giovedì 29 aprile 2010

Minori non accompagnati,quel vuoto tutto italiano

Da Ffwebmagazine del 29/04/10

Anche in sede europea si è avvertita l’esigenza di approcciarsi all’immigrazione con un atteggiamento meno ideologico e più pratico, in ragione di un’elementare deduzione: ovvero che il fenomeno non può essere risolto alzando mura e scavando fossati. Ma sarebbe utile invece affiancare ad una risposta di tipo umanitario, anche una valutazione propositiva su come “modellare” alcuni flussi. Azioni e numeri che il secondo Rapporto dell’European Migration Network ha cercato di fornire, oltre ovviamente ad una chiave analitica per evitare vuoti normativi che purtroppo l’Italia accusa, non essendoci una disposizione specifica che preveda modalità di rilascio, revoca e rinnovo del permesso di soggiorno per questioni di carattere umanitario.

Ma andiamo con ordine: è emerso che nel 2008 sono stati 573 i minori non accompagnati che hanno avanzato la richiesta di asilo. Un quinto di essi ha incassato un rifiuto. Dati che non contemplano i minori di nazionalità romena, circa un terzo dal 2004 ad oggi, dal momento che la Romania ha da poco fatto il suo ingresso nell’Ue, e per i minori neo-comunitari il Ministero dell’Interno ha approntato un organismo centrale di raccordo per garantire i diritti di coloro che giungono dall’interno dell’Unione.

Negli ultimi anni sono quasi ottomila i minori stranieri non accompagnati arrivati in Europa da diversi paesi, come Palestina (9,5%), Egitto (13,7%), Marocco (15,3%), Albania (12,5%), Afghanistan (8,5%), spinti da situazioni di carenza democratica e civile. Tre quarti di loro hanno un’età compresa fra i sedici e i diciassette anni, mentre nel 90% si tratta di maschi. Al terzo trimestre dello scorso anno, la banca dati del Comitato per i minori stranieri era ferma a seimilacinquecentottanta, di cui ben il 77% senza identificazione. Questione molto delicata, in considerazione del notevole numero di minori sbarcati sulle coste siciliane, nel 2008 quasi tremila. Il picco è stato registrato a Lampedusa con più di duemila, di cui l’80% non accompagnati.

Numeri che inducono alla riflessione, anche in considerazione delle modifiche normative intervenute al cosiddetto pacchetto sicurezza, la legge 94/2009 che ha provveduto a limitare il rilascio del permesso di soggiorno per chi raggiunge la maggiore età, solo in presenza di quattro condizioni contemporanee, e non più alternative come recitava la legge 189/2002: che il minore non accompagnato sia inserito da almeno un biennio in un progetto di integrazione; che sia sottoposto ad affidamento o tutela; che abbia un alloggio; che risulti iscritto ad un effettivo corso di studi o lavori.

In Italia si registra un incremento della presenza straniera regolare pari a quattrocentomila persone all’anno, tra ricongiungimenti familiari e nuovi lavoratori arrivati sul territorio. Quelli che non riescono a dare seguito al primo tentativo di inserimento sono sottoposti al ritorno forzato, circa 48mila nel 2009. Eventualità che segnala il fallimento del processo migratorio iniziale e su cui il rapporto ha concentrato sforzi propositivi. Come le numerose iniziative verso i migranti più giovani per sostenerli nell’affrontare un percorso di rientro assistito nei vari Stati di origine. Piccoli progetti con un grande eco, dal momento che abbracciano il reinserimento di coloro che non sono riusciti a completare nel migliore dei modi il primo intento migratorio.

Altro dato con cui confrontarsi è quello relativo agli sfollati nel mondo, che ammontano complessivamente a 26 milioni, ed ai rifugiati, ben dieci milioni. È chiaro che l’Europa non può offrire la soluzione globale alla problematica, che evidentemente deve essere valutata su diversa scala. Ma può recitare il proprio ruolo, consapevole dell’apporto socio-umanitario che un intervento del genere significa. Nel 2008 è stata introdotta la normativa europea sulla protezione internazionale, che ha prodotto la figura del beneficiario di protezione sussidiaria. Così si sono incrementati i casi di riconoscimento e conseguentemente di attribuzione di uno status di tutela. A tale figura vanno ad aggiungersi quella di protezione umanitaria e di protezione temporanea. A oggi, non sono però amalgamate a livello europeo, anche se riescono ad ampliare i casi in cui si applicano. Da qui l’oggettiva considerazione che manca una normativa nazionale in grado di rilasciare, rinnovare o revocare il permesso di soggiorno per fini umanitari. La normativa esistente (d.lgs 286/98) si limita a considerare il permesso di soggiorno per fini umanitari come una sorta di passo a metà strada tra il riconoscimento di uno dei due status, ma con il diniego di qualsiasi azione di tutela.

Si tratta di una lacuna che, se sanata da interventi mirati, potrebbe dare un ulteriore contributo al processo di integrazione e di modulazione dei flussi migratori, che spesso si scontrano ancora con visioni demagogiche e miopi, quegli stessi retaggi che hanno l’unica conseguenza di ingigantire le problematiche, anziché contribuire a risolverle. E allora, per comprendere in pieno dove concentrare energie e miglioramenti legislativi, forse sarebbe utile riflettere sulle parole che mons. Perego, direttore generale della fondazione Migrantes, ha dedicato a taluni modi di intendere il fenomeno immigrazione: «Si sta preferendo lavorare sui respingimenti, piuttosto che sull’assistenza e sulla protezione”.

