giovedì 17 giugno 2010

Meglio il rumore del silenzio. E allora, forza vuvuzelas!


Da Ffwebmagazine del 17/06/10

Chi ha paura delle vuvuzelas? Troppo rumore, dicono i suoi detrattori. E distraggono dalle preziose indicazioni degli allenatori, aggiungono gli addetti ai lavori dai campi di calcio dei Mondiali. Addirittura si registrano appelli in prima pagina postati da illustri critici televisivi, che magari potrebbero concentrarsi su altre emergenze (vere), come i prossimi palinsesti Rai che, si dice, verranno “alleggeriti” di mille ore di news. Ma questa è un’altra storia.

Forse non tutti sanno, per tornare al tema, che le vuvuzelas non sono solo «le fastidiosissime trombette, noiose come uno sciame di zanzare inferocite, che non appartengono al repertorio zulu». Ma rappresentano qualcosa di più: il suono che secondo la tradizione locale incarna il soffio di Dio. E poi vennero utilizzate in occasione delle manifestazioni contro l’apartheid. Era esattamente il pomeriggio di 34 anni fa, il 16 giugno del 1976, quando un gruppo di ragazzi, per lo più adolescenti, manifestò nella piazza di Soweto per reclamare un diritto tanto semplice quanto raro da quelle parti. Gridavano il loro no alla segregazione razziale, mica protestavano contro la kebabberia appena aperta sotto casa. Erano diecimila, e la loro marcia venne scandita dal suono delle vuvuzelas. Ne morirono centocinquantadue, negli scontri con le forze dell’ordine; l’anno successivo altri settecento fecero la stessa fine. E così il governo fu costretto ad annullare l’assurdo insegnamento dell’afrikaans nelle scuole frequentate solo da neri.

Quel giorno, con quei sacrifici, quelle urla e, perché no, con quelle vuvuzelas, segnò una tappa decisiva nella lotta anti-apartheid. Per questo, quando qualcuno scrive che «se il Sudafrica di Mandela si fa conoscere in tutto il mondo per il ronzio stordente delle vuvuzelas significa che qualcosa non ha funzionato», non fa solo un torto ai sudafricani, ma anche al resto del mondo che invece proprio con quel suono, vuol manifestare il proprio dissenso. Vuole alzare un dito e dire la propria, esprimendo contrarietà, azzannando l’apatia, rompendo la monotonia dei pensieri. Quella struggente patologia che sembra infilarsi negli interstizi dei pensieri va contrastata con uno strumento facilmente reperibile, per nulla costoso e che non necessita di un particolare requisito: esiste già in natura e si chiama rumore.

Il rumore incarna il dissenso, dà corpo alla vivacità. Esprime in tutta la sua forza dirompente la non-assuefazione, è segno di materia grigia che reagisce e che non si abbandona supinamente allo status quo, o a quello che passa il convento, o al vento che in un preciso momento soffia in una determinata direzione. Ma fa qualcosa di più, e di meglio. Si sforza di virare, di influenzare, di corroborare o di criticare, apertamente e senza timore. Nella consapevolezza che il silenzio, invece, racchiude dentro di sé elementi di negatività: l’abbandono delle idee, il vuoto omertoso, la chiusura a riccio, il mutismo delle menti. E allora viva le vuvuzelas, perché sono vive, perché veicolano un messaggio multicolore, di rottura. Perché come diceva Luigi Einaudi, «l’idea nasce dal contrasto».

mercoledì 16 giugno 2010

Un anno fa, l'Onda iraniana. Adesso non lasciamoli soli


Da Ffwebmagazine del 16/06/10

A un anno dalla rivoluzione verde sbocciata nelle strade di Teheran e a un anno dal sacrificio di Neda, il mondo si interroga. E si interroga su cosa abbia rappresentato quell’esperienza, su come foraggiarla e su quali basi far muovere l’azione della comunità internazionale. Forse non a tutti sono chiari i contorni di questo movimento e più in generale le caratteristiche di una stratificazione socio-culturale vogliosa di emergere. Il 60% degli studenti iraniani è di sesso femminile; donne sono anche il 50% degli scrittori del paese. Si registra una vitalità femminile che andrebbe incoraggiata e promossa, anche dall’Europa.

La questione iraniana ha di fatto cambiato gli assetti geopolitici, l’etica, il linguaggio della narrazione di giovani vite scese in piazza per manifestare. E per riaffermare la propria libertà. Dodici mesi dopo ci sono due rischi: che sbagliando diagnosi, si sbaglino strategie, analisi e provvedimenti. E che ci si faccia distrarre dalle questioni finanziarie legate alle risorse di quella porzione di mondo, senza curarsi delle speranze di un popolo di studenti spruzzati di verde.

Difficile che le sanzioni approvate dall’Onu qualche giorno fa potranno realizzare quello che l’Onda non ha completato. Lecito porsi quesiti, ma con la consapevolezza che il problema della libertà degli iraniani non vada affrontato per “compartimenti stagni”, per dirla con le parole di Benedetto Della Vedova, ma si interfacci con una molteplicità di eventi e considerazioni. Il pensiero va alla nave dei pacifisti (?) attaccata da Israele, al dossier Libia che “andrebbe maneggiato con più delicatezza” e al mancato ruolo dell’Unione europea. Difficile pensare che un paese dove si impiccano gli omosessuali e i dissidenti spariscono nel nulla possa temere sanzioni che, nei fatti, non sembrano poi così dure. Per giunta stemperate da una posizione di traverso della Turchia (era nel rischio delle cose) e del Brasile, vera sorpresa degli ultimi giorni. Rileggendo le ultime note di cronaca, il compromesso raggiunto prevede che l’Iran potrà far arricchire all’estero una piccola porzione di uranio, 1200 chili, e dal territorio turco riceverà uranio già raffinato.

