sabato 27 giugno 2009

PANNELLA APRE IL VERTICE DEI MILLE RINGRAZIANDO FINI

Dal Secolo d`Italia del 27/06/09

CHIANCIANO TERME- “Aspettiamo lo sgorgare del dialogo, perche` e`l`unico ispiratore delle nostre assemblee”: cosi`Marco Pannella ha aperto ieri a Chianciano l`Assemblea dei Mille autoconvocati, intitolata “Dai bilanci al progetto/ alternativa?riformatore, democratico, italiano ed europeo”. Un momento che nelle intenzioni intende interessare le individualità e non le appartenenze, rivolto a chi “vuole nutrire di libertà la propria famiglia”, che si concentrera` su tre temi basilari ovvero, il welfare, le riforme economiche e la grande rivoluzione americana delle istituzioni. L`appuntamento si inserisce all`interno di un ampio tentativo di coinvolgere quanti piu`interlocutori possibili attorno alla risoluzioni di vertenze estremanente delicate, prima fra tutte la modernizzazione istituzionale, che passi da una maggiore liberta`di scelta per la ricerca scientifica, per un welfare che sia piu`garantito e per un concetto di laicita`dello Stato, ha detto Emma Bonino, su cui costruire le istituzioni repubblicane.
“Siamo qui come persone e idee, non come organizzazioni”, riflette Marco Cappato, dal momento che parlare e dialogare puo`essere piu`funzionale rispetto ad una semplice formulazione di soluzioni politiche. Al centro del dibattito la questione della democrazia interna e dell`apertura dei soggetti politici, su quella che viene definita liberta`di associazione. Il riferimento e` alla questione delle doppie tessere che, secondo Cappato, e`alla base della tragica chiusura democratica del Pd e delle scissioni a sinistra. La prima giornata e`stata caratterizzata, tra le altre, dalle relazioni di Aldo Loris Rossi su una nuova prospettiva euromediterranea (alla luce dell`innovativo corridoio ferroviario transasiatico, che colleghera` la Manica a Pechino, di fatto tagliando fuori i vettori portuali del suditalia) e da quella sui nuovi federalismi di Pier Virgilio Dastoli, direttore della rappresentanza in Italia della Commissione europea e portavoce del Forum europeo della Società Civile.
Importanti contributi al dibattito sui temi essenziali, come le riforme strutturali finalizzate al bene del Paese. “Accanto alle incoraggianti parole che ci ha rivolto il Presidente della Camera Gianfranco Fini- ha proseguito il leader dei Radicali Marco Pannella- ci auguriamo che altre parzialita`possano manifestarsi cosi` utili, confrontarsi e stringersi in un momento come questo, che faccia data”.
Attenzione puntata anche all`ambiente ed alle tematiche ecosostenibili: “Auspico una capacita`propositiva, verde ed ambientalista sulla quale insisto volentieri- ha aggiunto Pannella- da realizzare con l`aiuto di una visione euromediterranea per acquisire la precisione di una radicalita`ambientalista, armata di capacita` di tradurre in urgenza politico/ istituzionale questo nostro grande patrimonio”.
E poi ipotesi di riforma elettorale, con all`orizzonte “un collegio uninominale cosi`come avviene negli Usa- prosegue Cappato- Mi auguro che le presenze qui a Chianciano di questi giorni possano comporre una grande lega americana per il sistema strutturale, ma senza dimenticare le grandi questioni transnazionali di merito, come il Tibet, il manifesto di Ventotene, il rilancio di un welfare a copertura universale”.
Spazio anche per una considerazione sui due grandi partiti presenti oggi in Italia. Ma Pd e Pdl sono oggi contenitori aperti? Non proprio secondo Cappato: “Sono chiusi e non democratici, funzionano tramite la cooptazione delle classi dirigenti, vengono alimentati dal vecchio sistema delle appartenenze esclusive, delle espulsioni e dei meccanismi della partitocrazia. Ma non limiterei il tutto alle regole dei partiti, dal momento che piu`interessante sarebbe soffermarsi sulle regole delle istituzioni”.

"LE PERSONE E LE IDEE PRIMA DELLE ORGANIZZAZIONI"

Da Ffwebmagazine del 27/06/09

«Per fare politica su obiettivi veri è necessario prima discuterne, disponendo in seguito di strumenti e progetti cosiddetti aperti e soprattutto recuperando il filo diretto con il candidato, dal momento che oggi i due maggiori partiti italiani sono sostanzialmente chiusi». L’analisi è di Marco Cappato, già eurodeputato radicale, attualmente segretario dell’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica, oltre che fondatore del Congresso mondiale per la libertà di ricerca scientifica, che propone un welfare diverso, innovativo, che «sia universalistico», da realizzare anche convergendo con altri orizzonti politici, all’insegna prima di tutto dei programmi.

D.Che quadro politico appare oggi agli occhi di un osservatore straniero che per la prima volta si trova a mettere piede in Italia?
R.I due maggiori contenitori politici, Pd e Pdl, attualmente non sono partiti democratici, funzionano con la cooptazione delle classi dirigenti e con un vecchio sistema delle appartenenze esclusive, delle espulsioni e dei meccanismi della partitocrazia. Naturalmente non è sufficiente parlare delle regole dei partiti, esiste anche la questione delle regole delle istituzioni: è fondamentale che si recuperi il rapporto tra i cittadini e la persona, il candidato, il rappresentante del collegio. Il rapporto tra elettore ed eletto è sostanzialmente tagliato.

D.Una soluzione potrebbe essere il ritorno alle preferenze?
R.Preferirei parlare di collegio uninominale, come il sistema americano: questa è la nostra prospettiva istituzionale, anzi vorremmo anche dare vita ad una grande lega americana per il sistema maggioritario.

D.Ma accanto a queste, vi sono anche una serie di questioni di merito sulle quali avete preso posizioni nette.
R.Lo scenario è quello transnazionale, come il superamento della sovranità assoluta degli stati nazionali: vale per il Tibet e per la nostra Europa. La vera prospettiva radicalmente federalista europea, il manifesto di Ventotene per intenderci, che rappresenta anche la dimensione oggi che consenta il lancio di un welfare universalistico, che preveda il sussidio di disoccupazione e il reddito di cittadinanza, non come accade oggi in Italia con un welfare riservato solo ai soggetti garantiti. Oltre alla riqualificazione in chiave ambientale del sistema produttivo.

D.Ovvero iniziare un nuovo corso di riforme: ma non è lo stesso proposito che viene portato avanti da anni, senza poi essere tradotto realmente in fatti?
R.Io dico, chiudiamo la pagina del sessantennio della partitocrazia, del corporativismo per aprire una stagione dei partiti all’americana che siano realmente al servizio delle esigenze degli elettori. Ovviamente questo non è un discorso limitato al campo del centrosinistra, ma credo che ci sia sempre più la consapevolezza anche a destra che l’attuale situazione sia bloccata sul piano delle riforme. Senza una riforma in chiave antipartitocratica dei partiti non si va avanti.

D.L’Assemblea dei Mille cosa ha significato?
R.Le persone e le idee vengono prima delle organizzazioni, questo è lo spirito che ha caratterizzato l’Assemblea dei Mille di Chianciano Terme dello scorso fine settimana. Il nostro intento non è far uscire fuori necessariamente “la” formula politica, ma ci interessa una forma di dialogo diversa. Per questo hanno aderito alla nostra iniziativa una serie di persone provenienti da mondi differenti. Una manifestazione certamente trasversale.

D.E sul piano delle formule politiche?
R. È centrale per noi la questione della democrazia interna e dell’apertura dei soggetti politici, con particolare attenzione a quella che noi chiamiamo la libertà di associazione. Purtroppo ogni progetto viene irrimediabilmente compromesso se non viene garantita la possibilità della doppia tessera. Mi riferisco al fatto che iscrivendosi ad un soggetto politico non si perda il diritto di essere iscritto ad un altro, lo stesso elemento che ad esempio ha impedito al Partito Democratico di aprirsi davvero, quando in occasione delle scorse primarie Marco Pannella non ha potuto per questo candidarsi alla segreteria. Ovvero il principio che ha creato le scissioni a sinistra. A tutto questo diciamo no.

Religiosità delle idee, l`ultimo baluardo dei Radicali

Da Ffwebmagazine del 27/06/09

Sostiene la religiosità delle idee, ultimo baluardo della democrazia assieme a quel senso dello Stato che oggi è rappresentato dal presidente della Camera Gianfranco Fini, «impegnato strenuamente nella sua difesa». Così Marco Pannella, nel secondo dei tre giorni dedicato all’Assemblea dei mille autoconvocata per riflettere su un’alternativa liberale e riformatrice. Numerosi gli esponenti intervenuti, tra cui Renata Polverini, Bobo Craxi, Monica Frassoni, Paolo Cento, Gennaro Migliore, Paola Balducci, Marco Boato. Proprio alla segretaria dell’Ugl il leader radicale concede credito e «straordinaria riconoscenza» quando riflette sulla volontà reale del sindacato di negoziare e dibattere sugli aspetti primari, immaginando un diverso scheletro economico di imposizione fiscale «per tutte le famiglie, anche e soprattutto per quelle di fatto».

