martedì 23 giugno 2015

Grecia, chiusura di Ert? Uno choc. Parla Deliolanes


La chiusura della tv pubblica greca è stato un atto sconsiderato contro la democrazia. Un'intervista al giornalista greco Dimitri Deliolanes. 
E due. Dopo la riassunzione delle donne delle pulizie nei ministeri, il premier greco Alexis Tsipras centra un altro obiettivo del suo programma, pur tra mille difficoltà: ovvero la riforma della tv di stato “Ert”, chiamata nuovamente così dopo la parentesi “Nerit” sponsorizzata dalla troika, dove i giornalisti erano assunti a tre mesi con stipendi da fame (ma facendo salve tre starlette con ingaggi sontuosi).
L'affossamento dell'Ert non era avvenuto al fine di tagliare sedi e poltrone per venire incontro alle necessità di spending review imposta dai creditori della troika, ma per “pilotare una certa informazione”, dice ad Osservatorio Balcani Caucaso il giornalista greco Dimitri Deliolanes, da trent'anni corrispondente in Italia proprio di Ert e autore de “La sfida di Atene” (Fandango, 2015).

Quale il contributo che la nuova Ert darà all'informazione in un paese così scosso dalla crisi?
Un contributo fondamentale, nel senso che già in questi primi giorni di nuove trasmissioni, emerge come sia l'unico canale che fa informazione. Mentre dagli altri arriva solo propaganda.

Quali le basi programmatiche della riapertura?
Nel decalogo di Syriza, così come nelle dichiarazioni programmatiche del nuovo governo, si parlava esplicitamente di controllo parlamentare per l'emittenza pubblica. Invece in Parlamento non c'è ancora una commissione di controllo, come accade ad esempio in Italia, in quanto per farla occorrerebbe una modifica costituzionale. Per questo motivo, le nomine dei nuovi vertici Ert sono avvenute dopo un'udienza nella commissione parlamentare sulla trasparenza.
Ecco che oggi c'è una Ert che funziona bene, con un ottimo livello qualitativo, anche perché i concorrenti non brillano di certo. Ma il governo, anche perché impegnato sul fronte debito, non è ancora riuscito a strutturare la commissione parlamentare. Al momento l'emittente è sottoposta al controllo del ministro senza portafoglio Nikos Pappas.

Che tipo di conseguenze, anche sociali, ha avuto la chiusura di Ert?
E' stato un atto sconsiderato del precedente esecutivo, dalle conseguenze impreviste. Sul piano sociale 2700 famiglie si sono ritrovare sul lastrico dopo una semplice dichiarazione televisiva dell'allora sottosegretario alla presidenza Simos Kedikoglou, ma questo è stato se vogliamo il meno. L'impatto maggiore sta nel fatto che un governo (quello guidato dal conservatore Samaras ndr.) dalla legittimazione fortemente contestata, ad un certo punto ha osato entrare nella camera da letto dei cittadini ellenici e decidere cosa dovessero vedere e cosa no. Uno choc inimmaginabile in una democrazia europea a cui la gente ha reagito con grandissima rabbia.

Quando è stata chiusa come procedeva Ert?
Non aveva grossi indici di ascolto, ma contava il fatto che esistesse in quanto servizio pubblico e soprattutto assicurava libera informazione, autorevole e certa, in occasione di ogni fatto mondiale che accadeva. Anche perché le altre emittenti, nella coscienza comune, non erano né autorevoli né sicure nelle informazioni che veicolavano. La chiusura di Ert è stata vissuta da tutti come un atto autoritario e di prepotenza.

Le modalità di chiusura possono essere avvicinate ad una forma di censura oligarchica, visto che si è trattato del primo caso assoluto in uno stato democratico?
Certo. In Italia alcuni commentatori ripetono che si è trattata di un'iniziativa presa per ragioni economiche e imposta dalla troika, ma non è così. Non c'è alcuna ragione economica per il semplice fatto che Ert era in attivo dal 2009, anche se modesto, e non pesava sulle casse dello stato.

Quali i motivi reali allora?
Secondo il premier Samaras, Ert non serviva abbastanza la propaganda governativa. C'era un polo all'interno dell'informazione che dava fastidio e disturbava la sinergia tra esecutivo e canali privati. Ert è stata chiusa perché informava e non disinformava.