Sul contesto generale hanno influito non poco i fatti di sangue della Freedom Flotilla dello scorso 31 maggio, con nove vittime, a seguito dei quali molte iniziative sono state annunciate: il primo ministro turco Erdogan ha minacciato di ridisegnare i rapporti commerciali e militari con Tel Aviv; Ahmadinejad da Istanbul ha chiesto una prova di fedeltà alla Russia, sventolando un countdown «della distruzione contro il falso regime sionista di Israele». In questo contesto l’Onu ha deciso di intraprendere la strada delle sanzioni, ma non si sa fino a quando si potrà parlare di sanzioni, perché in realtà non si tratta di obblighi ma di consigli. L’unica imposizione riguarda il non poter acquistare armi pesanti come missili ed elicotteri. Sul fronte commerciale il “consiglio” delle Nazioni Unite è quello di prevedere ispezioni a bordo di navi e aerei iraniani. Si dice che a Teheran potrebbero facilmente ovviare a questo provvedimento, cambiando nomi e bandiere ai cargo.

Altro consiglio, quello di sospendere temporaneamente le transazioni già in atto con le banche. Nessuna notizia, invece, sull’importazione di benzina. Dettaglio che apre più di un’ipotesi, sul fatto che il pacchetto di sanzioni dell’Onu siano poca cosa. Tra l’altro il portavoce del ministro degli esteri iraniano, Ramin Mehman Parast, ha detto che le sanzioni non giungeranno ad alcun obiettivo, sostenendo che l’Occidente non può pretendere che un «membro del Trattato di non proliferazione nucleare rinunci ai suoi diritti», sviluppando un pacifico programma nucleare.

Altra nota dolens, il ruolo dell’Europa. Catherine Ashton, alto rappresentante della politica estera dell’Unione, a 24 ore dall’approvazione delle sanzioni si è lasciata andare un: «Se l’Iran volesse ancora venire a parlare con noi…». Manifestando quantomeno una stravaganza diplomatica non solo personale, ma più in generale dell’intera Ue. Non sarà con tale timidezza che si bloccheranno le bombe e le repressioni del regime iraniano. Non è con azioni generiche ed ispirate dalla logica dell’emergenza che si offriranno sponde efficaci al movimento dell’Onda.

Come impedire, dunque, che quell’esperienza non venga ridimensionata? Nessuno potrà escludere a priori fasi carsiche, con interruzioni fisiologiche e con un successivo moto di ripresa. Ma, ad esempio, pochi avrebbero scommesso che il regime degli Ayatollah avrebbero potuto contare oggi su di un alleato inaspettato, il Brasile. L’Onda, allora, va ingrossata, coccolata, diffusa. Perché rimane l’unica via iraniana per la democrazia e l’Ue ha l’obbligo morale e politico di sostenerla, difendendola dai tentativi di delegittimazione. Lo scorso 12 giugno i giovani iraniani all’estero hanno manifestato in tutte le principali capitali del pianeta: per dare un segno, per far sventolare un colore, il verde della speranza, il verde dell’Onda. Non lasciamoli soli.

martedì 15 giugno 2010

La parità non può essere solo nei doveri


Da Ffwebmagazine del 15/06/10

Donne e innalzamento dell’età pensionabile: il problema non è solo nel merito, quanto nel metodo e nel contesto in cui è attuato. Per dirla con le parole di Flavia Perina, direttore del Secolo d'Italia e parlamentare del Pdl, a fronte di un adeguamento a livelli pensionistici europei, ci siano anche livelli di vita e parità di condizione europei. La proposta di parificare con quella degli uomini la pensionabilità delle donne italiane nel pubblico impiego apre l’ennesimo ragionamento sulla contingenza. Perché, al momento, ci si trova dinanzi una condizione economica difficile, per cui urgono interventi radicali e rapidi. Ma se sulla questione si fosse iniziato a confrontarsi in tempi utili, ci sarebbe stata l’opportunità di una maggiore gradualità.

Al di là del fatto se sia condivisibile o meno far lavorare tutti di più - e oggi forse è una strada obbligatoria - sono mancati i cuscinetti che armonizzassero decisioni drastiche. Le donne italiane non vivono come quelle europee, questo è un dato di fatto. Non godono degli stessi servizi, delle medesime infrastrutture, per non parlare dell’immagine sociale e della cultura di approccio, non solo nelle relazioni umane ma anche e soprattutto professionali. Come la possibilità di accedere ai posti di comando della pubblica amministrazione, o dei cda di aziende quotate, o nei cosiddetti posti di potere, dove la percentuale italiana è ancora troppo bassa.

Si pensi che in questi giorni il governo di Angela Merkel sta discutendo se includere gli asili nido all’interno dei diritti delle donne. Lontana l’Europa. E, allora, visto che le donne sono il terminale della cultura nazionale italiana (in quanto mogli, mamme, lavoratrici), che si preveda una sorta di riequilibrio. Il pensiero corre a interventi sull’Irpef, a sgravi fiscali, a enti locali che provvedano con asili municipali alle esigenze delle famiglie. Ovvero misure che armonizzino il sistema complessivo, scrostando quel velo di iniquità che esiste. Sì a detrazioni agevolate, iniziative fiscali e sociali, ma che non si continui solo a chiedere alle donne, senza proporre misure che ridefiniscano diritti e doveri. È altrettanto chiaro, però, che una razionalizzazione del mercato del lavoro e delle finestre pensionabili, sia a questo punto indispensabile. Perché allora non utilizzare quei soldi che con l’innalzamento si risparmieranno, per politiche a vantaggio delle donne? Sarebbe la risposta migliore, di una politica che giustamente si trova costretta a guardarsi attorno, attivandosi in tutti i settori. Ma che al momento dovrebbe fare un passo in più, affiancando al rigore anche un minimo di iniziativa.