mercoledì 28 aprile 2010

SE ANCHE LE PORTE DI CALCIO VENGONO SBARRATE AI GIOVANI

“I giovani- diceva Joseph Joubert- hanno più bisogno di esempi che di critiche”. Dove gli esempi risiedono magari in una strada da tracciare insieme, in un modello da cui partire e da consolidare poi in autonomia, o più semplicemente in un panorama da far osservare, lasciando libero spazio alla creatività del singolo. Ma a patto che quello spazio in seguito venga realmente dedicato ai giovani, alle nuove leve, tanto elogiate da tutti ma a volte emarginate proprio in virtù del dato anagrafico. Cosa c’è di più allegro, brioso, fresco della giovinezza? Ha detto Bob Dylan che essere giovani significa tenere aperto l’oblò della speranza, anche quando il mare è cattivo e il cielo s’è stancato di essere azzurro. E’proprio quella la chiave di volta, la spinta ottimistica, la voglia di andare, non importa dove e come. Quell’energia testosteronica che rappresenta una molla unica nel suo genere. E che va fatta scattare in quell’istante, non vent’anni dopo.
“Ai mondiali non c’è bisogno per forza di ventiquattrenni”. No, non è l’ultimo spot da bar dello sport, né la conservatoristica precisazione di qualche antenato del pallone. Ma la presa di posizione del commissario tecnico della nazionale italiana di calcio Marcello Lippi, che con una difesa catenacciara datata circa dieci lustri fa, in un’intervista (http://www.apcom.net/newssport/20100409_144328_37f3103_86138.html) chiude le porte sudafricane a quel manipolo di giovani calciatori italiani, che, poverelli, sognavano di indossare anche solo per un riscaldamento a bordo campo o per un’apparizione al novantacinquesimo in pieno recupero, la maglia azzurra. Niente, sarà per la prossima volta, sempre che sulla panchina più prestigiosa d’Italia non sieda lo stesso coach. Nulla di personale, ovviamente, contro i giovani. Solo che Lippi, che ricordiamolo è pienamente legittimato a decidere in quanto è proprio il suo mestiere, ha scelto la tradizione, l’esperienza, e la stagionatura di altri calciatori. Rispettabile, ma non condivisibile.
E qualche riflessione in questo senso va fatta. Non tecnica, dal momento che si tratta di un ambito specifico del quale disserteranno per i prossimi due mesi gli addetti ai lavori, ma sociale. Proprio quel calcio, che con l’investimento umano nelle formazioni giovanili, ha per fortuna compreso come solo con la valorizzazione dei prodotti locali si potrà fare fronte sia alle ristrettezze economiche che alle nuove sfide dello sport moderno, si lascia ammanettare da, come vogliamo chiamarla, paura del nuovo? Che corre sempre di più, con tre gare alla settimana, con tempi di recupero accorciati, con sedicenni che si muovono in campo quasi fossero giocatori navigati. E da noi, invece cosa succede? L’esatto contrario, per quella tafazziana inversione di tendenza che spesso avvolge le menti di chi decide e di chi è investito del potere. Non comprendendo come, così facendo, si monchino a priori i nuovi rami, i germogli che domani, o fra pochi minuti, saranno fiori.
“Non guardo l’età- ha proseguito Lippi- in un Mondiale non conta”. E no, come non conta l’età? Dopo un campionato logorante come quello italiano, con un finale ancora tutto da scrivere, come si può mettere sullo stesso piano ad esempio la difesa della Juve, stanca e ormai perforabile, con giovani elementi frutto dei vivai che si sono distinti? Ma la diffidenza per la linea verde è ormai un retaggio in disuso. Si guardi a mister Fabio Capello, che continua a far giocare nella nazionale inglese il 21enne Teo Walcoot, il più giovane ad esordire nella nazionale del suo paese. O come il sedicenne Romelu Lukaku, gigante paragonato alla punta ivoriana del Chelsea Didier Drogba, già osservato speciale di Inter e Milan, nato in Belgio da genitori congolesi e premiato da quel giramondo di Dick Advocaat con la prima convocazione in nazionale belga, per via dei 189 gol sin qui segnati con la squadra del Brussels e poi con quella dell’Anderlecht. Roba che dalle nostre parti non è affatto usuale che accada. Anzi, spesso si rincorre il più stagionato pezzo di marmo con pluriesperienza, mortificando giovani speranze. In molti campi.
“I giovani soffrono di più per la prudenza dei vecchi che per i propri errori” disse Luc de Vauvenargues. Chissà se le parole dello scrittore francese originario di Aix en Provence, potrebbero fare al caso di qualcuno dei “vecchi” di casa nostra. Dove per vecchi non si intende voler apostrofare qualcuno in base alla sua età, ma definire chi proprio non riesce a preferire il fresco allo stantio, il nuovo al passato, il funzionale all’anacronistico. Pare che una parte corposa degli strati sociali, ma ancor più, della classe dirigente e di chi la seleziona, sia intimorita dalla forza propulsiva che un giovane possa sviluppare. Senza considerarne le potenzialità, le numerose variabili, le possibili vittorie. In questo un esempio interessante è rappresentato da quella galassia di giovani scrittori che nell’ultimo triennio ha fatto capolino nelle librerie italiane. Nomi nuovi, per storie vere, interessanti, capaci di tracciare una linea e di aprire nuovi fronti. Amori, amicizie, ritorni, partenze. E soprattutto giovani, dalle belle speranze e dalle visioni innovative.
“Se sono convinto che qualcosa vada fatto- ha poi concluso Lippi- tiro dritto fino alla fine. Le mie decisioni in passato sono state dettate da un principio: non mi sono mai fatto condizionare da campagne esterne”. Insomma il commissario tecnico si proclama libero, da vincoli, lacci e lacciuoli, e primo responsabile delle proprie azioni. “L’anima libera è rara- diceva Charles Bukowski- ma quando la vedi la riconosci, perché provi un senso di benessere quando gli sei vicino”. Quel benessere, in questo caso, proprio non riusciamo a vederlo.

venerdì 23 aprile 2010

CON L'ECLETTICA IPAZIA, CONTRO IL RISCHIO DEL LIBRO UNICO


Da Ffwebmagazine del 23/04/10

Ma oggi si corre ancora il rischio del “libro unico”, così come nel 415 d.C., quando i parabolani massacrarono la scienziata Ipazia di Alessandria su istigazione del vescovo cristiano Cirillo, poi santificato? In occasione dell’uscita nelle sale cinematografiche del film Agorà di Alejandro Amenàbar, l’inno alla libertà di quella che fu studiosa, eclettica, platonica e aristotelica al tempo stesso, torna in primo piano. Con precise attualizzazioni che sarebbe interessante approfondire, in chiave di liberazione dalla coercizione e dalla paura della conoscenza. E in un momento storico dove la perplessità sembra quasi vietata, dove si è obbligati a schierarsi da una parte e combattere.

