfino o trota di un presunto leader. Ma vogliono solo che le cose cambino e alla svelta.
Per queste ragioni allora la politica alta, quella con la P maiuscola, quella per intenderci che consentiva al paese di sfoggiare facce presentabili e galantuomini, come Berlinguer, De Gasperi, Almirante, deve rinnovarsi prima che sia troppo tardi. Prima che gli italiani siano ridotti allo stremo e che perdano la lucidità democratica, piombando in derive illogiche. Dove il rinnovarsi non si limita solo a sostituire deputati con plurilegislature alle spalle con rampolli approssimativi figli o nipoti di altri componenti della cricca. Ma si evolva dall’interno, con un nuovo vocabolario, frustandosi per idee che non ha avuto, studiando cause ed effetti del paese. Perché alla politica di oggi, quella dei teatrini televisivi, quella del do ut des, dei vertici notturni, delle cene clandestine, dei frondisti che un momento prima solo peones e dopo si trasformano il salvatori non della patria ma dello scranno, beh a questa gente mancano le idee e le parole. Un’occasione è il simposio organizzato per il prossimo fine settimana a Rocca di San Leo dal Forum delle idee per rilanciare il significato e la luce delle parole della politica. L’obiettivo è proporre un nuovo alfabeto della vita attiva nel nostro presente: un ciclo di seminari sperimentali per ricordare a chi gestisce la cosa pubblica che senza idee e senza parole (adeguate) lo status quo non cambierà.

Fonte: Go-bari di oggi.

mercoledì 2 novembre 2011

Democrazie senza democrazia: dove andiamo senza guida?


È come voler giocare senza legittimità. Chi governa senza democrazia lo fa nella consapevolezza di potersi permettere licenze, più o meno lecite. Lo abbiamo quotidianamente sotto gli occhi. Democrazia senza democrazia è sovvertire l’ordine delle cose, è il conflitto di interessi, è non avere concorrenza, è cassare le idee non allineate, è governare con e per un pugno di mosche (pardon, di responsabili), è una meritocrazia di cui tutti, ma proprio tutti si riempiono la bocca, salvo poi fare “all’italiana”. È non poter scegliere altro che non sia bianco o nero, è essere tacciati di vezzo da intellettuali solo per il fatto di ricercare un confronto o un dialogo ampio, è svilire i contenuti per salvare cocciutamente il contenitore. Lo ha scritto Giovanni Sartori qualche tempo fa nel suo Democrazia, cos’è? che anche il gioco democratico può essere giocato male. Dobbiamo sforzarci di chiederci come mai l’ideale sia entrato in rotta di collisione con il reale. Dal momento che la democrazia, nata inizialmente per limitare l’assolutismo, ha nei fatti prodotto nuove oligarchie. Che dispongono del potere decisionale, influenzano quotidianità dei cittadini con scelte e con politiche mirate, non sembrano poi troppo intimorite dal controllo delle istituzioni democratiche. Partiti e governi a volte tendono progressivamente a svilire figure e poteri, come il parlamento e la magistratura, o paradossalmente a strumentalizzarli, in virtù delle esigenze del momento.

Dimenticando che il potere dovrebbe limitare il potere, grazie ai check and balance per non far mancare controlli e tarature. Proprio in questo pertugio la sovranità popolare assume un ruolo marginale: quante volte, e a tutti i livelli, non viene vista poi con troppo entusiasmo? Il riferimento è alla possibilità dei cittadini di avere una pubblica opinione autorevole e indipendente, alla scelta diretta dei candidati in occasione delle elezioni politiche, alla trasparenza degli eletti. E allora sarebbe utile riflettere su quante volte sembra di essere circondati da strutture che si dicono democratiche ma che, in realtà, sono solo camuffate perché dirette in modo unidirezionale. Per questo il fattore del movimentismo, a maggior ragione in questa fase di crisi del comparto cosiddetto democratico, va sostenuto con purezza e senza tentennamenti. Per limitare la legittimazione popolare passiva, rafforzando quella democrazia che Enrico Berlinguer definiva come una conquista in atto, preservandola da stravolgimenti e amputazioni, da ogni tentativo di svuotamento o soppressione.

Fonte: ilfuturista.it del 02/11/2011

Referendum in Grecia: solo una provocazione?

Lo shock è stato di quelli che difficilmente saranno superati senza conseguenze, non solo economiche ma soprattutto politiche. Perché i vertici continentali, ovvero il binomio Merkel-Sarkozy non digerirà facilmente l’annuncio del primo ministro greco Papandreu di indire un referendum sulle misure anti crisi. E già per il prossimo mese di dicembre. Ma come, si chiedono in molti, proprio adesso che si stava con difficoltà riuscendo a far metabolizzare gli interventi, internamente al paese e all’esterno in sede di troika, ecco che Iorgos, o come lo chiamano in patria George per via del suo non-ellenismo, fa saltare il banco? Numerose le chiavi di lettura questa mattina dei quotidiani greci, ma soffermiamoci su due ipotesi. La prima prevede che il leader del Pasok abbia scelto la strada della sopravvivenza politica e si sia reso conto della fragilità del suo mandato. Complici le defezioni del suo partito, la maggioranza di 152 deputati socialisti sui complessivi 300 è molto risicata, sarebbe infatti sufficiente un’altra defezione per far concludere definitivamente l’esperienza governativa socialista. Quindi vorrebbe correre ai ripari, riallacciando i contatti con i cittadini vessati dalle drastiche misure che, è utile ricordarlo, non faranno ridurre il debito greco. In quanto nel 2012 aumenterà fino a sfondare il tetto del 160% del pil, come gridavano i manifestanti dinanzi al parlamento ellenico pochi giorni fa. Di qui le considerazioni che la crisi non è greca, ma europea e mondiale e la scelta di chiedere proprio al popolo un giudizio sugli interventi. Con la drammatica conseguenza, però, di uno scenario surreale se dovesse prevalere un voto negativo. A quel punto cosa accadrebbe? Inoltre si è già verificata una destabilizzazione della totalità dei mercati europei, con i crolli di tutte le borse già da ieri. A soffrire più di tutti, in Italia, i titoli bancari, con perdite significative. Ma con il (piccolo) vantaggio per Papandreu, che ieri ha anche sostituito tutti i vertici militari, di poter di nuovo guardare negli occhi i propri elettori. Altra interpretazione, questa volta più avventurosa, ma non per questo inverosimile: la Grecia ha capito che le misure della troika non la salveranno dagli speculatori, che l’Ue non emetterà eurobond, che la troika non vede con favore (nemmeno gli Usa) un’avanzata di capitali cinesi che diano manforte alla crisi e allora ha deciso, come spesso accaduto in passato, di fare da sola, perché si sente una cavia. E rischiando, sotto tutti i punti di vista, non avendo più nulla da perdere. Se la logica vorrebbe che annunci come quello del referendum venissero al più presto ritirati per consentire ai paesi cosiddetti Piggs di evitare il contagio ellenico, il seme del dubbio si insinua parallelamente in questa storia di debiti scaduti, promesse non mantenute ed equilibri geopolitici. Perché non sarebbe saggio, oggi, ragionare sulla crisi ellenica senza analizzare anche altri fattori complementari: come la corsa ai giacimenti di gas nell’Egeo, le intenzioni dei russi, già presenti commercialmente nell’intera area sino a Cipro, la riluttanza tedesca a soluzioni anche extra continentali. Senza dimenticare il ruolo obliquo di Obama.

Fonte: ilfuturista.it del 02/11/2011