Capitolo a parte meriterebbe l’immagine femminile nel suo complesso, che accusa ancora una posizione di svantaggio in Italia. Basta dare un’occhiata ad una pubblicità che reclamizza cibo per cani, i cui manifesti affissi sul lungotevere romano ritraggono una donna nuda. Che poco o nulla di attinente ha con il prodotto in questione. Il gap quindi con l’Europa è soprattutto culturale, dove le intersezioni sociali al di sotto delle Alpi appaiono ben ancorate a un certo stereotipo della donna. Per questo, la parificazione con l’Ue andrebbe fatta non solo sull’età pensionabile, ma anche nel campo dei servizi e della considerazione mentale. Non c’è dubbio inoltre che la condizione femminile sia cambiata radicalmente negli ultimi cinque lustri, a causa dell’allungamento dell’età, dei lenti progressi di carriera, dove fra l’altro si sconta ancora un ritardo atavico rispetto alle opportunità che gli uomini hanno. Certo, l’innalzamento dell’età pensionabile delle donne nel pubblico impiego, può essere utile in prospettiva di un reinserimento ma, è la critica che hanno trasversalmente mosso Emma Bonino, Flavia Perina, Linda Lanzillotta, Fiorella Kostoris, Maria Ida Germontani e Pina Nuzzo, sarebbe servita maggiore gradualità.

Palese poi, come oggi, dinanzi a una crisi di questa portata e a un’emergenza impellente come gli indici dei debiti pubblici e la mancata crescita dimostrano, la risposta dello Stato non può che essere immediata e tarata sulla contingenza. Accade che la politica - sbagliando - proceda spesso per compartimenti stagni, senza preoccuparsi di dialogare con tutte le componenti, avviando un’iniziativa globale. Quasi smarrendo l’esigenza di interconnettere le proprie azioni, ed evitando in questo modo disomogeneità e squilibri. Ma allora quando verrà il tempo di una politica che non si faccia prendere in controtempo dagli eventi, e che ragioni ad ampio respiro, anziché farsi risucchiare da dinamiche non sufficientemente previste?

sabato 12 giugno 2010

Quando destra e sinistra non significheranno più nulla


Da Ffwebmagazine del 12/06/10

Se e quando l’originaria architrave della politica, in sospeso tra artificio e natura, sarà consumata; se la politica saprà intrecciarsi attorno ad altre ellissi sociali, solo allora destra e sinistra non significheranno più nulla. Termina così Carlo Galli, docente di storia delle dottrine politiche all’Università di Bologna, il suo pamphlet Perchè ancora destra e sinistra, un’indagine genealogica attuata con gli strumenti e le categorie di una filosofia che si spinge, a ritroso, in un viaggio fino alla radice delle due entità. Sostiene che le due categorie oggi sopravvivono non per la permanenza dello spazio politico moderno assieme al quale si sono formate, ma perché al loro interno ci sono ancora una forza ed un problema «che è qualcosa di più che non l’eco di un Big Bang originario».

Entrambe interpretano, secondo Galli, elementi originari e ineludibili della modernità: così non si potrà dire che una è falsa politica, l’altra vera, «perché l’indeterminatezza della politica e la sua contingenza costitutiva, non lo permettono»”. In questa analisi complessa fa riferimento a varie destre, diverse, alcune che si sono rispecchiate con la modernità, altre accartocciate al loro interno; alcune economiche, altre politiche. Incubando così i germi di quelle che sarebbero diventate le destre successive. Non solo passatiste, conservatrici o reazionarie, ma anche avanguardiste, futuriste, anarcoidi, liberiste. Testimoniando un’estrema vivacità nel diciannovesimo e ventesimo secolo, spesso in contrasto fra loro. E prosegue i suoi rilievi raffrontando tali destre ad elementi diversificati come popolo, religione, economia, individuo. Analoga analisi, poi, per le sinistre degli ultimi duecento anni.

Galli definisce destra e sinistra come due forme di pensiero moderne, in quanto molto divergenti. Aperte, ma diversamente, alla contingenza. Tentate dall’effetto necessità. Non condivisibile appare però quando l’autore sostiene che «se anche si può pensare in teoria, oltre la destra e la sinistra, la pratica lo impedisce, ed è proprio la presenza o l’assenza della centralità della politica del soggetto e della sua uguale dignità a fare la differenza».

Si dice inoltre certo che la democrazia senza aggettivi «non può non essere l’obiettivo di forze variamente orientate a sinistra». La democrazia delle destre sarebbe invece sempre caratterizzata da protesi di complemento: di mercato, nazionale, protetta, cristiana, autoritaria. Ma chi l’ha detto che la destra italiana non può epitetarsi come democratica e basta, e dovrebbe necessariamente essere corroborata da un sostantivo che la identifichi? Quando nel libro si accenna che la destra è per la sicurezza nel senso poliziesco dell’ordine pubblico circa l’immigrazione, non si tiene conto di altre posizioni dialettiche che, ad esempio, non condividono la repressione - come dimostra il fallimento delle ronde - ma spingono per un’integrazione armonizzata. O quando si accenna al fatto che la destra è per il rischio nell’economia, non si considera che non tutti a destra credono ad una pura anarchia incontrollata del capitalismo, che mortifichi ad esempio le fasce più deboli della popolazione.