Parla per più di ottanta minuti Pannella, passando per l’importanza di quell’imprescindibile valore laico e socratico della non violenza, «vera e propria anima della democrazia». Fa riferimento al martire greco Lambrakis, paladino del disarmismo e della non violenza, passando per le enormi difficoltà dell’oggi. «La nozione liberale dello Stato contrapposta alle ragioni politiche e di parte sono difese oggi dalla terza carica dello Stato», ha aggiunto, all’interno di un ragionamento più ampio che ha visto al centro l’immigrazione e la visione euro mediterranea. «Sui nuovi italiani e sui flussi di migranti siamo in linea con quanto sostenuto dalla Polverini», ha proseguito Pannella e il riferimento è alla regolamentazione delle badanti, tanto per scendere in un esempio concreto. «Attraverso l’azione dell’Ugl si cercano soluzioni che in concreto rappresentano una forza nuova all’interno del contesto sociale e morale del paese, mentre attendo ancora una risposta da Epifani».

Il sud del Mediterraneo, che va dalla Turchia al Marocco, secondo Pannella resta un’area di tanti Stati con un’inesistenza politica delle classi sociali: «questo è un problema che va risolto e affrontato quanto prima, con la stessa insistenza con cui dovremmo occuparci di quel welfare globale di cui parliamo da anni». Welfare quindi fa rima con situazioni antidemocratiche, come i riferimenti al Tibet, allo Yemen, a quelle forme di sofferenza democratica delle società. E qui entra in gioco il senso di responsabilità euro mediterranea che dovrebbe travalicare i singoli stati nazionali, per confluire in una più ampia visione d’insieme che fino a questo momento è drammaticamente mancata. Versante legalità: attenzione rivolta alle vicissitudini della Commissione di Vigilanza della Rai, che dovrebbe confermarsi vero controllo reale e veritiero dell’informazione. «Noi siamo entrati in una campagna che non è elettorale, ma è rivolta ai temi e alle problematiche. Il nostro obiettivo è non di scoraggiare ulteriormente le forze residue di resistenza democratica del popolo italiano, che nei sondaggi dimostra di avere anche un’altra posizione che non è imposta o preordinata nonostante il Tg1».

Da trent’anni tutti i sondaggi ci rivelano che nel nostro paese vi è una grande propensione a caldeggiare l’eutanasia, insiste il leader radicale, un dato che «dovrebbe far riflettere. Dobbiamo consapevolmente costruire in Italia lo stato di diritto e il rispetto della legge senza disperazione ma con speranza, per questo dico che le lotte non violente sono rivolte proprio alla speranza e vanno cementate». Sino a oggi è stato inseguito «il potere e non la valenza delle idee», ha scritto Francesco Rutelli nel messaggio inviato all’assemblea, «ma non purtroppo come impegno sociale. Assistiamo a una situazione incompiuta del confronto per le scelte da attuare, che per il futuro non potranno prescindere da uno Stato laico, inteso senza strumentalizzazioni».

«Il blocco del processo europeista – aveva riflettuto in precedenza Marco Boato – non fan bene alla nostra crescita, al pari della volontà di far tacere quelle voci dissenzienti sullo stato generale delle cose: tutto ciò non servirà ad allontanarci da questa democrazia autoritaria». Sguardo anche alle cosiddette forze in campo, dal momento che dopo trent’anni i radicali non hanno una rappresentanza nel Parlamento italiano e Boato invita a chiedersi il perché di un disastro simile. Domenica l’ultima giornata dell’assemblea, prima di lasciare spazio per due giorni al Comitato nazionale dei Radicali italiani.

venerdì 26 giugno 2009

Radicali in assemblea per una rivoluzione liberale

Da Ffwebmagazine del 26/06/09

Riforme, queste sconosciute: tutti le invocano, le cercano, le sognano, le programmano, le esaltano, ma poi? Poi le rimandano, le smussano, le allontanano. E poi ci sono quelli che ricordano a tutti che le riforme sono sempre lì, in attesa che qualcuno le riscopra, rendendosi conto che senza non si fa progredire il paese. Anche per questo si apre oggi a Chianciano l'Assemblea dei Mille, intitolata Dai bilanci al progetto alternativa? Riformatore, democratico, italiano ed europeo, un «appuntamento per individui politici che hanno interesse a coltivare le individualità e non le appartenenze. Per coloro che vogliono nutrire di libertà la propria famiglia».

Non solo radicali, quindi, ma una tre giorni di colloqui, di programmi e soprattutto di idee trasversali da scambiarsi e sulle quali riflettere, prima fra tutte una grande riforma all'americana delle istituzioni, che abbracci welfare, economia, ricerca scientifica, giustizia. Insomma tutti quei temi attualmente in debito di ossigeno, desiderosi di nuovi slanci e nuovi spunti. «Uniti per la rivoluzione liberale» ha detto Emma Bonino, che ha individuato tre priorità sulle quali dare avvio a un nuovo percorso condiviso: laicità come elemento basilare per le istituzioni repubblicane, in un luogo dove lo «Stato di diritto è sempre più, per molti, un elemento marginale del convivere civile», le riforme della giustizia e dell'economia.
Una curiosità: non c'è un programma che scansioni gli interventi, a dimostrare ancora una volta che un dibattito spontaneo si rivela più articolato e utile di quanto non si pensi.

«Si tratta di un'assemblea di persone e di idee, non di organizzazioni, un momento non per far uscir fuori “la” soluzione politica - ci dice Marco Cappato - bensì un'occasione di parlare e di dialogare. Sul piano delle formule politiche è centrale per noi la questione della democrazia interna e dell'apertura dei soggetti politici, su quella che noi definiamo libertà di associazione. Ogni progetto oggi viene distrutto in mancanza di quella che denominiamo doppia tessera», ovvero il fatto che iscrivendosi ad un soggetto politico non si perde allo stesso momento il diritto di essere iscritto ad un altro, quello che ha impedito sino ad oggi al Partito Democratico di «aprirsi in maniera reale. Vedi le scorse primarie, quando fu impedito a Marco Pannella di candidarsi alla segreteria. È lo stesso principio che ha creato le scissioni a sinistra. Noi riteniamo che per fare politica su obiettivi veri sia necessario discutere, disponendo di strumenti e soggetti che siano aperti».

Ma quali le aspettative reali di questa assemblea? Emma Bonino auspica la convergenza di tutti coloro che si ritrovano almeno in alcune delle battaglie storiche per una grande riforma all’americana delle istituzioni, che comprenda la libertà di scelta e di ricerca, l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, l'istituzione di una vera anagrafe pubblica degli eletti. In questo senso la Bonino fissa come punto di partenza i 750mila voti ottenuti dai Radicali alle scorse elezioni europee, definiti “nuova vita”. E poi il dibattito sulla chiusura strutturale del Partito Democratico e del Popolo della Libertà che, secondo Cappato, non solo contenitori dove esiste una vera democrazia interna.

Attesi numerosi esponenti della politica, dell`imprenditoria, del mondo universitario, della società civile, come tra gli altri Francesco Rutelli, Benedetto Della Vedova, Marco Boato, Piervirgilio Dastoli, Claudio Martelli, Gennaro Migliore, Alfonso Pecoraro Scanio, Massimo Fagioli, Grazia Francescato, Cesare Salvi, Giuliana Sbarbati, Saverio Zavettieri che, pur provenendo da mondi differenti, hanno avvertito l'esigenza di riunirsi in questo conclave che lo stesso Marco Pannella ha definito libertario e liberale. «Si arriva più facilmente alla verità partendo dall'errore» predicava San Tommaso d`Aquino, ma aggiungiamo anche da un confronto franco, dialettico, e perché no aspro, ma per questo vivo e pulsante. E forse anche più produttivo.

mercoledì 24 giugno 2009

IL PATRIMONIO DI TUTTI E L`EGOISMO DI QUALCUNO



Da Ffwebmagazine del 24/06/09

No, non è solo una questione di ciò che è mio e ciò che è tuo, di cosa sia meglio o peggio per un singolo paese. No, non c’è in questa storia chi ha torto o chi ha ragione per un proprio tornaconto personale. C’è un patrimonio immenso che appartiene alla civiltà del mondo, a quella alcova filosofica, antropologica che ha dato i natali alla civiltà, a quel meraviglioso universo di pensatori da cui parte dell’Italia, la Magna Grecia, ha tratto origini e a cui tutto il mondo si è ispirato. Parliamo non di un semplice punto fisso nella storia, ma del suo inizio.

«Restituire i marmi del Partenone innescherebbe un pericoloso precedente», oppure «i grandi musei verrebbero progressivamente svuotati», e ancora «ve li prestiamo solo se riconoscerete che alla fine sono nostri». Beh, questa è proprio bella. Sono alcune delle affascinanti ma al contempo grottesche tesi avanzate dal British Museum che, in occasione dell’inaugurazione del nuovo futuristico museo dell’Acropoli di Atene, si oppone alla resa dei marmi di Elgin, imponenti pezzi di fregio, timpano e metope che circa duecento anni fa furono brutalmente asportati dal Partenone e “indirizzati” oltremanica, per impreziosire l’abitazione scozzese di Lord Elgin. A oggi sono ancora custoditi dal museo londinese, che si ostina in un atteggiamento di chiusura totale. Ha senso pensare a un tesoro architettonico e storico frammentato? Ha senso immaginare quel tesoro e quella storia, l’alfa della civiltà mediterranea, in uno stato di incertezza permanente, civiltà della quale taluni interpreti sembrano non tener conto la portata e la grandiosità?