Che beneficio hanno tratto le casse dello stato dalla chiusura di Ert?
Nessuno. Anzi, ha portato solo cause di risarcimento danni avanzate da tantissimi lavoratori per le modalità illegali di licenziamento, così come ho fatto io stesso, oltre a penali per annullamenti di contratti da versare alle società di produzione, come partite di calcio mai trasmesse. Il costo complessivo dei procedimenti giudiziari sarà elevatissimo. E' la ragione per cui nessuno ha mai invocato il criterio economico come input per la chiusura. Si tratta di milioni di euro buttati al vento in un momento in cui sarebbero serviti per altro.

Oggi il panorama mediatico greco è caratterizzato da emittenti private in palese conflitto di interessi, con editori che sono anche imprenditori presenti in appalti pubblici, proprietari di squadre di calcio, armatori: cosa farà il governo?
Il problema vero è nell'aggancio mortale tra i due vecchi partiti governativi, Pasok e Nea Dimokratia, e gli oligarchi che controllano i mezzi di informazione. Per queste ragioni sono già iniziate le prime schermaglie del governo Tsipras contro gli oligarchi. E' noto che esiste una richiesta di tasse arretrate da parte dell'esecutivo oltre che di contributi pensionistici mai pagati.
A giorni ci sarà un disegno di legge per la ridistribuzione delle frequenze televisive, che nel passato sono state sostanzialmente regalate agli editori privati dopo la chiusura di Ert nel 2013 per una cifra irrisoria. Prevista anche la rivalutazione, partendo da zero, delle concessioni. Sul giudizio complessivo peserà non poco la situazione economica delle emittenti, molte delle quali oggi sono tenute in vita solo dai prestiti compiacenti delle banche.

martedì 16 giugno 2015

Crisi Grecia, Atene: “Giornalisti agli ordini della troika per fare propaganda pro-Ue”

pochi giorni dalla riapertura della tv di Stato greca Ert, chiusa per volere della troika, uno scandalo scuote il mondo della comunicazione ellenica. In Grecia, dal 2010 ad oggi, ilFondo monetario internazionale avrebbe “formato” giornalisti embedded favorevoli alle posizioni dei creditori internazionali.
Lo ha denunciato la Commissione parlamentare sulla trasparenza della crisi, che indaga sul Fondo, grazie alle rivelazioni dell’ex membro greco dell’Fmi Panagiotis Roumeliotis. Ha rivelato che i seminari di formazione sono stati architettati volontariamente per creare “portavoce” delle istanze spinte dalle istituzioni internazionali che hanno gestito la crisi ellenica. I nomi dei giornalisti greci che hanno preso parte ai meeting saranno svelati nelle prossime settimane alla Camera dei Deputati di Atene.
Misure di austerità, strutturazione e comunicazione del memorandum, rischi di una Grexit, passando per quel “terrorismo mediatico” che la stampa ellenica ha megafonato svariate volte negli ultimi anni, soprattutto a ridosso delle elezioni politiche e amministrative: queste le accuse rivolte ai giornalisti coinvolti. Secondo Roumeliotis, la Commissione parlamentare potrebbe chiedere formalmente al responsabile comunicazione del Fmi, Jerry Reis, i nomi dei giornalisti invitati ai seminari. Per questa ragione il presidente della Camera, Zoì Konstantopoulou, ha fatto sua la proposta annunciando una lettera formale indirizzata all’istituto guidato da Christine Lagarde.
L’ex rappresentante greco al Fmi ha aggiunto che a dare manforte alla stampa pro troika era anche un pool di economisti e docenti universitari che, in occasione di interviste sui quotidiani o di trasmissioni televisive, cercavano di persuadere l’opinione pubblica che quella del memorandum era l’unica strada possibile per la Grecia. Il tutto mentre ad Atene la polizia arrestava forse l’unico giornalista greco che aveva dato una notizia, ovvero Kostas Vaxevanis, reo di aver pubblicato sul suo settimanale Hot Doc i duemila nomi degli illustri evasori della lista Lagarde che avevano spostato capitali in svizzera.
E così dopo il dossier siglato proprio dal Fmi che nel 2012 ha certificato un errore di calcolo da parte di Washington sulla crisi greca, ecco un’altra falla che si apre nell’istituzione che assieme all’Ue e alla Bce ha governato la crisi greca e i due memorandum imposti ad Atene, il primo dei quali votato nel novembre 2012 dai deputati socialisti e conservatori che lo avevano ricevuto in visione solo poche ore prima.
Intanto ricomincia la mobilitazione sociale in tutto il Paese e anche in Europa. “Neanche un passo indietro”: questo il titolo della manifestazione promossa in contemporanea ad Atene e a Salonicco per mercoledì 17 giugno “contro la disinformazione, gli usurai, gli istituti di credito e i requisiti che vogliono imporre alla classe operaia e ai cittadini”. Sostegno da Parigi e Bruxelles dove, rispettivamente sabato e domenica prossimi, oltre 50 organizzazioni marceranno contro l’austerità e a sostegno di Atene nell’ambito della settimana della solidarietà europea con il popolo greco.
twitter @FDepalo