Inoltre non convince quella netta definizione di competenze e modalità di azione che si scorge nelle conclusioni. Dal momento che il panorama interno ed esterno al paese si è evoluto, circa esigenze e comportamenti. E allora, pur certificando il certosino impegno storico, ciclicamente letterario-filosofico che si evidenzia nella ricostruzione, forse si potrebbe accennare ad uno spunto di proposta, nell’aggiungere al titolo originario un punto interrogativo finale, Perché ancora destra e sinistra?. Non più, quindi, solo per declinare correttamente modalità e percorsi del cleavage destra/sinistra, quanto piuttosto per guardare oltre gli steccati che delimita(va)no i due ambiti. E che oggi, a partire da moltissimi temi di rilevanza trasversale, non hanno motivo di esistere. Chi può dire con certezza che oggi l’ambiente sia un argomento caro alla sinistra? O che la sicurezza sia ad esclusivo appannaggio della destra? E se sì, di quale destra e di quale sinistra? E soprattutto quale sicurezza?

Ecco che la conclusione del volume posticipata da Galli in un futuro lontano, si sta invece avvicinando sempre più alla stretta attualità, in modo pragmaticamente oggettivo. Perché, nella società che si trasforma rapidamente, con la globalizzazione, con i social forum, con tecnologie che irrompono nel quotidiano, con battiti di ali di farfalle che riecheggiano dall’altro lato del pianeta, vi sono battaglie da portare avanti senza un’etichetta identificativa. Si pensi alla legalità, alla green economy, alla salvaguardia delle fasce più deboli: su quali principi stabilire cosa appartiene a chi nella politica di oggi? Semplicemente destra e sinistra non conserveranno le forme attuali, stanno già cambiando, si sono già, seppure solo in parte evolute. E non sarebbe saggio tornare indietro.

Warsan Shire: «Diamo voce a chi non ne ha»


Da Ffwebmagazine del 12/06/10

Le sue poesie non sono ancora tradotte in italiano, qualche assaggio della sua penna lo si deve alla rivista Lo Straniero. Ma il popolo, non solo somalo, della rete conosce Warsan Shire per la sua costanza. Quando insiste nel parlare di Africa, di guerra, di dolori, di sconfitte, di cose reali. E non per un velo di pessimismo forzato, ma per «dare voce a chi non ha voce», per raccontare quello che accade in zone lontane, di cui si odono bisbigli che invece sono grida. Nata in Kenya da genitori somali in fuga dalla guerra civile, Warsan vive a Londra da quando aveva sei mesi. Oggi, ventidue anni dopo quella fuga, dà spazio a storie di diseredati e incompresi.

Pur vivendo a Londra da piccolissima, ha un forte legame con la sua Africa. Come lo coltiva?
Se osservo le mie radici, non mi sento una cittadina britannica ma africana ed è quella la mia identità. Prima di tutto sono somala e mi sforzo di coltivare questo status con il legame familiare, con il cibo, con le tradizioni e le usanze. Rivendico il mio essere africana, è una cosa che non passa inosservata e cerco di portarla innanzi con orgoglio.

In alcuni dei suoi versi, parla di asilo e di confini: cosa rappresentano questi due concetti?
I miei genitori sono stati prima migranti, mio padre è un esiliato politico da molto tempo. Io stessa sento di appartenere a una casa in cui non sono mai stata. Quindi, anche se non ho fatto alcuna esperienza diretta in quei luoghi, come i campi profughi, comprendo perfettamente il significato di quelle due parole.

Sul suo blog ha scritto «non ho mai trovato bella la bellezza, mi piace cercarla». Perché non le piace? Perché può essere fonte di dolore, o perché pensa sia fuorviante?
Forse la gente si aspetta sempre che i poeti parlino solo di cose belle, di fiori o di elementi soavi e pieni di grazia. Invece penso che, per il luogo dove sono nata, io debba parlare da una piattaforma differente. Dove io possa dare voce a chi non ha voce, parlando magari di cose brutte, inaccettabili ma reali, di cui la gente o si è scordata o non riesce più a parlare.

Molte sue storie affrescano il dolore delle donne che, dice, nonostante tutto continuano ad amare. Chi dà loro questa forza?
Personalmente, ma non solo io, percepisco le donne africane come eroiche. In questo contesto, tra l’altro, si è sedimentato il mito di “mamma Africa”, ovvero una donna che nonostante angherie e prevaricazioni, riesce non solo provvedere al benessere della famiglia, ma anche a farsi carico di tutti gli altri problemi. Tengo molto a dire che le donne citate nei miei pensieri, devono sì continuare ad amare ma soprattutto ad essere amate.

Italia per voi somali vuol dire dominio coloniale ieri, ma tante storie di speranza oggi: come vede il nostro paese?
È la prima volta che lo visito e non conosco nemmeno l’esperienza dei somali che arrivano per via dei flussi migratori. Ma posso dire che già dalla lingua si vede se c’è la vicinanza, che prima era coloniale e oggi dovrebbe essere un qualcosa di diverso e visibile. Non c’è abbastanza consapevolezza da entrambe le parti, forse ancor di meno da parte degli italiani. Mi auguro che vi sia più dialogo, sia sulla storia che ci ha interessati, sia sulle connessioni che abbiamo, dal momento che siamo due popoli legati l’uno all’altro. Ricordo che mia madre, quando da bambini ci rimproverava, lo faceva in lingua italiana. E la lingua credo sia qualcosa di fondamentale per una cultura.