Quella che è stata definita la culla della civiltà, quell’Ellade innovatrice nella filosofia, nella medicina, nella scienza, nella guerra, quel mondo che insomma ha rappresentato il “pan”, non e`accettabile che subisca una mancanza di rispetto tanto evidente. Da un popolo e da istituzioni, che tra l’altro non devono certamente imparare nulla in quanto a correttezza e a fair play. Correttezza e fair play che invece ha mostrato in abbondanza il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: in occasione di una sua visita proprio al Museo dell’Acropoli, ha restituito il piede di Artemide, un frammento di un fregio, che fino a quel momento era stato conservato a Palermo nel Museo Salinas. Identico gesto è stato avanzato dai Musei Vaticani e dal Museo di Heidelberg. Ma il British no, da quell’orecchio proprio non ci sente. Chi prosegue in questa stucchevole e egoistica querelle mostra scarsa considerazione per la storia e per il suo significato.

Oggi quei marmi dovrebbero troneggiare di diritto nel nuovo museo di Atene, come recitano i cartelli di protesta affissi ai piedi dell’Acropoli, "Niente più scuse", rivolti al primo ministro inglese. E non perché sia necessario schierarsi a favore del governo greco o britannico, no, non va tutto risolto in una gretta contrapposizione tra due fazioni distinte e in competizione. La vicenda dei marmi non avrà uno stato vincitore e uno stato vinto. Semplicemente, se non verrà fatta la cosa giusta saremo tutti perdenti.

RINFORZARE IL CONCETTO DI CITTADINANZA

Da Ffwebmagazine del 24/06/09

“Siamo una societa`debole”. La diagnosi, secca e pacata, come e`il suo stile, e`firmata da Gianni Bisiach, classe 1927, giornalista di lungo corso, scrittore, autore televisivo, conduttore radiofonico, anche regista. Allievo di Rossellini, ha vinto numerosi premi tra cui quello mondiale per la tv a Londra nel 1963, oltre ad essere uno dei massimi esperti della dinastia Kennedy. Ha trascorso diversi anni fuori dall`Italia, ad esempio in Africa come meterorologo e documentarista.

D.Cittadinanza e concetto di nazione si apprestano a subire una differente modalita`di assimilazione e di attuazione nel nostro Paese. Siamo pronti a questa nuova sfida?
R.Dobbiamo tenere conto della storia di oltre duemila anni. Con l`impero romano, il famoso civis romanus sum, abbiamo avuto una precisa concezione della cittadinanza. In seguito per molti secoli l`Italia e`stata frammentata per motivi geografici, storici e di invasioni e solo nell`ottocento con Vittorio Emanuele, Garibaldi e Cavour, si e`ricostituito un concetto di nazione e di cittadinanza italiana. Teniamo conto pero` che con Porta Pia si e`verificata la rottura tra Vittorio Emanuele II ed il Papa, quindi tra i due Stati. Basti pensare che solo nel 1909 il Papa autorizzo`i cattolici a prendere parte alla vita politica italiana.

D.E siamo al primo conflitto mondiale.
R.A seguito del quale, con il fascismo, il concetto di nazionalismo ha assunto una forma assoluta che la Costituzione poi ha smorzato con concetti democratici. La premessa storica e`utile per analizzare l`oggi dove, come ha giustamente osservato il prof. Pinelli, abbiamo una cittadinanza devole. Confrontandoci con la globalizzazione e con l`accoglienza, la nostra cittadinanza si mostra fragile. E`un momento di crisi e credo che contemporaneamente all`accettazione delle moderne fenomenologia, dovremmo trovare il modo di forzare il nostro concetto di cittadinanza.

D.Ma non sono due elementi in contraddizione?
R.Si`, senza dubbio difficili da accostare, ma se vorremo partecipare attivamente all`inevitabile concetto dell`inclusione globalizzante, dovremo rafforzare maggiormente proprio il concetto di cittadinanza.

D.Come mai un islamico si sente piu`facilmente cittadino negli Usa piuttosto che qui in Europa? Forse il vecchio continente riesce ad inglobare con piu`ritrosia?
R.Ancora una volta ci viene in soccorso la storia. Gli Stati Uniti nacquero nel 1796 con la dichiarazione di indipendenza, dove le molte etnie presenti trovarono nella Costituzione un forte magnete circa il senso di cittadinanza. Il cittadino americano, anche di colore diverso, riconosce maggiormente la propria identita` e la condivide. Pochi giorni fa in occasisone della partita di calcio Italia-Usa, ho notato il diverso tipo di tifo, ma non solo ostentato in occasione di eventi sportivi. Loro si rispecchiano moltissimo nella bandiera a stelle strisce.Noi siamo invece ancora un paese frammentato, con la Lega al nord, con le criminalita`mafiose e camorristiche al sud: ci siamo unificati piu`tardi di altre realta`, e per una serie di cause il risultato e`che oggi facciamo i conti con un senso di cittadinanza meno intenso.

D.Il primo fronte su cui concentrarsi dunque quale potrebbe essere?
R.Proprio nel momento in cui e`forte una societa`multietnica ed una globalizzazione ormai avvolgente, dovremmo salvaguardare le nostre peculiarita`culturali in modo da essere talmente solidi da poter condividere piu`serenamente.

D.Che cittadini osserva oggi nel nostro Paese? Non trova che spesso assistiamo a una societa`spenta, poco presente nelle piazze, quasi avulsa dal contesto generale?
R.Non credo sia un poblema di calore mediterraneo, ma anche in parte geografico. Sino alle guerre di indipendenza abbiamo avuto numerosi staterelli, con peculiarita`diverse lungo tutta l`estensione della penisola, con uno spezzettamento indiscusso. A cio` si aggiunga la presenza della Chiesa cattolica, un vero Stato. Avendo vissuto all`estero per molti anni, posso dire che oggi sul piano internazionale gli italiani dimostrano caratteristiche positive, penso alle industrie, al commercio. E`vero che nei confini nazionali manifestano certi tratti somatici legati ad una certa superficialita`, viceversa fuori sono rispettati e per questo sono legittimati. Non e`che il popolo italiano abbia caratteristiche mediocri rispetto ad altri, ma e`la storia che fa la differenza. Penso ad un`unita`nazionale piu`recente, a molti eventi particolari, come la presenza forte della Chiesa, il fascismo e poi l`antifascismo. E`innegabile che come italiani accusiamo una spiccata debolezza rispetto ad altre societa`.

CITTADINANZA E COESIONE, LA POLITICA FACCIA LA SUA PARTE

Da Ffwebmagazine del 23/06/09

Cos'è la cittadinanza? Quale ruolo deve avere la politica nella costruzione di un progetto condiviso? E come si possono declinare insieme libertà soggettiva e senso di "comunità"? Ne parliamo con Savino Pezzotta, segretario generale della Cisl dal 2000 al 2006 e oggi deputato eletto con l'Udc e presidente del Cir (Consiglio italiano per i rifugiati).

D.Onorevole Pezzotta, l’Italia è oggi una nazione di cittadini, o spesso solo di individui che la popolano?

R.Si tratta di un fenomeno che si è determinato negli ultimi quindici anni, quando siamo rientrati in una società estremamente individualista. Direi che il soggetto individualista oggi è divenuto una sorta di proprietario. Le persone hanno così dimenticato la dimensione della relazione, e oserei dire delle solidarietà larghe per restringersi in ambiti più stretti. Ciò mette in discusione un altro degli elementi che a mio avviso definiscono la cittadinanza, ovvero la nozione di popolo.

D.E infatti si tende non usare più il termine “cittadinanza”, preferendogli “moltitudine”…
R.È una moltitudine individualista e frammentata. Ricomporre questo scenario dovrebbe essere compito della politica, ma al momento abbiamo una politica che ha inseguito la suddetta frammentazione e pertanto non mi propone più un’ idea di nazione e di Europa come elemento identitario, ma nemmeno un’idea di lavoro come oggetto coesivo. Mi propone invece una dimensione del territorio come separazione e distinzione, accentuando e corporativizzando il territorio stesso in questa accezione. Associarsi per respingere qualcuno.

D.È proponibile, secondo lei, un modello di società che finalmente prescinda dalla brutta politica? Quella, per intenderci, autoreferenziata e autocelebrativa, assolutamente non pensante.
R.Credo che la politica abbia un compito orientativo: se le classi dirigenti non offrissero anche l’idea di ciò che vogliono proporre, alla fine il quadro generale perderebbe ulteriormente di spessore. Se noi abbassassimo i livelli delle autoreferenzialità, dell’immagine rispetto alla concretezza, accentuando invece il tema del progetto rispetto alla polemica, probabilmente anche i cittadini ritroverebbero quegli elementi connettivi attorno ai quali raggrupparsi. Qui discutiamo se un esponente va o meno in televisione, se è padrone o meno di un partito; e invece dovremmo uscire da una simile logica sposandone una più mite, meno aggressiva ma che consenta a tutti di stare all’interno di una progettualità.