Una donna dalla straordinaria bellezza e curiosità, fondatrice di una palestra per le menti che come primo comandamento aveva la libertà di pensiero, quel tesoro spesso irraggiungibile e periodicamente messo a repentaglio da numerosi poteri, che ad esempio Giulio Giorello ha definito come «l’aria in cui respiriamo tutti, che non può essere sequestrata né da una religione né da un’ideologia». Ipazia precedette Giordano Bruno e tracciò addirittura uno schema meccanico dell’ellisse, giungendo al bagaglio di cognizioni kepleriane. Quello stesso Keplero che, forse conscio della società che lo circondava e per questo timoroso di possibili ritorsioni, arrivò a dire «preferisco l’amore delle stelle a quello degli esseri umani». Ma perché scienziati e filosofi erano - e sono? - mestieri pericolosi? Il rischio del sapere è ancora oggi strumentalizzato da interconnessioni politico-economiche legate al potere che in taluni ambiti, piccoli e grandi, condizionano scelte ed interpretazioni. Quante volte si assiste a mistificazioni, a palesi negazioni di verità inconfutabili, anche solo per strappare un consenso in più o un primo piano televisivo? Il crimine contro Ipazia non solo fa ancora male dopo quasi millequattrocento anni, ma appare di estrema attualità alla luce delle vicissitudini intercorse nei secoli e che oggi si intrecciano.

La presenza di Ipazia nella tradizione ellenistica è indubbia, come le ricerche fra gli altri di Lucio Russo dimostrano. Il suo fu un contributo di inestimabile valore all’aritmetica, alla geometria, all’astronomia, ma il corto circuito storico sulla vicenda sta tutto nel fatto che all’interno del prestigioso Dizionario Vaticano, si legge che Ipazia fu uccisa in occasione di una dimostrazione popolare, dal momento che era nemica del cristianesimo. Quando invece le dinamiche legate alla sua morte sono inequivocabili: denudata e fatta a pezzi dai parabolani, monaci che se da un lato avevano una funzione di sostegno sociale ai deboli e ai poveri, dall’altro rappresentavano la milizia armata come squadracce del vescovo Cirillo. E chi nel tempo provò a dimostrare la verità dei fatti, lo storico cristiano Socrate scolastico, per questo venne isolato. Una spirale di intolleranza che fece tre illustri vittime in un colpo solo : la libertà di religione, il corpo della donna e l’indipendenza della ricerca scientifica.

Catapultare la figura di Ipazia nella società moderna, quindi, è un buon segno e non per alimentare pretestuosamente un contrasto fra paganesimo e cristianesimo, fra laicismo e chiesa. Ma in direzione della ragione contro i pericolosi fondamentalismi ideologici, tali perché tolgono voce, moncano intuizioni, troncano libertà. Quella stessa libertà che, parafrasando Benedetto Croce, esiste al singolare solo all’interno della libertà plurale. Enunciando un principio tanto elementare quanto calpestato nel tempo, non solo lontano. Si pensi ad alcuni testi storici del secolo scorso, dove alla voce Giordano Bruno vi era scritto “perito in un incendio” e non arso vivo. O all’esempio fornito da quel filosofo della tolleranza e per nulla anticristiano che prende il nome di Conrad: da irlandese protestante, scrisse che «Ipazia venne uccisa per invidia, superbia e crudeltà del signor Cirillo, presentato come santo ma senza alcuna ragione».

Ma tra le righe di Ipazia e della sua drammatica vicenda personale e storica - drammatica perché non sono rimaste sue opere a causa della consapevole volontà di distruggerle- si ritrova anche il diritto alla disuguaglianza, come rimarcato più volte da Nikolaj A. Berdjaev. Il diverso, lo straniero, il pensiero non allineato che questa società pigra e chiusa a riccio fa sempre più fatica non solo a metabolizzare, ma più semplicemente ad osservare, rispettare e da cui poi magari dissentire. Ma in maniera costruttiva e senza paura.

lunedì 19 aprile 2010

Ma democrazia e capitalismo sono inconciliabili o no?


Da Ffwebmagazine del 19/04/10

È inimmaginabile che esista una democrazia sprovvista di mercato e proprietà, ma il capitalismo a sua volta presenta forti punti di contrasto con la democrazia: come uscire da questo vicolo cieco? Se lo è chiesto Michele Salvati in Capitalismo, mercato e democrazia, un volume che prende spunto da alcune sue recensioni sulle riflessioni di illustri studiosi e pensatori circa sei differenti livelli tematici. Il capitalismo americano teorizzato da Philips e Reich; il keynesismo e il neoliberismo con Glyn; la complicata convivenza tra rapporti di equidistanza sociale e progresso economico in Dahrendorf; l’idea della condivisione come proposta attuativa di provvedimenti economico/sociali di Attalì; l’idiosincrasia tra mezzi di comunicazione e democrazia con lo spagnolo Castells; e, infine, lo scontro tra democrazia come forma di governo e democrazia come impostazione ideologico-politica caldeggiato da Dunn.

Un libro che, nonostante le premesse impegnative e niente affatto scontate, riesce a tracciare un quadro estenuante e perfino di facile decifrazione, portando il lettore a chiedersi: le interazioni fra capitalismo e democrazia rappresentano passaggi obbligati, o sono contrapposizioni oggettivamente inevitabili? E qualora entrambe le opzioni fossero attuabili, con quali parametri armonizzare le relazioni? Nelle prime pagine è possibile scorgere l’assioma che la democrazia ha tra i suoi elementi primordiali l’economia di mercato e la proprietà privata, ovvero il capitalismo. Quest’ultimo, però, sviluppa tematiche antitetiche alla democrazia stessa. Che necessita di una riequilibratura.

Secondo Giuliano Amato quelle tendenze capitalistiche devono essere contrastate in chiave antitotalitaria, e in questo un contributo interessante deve necessariamente giungere dalla spinta dei riformisti. Salvati presenta, sotto forma di dilemma, una dicotomia non componibile tra sistema-paese e iniziativa economica. Per tali ragioni, alla base di uno sviluppo socio-economico fondato su questi due macroelementi non può che esserci un sistema che controlli e bilanci i poteri della politica, impedendole di favorire o non contrastare prevaricazioni che porterebbero il capitalismo a far emergere il peggio di sé, come in casi più o meno recenti è avvenuto, basti citare solo la recente crisi economica o quella del ’29 dove in entrambe, evidenzia l’autore, si erano create le medesime congiunture come potere di acquisto concentrato solo in alcune élite.