Quanto l’ha influenzata la figura di suo nonno, il poeta Cabdulqaadir Xirsi Siyaad “Yamyam”?
Mia madre mi parlava sempre di mio nonno, un uomo gentile, dalla pelle molto scura, che faceva il veterinario. Ma ciò di cui più mi raccontava, perché era molto attaccata ai suoi genitori, era il forte legame esistente tra i nonni. Una storia d’amore infinita, sfociata in ventidue figli che lei gli ha dato. E lui non ha mai sposato un’altra donna, all’infuori di mia nonna. Più che un’influenza diretta di mio nonno, io ho vissuto la loro storia d’amore come un esempio. Nella mia testa è l’uomo nero perfetto.

Come si è inserita in quel patchwork che è la multiculturalità londinese?
È vero che la multiculturalità londinese esiste, e me ne rendo conto quando vado altrove. Però è anche un po’ stereotipata. Ho notato che all’interno dell’industria culturale, loro tendono a impacchettare prodotti multiculturali, per cui mi sono spesso trovata in contesti specifici per il solo fatto di essere somala. Non dico che non sia una realtà, ma dal momento che non tutti i somali fanno poesia, quegli artisti che ci sono rientrano in quell’ambito solo perché hanno radici somale. Direi che Londra confeziona la multiculturalità, facendone un oggetto che si vende.

Ha detto di recente: «Scrivo perché la condizione umana non è semplice e a volte neppure bella». Possono la cultura, la musica, la rete e i blog sostenere un rinascimento dell’Africa?
Ho iniziato a usare la rete come modo per mantenere i legami e per condividere film, musica libri. A un certo punto ho provato a scrivere pensieri, poi le prime poesie e così si è composto il tutto. Internet è stato fondamentale, è la chiave del futuro, senza di esso dubito che sarei riuscita a pubblicare qualcosa.

mercoledì 9 giugno 2010

Quando lo Stato veniva prima di tutto


Da ffwebmagazine del 08/06/10

Una patria, se non è per tutti, non può essere di tutti. Ne Gli scritti politici Giuseppe Mazzini faceva così riferimento all’inclusione dei cittadini nel mondo produttivo. Valorizzando un aspetto, il lavoro, che è principio fondativo della carta Costituzionale e che si riallaccia ai dettati democratici e repubblicani presenti nel movimento risorgimentale. Quest’ultimo va ricordato ed approfondito alla luce di quella grande stagione su cui si basa il nostro essere Stato e nazione, il nostro stare insieme. E non, come ha osservato il presidente della Camera Gianfranco Fini, fatto oggetto di revisionismi fuorvianti e antirisorgimentali.

Ma come impostare oggi un’analisi serena e produttiva su Stato e nazione, alla vigilia di una celebrazione storica e culturale per il paese? Magari partendo da due figure strategiche della politica italiana. Che in frangenti differenti, ma con il medesimo senso delle istituzioni e totalmente rapiti dal rispetto per il bene comune, hanno contribuito ad un’impresa memorabile. Ricasoli e De Gasperi hanno rappresentato, nel merito delle singole azioni, due momenti di altissima politica, dove il concetto unitario di Stato era posto sopra tutto il resto. Dove era espressa una certa idea dell’Italia che rifugiava particolarismi ed isterismi, ma si concentrava sull’unità nazionale. Lontano da logiche municipali, quasi impostando l’amministrazione della cosa pubblica come se fosse il proprio podere e ,di conseguenza, profondendo energie e programmando scrupolosamente ogni mossa. Due direttrici che devono rappresentare un insegnamento per la politica di oggi.

Valori fecondi di Ricasoli erano quel binomio tra unità nazionale e libertà civile, tra progresso e rigore morale, tra identità culturale e laicità dello Stato. Egli partiva dal presupposto che la nazione c’è e su di essa va edificato lo Stato unitario. In una lettera al giurista Pasquale Stanislao Mancini, scriveva che l’Italia deve lasciare libertà alle province, ovvero alle diverse esigenze dei territorio, ma in un’ottica unitaria e non meramente centralistica. Predicava che scopo continuo di un governo è quello di garantire la massima felicità dello Stato. Dove il termine felicità si insinua dentro quel grande passo avanti che è stato il progresso civile della società alla fine dell’ottocento, senza forzare la dinamica dei tempi. Intese sviluppare la ferrovia, anche ad appannaggio di quei cittadini periferici che non si sentivano italiani. E fu la chiave di volta del suo impegno: unificare le province con infrastrutture e commerci. Una figura d’altri tempi, estranea alle manovre clientelari, non consumato ai sotterfugi della lotta politica, così come lo ha definito Francesco Paolo Casavola.

L’Italia dell’Assemblea Costituente, invece, è un paese diverso rispetto a quello del 1861. Vi era una guerra alle spalle, un tessuto socio-produttivo lacerato e da ricomporre. Ma in quella fase la nuova classe dirigente intese “riannodare i fili con l’Italia del Risorgimento”. De Gasperi disse che questo secondo Risorgimento della patria poteva riallacciarsi a quello nazionale. Nel suo interiore moto di passione, ritrovò le premesse per la nascita di una patria locale, con tradizioni espresse da un popolo libero, e che valeva come un arricchimento al contesto unitario. Affermava che si rendeva imprescindibile restaurare la libertà politica in un nuovo contesto sociale. Ma quelle convinzioni circa lo Stato andavano rafforzate nelle anime dei cittadini, senza però partire dalla divisione di classe. E non solo cancellando la linea di confine tra il pessimismo dei borghesi e l’ottimismo rivolto al proletariato. La nuova casa degli italiani doveva essere eretta su valori condivisi, nella convinzione che la coscienza morale della nazione poteva essere corroborata da quella religiosa, solo grazie al principio della laicità dello Stato.