D.Ma poi dovremmo fare i conti con una dimensione differente dell’individuo, magari più estesa rispetto a quarant’anni fa, non crede?
R.Un dato significativo della nostra modernità è l’esasperazione dell’individualità, non c’è molto da fare, esiste. Quando tale soggettività mancava, ci si raggruppava all’interno di corporazioni, di classi. La conquista della soggettività individuale è stata senza dubbio un’ espressione di libertà che va salvaguardata, ma la libertà di ciascuno non dovrebbe mai diventare chiusa, rimanendo invece una soggettività di relazione. Oserei dire che da questo punto di vista la lezione del personalismo, sia laico che cristiano, ritorna oggi più di attualità rispetto a ieri, dal momento che recupera una dimensione di soggettività della persona ma lo fa all’interno della relazione.

D.Hobbes diceva che l’uomo è un animale che provvede alla fame futura. Lei pensa che oggi la nostra classe politica lo stia facendo?
R.A oggi la politica dovrebbe pensare di più al futuro, e non solo alla fame intellettuale ma anche a quella reale, vista la crisi mondiale che ci attanaglia. Se pensassimo alle questioni ambientali, ad esempio, ci renderemmo conto che depurando il ragionamento da tutti gli ideologismi ambientalistici, esiste un processo che indebolirà la produzione di cibo per il domani. Quindi si presenterà il problema di come distribuire non soltanto la ricchezza in sé, ma finanche il cibo. La politica deve essere fatta non per oggi, ma per domani, anzi per dopodomani. Traducendo in modo ancora più elementare, io faccio politica non per i miei figli ma per i miei nipoti, perché se non alzassimo lo sguardo verso le generazioni di dopodomani, non risolveremmo nemmeno i problemi più vicini. Tra l’altro questo è un tema di non facilissima comprensione, perché gli strumenti della comunicazione politica di oggi sono tarati sulla dimensione presente. Ad esempio, io appaio oggi in televisione, non domani, quindi ciò mi obbliga a una presentificazione che alla fine ha come conseguenza diretta la mortificazione totale e irreversibile della politica.

D.E se iniziassimo a pensare a una comunicazione politica meno vuota?
R.Sarebbe un punto di partenza, accanto però a un uso di nuove forme di linguaggi. Dovremmo fare lo sforzo di capire il diverso. È un’esperienza che ho fatto qualche giorno fa assieme ai ragazzi di don Mazzi: sentivo che il loro linguaggio era già proiettato sul futuro, mentre il mio era molto più radicato su un passato che non voglio dimenticare, e assillato dalla dimensione dell’oggi. Quindi se vorremo determinare un “oltre” credo che dovremmo cogliere il metro dei giovani, anche nella loro estrema semplificazione: ci aiuterebbe a collocarci diversamente. Ma per farlo dovremmo iniziare a studiarli e comprenderli veramente.

domenica 21 giugno 2009

«Il Parlamento alimenti il senso civico»

da Ffwebmagazine del 19/06/09

«Accanto al tradizionale ruolo di un Parlamento che legiferi, iniziamo a pensare anche a una funzione pedagogica, che sia educativa al senso civico». È la proposta con cui il presidente della Camera Gianfranco Fini ha chiuso il suo intervento al seminario intitolato “Il futuro del parlamentarismo in Italia e in Germania” organizzato nel parlamentino del Cnel, dalle fondazioni Farefuturo e Konrad Adenauer, alla presenza di Antonio Marzano Presidente del Cnel, di Adolfo Urso segretario generale di Farefuturo, Wilhelm Staudacher, direttore della fondazione Adenauer, Norbert Lammert presidente del Bundestag. E di quattro illustri docenti universitari (Paolo Armaroli dell'università di Genova, Ulrich Karpen dell'università di Amburgo, Andrea Manzella direttore del centro studi sul parlamento alla Luiss, Hans Jorg Hennecke dell'università di Kiel) che, coordinati da Agostino Carrino, hanno offerto una panoramica storico-giuridica sul significato del parlamentarismo.

Le sfide future, dettate dalle nuove contingenze e da nuovi tecnicismi che mirano a un ammodernamento progressivo delle istituzioni, non possono essere affrontate con strumenti non all'altezza. Secondo Fini occorre una democrazia forte e rappresentativa, che sia più capace di decidere. Inoltre l'equazione tra governo e parlamento dovrebbe apparire piùsignificativa. La forza delle istituzioni sta nelle decisioni giuste e nelle giuste condizioni in cui prenderle, «ovviamente con il più ampio consenso possibile dei cittadini».
Mobilitare le coscienze potrebbe essere il modo del Parlamento per non svilirsi a interprete marginale. A seconda dei modelli diversi di Stato, ha proseguito Fini nella sua analisi, i modi dei Parlamenti si modificano, quindi sarebbe auspicabile una discussione non astratta ma assolutamente concreta sul tema.

Che il Parlamento condivida le decisioni del governo, dunque, con lo strettissimo filo conduttore della fiducia, senza ridurne il campo di azione, ma al contempo innescando un continuum tra esecutivo e maggioranza parlamentare. Quattro le linee di sviluppo individuate dal presidente della Camera: rapporti più fluidi e funzionali tra parlamenti nazionali e Parlamento europeo; azione più incisiva per la qualità della legislazione; controllo parlamentare che non freni il governo ma che renda trasparente la sua azione; diffusione cognitiva dell'azione, contro le derive antiparlamentari.

È accaduto in passato che il bipolarismo abbia visto forze politiche a volte tendenti a riscrivere le norme giuridiche a proprio piacimento, ha osservato Fini, «non voglio negare che le leggi debbano essere modificabili, ma il nostro dettato costituzionale non dovrà in nessun caso sviare dal radicamento nell'ordinamento». Ma perché in Italia la qualità della legislatura stenta a produrre frutti? Il problema sta nel frequente ridimensionamento del Parlamento, a vantaggio di più poteri per il governo. Quest'ultimo, nella sovraesposizione della sua centralità non dovrà mai emarginare le funzioni parlamentari. Fondamentale altresì è la funzione di controllo che il Parlamento deve assicurare, al fine non di rallentare decisioni e provvedimenti ma di affrontarli al meglio, correggendo eventuali sbavature e proponendo soluzioni alternative.

«Garantire il diritto di parola all'altro - ha completato Fini - può sembrare una banalità, ma non lo è affatto, in una società che trascura termini come dialogo e confronto». Per questo potrebbe essere estremamente utile una rivisitazione delle funzioni del Parlamento, proprio partendo da una chiave di lettura pedagogica, riprendendo un concetto ottocentesco, che incarna egregiamente il ruolo antico dell'istituzione stessa. Un lavoro sotterraneo nelle culture, nelle menti dei cittadini, per allietare le loro coscienze con quel senso civico che investe sul bene comune, su un risultato in prospettiva, riassunto nel patriottismo costituzionale richiamato recentemente dal capo dello Stato Giorgio Napolitano.

Il riferimento a più voci all'interno di un'unica melodia europea è stato approfondito da Norbert Lammert, presidente del Bundestag che ha puntato la sua attenzione sull'esigenza di un rinnovato rapporto tra parlamenti nazionali e quello europeo. Si tratta di una questione che merita maggiori iniziative a sostegno, dal momento che il ruolo dei parlamenti nazionali, ha sottolineato «è quello di accompagnare le iniziative del Parlamento europeo in un'ottica di proficua collaborazione e non per delegare astrattamente competenze e decisioni. Questa è la sfida che siamo chiamati a raccogliere: all'interno di un'Europa allargata, nei prossimi anni dovremo collegare concretamente le voci di tutti i nuovi stati, sotto il comune denominatore dell'interesse europeo. E non per una mera questione estetica - ha concluso - ma per ottenere una melodia che sia rilevante politicamente».

Il terzo mondo è fallito

da Ffwebmagazine del 19/06/09

Signora, cosa c'è di autenticamente padano che lei fa al mattino appena sveglia? E quella: rifaccio il letto, sa mi piace il lino e poi preparo il caffè. E lui: ma in Padania non ci sono né piantagioni di lino, né di caffé, come la mettiamo? Il dialogo del giornalista guineiano Filomeno Lopes con una cittadina autoproclamatasi della Padania, sta tutto in queste due battute e soprattutto sull'espressione che la nostra ha assunto solo dopo aver compreso il senso di quelle domande. Ovvero, quale distanza c'è tra il mio assoluto e il tuo assoluto? Perché è utile parafrasare il discorso di Barack Obama al Cairo sull'imprescindibilità della dignità umana? Dove ci conduce un modo di pensare basato sull'esistenza di qualcosa di autenticamente puro nel mondo? E soprattutto, che cos'è oggi il terzo mondo?

Alcune risposte, ma soprattuto molti spunti di riflessione sull'essenza del continente africano e su ciò che ne rimane oggi, a seguito dello sfruttamento commerciale da parte delle superpotenze mondiali, si trovano nelle quasi cinquecento pagine del libro Storia del terzo mondo di Vijay Prashad, utile non solo per ingrassare la bibliografia d'autore e di qualità su un mondo denso di accadimenti e smottamenti, ma per includere allinterno degli sviluppi sociali italiani, un modo di pensare che faccia tesoro di vere e proprie scosse sismiche registrate nel globo negli ultimi dodici mesi, e che hanno come epicentro un simpatico quarantenne, nero e non abbronzato, che si è messo in testa di riportare al centro del dibattito mondiale la persona e i suoi diritti fondamentali, a partire della vita e dal rispetto per l'individuo.