Rilievo da cui non può che scorgere l’amletica domanda: ma viviamo realmente in una democrazia? Sì se, come riflette Alessandro Campi, si constatano gli innegabili passi in avanti compiuti dai paesi occidentali quanto a diritti civili e a legittimazioni in chiave democratica. No se, come asserisce lo stesso Amato, lo scacchiere appare modificato in virtù di una serie di forme oligarchiche che si contrappongono l’un l’altra. E il contributo del progresso tecnologico, potrà influire come deterrente a uno scenario di guerra globale, ipotizzabile a causa della spiccata conflittualità prodotta dalla ricerca delle materie prime, non solo energetiche ma, ad esempio, anche “quotidianamente utili”, come l’acqua o il cibo.

Ecco che si apre uno squarcio sull’eventualità che vuoti democratici non possano restare tali a lungo all’interno della società, ma debbano essere colmati. In questo senso si scorge nel libro la volontà di rimettere al centro del dibattito la riflessione sul rapporto pre e post progresso socio-economico, ma depurandola da elementi drammatici e non da quelli analitici. L’ottimismo e la fiducia con la quale Salvati vede la luce in fondo al tunnel non è figlio di una preordinata sottovalutazione delle problematiche a fini propagandistici, ma erede della consapevolezza che se in passato e in condizioni ancor più precarie il sistema ha retto, anzi, ha prodotto più di un vagito di reazione, non si comprende per quale ragioni non possa fare altrettanto anche adesso.

Lecito, quindi, chiedersi: ma siamo empiricamente di fronte alla disintegrazione della democrazia, o potremmo esserlo in un prossimo futuro? Si è prodotta una rottura rispetto alla grande costruzione democratica europea post-conflitto mondiale? L’idea di vivere in una fase simbiotica di transizione può essere utile per le riforme, per questo l’autore ricerca un nesso tra ricchezza e democrazia, tra eguaglianza/disuguaglianza e democrazia. Certo, non mancano analisi intriganti e che spalancherebbero ampi dibattiti fra opposte visioni, come la definizione che Salvati fa del capitalismo “croce e delizia”. Croce in quanto incarna la contraddizione dialettica con la democrazia; delizia in quanto ha reso possibile lo sviluppo. Ma il senso più intimo del libro è da ritrovare proprio in quella spinta finale alla fiducia, dove l’elemento di positività sta tutto nel punto di equilibrio, precario ma non effimero, che capitalismo e democrazia hanno trovato. Pur tra mille e innegabili difficoltà e, a volte, ipocrisie.

Si pensi, ad esempio ad alcuni stati che, nonostante di democratico abbiano poco sul piano informativo e sociale per via di deficienze oggettive, si impegnano alacremente per ottenere lo status di Paese democratico. Significa che anche solo la parvenza di democrazia diventa l’obiettivo da seguire e indipendentemente dalle risultanze reali che poi si riscontrano. Perché, quindi, non sfruttare questo appeal che la democrazia esercita per instillare in quelle situazioni ancora precarie, la spinta al cambiamento? Sarà difficile, forse, far tradurre questo libro in cinese, in mandarino o in dialetto ceceno, ma l’impressione è che sarebbe utile farlo leggere non solo a quelle latitudini, ma anche nelle università italiane o in qualche circolo politico, dove purtroppo c’è chi ancora ignora i significati di elementi da valutare attentamente, come rischi egemonici e dialogo tra riformisti.

venerdì 16 aprile 2010

Sudafrica: bianco, nero e i mille colori della diversità


Da Ffwebmagazine del 16/04/10

«L’uomo coraggioso - diceva Nelson Mandela - non è quello che non si spaventa ma colui che conquista quella paura». E che la affronta, a viso aperto, guardandola dritta negli occhi, e sfidandola. Nel giugno di trentaquattro anni fa più di cinquecento studenti furono trucidati dalla polizia sudafricana: avevano osato ribellarsi contro l’obbligo di studiare in lingua afrikaans, che era il simbolo della discriminazione, ma che divenne anche quello di lotta per la libertà. Un paese raccontato dagli scatti e dai settemila chilometri percorsi da Marco Buemi in Sudafrica in bianco e nero , in cui il fotoreporter italiano si interroga su come si sia evoluta l’intera area a vent’anni dalla fine dell’apartehid.

Città trafitte da mille contraddizioni, strati sociali ancor più divisi dal potere del denaro. È lo scenario che attualmente si apre a chi visita intimamente il Sudafrica, alla vigilia di un evento straordinario, quei Mondiali di calcio del prossimo giugno che potrebbero rappresentare una ghiotta occasione di sviluppo economico e di ulteriore progresso sociale. Sport e sicurezza, ad oggi, incarnano un doppio business. Gli impianti che stanno per essere ultimati avranno lo scopo non solo di far disputare le partire del torneo, ma anche di sottolineare tre direttrici sulle quali il paese intende muoversi. Il traffico commerciale e la dinamica della ripresa economica, che nello stadio di Durban trovano il naturale sbocco. La contrapposizione sportiva tra rugby bianco e il calcio praticato dai neri a Città del Capo. E il favoloso stadio di Johannesburg, come icona della lotta alle discriminazioni. Tre simboli legati ad uno sport, ma che proprio per questo possono riuscire a parlare al mondo intero, proseguendo sulla strada intrapresa nel 1990 quando Nelson Mandela uscì dal carcere e quando, quattro anni dopo, si svolsero le prime elezioni libere.

Ma c’è anche un altro Sudafrica. Quello dove le disparità economiche si allargano, dove la donna stenta a ritagliarsi uno spazio di emancipazione anche professionale. Dove la sicurezza è diventata fonte di reddito, con un volume di affari di circa un miliardo e mezzo di euro all’anno, in virtù di residence protetti da filo spinato e da alti muri di cinta attraversati da corrente elettrica, e con trecentomila guardie private a difesa della incolumità. E con l’aggravante costituita dal fenomeno immigrazione. Ma come, potrebbe obiettare qualcuno? Proprio in quelle terre che hanno visto negli anni sfilare per le strade oppressori, sfruttatori e vessati, oggi si verifica la piaga di una tematica simile? Ebbene sì, perché risulta che dal 1999, e in maniera esponenziale, i dirigenti di tutti i partiti politici abbiano sfruttato il malcontento nei confronti degli immigrati al solo scopo di ottenere più voti. Quindi da circa sette anni sono state anche inasprite le procedure per ottenere visti e status di rifugiati. L’incremento del numero degli stranieri presenti in Sudafrica ha creato negli autoctoni una pericolosa crisi di rigetto verso gli immigrati, elemento che è stato anche cavalcato dalle forze politiche.