mercoledì 10 giugno 2015

Sfatiamo i luoghi comuni sulla crisi greca: 1a parte

La crisi ellenica, oltre a certa sciatta informazione fatta, come troppo spesso accade in Italia, un tanto a chilo, porta con sé anche una serie di luoghi comuni e di certezze dogmatiche su cui, forse, andrebbe spesa qualche parola.
Non tanto per convincere il pubblico a convergere su una tesi o su un’altra (informazione libera si fa infatti senza propaganda ma con il dibattito), ma quantomeno per leggere il problema greco con lenti “libere” da intrecci e interessi precostituiti. Che fanno solo danni, tanto a chi propone quanto a chi prende con i paraocchi solo ciò che passa il convento.
Alcuni commentatori continuano a sottolineare come il default ellenico non convenga, né a Bruxelles né ad Atene. In parte, ma solo in parte, è vero. Il default nel 2012 avrebbe avuto l’effetto di gravare su quegli istituti di credito, tedeschi e francesi, che detenevano i titoli spazzatura. Oggi il conto più salato lo pagherebbero gli Stati che hanno prestato denari alla Grecia, come l’Italia che è esposta per 40 miliardi di euro: più o meno il valore dell’Imu. Ma guardando il panorama in prospettiva, quel default potrebbe invece segnare una svolta.
Fino ad oggi gli Stati e la stessa Ue sono stati visti come una macchina da oliare e da correggere in corsa. Ma se invece fossero sin dall’inizio stati considerati alla stregua di un’azienda privata, solo il mercato ne avrebbe decretato pregi e difetti.
La Grecia, se fosse un’azienda che produce chiodi, sarebbe già fallita e anziché arrovellarsi da quasi un quinquennio su scorciatoie, memorandum e fughe in avanti, oggi sarebbe potuta essere già una cosa nuova. Ricominciare, ricostruire, modernizzare: ecco i tre verbi da utilizzare dopo un crack. Atene produce pochissimo, non ha una politica industriale, grazie alla miopia corrotta dei suoi governanti importa praticamente di tutto. Al netto delle macerie di oggi, però, c’è tantissimo margine di miglioramento per la semplice ragione che c’è tutto da fare.
Una moneta interna diversa dall’euro, sì svalutata ma allo stesso tempo fiscalmente sexy, potrebbe favorire investimenti, avviare quelle produzioni che oggi moltissimi hanno delocalizzato in Cina o India, favorire una nuova business community del Mediterraneo anche grazie, se lo vorrà, al Qe della Bce da allargare anche alla Grecia.
In questo modo, e solo in questo modo, l’Europa potrà dire di aver veramente aiutato la Grecia, non proseguendo nella strategia di prestiti che servono esclusivamente a saldare i vecchi e a pagare interessi milionari. Ma investendo su prospettive e margini futuri. Quanto a Tsipras, al netto di errori, sterzate e incespicamenti figli di posizioni ideologiche personali, non ha altra strada se non alzare un muro sulle Termopili come fece Leonida contro Serse e il suo sterminato esercito persiano.
In primis perché un altro memorandum, figlio dei precedenti, avrebbe come effetto un indebitamento perpetuo e altre tasse che raderebbero al suolo ciò che resta del Paese. In secondo luogo perché, proprio la piccola Grecia con il PIL pari a quello di un paio di province del nostro Triveneto, paradossalmente sta mettendo in crisi un meccanismo più grande e che fino a ieri sembrava inespugnabile. Salvo oggi renderci conto che di sola austerità e di isolamento a oriente si muore.
Twitter@FDepalo