Che Africa ritroviamo oggi? Completamente diversa rispetto a quella di un ventennio fa, sostiene il sociologo Mauro Valeri. Il terzo mondo è un progetto e non un luogo fisico, nato intorno agli anni '20, sviluppatosi negli anni '40, collegato alle lotte di liberazione e di indipendenza degli stati africani, per poi finire in un percorso critico e positivo (fatto anche di grandi fallimenti) nel 1983 a Nuova Delhi con la riunione del movimento dei non allineati. Oggi il terzo mondo di fatto non esiste più, non essendoci una vera e propria divisione tra primo e secondo così come era stato all'inizio del secolo scorso, dove avevamo il primo mondo rappresentato dall'Occidente, il secondo legato all'entità sovietica. «Facciamo fatica ad ammettere che sia cambiato qualcosa rispetto a ieri - sostiene Valeri - infatti l'autore ribadisce che il terzo mondo è fallito. Il livello di indipendenza politica, sommato a quello culturale ed economico, ha prodotto squilibri. Al momento non vi sono modelli alternativi proponibili».

Se fino a ieri i colonialisti che sfruttavano il continente nero per i propri interessi erano direttamente riconducibili ai due grandi blocchi socio-politici protagonisti della guerra fredda, oggi sono solo cambiati i protagonisti, ma la trama è la stessa. La Cina in questi anni si è fatta presenza fissa e indiscreta in Africa, da dove ottiene un materiale indispensabile alla fabbricazione delle batterie al litio, senza delle quali i nostri telefoni cellulari non funzionerebbero. E allora, verrebbe da chiedersi, a cosa sono servite le lotte di indipendenza, le battaglie combattute in nome della libertà e dell'equiparazione sociale della persona, dei diritti primordiali come la vita e la sopravvivenza? Valeri ritiene che bisognerebbe capire dove si annida l'assassino dell'Africa, se al suo interno, vedi quei dittatori che proseguono nell'opera di svendita del continente, o al suo esterno, con i nuovi colonialisti, ma ci permettiamo di sostenere che non è tanto importante definire l'assassino, che invero è palesemente definibile, basta sfogliare i giornali di qualche mese fa per vedere in che modo hollywoodiano ha festeggiato il proprio compleanno il dittatore Mugabe, (con container pieni di aragoste e champagne) o con quale intensità le società cinesi razziano ancora una volta paesi poverissimi.

No, non avrebbe senso individuare chi commette il fatto semplicemente perché è sotto gli occhi di tutti: sarebbe più utile cicostanziare l'arma del delitto e sperare nell'intervento di un giudice severo. E se mancasse proprio questa figura? Siamo in accordo con il giovane Filomeno Lopes quando ammonisce che serve dire basta, fermarsi e mettere un punto. E poi ripartire, perché oggi all'Africa manca un sogno. Sino a ieri c'erano leader che perseguivano l'ideale di libertà dall'oppressore. Poi quell'ideale è stato falsamente veicolato come un traguardo, mentre non ci si è accorti che sarebbe dovuto essere ribaltato in meta da cui ripartire e negli ultimi anni quei leader hanno lasciato il campo a semplici capi che amministravano in nome e per conto degli stessi colonialisti di sempre, visti solo con occhi diversi e legittimati da una veste più ufficiale, ma che non hanno offerto di fatto ricadute positive al continente. Era razziato ieri nelle sue miniere e nei suoi sottosuoli, e lo è ancora oggi. L'emigrazione si è decuplicata, anche a causa di guerre senza voce, alle quali dirigenti di circostanza fanno finta di spegnere provvisoriamente i fuochi della quotidiana insofferenza civile, ma senza certezze sul futuro. Come uscire da questa empasse allora?

Una soluzione ci sarebbe, alla quale ci auguriamo Prashad lavori come filo conduttore per il suo prossimo libro, ed è quella di impedire l'occidentalizzazione dell'Africa, almeno l'occidentalizzazione malvagia, quella senza scrupoli, potendo contare sulle parole che un simpatico quarantenne, nero, (lo stesso che si è messo in testa di riportare al centro del dibattito mondiale la persona e i suoi diritti fondamentali, a partire dalla vita e dal rispetto per l'individuo) ha pronunciato in Egitto poco tempo fa a una folla impaziente (come impaziente era anche il mondo intero), in attesa di abbeverarsi a una nuova fonte, una sorgente nuova della quale si era persa traccia.

Cittadinanza, pilastro della società

Da Ffwebmagazine del 18/06/09

«Il riconoscimento dell'eguale libertà degli individui è un principio rivoluzionario che produsse l'esigenza di dar vita (lo capì Jefferson) a una comunità politica, dove i sudditi diventavano progressivamente cittadini». La citazione di Roberto Vivarelli, docente alla Normale di Pisa, enuncia nella sua interezza il senso dell'appuntamento "Nazione, cittadinanza, Costituzione" fortemente voluto dalla presidenza della Camera dei deputati, che funge da apripista per il progetto "Patriottismo costituzionale e cittadinanza nazionale" in collaborazione con undici Fondazioni.

Come giungere a una grande e unica società aperta? Come impedire che la comunità multietnica presente oggi sul nostro territorio possa sentirsi estranea a esso, andando incontro a uno scompenso? E come far percepire ai cittadini l'importanza e la strategicità di un'integrazione vera e leale? Interrogativi ai quali una serie di autorevoli interventi hanno cercato di offrire risposte concrete. Lo Stato basato sul consenso poggia su una comunità aperta, sostiene Vivarelli. «Attorno al concetto di Stato si è aperta negli scorsi due secoli una partita per la verità ancora da chiudere». Il concetto di nazione prescinde dalla volontà dei singoli semplicemente perché si persegue il fine comune, attraverso l'apporto dei singoli. Sono parte di un unicum che va modellato grazie allo sforzo condiviso di ciascuna parte che, se presa singolarmente, non offrirebbe il medesimo contributo. Il ragionamento poggia sulla considerazione che oggi l'Italia è già un contenitore multietnico, e ciò rappresenta un elemento di per sé positivo. Preoccupa invece, secondo Vivarelli, la presenza ingombrante di particolarismi e di pregiudizi che non favoriscono di certo una serena integrazione.

Ma quale l'origine di questo fenomeno? Il docente lo fa risalire a un disorientamento del nostro modo di pensare che provoca una crisi identitaria. «Ci si dimentica - ha ammonito - che più una comunità è aperta, e più occorrono regole certe, frutto di principi irrinunciabili che siano inclusivi e corretti». Forse la nostra società farebbe bene ad accostarsi a un concetto antropologico alto, ovvero riconoscere in ciascuno il soggetto di un'identità morale. Ovviamente non è proponibile un indiscriminato pluralismo culturale, ma sarebbe utile riflettere su quanti sacrifici sono stati compiuti per ottenere la libertà di cui godiamo oggi, e soprattutto insegnarli alle nuove generazioni che considerano il tutto un fatto dovuto e compiuto.
Integrazione, allora, fa rima con acculturazione. Vivarelli ritiene quindi che compito dello Stato sia educare sì alla civiltà, ma anche e soprattutto alla morale, perché una «società e una scuola che rinunciano a inculcare i procedimenti che hanno generato il frutto della libertà e che non evidenziano le basi morali, commettono un errore imperdonabile in prospettiva. Bisogna insegnare per quale motivo ci sono cose che non si fanno».

Un'analisi che viene completata dalla riflessione circa il sentimento di cittadinanza che risiede nelle nostre menti. L'Italia, ha aggiunto Carlo Galli dell'università di Bologna, non è una repubblica fondata sulla nazione ma sul lavoro, «questo è il vero stato sociale. Il fatto che oggi qui si torni a riflettere sul senso della cittadinanza significa che essa è in crisi, per la trasformazione endogena del sistema di produzione capitalistico». Un dato oggettivo è rappresentato dal fatto che questi anni nei libri di storia del futuro saranno ricordati come anni di migrazioni, a causa della “porosità dei confini”, dunque essendo la politica un modo di essere degli uomini che ha a che fare con la determinatezza, deve «rifiutare quelle forme di rimbalzo sociale dinanzi al fenomeno migratorio. Esso va smontato e analizzato fuori dalle logiche partitiche».

Di pari passo va rafforzata la percezione della cittadinanza perche è su di essa che poggiano i tre elementi portanti della società, ovvero lo Stato, la nazione e l'individuo. E tutti insieme non possono che essere sorretti, come una innovativa impalcatura autoreggente, da quella solida costruzione sociale e democratica che si chiama Carta Costituzionale. Saprà resistere essa a queste nuove sfide combinate, si chiede Galli? La risposta è affermativa, anche in considerazione degli incentivi morali e sociali presenti nella Costituzione stessa, che spronano la politica, come ha saggiamente osservato Giorgio Rebuffa, docente di filosofia del diritto all'università di Genova, a farsi «politica del pensare, prima che del fare». In assenza di un tale sforzo mentale non si riuscirebbe a superare la fase di incertezza che caratterizza questi anni.