Il volume di Buemi, con l’introduzione di padre Giulio Albanese, e con un’intervista in coda all’ambasciatore Thenjiwe Ethel Mtintso, si snoda come un riflesso in due specchi: in uno è illustrato il tragico passato, nell’altro le evoluzioni di un contesto di persone e di idee in transizione. Senza dimenticare che la discriminazione razziale ha sfigurato il tessuto sociale sudafricano, con intere popolazioni cacciate e ghettizzate, prima della fase di apartheid vera e propria. Il libro intende così descrivere le mutazioni che oggi il Sudafrica registra, avvicinandoci luoghi e visi lontani. Come le township, dove si ha il polso della situazione con una mortalità infantile ancora elevata, ben sessantanove morti sotto i cinque anni per centomila nati vivi. Come le riflessioni, obbligate, sulle strategie minerarie delle grandi potenze che interessano il territorio. Passando per la cultura del paese, con in primo piano il rinascimento del cinema africano, che potrà rappresentare assieme al calcio un volano di sviluppo da seguire con interesse. Impossibile non citare tre successi che hanno partecipato al Festival del Cinema Africano dello scorso novembre a Verona, Jerusalema di Ralph Ziman, Nothing but the truth di John Kani e Izulu Lami di Madolda Ncayiyana, quest’ultimo considerato come il contraltare africano a The Millionaire.

Dunque un Sudafrica dove la cultura della divisione si è mutata in cultura della tolleranza, inseguendo quella modernità socio-culturale che abbraccia un percorso altamente tortuoso, ma che negli ultimi tre lustri ha denotato passi avanti innegabili. E poi il titolo: il bianco ed il nero sono storicamente due colori in contrapposizione, dove il primo in quanto indefinito incute timore, perché non focalizza alcuna immagine. Mentre il secondo ha già una sua identità ben visibile. Ma bianco e nero incarnano anche i conflitti socio-culturali che hanno solcato quei cieli e quelle strade, con sacrifici umani indescrivibili, con discriminazioni e odi razziali, con ingiustizie e prevaricazioni. Ma che per questo e, alla luce, perché no, dell’evento sportivo della prossima estate, quel bianco e quel nero in eterna contrapposizione potrebbero farsi contaminare dai mille colori dei bafana-bafana, o dei vuvuzela, o delle variopinte e folkloristiche esibizioni dei costumi locali.

Una maniera briosa per sconvolgere la monotonia del passato, di certi ricordi e di fasi difficili, dove si tentava di issare l’omologazione sul punto più alto del paese. Ma che per fortuna, è stata spazzata via da una ventata di colori. Diversi tra loro e, per questo, innegabilmente più belli.

sabato 10 aprile 2010

Così è morto Stefano.E adesso, un po' di obiettività

Da Ffwebmagazine del 10/04/10

Coloriamo questa vicenda di oggettività: è l’appello dei periti di parte civile nel presentare la sintesi della perizia sulla morte del 31enne romano Stefano Cucchi, deceduto lo scorso 22 ottobre all’ospedale “Pertini” al termine di una vicenda drammatica. I consulenti Cristoforo Pomara e Vittorio Fineschi hanno parlato di insufficienza cardiaca dovuta a un edema polmonare da trauma, nel corso di una conferenza stampa promossa dal Comitato per la verità sulla morte di Cucchi e dal presidente dell’associazione A Buon diritto Luigi Manconi, alla presenza dei parlamentari Rizzoli, Bernardini e Melis.

Due gli elementi emersi: il riscontro oggettivo delle radiografie effettuate e il supporto di nuove tecniche radiologiche, grazie alle quali si è potuta analizzare la parte anatomica da più angolazioni. La conclusione è che non solo il povero Stefano ha vissuto un’odissea di sofferenze indicibili, ma che il suo quadro clinico era di una chiarezza imbarazzante, come dimostrato dalle cartelle cliniche agli atti. Che non possono essere accusate di parzialità. Secondo il professor Fineschi si può sostenere che la frattura lombare fosse recentissima per l’assenza del callo osseo, che si forma come è noto ben dopo l’eventuale rottura. «Siamo in presenza della frattura alla vertebra L3 di tipo inequivocabilmente acuto e recente, al pari delle tumefazioni al volto».

Proprio a seguito dell’autopsia virtuale si è avuta la conferma di quanto la frattura fosse oggettivamente acuta. Inoltre il carattere oggettivo di tale esposizione è stato evidenziato dai periti, in quanto è solo alla luce di dati acclarati e di risultanze tecniche palesi che si vuol tentare di ricostruire, in modo veritiero e responsabile, cosa accadde quel giorno ad un soggetto che poteva definirsi “deperito” – come ha stabilito l’Organizzazione mondiale della sanità per via dei 52 chilogrammi di peso per 168 centimetri di altezza – ma nel complesso sano e per nulla affetto da alcuna patologia agli organi, particolare rimarcato dallo stesso Fineschi.

In questo senso, propongono i consulenti, sarebbe utile non distinguere nettamente le due fasi della vicenda Cucchi, ovvero la presenza iniziale di lesioni e il ricovero all’ospedale “Pertini”. Ma elaborarle come un continuum, dal momento che sia il trauma in sé, sia la sottovalutazione assurda del quadro clinico, hanno comportato la degenerazione che ha causato il decesso, senza dimenticare che Cucchi avrebbe dovuto essere monitorizzato, oltre a beneficiare di una terapia conseguente. Si provi per un attimo ad immaginare quanto dolore abbia provato il giovane, se (come è stato stimato), l’agonia è durata per almeno sei ore prima della morte.