Ponendo come punti cardinali la giustizia sociale e la pace futura, strumenti di stabilità temporale e garanzia in una visione europeista. Al pari della fase risorgimentale, quella degasperiana post conflitto bellico, fu caratterizzata dal tema della libertà e dall’esigenza estrema di unità. Definitosi “fanatico della democrazia”, lo statista trentino più volte invitò il popolo italiano a sforzarsi di camminare con le proprie gambe per instaurare un regime democratico e plurale. E l’ingresso delle masse popolari negli ingranaggi dello Stato presupponeva una formazione democratica adeguata: con i partiti, quindi, si promosse una statualità progettuale, garantendo la sicurezza della libertà come pregiudiziale. Ripeteva che per salvare la democrazia non vi fosse altra strada se non la libertà ed il rispetto delle regole di libertà.

Ricasoli e De Gasperi incarnano due grandi epoche della storia italiana e oggi conviene metabolizzarne lo spirito e non dimenticarne il valore socio-politico, per riuscire a disegnare gli scenari futuri. Quella classe dirigente, modello di onestà intellettuale e di esempio concreto per la cittadinanza, deve essere osservata con rispetto e riconoscenza. Senza utilizzare la storia per revisioni strumentali, o per anteporre logiche partitiche all’interesse nazionale. Solo in questo modo sarà possibile rendere omaggio a quelle menti e a quelle azioni, alla vigilia del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. Rafforzando il concetto di patria, modernizzando certe interpretazioni anacronistiche e aprioristicamente retrograde, strutturando il paese di modo che sia culturalmente e socialmente pronto ad accogliere le sfide, non del domani, ma di quelle contingenze che bussano già alle porte dello Stato e che spesso non vengono sufficientemente ascoltate.

lunedì 7 giugno 2010

Intellettualoni? No, uomini che pensano senza padroni


Da Ffwebmagazine del 07/06/10

Sacrilegio! Qualcuno prende il coraggio a due mani e dà la sveglia alla gente le cui menti continuano a incancrenirsi grazie a modelli fasulli e fuorvianti. Ma chi avrà mai osato tanto contro le analisi scontate dei vecchi parrucconi dell’intellighenzia italiana? Quale penna superba e dai contenuti astrusi si sarà resa protagonista di una rivoluzione copernicana letteraria, che non guarda in faccia a nessuno e che procede come un cane sciolto? Quella penna, apprezzata da un discreto numero di lettori, che gli sono valsi un Campiello e una finale allo Strega nel 2009, è però vista come misera e insignificante da un duro articolo de Il Foglio di un paio di giorni fa, dove ad Antonio Scurati viene imputato non di diffondere tesi sconvenienti, o di fomentare l’odio razziale, o di far stampare libri noiosi. Ma di scrivere con parole difficili, scordandosi così le cose semplici. Producendo in questo modo un filone modesto, senza il fedele sostegno di un correttore di bozze che intervenga per redimere e tagliare “ortografie fantasiose”.

E andiamo a vedere allora dove stanno le parole difficili che fanno dimenticare le cose semplici, così come viene epitetato da un fogliante. Dunque, Scurati ha più volte detto, in un impeto di supponenza degna di quei rompiscatole di intellettualoni che circolano in Italia negli ultimi anni, che il dramma dei giorni nostri è quello di sostituire al tragico l’osceno. A opera dei mezzi di informazione, che pompano adrenalina nell’inumano che è dentro ciascuno di noi, rendendoci di fatto sordi al dolore degli altri.

Oggi gli spettatori incarnano la singolare figura di moderni gladiatori, che relegano la ragione in un lato torbido e polveroso, issando gli istinti a metro di comportamento e di valutazione. Scurati- ma come si è permesso?- parla di un mare di violenza e disinibizione che “ingrossa ad ogni sigla di Tg”. In questo fiume carsico di immagine cinematografica in dieci D, la finzione viene pericolosamente venduta come realtà, producendo nelle menti e nei successivi gesti innegabili cortocircuiti. Esempio lampante -dice sempre quel pericoloso e tedioso intellettuale che parla difficile e non capisce le cose semplici- è dato dal magma invadente dei reality, riconosciuti come “la” casa o l’isola di tutti, anziché come una casa o un’isola che tali non sono, per via della presenza di telecamere h24, di storie da costruire o costruite, di un mondo che è qualcos’altro. Ma non ciò che sembra. Imitare la vita altrui, sostiene Scurati, non equivale a capire a fondo la nostra. E ciò in riferimento a quella dieta, o a quel ritocco estetico, a quel preciso capo di abbigliamento, anche se tutti lo indossano come tanti militari in fila che obbediscono ad un solo padrone, in una caserma linda e splendente di cera.

Nei suoi libri e nelle sue pericolose elucubrazioni, il nostro predica inoltre un ritorno all’umano e agli uomini, esortandoli a convivere all’interno di una società capace sì di utilizzare la tecnologia per favorire gli incontri, ma solo se poi essi si svolgano dal vivo, e non solo su di uno schermo al plasma. Una società che metta a frutto il proprio disincanto non per intestardirsi sull’episodio di cronaca rosa, ma per attingere il senso più intimo del non inginocchiarsi dinanzi ai potenti. «Ecco a che serve l’intellettuale», conclude Scurati in quell’intervista, «ecco in che modo la letteratura anche marginalizzata, anche dichiaratamente sconfitta, può aiutarci a rientrare in possesso di noi stessi e del mondo, virtuale e non, che abitiamo».