Ma l'allarme è suonato in chiave antropologica dal direttore dell'Istituto di scienze umane Aldo Schiavone, secondo il quale «esiste un disequilibrio che rischia di travolgere l'Occidente, causato da una vera e propria disconnessione, uno scompenso che stiamo diffondendo in tutto il mondo». Da un lato la velocità della rivoluzione tecnologica, che trascina finanza e rapporti sociali, dall'altro la fragilità della politica, che non riesce a tener testa ad una tecnica oggi sovrana. Più stato di diritto, quindi, sarebbe necessario per ovviare a un tale sbilanciamento. Il vero problema secondo Schiavone è che al momento non disponiamo di un vero e proprio paradigma politico della post-modernità, quindi urge costruirne uno valido e funzionale, perché «la strada dell'impero come costruttore di una visione globale è una via senza uscita. Prepariamoci allora a un'età nella quale vadano pensati insieme i diversi stati nazionali per un nuovo intendimento della politica». Di qui l'importanza di una nuova visione della cittadinanza, segnata dal riconoscimento dell'eguaglianza di specie e lontana dalle recenti definizioni socialistiche. Ma un richiamo secco alle responsabilità della politica rispetto ai tre soggetti (cittadinanza, nazione, Costituzione) è venuto dal rettore dell'università Cattolica di Milano, Lorenzo Ornaghi.

«Non chiudere il cerchio né ideologicamente né per pigrizia - ha osservato - contrariamente si determinerebbe una stagnazione della democrazia». Il riferimento è a certa classe dirigente, più preoccupata delle critiche alla propria immagine causate da una presa di posizione determinata, piuttosto che dalla bontà di un provvedimento. Il piccolo tornaconto personale, che sovrasta il senso del bene comune. Ornaghi ritiene che solo «tenendo aperto questo spazio che delimiti il sentiero politico da ciò che non lo è» si riuscirà nell'impresa, perché di impresa oggi si tratta, di impedire la degenerazione della democrazia in oligarchia. Nuove chiavi di lettura, quindi, ha proposto in chiusura il presidente Fini, per confrontarsi con una cittadinanza che, entrando nel terzo millennio, avrebbe bisogno di una politica maggiormente pensante.

Elogio del rumore a colori

Da Ffwebmagazine el 18/06/09

Visi spenti e affranti, stereotipi consumati da bavagli imposti, telefoni muti, voci strozzate, cervelli in stand by. Quante volte ci siamo chiesti il perché di una società così “silenziata”? E quante volte ci siamo chiesti cosa fare per risvegliarla? Se ci sei batti un colpo, recitava la celebre frase di un film, e perché no, oggi quei colpi andrebbero battuti più volte, in mille modi, con mille voci, possibilmente chiare e determinate.
Nel tempo dell’equiparazione emozionale, dell’univocità di pensiero pericolosissima per la sopravvivenza delle menti, di certe dittature dei sogni, con format preconfezionati dal risultato scontato, una nuova ventata di freschezza potrebbe derivare proprio da una società rumorosa. Sì, rumorosa, che si preoccupa di gridare a squarciagola il proprio dissenso, capace di riempire nuovamente le piazze per testimoniare la propria solidarietà, il proprio sdegno, la propria condanna, o il proprio appoggio, la voglia di partecipare e di crogiuolarsi della propria esistenza sociale. Insomma, un paese nuovamente vivo che produce suoni e che finalmente fa rumore per qualcosa, e non solo per un goal della squadra del cuore. Vivo anche se la nazionale perde, come è successo ieri, in Sudafrica, contro l'Egitto.

E a proposito di Africa, Plinio il Vecchio ammoniva: «Dall’Africa c’è sempre qualcosa di nuovo» e non sbagliava. Pare che a qualcuno sia dispiaciuto guardare in tivvù le partite della Confederation’s Cup perché disturbato da un particolare ronzio, simile a quello prodotto dalle zanzare. Non è il frutto del passaggio di qualche insetto, ma è l’originale e denso di significato risultato di uno strumento africano chiamato vuvuzela, da qualche tempo è amabilmente suonato negli stadi di calcio, dove se ne trovano di colorazioni differenti, a seconda della squadra di appartenenza.

Il suono rappresentava, secondo la tradizione, il soffio del loro Dio. Ma più recentemente lo strumento veniva utilizzato in occasione delle manifestazioni contro l’apartheid. Era il 16 giugno del 1976 e un gruppo di adolescenti a Soweto scese in piazza per dissentire da un’assurda disposizione della segregazione razziale causata dall’apartheid. In diecimila, suonando i vuvuzela, gridarono il loro no alle forze dell`ordine. Ne morirono centocinquantadue, e l`anno dopo altri settecento, così il governo fu costretto ad annullare l`insegnamento dell’africaans nelle scuole frequentate solo da neri. Fu un trionfo per il movimento anti apartheid.

Ma oggi chi ha paura dei vuvuzela? Forse la Fifa, che ne ha ostacolato l’uso durante le gare della Confederation’s Cup, per poi ammetterli con riserva. O forse alcuni gruppi formatisi su Facebook, che non hanno trovato di meglio da fare che occuparsi di uno strumento che, piaccia o no, è parte integrante del dna di un popolo e delle sue battaglie per la sopravvivenza e per questo, e solo per questo, va rispettato, senza facili ironie e sfottò assolutamente fuori luogo? Francamente quei gruppi, e perché no anche qualche dirigente della Fifa, avrebbero potuto dedicare qualche spicciolo in più del loro tempo a dissertare sulla malaria o sul virus dell’Hiv ancora corposamente presenti nell`intera regione, o su come manifestazioni sportive quali la Confederation’s Cup di questi giorni o il Mondiale di calcio del 2010, possano attirare l`attenzione su ben “altri” problemi locali.

«Non possiamo fare grandi cose – diceva Madre Teresa di Calcutta – possiamo fare piccole cose ma con grande cuore». Che vuvuzela sia, allora, che i cuori riprendano a battere non solo nelle gabbie toraciche dei singoli individui chiusi e repressi nelle proprie case, ammutoliti da un senso di costrizione improduttiva, che sferza gli animi, che chiude le casse di risonanza, che tappa le bocche e orecchie. No, servono invece cuori grandi e pronti a emettere suoni. E per favore, se avremo la fortuna di ascoltare nelle nostre strade e nelle nostre piazze il particolare suono di qualche vuvuzela, e se in quell’occasione il cretino di turno dovesse replicare infastidito, non abbiate timore: regalategliene una cassa, possibilmente multicolore.

domenica 14 giugno 2009

La casta vista dall'interno

da Ffwebmagazine del 14/06/09

Un piccolo manuale rivoluzionario per far indignare i lettori, nella consapevolezza che la questione etica deve trovare nuovamente e prepotentemente spazio in una politica che andrebbe ridisegnata ex novo. La definizione, che ha strappato il sorriso ad Aldo Forbice e a Giancarlo Mazzuca, è di Piero Sansonetti, l’occasione è la presentazione del volume I faraoni, altra panoramica sulle mille caste al potere, ma questa volta scritta dall’interno. E già, perché uno dei due autori, oltre che essere giornalista, è da un anno anche deputato.

«E allora? - risponde Mazzuca - proprio perché sono parte in causa posso meglio di altri evidenziare, da infiltrato, le discrepanze tra consulenze e produttività di chi le effettua, ma per favore smettiamola con la grande casta dei parlamentari e concentriamoci in quelle castine locali che pesano non poco sullo Stato». Eh sì, perché sfogliando il libro emergono dati sin qui inediti, estremamente interessanti per tipologia di stipendi e soprattutto per benefici postumi, che sono valsi già due querele agli autori, rei solo di aver pubblicato numeri pubblici.

Il pensiero corre ai presidenti della Corte Costituzionale, sovente eletti un attimo prima della pensione, a taluni assessori regionali che guadagnano anche più dei senatori, al Cnel (che in quattro anni di attività ha prodotto solo altrettante proposte di legge, tra l’altro bocciate e che pesa sulle casse dello Stato per 15 milioni annui), alla miriade di enti inutili, passando per due ambiti che potremmo definire nuovi, dal momento che nessuno fino a oggi vi aveva concentrato l’attenzione: il cinema e i quotidiani.

Secondo Aldo Forbice, da quindici anni voce di Zapping su Radio 1, il 90% delle pellicole realizzate con contributi pubblici, stando alle cifre, ha avuto un riscontro modestissimo al botteghino. Inoltre tre quotidiani nazionali che hanno ricevuto ben 48 milioni di finanziamento dallo Stato (ovvero Repubblica, Corriere della Sera e Sole 24 Ore) avrebbero dovuto invece confrontarsi esclusivamente con il mercato, senza usufruire di tali aiuti. Diverso il discorso per i giornali di partito, infatti, tra quelli iscritti ai contributi, oltre alle testate reali che fanno informazione politica, ve ne sono altre fittizie: «Chi nel tempo ha acquisito una testata - ha precisato Sansonetti - gode di quegli euro anche senza utilizzarla, siamo in presenza di veri e propri affaristi che con l’informazione non hanno nulla a che fare».