La frattura traumatica dell’addome infatti, non consente né di camminare né tantomeno di mantenere la posizione supina in un letto. Ulteriori dettagli che lasciano intatte le numerose domande su come tale vicenda possa essersi verificata nel silenzio e nel più incredibile spregio dei diritti dell’uomo. Ma altri dettagli illustrati dalla perizia possono contribuire a fare ancora più luce su quelle ore. In occasione della seconda autopsia, è stata riscontrata la vescica piena ben due terzi oltre la norma. Difficile, asserisce il professor Fineschi, che si possa essere formata nei dieci minuti precedenti alla morte. Altro evento che si inserisce nel panorama generale della vicenda. Secondo il professor Giuseppe Guglielmi dell’Università di Foggia, appare netto il cedimento con dislocazione acuta sporgente nel canale spinale e concausale compressione del sacco durale.«Non vi è alcuna interruzione fra trauma e morte di Stefano - ha detto il professor Pomaro - perché i due elementi sono legati. Non sarebbe morto se non ci fosse stata una condizione di stato». Lo scopo della perizia della parte civile, quindi, è quello di indicare le precise correlazioni esistenti tra fatto traumatico, conseguenze delle lesioni e decesso. A ciò va aggiunta la presenza di forti edemi nella zona che sostiene la parte lombare, che corrisponde all’esistenza di un trauma recente e non datato nel tempo. La frattura, ha sostenuto Pomaro, non va interpretata ma analizzata oggettivamente, come dimostra la richiesta dopo la visita a Regina Coeli delle ore 16,35 di trasferimento immediato di Cucchi in ambulanza perché impossibilitato alla benché minima deambulazione. Inoltre le stesse lastre sono state ispezionate tre volte, da specialisti e consulenti.

Rispettiamo le conclusioni dei pubblici ministeri, hanno ribadito i periti di parte civile, ma di fatto non le condividiamo, in quanto «palesemente difformi dalle nostre che si basano esclusivamente sulle cartelle cliniche e sugli esami radiografici». La perizia vuole essere un ulteriore tassello, asciutto e oggettivo, per guadagnare la consapevolezza dei fatti, imprescindibile per stabilire colpevoli e pene. Perché non è ammissibile che nel terzo millennio, in un paese che si vanta di essere democratico e occidentale possano accadere barbarie come quella che ha avuto protagonista Stefano Cucchi. E in attesa che un minimo di giustizia venga abbozzata, che almeno ci si impegni per dedicare alla sua memoria, così come proposto da Secolo d’Italia e da Mondoperaio, il nosocomio dove si è spento in quella sera autunnale.

venerdì 9 aprile 2010

Omaggio a Giano e alla sua voglia di dialogo


Da ffwebmagazine del 09/04/10

Un omaggio a uno stile conciliante e dalla vista lunga, a un uomo che aveva compreso come fosse deleterio restare chiusi al caldo della propria sfera e che intuì quanto fosse strategico battere nuove strade. Un anno fa se ne andava Giano Accame e il suo ultimo libro La morte dei fascisti era quasi finito. Da oggi è nelle librerie, pubblicato da Mursia e con la prefazione di Giorgio Galli. Si tratta di un lungo e appassionato viaggio all’interno del fascismo, solcato da una penna che, come ha ricordato il professor Alessandro Campi in occasione della presentazione avvenuta nella sede di Farefuturo su iniziativa del Secolo d’Italia, pur mantenendo un forte legame con la sua forza identitaria, proprio per questo riuscì a distaccarsene per aprire una fase nuova. Il senso del libro è quello di voler sfatare l’essenza necrofila della destra, che invece in altri volumi come Cuore nero di Luca Telese e Dalla parte dei vinti di Piero Buscaroli è ben presente.

Proprio la sfida politico-culturale della morte, secondo Campi, non è mai stata prerogativa del pensiero fascista. Accame in Pound ritrova spunti critici in questa direzione, e si era tra l’altro reso conto che i nuovi Cesari contemporanei altro non sono che i mercanti, esponenti del sistema oligarchico che ragionano per il profitto personale e non per la comunità.

Un libro significativo e personale, che spazia da Pound a Celine, da Marinetti alla Divina Commedia per raccontare le idee di un secolo. Quello stesso secolo che ha vissuto le difficoltà culturali di una parte intellettuale del paese messa ai margini, talvolta privata degli strumenti necessari alla legittimazione ideale. E spruzzando, tra una riflessione e un approfondimento, quella voglia di evitare come la peste taluni condizionamenti. Un’intelligenza scomoda quella di Accame, definito da Luciano Lanna il miglior direttore che il Secolo d’Italia abbia mai avuto, anche per la sua peculiarità rimarcata dall’attuale direttore, Flavia Perina: l’assenza di trombonismo. Lo slancio forzato nel voler a tutti i costi sottolineare o evidenziare oltremodo qualsiasi cosa di cui ci si occupi, oggi tristemente al vertice delle procedure anche giornalistiche.

Nelle trecentoquaranta pagine del libro Accame ripercorre, in modo semplice ed efficace, il significato della destra e di cosa comportò in quarant’anni di Repubblica italiana. Sosteneva che in un paese fosse impossibile avere delle fratture insanabili, ma vi fosse invece lo spazio per una riconciliazione democratica. «Non si è mai espresso in termini di risentimento- ha aggiunto Campi - e non dimentichiamo che negli anni sessanta e settanta la scelta di stare a destra era culturalmente penalizzante. E di ciò non se ne è mai lamentato».

Non un militante politico, dunque, ma un uomo di scrittura che, da destra, poneva l’accento sulla letteratura, quella cosa bellissima che Giampiero Mughini ha definito come lo squarcio che compone l’identità alla base dell’elaborazione politica: Accame – ha continuato Mughini – era un fascista totale, che ne aveva sensibilmente ed appassionatamente attraversato tutte le fasi: fedeltà, emozioni, sconfitta. E per questo ancor più apprezzabile, se raffrontato ad un’epoca, quella contemporanea, dove le parole pronunciate e le idee affrontano un destino diverso, sempre più relegate nell’oblio di una soffitta o nella polvere di una cantina.

Onestà intellettuale, quindi, come quella mostrata da Pier Paolo Pasolini nell’aprile del 1975 quando, intervistato dal Resto del Carlino, rispose che le bombe non erano state piazzate da una certa parte politica ma dal potere. E che alla successiva domanda sul voto regionale che di lì a pochi giorni si sarebbe celebrato, rispose «meglio un voto sbagliato che un voto imposto». Rimarcando quel rifiuto dell’omologazione che nelle pagine di La morte dei fascisti si denota immediatamente.