Sono queste le tesi che dimezzano la fiducia negli “intellettualoni italiani”? Sono queste le posizioni figlie di “una strategia promozionale”, e di uno che “non ha il talento del grande romanziere che vorrebbe essere”?
Questa, invece, sembra proprio essere la voce capace di elevarsi più in alto del frastuono televisivo, perché invita a non costruire le proprie riflessioni sul rifiuto di tutto e di tutti. Perché non si arrampica strumentalmente per consolidare posizioni assurde, magari lontane anni luce dal quotidiano. Perché non decide di isolarsi dal contesto per non sporcarsi le mani, così come altri intellettuali o pseudo tali fanno, quelli per intenderci che non invogliano propriamente nuovi lettori, e che non vendono poi molte copie. Scurati decide di entrare nel merito e una volta lì, poi si differenzia soggettivamente. Perché non si rinchiude nel suo ego sconfinato, ma lo intreccia con gli eventi, raccontandoli semplicemente e ovviamente interpretandoli secondo la propria personale visione: che può anche non piacere, che può essere oggetto di critiche, rilievi, commenti, scontri dialettici. Ma che a noi e a migliaia di lettori, però, piace.

domenica 6 giugno 2010

Così il dolore non è più un tabù


Da Ffwebmagazine del 05/06/10

È possibile che il varo bipartisan della legge sulle cure palliative e la terapia del dolore (la n.38 del 15 marzo 2010) possa incarnare finalmente una politica che si unisce quando in gioco c’è il bene comune? È praticabile anche per altre grandi tematiche quella convergenza che tutti i partiti, all’infuori di tre misteriosi astenuti – ma l’avranno letta la legge? - hanno dimostrato per dare conforto a chi soffre cronicamente? Magari anche per equiparare l’Italia agli standard di altre realtà, dove il dolore non è più un tabù.

Motivi per essere ottimisti non mancano. In primis per il risultato legislativo raggiunto: un provvedimento breve e conciso, di undici articoli, con pochi tecnicismi, per tutelare il diritto del cittadino ad accedere alle cure palliative e alla terapia del dolore. Per alleviare sofferenze sopportate a lungo dagli individui, erroneamente convinti che il dolore vada accettato perchè parte integrante della vita. A volte non sufficientemente supportati dai medici, con poco tempo a disposizione per ascoltare le istanze di questi malati, invece assistiti adeguatamente dai centri specializzati, ma ancora poco conosciuti. Dinamiche emerse dall’indagine “Non siamo nati per soffrire. Dolore cronico e percorsi assistenziali” promossa da Cittadinanzattiva-Tribunale per i diritti del malato, che testimonia quanto gap mediatico culturale ci sia nei fatti.

Il dolore cronico di natura non oncologica è al centro non solo del provvedimento legislativo che ha visto la luce due mesi fa, ma anche di un’ampia analisi curata da numerosi soggetti (Associazione diabetici, Associazione per la lotta contro le cefalee, Associazione malattia reumatiche, Associazione diabetici, Federazione medici generici, Unione lotta alle distrofie muscolari e Pfizer) per comprendere come i pazienti in cura presso i centri specializzati, circa duecentomila, giudicano il loro stato. E soprattutto per predisporre interventi mirati e risolutivi. Poco si è insegnato circa l’autogestione del dolore, ammonisce il senatore Tomassini, presidente della Commissione Igiene e sanità al Senato, che potrebbe essere rafforzata da una migliore tempistica sull’utilizzo dei farmaci. Come pochi sono al momento i centri antidolore sul territorio nazionale, spesso anche avversati o non sostenuti.

Ma la chiave per capire il sottile filo che lega il paziente affetto da dolore cronico alla nuova opportunità palliativa, sta tutta nell’approccio psicologico. Più della metà dei pazienti interrogati nell’indagine ha dichiarato di non sentirsi adeguatamente ascoltato, data la mancanza di tempo del medico generico e soprattutto a causa del fatto che è costretto a consultare almeno due, ma anche cinque medici, prima di essere indirizzato verso un centro specializzato. Ulteriore disparità si registra per la prescrizione di farmaci oppiacei, alta la percentuale al nord, media al centro, bassa al sud. Negativa la percezione sull’informazione, dal momento che l’80% dei medici non segnala al cittadino l’esistenza di tali strutture che permangono ancora in una sfera di non conoscenza per il 70% dei pazienti. I quali però, una volta sperimentatene le cure, si dichiara entusiasta all’86%.

Nota dolens il giudizio sull’apporto psicologico, se è vero come è vero che solo il 23% degli intervistati ne usufruisce. Significa che urge un salto generazionale e culturale molto preciso in questo senso. Innanzitutto per superare la paura del dolore, coinvolgendo anche i medici di famiglia e compiendo un’operazione sociale prima che farmacologica.

La stessa carta dei diritti del malato prevede espressamente il diritto dello stesso a non soffrire, ma prima di questa legge tale esposto non era oggettivamente integrato da interventi tangibili. Altro elemento sul quale riflettere è quello relativo alle conseguenze dirette sul paziente che il dolore cronico causa. Dolore e vita quotidiana si intersecano drammaticamente, in quanto fecondano paure e insicurezze, abbassando il rendimento professionale del malato, alterandone l’umore e di conseguenza i rapporti diretti con la famiglia di appartenenza. Con l’intera sfera delle percezioni sociali che vengono inevitabilmente svuotate dell’originaria modulazione. L’aspetto umano, prima che quello medico-sanitario, deve essere il primo obiettivo da preservare. Anche in considerazione di un altro dato emerso dal rapporto: il 2,2% degli intervistati ha ammesso che il dolore cronico porterebbe in sé il germe del suicidio. Percentuale bassa, si dirà, ma pur sempre significativa e da valutare con estrema attenzione.