Ecco che le pagine de I faraoni innescano la miccia del dibattito sul senso della politica nostrana e non solo risalendo al classico e scontato canovaccio del “teniamo famiglia” di longanesiana memoria, ma piuttosto aprendo, come ha osservato il direttore del Secolo Luciano Lanna, un «problema di strati di responsabilità. L’idea weberiana di politica come professione non va demonizzata, e a questo punto mi chiedo come mai la questione stenti a decollare nell’opinione pubblica». Proprio la cittadinanza sta progressivamente metabolizzando pubblicazioni di questo tipo, è sufficiente analizzare il milione e mezzo di copie vendute da La Casta di Rizzo e Stella, passando per Il costo della democrazia di Salvi e Villone, ma affinché muti la percezione rispetto alla res publica occorre che l’anima di questo paese venga rivoltata come un calzino, facendo emergere quanto di buono e di limpido c’è.

Lanna ha poi citato Maometto II il quale, interrogato sul significato della politica, rispose che essa è quell’arte di costruire città e riempire di gioia il cuore della gente. Quindi sforzandosi di edificare e amministrare provvedendo anche alla qualità emozionale dei cittadini.

Cosa osta quindi a una riforma seria e condivisa che abbatta caste e castine, veri impacci alla democrazia moderna e funzionale? Magari iniziando proprio da norme che vietino il cumulo di più incarichi (deputati che sono anche sindaci o presidenti di province). Secondo Raffaele Iannuzzi, consigliere del ministro per i Beni Culturali, i vari riformisti nel tempo hanno giocato questo tipo di partita, cavalcando di volta in volta proposte e iniziative, dando prova provata che un cambiamento è istituzionalmente possibile. Perché una tale rivoluzione non ha seguito nei fatti? «Francamente non vedo gente per le strade che vuol prendere a forconate questa classe dirigente. La soluzione è un ritorno alla politica in quanto tale, legittimata da una sovranità popolare che ponga mano realmente a riforme simili».

Ma allora, se l’intero sistema andrebbe rifondato dalla base, sarebbe utile ripartire da un modo diverso di formare e selezionare la classe dirigente? Iannuzzi in questo senso richiama alla mente eventi lontani un ventennio: «La caduta del muro di Berlino ci ha detto che la fine delle ideologie ha generato un’ennesima ideologia. Con questa classe dirigente forse l’intelligenza politica si ferma. Storicamente non è mai esistita una classe che si sia autoriformata, ma è la storia che produce effetti sistemici».

Dovremo quindi attenderci eventi sovranaturali, o semplicemente auspicarci che, anche grazie a pubblicazioni come questa, un gruppo di parlamentari prenda finalmente il coraggio a due mani e avanzi una proposta di legge che almeno avrà il merito di rimanere ben impressa nella storia di questo paese.



Aldo Forbice e Giancarlo Mazzucca
I faraoni. Come le mille caste del potere pubblico stanno dissanguando l'Italia
Piemme
pp. 299, euro 17,50

giovedì 11 giugno 2009

QUANDO IL MURO CROLLO`PER FAR SGORGARE LA LIBERTA`

Da FFwebmagazine dell` 11/06/09

Muri di cemento, iconografia dei blocchi socio-culturali, impedimenti al libero scambio e alla condivisione, non solo a causa del filo spinato in sé , ma in virtù di quell’atmosfera di infertilità umana che ne scaturisce. Tra qualche mese si celebreranno i vent’anni dalla caduta del muro di Berlino, e L’Europeo ha dato il via a un viaggio itinerante su quelle colonne di cemento armato, attraverso vite spezzate, unioni ritrovate e quotidiana convivenza con un universo contrapposto.

No, non si tratta del solito stucchevole revival di ciò che fu, intriso di quella inutile nostalgia dietrologica che spesso produce più danni che benefici. Ma attraverso reportage di illustri firme (Montanelli, Fallaci, Stille, Cancogni, Bocca, Vertone, Valentino, Monicelli, Pannunzio, Benedetti) corredati da memorabili servizi fotografici di Capa, Garrubba, Toscani, Fusar, si è inteso descrivere il muro e il mondo che determinò dal suo anno zero, da quando venne aperto il primo pertugio, a ritroso sino alle cause della guerra fredda, sotto il comune denominatore del concetto di libertà. “Il” concetto, l'elefteria, liberté, Freiheit, freedom, libertad, quell’affascinante e spericolata sensazione che fa vibrare le menti, volare i pensieri, spaziare le idee e gli animi in completa assenza di gravità.

Anche grazie a chi in quei frangenti ha respirato l’aria del muro, le sue polveri, le prime percezioni di gioia miste a incredulità e a voglia di ripartire. Ma cosa è stato il muro? Franco Venturini, firma del Corsera, intervenuto alla presentazione del numero speciale de L’Europeo al Goethe Institut assieme a Daniele Protti, lo ha scansionato in tre rappresentazioni. Ovvero un monumento alla prigione dei popoli («perche`impedisce il confronto e lo scambio tra le genti, di muri ce n’erano in tutto l’est»); all’isolamento economico («l’unica cosa che lo scavalcava erano le onde televisive, impossibile erigere un muro nell’aria. Fu un monumento all’autarchia sovietica che lo indebolì dal suo interno»); all’irriformabilità del sistema («impediva ai cittadini di vedere cosa ci fosse al di là del cemento, quali abiti indossassero, quali auto guidassero, quali e quante industrie meno inquinanti funzionassero»).

Tre elementi caratterizzanti che trovano la sintesi in un aspetto niente affatto secondario: gli studenti della Germania est scesero in piazza manifestando, evento che a Berlino est non si verificava dal '53 rammenta Venturini, in quei giorni e per i successivi tre mesi, inviato nella capitale. Fu uno choc per le istituzioni, che chiesero a Mosca di far muovere i trentamila uomini di stanza in Germania. Ma Berlino est non ebbe mai risposta, Gorbaciov si oppose a una prova di forza. «Proviamo a immaginare che cosa sarebbe accaduto - riflette Venturini - se l’uomo della Perestrojka avesse risposto da anziché niet, una guerra certa avrebbe avuto inizio».

È da quel niet che bisogna ripartire per comprendere l'essenza per nulla scontata del muro. Non solo storia, ideologie, culture che da quel momento subirono un incrocio e una fusione improvvisa e per tanto auspicata, ma vera e propria commistione umana, incontro salvifico, o ricongiungimento di un popolo in fondo sì diviso ma pur sempre in contatto metafisico. In un articolo del 1989 firmato da Saverio Vertone che vale la pena di riprendere, si percepisce il senso dell`apertura di quelle paratie: «e così dai buchi iniziali - si legge nel reportage apparso sul n.47 de L’Europeo - in principio cinque, poi sette, presto innumerevoli come le strade che univano e torneranno a unire i quartieri dell’antica capitale, insomma prima delle falle aperte, anzi delle chiuse alzate, e poi colabrodo del Muro, la Germania orientale ha cominciato a sprizzare, a sgorgare, a scorrere, a scrosciare nella Germania occidentale, vale a dire nell’unica Germania, nella vera Germania, nella Germania del passato e del futuro. E l’ha allagata. Ora le acque sono mescolate, la povertà sudamericana portata con dignità degli orientali e la ricchezza supereuropea, che nasconde una potenza tecnologica per il momento non ancora arrogante, degli occidentali si sono abbracciate e incastrate nell’immobilità dei motori. Non sarà facile separarle. Anzi, sarà impossibile».

Sprizzare, sgorgare, scorrere, scrosciare, tutti termini che concretizzano oltremodo il flusso di spostamento inclusivo non solo delle genti ma dei loro pensieri, delle paure, delle proposizioni future che quelle falle aperte hanno plasticamente incentivato e spronato alla concretizzazione. Sino ad allagare, con questo flusso imponente, il solo paese che ne rimaneva, l’unico alveo per le genti tedesche, la sola Germania unita. Il luogo del passato ma soprattutto del futuro, luogo di quella libertà che, diceva don Chisciotte della Mancia, «è il bene più grande che i cieli abbiano donato agli uomini».

lunedì 8 giugno 2009

La politica e quella voglia di prendere il largo...

da Ffwebmagazine del 08/06/09

Tutti di nuovo in aula, la ricreazione è finita. Come non condividere il richiamo del vertice di Confindustria a mettere da parte la parentesi elettorale, per tornare “imprenditorialmente” a occuparci di progetti e cose concrete, spinti da quell’entusiasmo e da quella carica emozionale in assenza delle quali si forgiano cristalliere drammaticamente vuote, castelli principeschi dove all’interno troneggiano solitudine e rassegnazione. È un monito rivolto a un’ampia platea: alla classe politica, che si è intestardita in una campagna elettorale “incarognita”, volendo rammentare uno dei recenti epiteti quirinaleschi; alla stampa, a volte distratta da dibattiti fuorvianti e pericolosamente inutili; e forse anche ai cittadini, spesso trincerati dietro la comoda insussistenza di alcune istituzioni, che li legittima al disimpegno, “tanto va tutto male”.

La campanella che segna la ripresa delle lezioni, invece, è stata suonata al momento giusto da Emma Marcegaglia, che non a caso ha scelto il primo giorno utile per votare. Come dire, vi ho avvisati, tutti, altre ventiquattr’ore di tempo e poi basta. Basta al muro contro muro, basta con i manifesti sempre più offensivi e sempre meno comunicativi di qualcosa, basta con le tribune politiche urlate e insultate, basta con i comizi senza programmi, basta con lo screditamento automatico (la nuova frontiera del dibattito sprovvisto di idee, che prevede il divieto assoluto di fare proposte e pensare soluzioni, ma contempla l’obbligo del “no” a priori condito da una sana delegittimazione dell’avversario). Insomma, mettiamo un punto e voltiamo pagina.