Accame aveva compreso come la storia andasse metabolizzata non come sintesi immobile, ma attraverso le lenti della conciliazione, in contrasto con la contrapposizione ideologica che rende sordi i dialoghi e vani i tentativi di comunione. Ed è proprio la comunione delle idee che offre la risposta nei momenti critici, in quelle fasi delicatissime dove è imprescindibile chiamare le cose con il proprio nome, bello o brutto che sia, senza lasciarsi distrarre dalle sirene dei preconcetti e delle paure, che altro non producono se non la chiusura a riccio in virtù delle proprie convinzioni.

«Questo libro è una cosa nuova», ha detto Giampiero Mughini, soprattutto perché è la summa di una vita, in un periodo dove si scorgono pericolosi reflussi che, in verità, neanche in quel passato si constatavano. Sacche di conservatorismo stantìo che stonano con le problematiche della post modernità, con le sfide sociali di un terzo millennio che viaggia in rete a tutta velocità, e che, per dirla con le sfumature usate da Gianni Borgna, rischia di paralizzarsi a causa di frangiflutti ideologici che impediscono analisi serene e che, in questo modo, ostacolano drammaticamente lo sviluppo delle idee.

lunedì 5 aprile 2010

La poesia dei viandanti per aprire i confini

Da Ffwebmagazine del 05/04/10

«La gente - diceva Charles Bukowski - è il più grande spettacolo del mondo. E non si paga il biglietto». E se alla gente, diversa, si affiancassero versi in prosa e parole sbocciate da esperienze e attraversamenti di confini e di vite? Il risultato sarebbe ancora più pregevole. Una sorta di viaggio mentale a ritroso, così come andato in scena nella rassegna Viandando qui e altrove, rapsodia poetica contemporanea di italiani migranti e di migranti in Italia.

Una rosa di ventidue poeti bilingue, magistralmente interpretati da Cosimo Cinieri, con la regia di Irma Immacolata Palazzo, per non chiudersi all’interno dei propri recinti, al fine di utilizzare la poesia come tentativo inclusivo per comprendere tanti perché e le innumerevoli modalità di partenza e di arrivo.

«Migrazione è libertà di conoscere un deserto, un mare, un grattacielo, un canto. Non disperazione. Un volo di uccelli». Una rassegna che sarà ospitata all’interno degli Istituti Italiani di Cultura di Strasburgo, Tel Aviv, Il Cairo in occasione della Settimana della Lingua Italiana 2010. Un’occasione per affrancare alla poesia le storie di migrazioni dell’ultimo secolo. Quando dai porti di Genova e Napoli salpavano le navi della speranza, a cavallo fra i due conflitti mondiali, con milioni di italiani attratti dal nuovo continente. O quando gli italiani andavano a popolare le fabbriche di Belgio, Francia e Germania. O quando la migrazione era da sud a nord. Da sud Italia, o come più recentemente dal sud dell’Europa. O dal sud del Mediterraneo. E, oggi, dal sud del mondo.

L’Italia da punto di partenza è diventata punto di arrivo. Come nell’agosto dei primi anni Novanta, quando la motonave Vlora spuntò sull’orizzonte del porto di Bari con un carico umano allucinante. Le cui pieghe si ritrovano nei versi del poeta albanese Gezim Hajdari, vincitore del Premio Montale. O come l’impegno a favore dei tossicodipendenti del rumeno Mihail Mircea Butcovan, con poesie che spaziano lungo uno spartiacque di dolore, accendendo fasci di luce sulle esistenze di badanti, prostitute, orchestrali in attesa di essere espulsi.

O di quello politico del camerunese Ndjock Ngana, passando per la brasiliana Marcia Teophino - candidata al premio Nobel - ed eroina pro Amazzonia. Odio e tristezza si trasformano in amore nei versi del cinese Mao Wen, mentre è nei sogni che il marocchino Mohames Khail inquadra la sua anima gemella. Incredibilmente intenso il legame tra il giapponese Sonu Uchida e la città eterna, nella raccolta Il diario romano, dove scrive in haiku. Mentre mozzafiato è la ballata trecentesca del brasiliano Murilo Mendes. Passando per la mirabile verve dell’italo bosniaco Predrag Matvejevic, nato a Mostar ma da qualche anno cittadino italiano, vincitore del Premio Strega e che nel nostro Paese ha pubblicato ben diciassette opere. E che in virtù di un legame unico, intreccia la sua solitudine alle statue di Villa Borghese, dipinge la divinità amazzonica Tincoa riesumandola da un semaforo di Ponte Sisto.

E poi i migranti italiani, come Adeodato Piazza Nicolai, Giancarlo Pizzi, Delia De Santis, accomunati dal dramma della partenza, dove il Mediterraneo è una sorta di marchio che i nostri si porteranno dentro sin dove approderanno. Quello stesso mare nostrum che, come ha ricordato recentemente Yannis Kounellis, «non è una chiusura, ma un’apertura estrema. Le novità nascono tutte dagli incontri». Una cavalcata letteraria unica nel suo genere, anche e soprattutto a causa della peculiarità insostituibile, quella narrazione che, come ha detto lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun, riesce a far risaltare il cono d’ombra dell’esule.

Ma perché chi vive in Italia sceglie di scrivere anche in lingua italiana? La risposta la offre lo scrittore brasiliano Julio Monteiro: la volontà nasce dall’empatia, da un sussulto amoroso, da un fortissimo richiamo di affetto. E allora lasciarsi andare alla migrazione e non solo geografica, ovvero da un Paese all’altro, da una cultura all’altra. Ma, perché no, anche da una lingua all’altra, saltando su alfabeti differenti, grazie alla tecnologia della Rete, che oggi consente il viaggio transculturale con tutti gli Stati (o quasi) in una sorta di Giro del mondo in ottanta secondi su internet. Anche perché, come rifletteva Mozart, «se non si viaggia si resta dei poveretti». Dentro.

Il sogno di Rimbaud era quello di un linguaggio universale. Quello stesso linguaggio che l’Italia possiede nel proprio dna, come la storia degli ultimi duemila anni dimostra. Lo ha rammentato il sociologo Mario Morcellini sul Secolo d’Italia qualche giorno fa: l’accoglienza nel nostro paese è un tratto culturale condiviso, dal momento che proprio «l’identità italiana è stata strutturata sullo scambio continuo» tra culture e visioni assolutamente difformi tra loro. Una sorta di «parassitismo delle culture», metabolizzando il quale si giunge alla conclusione che la diversità è «un valore e non un punto di crisi».