Ecco allora che le buone pratiche dimostrate in concreto dalla politica con il varo di questa legge, debbono essere di stimolo per altri momenti alti come questo, consapevoli che dinanzi a esigenze impellenti e generali non vi può essere divisione o prepotenza di parte, magari rammentando quello che gli antichi greci solevano dire sulla missione della politica, chiamata a “tracciare rotte nel mare”.

mercoledì 2 giugno 2010

Italiani e romeni, la conoscenza può vincere il pregiudizio


Da Ffwebmagazine del 02/06/10

Proviamo a pensare cosa accadrebbe se l’Italia fallisse l’integrazione della comunità romena, ovvero di quel popolo che per attitudini e affinità è il più simile a noi. Vorrebbe dire che, a quel punto, sarebbe ancor più complicato favorire l’integrazione di altre etnie maggiormente distanti per mores, costumi e abitudini. Significherebbe che ancora una volta l’Italia rifiuta la modernizzazione sociale. Di contro l’approccio all’immigrazione è oggi una delle occasioni per dimostrare la capacità di accettare il diverso, di integrare l’altro, di ascoltare chi viene da lontano o da vicino, e di saper affrontare così le sfide vere della globalità.

Con le quali, piaccia o no, si è chiamati a fare i conti perché, come diceva Platone, «siamo tutti intorno al mare, come ranocchie attorno a uno stagno». E a nulla servirà ritardare la metabolizzazione di tali concetti, dal momento che si tratta di fenomeni già presenti, come fermenti vivi, in tutti i paesi: accelerare dunque interventi di accoglienza politica e culturale avrebbe riflessi positivi non solo per chi desidera integrarsi, ma anche per chi grazie a quell’integrazione, vedrebbe maturare il proprio tessuto sociale. La politica è lì per governare i conflitti sociali che inevitabilmente ogni convivenza produce, ma che possono essere stemperati e messi a frutto.

E una politica che agisce senza conoscere è destinata inevitabilmente a mancare l’obiettivo. Per questo vale la pena di sfogliare le quasi duecento pagine di un interessante saggio, Romeni. La minoranza decisiva per l’Italia di domani, scritto a quattro mani da Guido Melis e da Alina Harja per i tipi della Rubbettino, dove, usando le parole pronunciate dal presidente della Camera Gianfranco Fini, si rafforza la consapevolezza che la conoscenza può vincere il pregiudizio. Sì, il conoscere, l’approfondire, imprescindibili per deliberare, come predicava Luigi Einaudi, possono rappresentare la chiave per capire. Per avanzare dubbi, legittimi, per fare domande. Ma, poi, per ascoltare risposte e delucidazioni. E costruirsi un’idea quanto più possibile vicina alla realtà. Per comprendere come quel paradigma forzato che all’indomani dell’omicidio Reggiani enunciava una quasi naturale e diretta proporzionalità tra romeni e il reato di stupro, fosse nient’altro che figlia del pregiudizio causato dalla non conoscenza. Per informarsi, ad esempio, che il numero di romeni in carcere è pari allo 0,3%: una percentuale risibile.

Tabù e posizioni concettuali precostituite che, come ha osservato il presidente Fini, non tengono conto dello straordinario apporto dato alla cultura da intellettuali romeni del calibro di Ionesco o Eliade. Senza dimenticare l’esiliato Vintila Hòria, presenza costante negli anni settanta e ottanta alle iniziative della fondazione “Gioacchino Volpe” e collaboratore del Secolo d’Italia. Un suo pregevole lavoro si intitolava proprio “Dio è nato in esilio”, traendo ispirazione dalla figura di Ovidio, quello stesso sentimento che oggi è avvertito dirompente dai romeni che vivono in Italia.

Molti ancora ignorano che i romeni in Italia non sono solo impegnati in lavori umili, ma fondamentali per l’intero sistema economico-sociale del paese, come colf, badanti, bracciati agricoli - senza dei quali, è utile ricordarlo, migliaia di anziani non avrebbero più assistenza, o migliaia di ettari di campagne non produrrebbero più quei prodotti agroalimentari che tutto il mondo ci invidia. Ma hanno fatto il famoso passo in più, come testimoniano le ventisettemila aziende romene presenti sul nostro territorio. A significare un attivismo non da poco e niente affatto da sottovalutare, se rapportato al punto di partenza. Chi ha messo in piedi quelle imprese certamente non partiva da una posizione privilegiata, né poteva contare su un sostegno forte, almeno nelle fasi iniziali.

Esempi che nel libro abbondano, così come le testimonianze di studenti, giornalisti di Bucarest corrispondenti da Roma, del vescovo greco-ortodosso, di musicisti, di muratori e di operai. Ci sono tutti, per farsi conoscere e scoprire, per dire a chi ancora proprio non riesce a ragionare sull’immigrazione con cognizione di causa perché accecato da pregiudizi e da tornaconti elettorali, che una diversa nazionalità non comporta certo la scoperta di un alieno. E se anche fosse un alieno, con due teste o con abitudini strampalate, beh proprio non ci sarebbe nulla di strano nell’accoglierlo in una comunità che si preoccupa troppo spesso di conservare lo status quo anche nel sociale, mortificando sempre di più iniziative e slanci non allineati.

E proprio quella diversità potrebbe rappresentare fonte di ricchezza e di apertura per un paese smemorato, che sembra quasi voler cancellare decenni di dura emigrazione, prima verso il nuovo continente, poi verso le fabbriche del nord Europa, e nel secondo dopoguerra - e sino ai giorni nostri - verso l’Italia settentrionale. A questo paese gioverebbero forse le parole di Cesare Pavese, quando diceva «finché ci sarà qualcuno odiato, sconosciuto, ignorato, nella vita ci sarà qualcosa da fare: avvicinare costui».