Certo non sarebbe saggio mettere anacronisticamente in secondo piano la valenza di questa tornata elettorale, non solo interna, (con i risvolti equilibristici delle amministrative), ma soprattutto esterna ai confini nazionali, con il rinnovo di un Parlamento europeo finalmente munito di stipendi standard, dal momento che proprio l’Europa (ma anche questo lo si sente da anni) rappresenta un nodo cruciale per i destini delle singole economie. E qui sarebbe utile aprire una riflessione sul ruolo dell’istituzione comunitaria, sugli sforzi compiuti e da compiere per implementarne efficacia e risolutività. «L’Europa non è un tesoro che va scoperto - ammoniva Zygmunt Bauman - ma una statua che deve essere scolpita». Ma è un passo che andrà fatto assieme agli Stati membri.

Il punto adesso è che dalle Alpi a Pantelleria sembra si stia diffondendo uno strano virus, che affonda le menti e svilisce i cuori. Quello della campagna elettorale perenne, che dura dodici (e sovente anche tredici) mesi all’anno, nella quale proliferano slogan prestampati, promesse assurde, attenzioni improvvisate a dettagli insignificanti (come i blog di alcuni candidati, rigorosamente disabitati già dal giorno successivo alla proclamazione) e che non rappresentano un investimento né per la politica né per gli elettori. Semplicemente perché sono fasulli, vuoti, freddi, e non hanno invece al loro interno il seme germogliato della “buona politica”, quella viva, fresca, che progetta a lunga scadenza, che trasforma i boccioli in fiori rigogliosi, che forgia cervelli e anime sociali, che risponde “presente” alle esigenze sempre più cangianti di un paese desideroso di attenzioni ed effusioni vere.

Passione, quindi, e soprattutto voglia di rimettere in moto menti e idee, perché il paese non può nutrirsi esclusivamente di campagne elettorali, di contrapposizioni eterne figlie di bandiere e schieramenti. I problemi sul tavolo rimangono drammaticamente irrisolti. Gli ammortizzatori sociali spesso non sufficientemente efficaci, il fotovoltaico e l’eolico in colposo ritardo, i trasporti collassati e sotto la media europea, il Mediterraneo non sfruttato adeguatamente (dal punto di vista culturale ed economico), l’ambiente ancora sfregiato con il 40% di acqua dispersa dalla rete idrica. Appunti che non possono essere solo trascritti su programmi e dichiarazioni di agenzie, ma devono essere tradotti rapidamente in atti, potendo contare su iniziative forti, insomma volendolo veramente.

«Se vuoi costruire un’imbarcazione non preoccuparti tanto di distribuire il lavoro tra gli uomini, vedi piuttosto di risvegliare in loro la voglia del mare», diceva De Saint- Exupery. Beh, l’auspicio è che dal prossimo martedì, a urne svuotate e a schede finalmente scrutinate, la “voglia del mare” ritorni al centro del dibattito e non in attesa che giunga, come un invitato sgradito, la prossima campagna elettorale (ricordiamo che tra un anno esatto ci sono le regionali), ma per rimettere in moto un sistema che procede a singhiozzo e che non è scansionato da quei rintocchi che servono realmente, ovvero obiettivi da raggiungere e progetti da realizzare.

venerdì 5 giugno 2009

Contro gli amarcord, provvediamo alla “fame futura”




Da Ffwebmagazine del 05/06/09

«L’uomo - diceva Hobbes - a differenza dell’animale provvede anche per la fame futura», testimoniando una sua propensione naturale al nuovo e all’innovativo. Sembra però che negli ultimi tempi si sia imboccata una certa inclinazione al conservatorismo in taluni ambiti, che non può che suscitare perplessità e punti interrogativi mentali, se rapportato alle esigenze cangianti e moderne. C’è forse chi ha paura del domani e di quello che le scelte di oggi potrebbero determinare? Magari fosse così, almeno vorrebbe significare l’esistenza di un minimo di programmazione e di lungimiranza, che al momento latita.
Sembra invece che da più parti si inneschi il messaggio del voler vivere alla giornata, concedendosi il lusso estremo di riprendere di tanto in tanto spunti e costumi del passato.Colpa delle paure dettate da un’inclinazione all’incertezza e da una congiuntura di eventi che tolgono il senso dell’orientamento? Può darsi, ma forse c’è da chiedersi come mai in un frangente di difficoltà si preferisca ripiegare nelle retrovie, o per usare una metafora calcistica difendere lo zero a due in casa, così da evitare una debâcle.
È questa la strada da seguire? È in queste insenature decisionali che si scopre l’uovo di Colombo che consente di attaccare il domani, magari cercando anche di vincerlo? No, non sarà la difesa a oltranza del recinto che indurrà all’ottimismo, non sarà per merito di qualche conquista passata che si otterrà un’iniezione di energia utile per progredire.Tutt’intorno si registra un pullulare di rivisitazioni, ricordi, frammenti, manifestazioni legate a ieri e non a dopodomani. Ad esempio, è sufficiente scorrere i programmi estivi di alcuni Comuni italiani che riservano, giustamente, grande attenzione a eventi lontani nel tempo, senza però manifestare eguale sforzo (in termini di iniziative) per pensare a come sarà quella stessa comunità fra cinquant’anni.
Medesimo scenario in alcuni accadimenti legati ai costumi della società, che rischia di ergersi a paladina del falso amarcord, così come annotato sul Corriere Magazine da Isabella Bossi Fedrigotti, ovvero il buontempo andato che sembra oggi più in auge: la messa in latino proposta dalla Chiesa, il dialetto tanto caro alla Lega che la compagine padana vorrebbe prepotentemente inserire come materia di studio, la moda che rispolvera gli anni Quaranta, addirittura la cucina che si impantana nella rievocazione stucchevole dei metodi che furono. E si potrebbero aggiungere le rivisitazioni metodologiche dell’insegnamento e tanto altro. Sì, ma poi? E le proposte? Le iniziative? Le scoperte? Le nuove immaginazioni?
Tutte testimonianze care di un’Italia passata, della società di ieri, di un mondo che non c’è e che non ritornerà, che ci piaccia o no. Il punto è focalizzare attentamente quella sottile linea tracciata dalla storia e dai modi di essere. Le conquiste, i diritti acquisiti, le peculiarità dei singoli appartengono al bagaglio socio culturale e come tale devono essere giustamente metabolizzati, ma non quotidianamente richiamati alla mente per declinare le scelte future.
Perché si rischierebbe di perdere di vista i parametri di attuazione reale di quelle scelte. Oggi è irrinunciabile interrogarsi sulla mancanza di una declinazione futura, che invece sarebbe auspicabile semplicemente perché senza di essa si rimarrebbe fuori da tutto.La spinta al domani, scavalcando gli steccati, gettando ponti anziché erigere barriere, sarà inoltre tanto più utile se sarà concepita in una fase difficile come questa, in quanto è proprio nei momenti bui che si accende quella fiamma propulsiva che si rileva utile per guardare avanti.

Diceva il Generale De Gaulle «lasciate che gli eventi si rivelino difficili, il danno incombente, che la salvezza generale richieda improvvisamente una iniziativa. Una sorta di onda di marea spingerà in primo piano l’uomo di carattere». Quante volte abbiamo riflettuto su cause ed effetti della crisi economica, su una società che vede sempre allontanarsi la meritocrazia, su una classe dirigente sovente distratta e propensa all’autocelebrazione? Senza però fare uno sforzo vero per andare oltre quegli stessi stereotipi di cui non ci fidiamo e che vorremmo cambiare. È questo il momento buono per compiere una maturazione globale, e non solo all’interno delle classi dirigenti e degli addetti ai lavori, ma anche all’interno del sentire comune dei cittadini. Che ogni giorno si trovano prigionieri in una sorta di limbo surreale, in sospeso tra un passato sterile e un presente spesso fasullo.
Il sociologo francese Maffesoli solo pochi giorni fa ammoniva che «la nostra specie animale dovrebbe reperire parole pertinenti per dire ciò che pensa». Chiaro il riferimento a uno stato umano sprovvisto della modalità di esprimere correttamente emozioni, sensazioni, paure, sogni, sempre più distratti o forse colpevolmente rifugiati in quella modernità apparente che produce un universo fasullo, come i reality, la tv spazzatura, certi falsi miti, dopo quali gli uomini si ritrovano a fare i conti con se stessi e con i propri errori.
Per questo bisognerebbe riempire di contenuti innovativi i contenitori di oggi, preparandoli a contenere i contenuti di domani.E vale la pena di citare una frase di Bob Dylan: «Essere giovani significa tenere aperto l’oblò della speranza anche quando il mare è cattivo e il cielo si è stancato di essere azzurro».
Menti e animi giovani servono a questo paese, per guardare oltre, per liberarsi non del proprio bagaglio storico e culturale che ormai appartiene al dna di ognuno di noi, ma per staccarsi da concezioni vecchie e stantìe che, avvitandosi pericolosamente su se stesse, evitano accuratamente di lasciare che i pensieri corrano al domani, che le idee si riproducano in una libertà feconda e funzionale, che le professionalità si concentrino sulle nuove scoperte, insomma che gli uomini provvedano «alla fame futura».