Vengono in mente le parole di Francis Bacon, «se un uomo è gentile con uno straniero, mostra di essere cittadino del mondo, e il cuor suo non è un’isola, staccata dalle altre, ma un continente che le riunisce». E quel collante, ancora piuttosto debole in alcune fasce sociali, tra cui quella politica, potrebbe trovare giovamento e crescita proprio grazie a decine di poesie, sgorgate da cuori italiani e non, ma che importa, frutto di emozioni forti. Paure, amori, speranze, delusioni, trionfi: sensazioni che sono esistite e che sono conservate, non gelosamente, nelle anime di quegli individui. E che, anziché trincerarle dietro l’egoismo conservativo del ricordi, le hanno affidate a voci e versi, perché «ognuno di noi oggi è un nomade».

giovedì 1 aprile 2010

Israel Horovitz: «Chi non sogna, non vive»

Da Ffwebmagazine del 31/03/10

«All we are saying is give peace a chance. All we are saying is give peace a chance» cantavano John Lennon e Yoko Ono nel giugno del 1969, dopo aver registrato quello che sarebbe diventato l’inno del pacifismo mondiale nella stanza numero 1742 del Queen Elizabeth Hotel di Montreal. Note che si legano indissolubilmente agli anni del conflitto in Vietnam. E che fanno da contraltare a una pellicola storica, come The strawberry statement del 1970, con al centro la rivolta degli studenti di New York per protestare contro la vendita all’esercito di alcuni terreni destinati a servizi per la comunità afroamericana. Occasione per cui quel gran sognatore di Israel Horovitz , poco più che trentenne di belle speranze, firmò una magistrale sceneggiatura. Una miscellanea di ritmi e pensieri, con l’incontro fra le istanze dei diritti civili e la salvaguardia del pacifismo. Il tutto affrescato con un rock che accarezza la proiezione, dandole le sembianze quasi di un lungo e intenso video clip.

Horovitz giunse a quel risultato poco tempo dopo aver fatto il suo esordio italiano in quel di Spoleto nel 1968, al Festival dei Due Mondi, assieme a due emeriti sconosciuti per l’Italia dell’epoca, come Al Pacino e John Cazale. Sul palco della cittadina umbra, alzando un pugno al cielo, pronunciò uno slogan contro la guerra vietnamita, contro l’odio e l’intolleranza razziale, che nessuno comprese. «Non fa nulla - dice oggi Horovitz ricordando quei giorni davanti a decine di studenti romani di arti drammatiche - ma ricordate che se non farete sentire la vostra voce non ci sarà ragione per essere vivi». Un concetto, quello della rappresentanza, molto forte non solo nelle sue parole, ma soprattutto nelle sue sceneggiature teatrali.

Proprio a Spoleto ha fatto ritorno pochi mesi fa in occasione della rassegna internazionale 70/70 Horovitz Project, promossa dalla Barefoot Thatre Company di New York e per festeggiare i suoi settant’anni, con un monito alle nuove generazioni: «Solo sognando si possono realizzare i desideri della vita, senza timidezza e con coraggio». Un appello che si sposa alla perfezione con la sua storia personale, fatta di scommesse e di tenaci tentativi.

Nato a Wakefield, un piccolo paese del Massachussetts, da un padre camionista, Israel nei suoi viaggi e nelle diverse avventure lavorative ha sempre portato dentro di sé il concetto dell’opportunità. Quella cosa tanto grande e a volte inafferrabile che consente ad uno sconosciuto di farsi strada con la sola forza delle proprie idee e, soprattutto, con un temperamento d’altri tempi per inseguire un sogno. E raggiungerlo. Che gli ha consentito, ad esempio, di instaurare una bella amicizia con il drammaturgo Samuel Beckett: avrebbe dovuto incontrarlo in un caffè di Parigi per trenta minuti. Ma poi l’amabile chiacchierata durò più di tre ore.

Sogni, pensieri e ancora sogni. Ma non perduti nel limbo delle utopie, irraggiungibili e contraddittori, bensì fermamente ancorati al domani. E legati alla visione del progresso generazionale, grazie al quale la società americana concede una possibilità di miglioramento. La stessa che, un lustro fa, diede inizio all’avventura politica di un certo Barack Obama, figlio di un keniota, lo stesso ragazzo di ieri che oggi ha scritto la storia degli Stati Uniti con la riforma del sistema sanitario.

Ma che, per fare ciò, ha dovuto attraversare burrasche e posti di blocco. Se dormi con i cani - ammonisce Horovitz - poi al mattino ti svegli con le pulci». Chiaro il riferimento ai rischi concreti che talune scelte professionali comportano. Come altrettanto chiaro il richiamo a contrastare con tutte le forze a disposizione lo status quo. «Non siate lì ad aspettare che squilli il telefono – incalza - ma fate qualcosa».

L’ideale della proposta, della nuova veste di un concetto, della sperimentazione, della consapevolezza di scelte magari impopolari ma che incarnano un progetto, un sentire comune, una voglia, un obiettivo. Dove la chiave di volta per comprendere la valenza di un’intuizione è l’integrità. Nei propositi, nelle intenzioni, nella buona fede. E soprattutto nel coraggio. Lo stesso ideale che gli torna prepotentemente in mente, se dopo quarant’anni quel film viene ancora preso in considerazione da migliaia di persone. Significa che ha toccato certe corde, che ha innescato dibattiti e interrogativi, che ha posto questioni sottaciute sino ad un istante prima.

«All we are saying is give peace a chance. All we are saying is give peace a chance». Ancora le note di Lennon, che accompagnano gli ultimi frame del film Fragole e sangue, in una scena surreale e che offre l’immagine plastica di una trasformazione globale: tutti gli studenti battono mani e piedi sul parquet del campo di basket all’interno dell’ateneo, pochi istanti prima che la Guardia nazionale faccia irruzione con gas lacrimogeno e manganelli. Mentre fuori iniziano pian piano ad accendersi alcune decine di candele, che in seguito diventano centinaia: piccoli lampi di luce in un buio tutto da squarciare. La luce della pace e della testimonianza civile, con il protagonista che urla «Per dare prova che siete vivi!».

«Bagism, Shagism, Dragism, Madism, Ragism, Tagism. This-ism, that-ism, is-m, is-m, is-m…».