lunedì 1 giugno 2015

L'Europa dell'austerity? Arriva sempre in ritardo. E la Grecia collassa

Ancora una volta l’Unione Europea arriva in ritardo – dolosamente o colposamente – su fatti e circostanze.
Dopo tre anni d’implementazione di un memorandum suicida che ha incaprettato la Grecia condannandola all’alimentazione all’idratazione forzata dalla parte della troika, senza sanarne le piaghe, in questi giorni l’ennesima trattativa partorisce una boutade: quella del default controllato per Atene.
Peccato che la medesima strada fosse stata proposta nel 2012 dall’allora Nobel per l’economia, Christopher Pissarides, già docente alla London School of Economics. L’economista, mentre l’Europa tentava di capirci qualcosa dalle doppie elezioni elleniche che consacrarono Tsipras e Syriza, indicò a freddo l’opzione del default ammortizzato: ovvero con la preliminare certezza del cambio euro/dracma, con una serie di argini già piantati per dirigere “il fiume” del nuovo vecchio conio, come ad esempio la gestione dei contratti firmati, i debiti pregressi, gli interessi e soprattutto la possibilità di usare quella valuta per operare due macro cambi di passo: attirare investimenti stranieri in loco e avviare una politica industriale per stimolare la produzione interna limitando l’import, che in Grecia è altissimo (si importano persino cotone e olio, presenti nel Paese da centinaia di anni).
Nel giugno del 2012, però, le parole di Pissarides vennero bollate come spazzatura da quegli stessi soloni che per tre anni hanno attirato il vascello ellenico non in porti sicuri, ma nel marasma dell’austerità imposta da terzi: con il risultato che oggi un terzo dei nuovi poveri greci sono imprenditori, che il ceto medio è diventato o sta diventando quasi povero, che i dipendenti pubblici non sono diminuiti (né sotto la troika né con Tsipras), che le riforme sono ancora in alto mare, che le privatizzazioni sono in stand by proprio per capire come condurle, con chi e se in euro.
Se la proposta di Pissarides fosse stata messa in pratica quando le casse di Atene non erano in profondo rosso come oggi, tutti gli Stati membri avrebbero risparmiato alla voce aiuti da memorandum: l’Italia ad esempio è esposta per 40 miliardi. Ma si scelse, anziché la logica comunitaria e sociale, così come vergato dai padri fondatori dell’Ue, l’egoismo di chi a quell’epoca ha messo una seria ipoteca tanto sui conti greci che su quelli europei.
Ma commettendo un doppio errore: primo, una Grecia senza euro nel 2012 avrebbe potuto paradossalmente essere una cavia positiva anche per gli altri paesi piigs, mentre da Berlino lo evitarono accuratamente; secondo, permettere ad uno solo di avere in mano il comando di tutti, ha prodotto danni e non benefici, con la differenza che oggi regole uguali per paesi ancora diversi sta mettendo a repentaglio il senso stesso dell’Unione.
Un’Unione che rispetto a dieci anni fa ha visto dimezzarsi il suo pil rispetto al resto del mondo, che non ha una politica comune, che sceglie di non decidere come sulla Libia e le primavere arabe, che non riesce a dialogare con l’Eurasia, che fa pasticci diplomatici come la mancata presenza di lady Pesc Mogherini al vertice Putin-Merkel-Hollande.
In tutto ciò la portavoce del presidente della Commissione Juncker dice che alla Grecia “non daremo nuove soluzioni, registriamo progressi ma ancora non ci siamo”. Ottima notizia, forse a Bruxelles ignorano che Atene sta per fare richiesta di adesione alla Banca Brics, il concorrente euroasiatico del Fmi con Mosca e Pechino già in fase avanzata per le privatizzazioni elleniche. A largo di Creta, infatti, c’è gas per circa 400 miliardi di euro, come da stime tedesche. Capito?
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Il vero vaffa day è stato ieri: il punto sulla mia Puglia

A scrutini terminati un paio di considerazioni vanno fatte sulle elezioni regionali, tanto nazionali quanto nella mia Puglia. Il vero vaffa day è stato ieri, con metà degli elettori che non ha votato. In Puglia non vince tanto il Pd, che comunque è al 19%, ma l'onda Emiliano. E'lo spot da sindaco di Puglia, mescolato alla bassa affluenza e al suicidio del centrodestra, che consegna la vittoria al magistrato. E'noto che non ci sia poi tanto feeling tra Emiliano e il premier Renzi, il che avvalora la tesi della vittoria in solitario dell'ex sindaco di Bari. Una mossa ad effetto è l'assessorato all'ambiente proposto ai 5 stelle, ma per ora rifiutato.

Sul versante centrodestra, Fitto non ha messo nell'ombra Forza Italia: hanno perso entrambi. Si sapeva e si immaginava, ma ci sono dei distinguo. I voti di Schittulli e Poli Bortone, assieme e senza divisioni, avrebbero garantito almeno una maggiore rappresentanza in consiglio regionale. Ovvero il centrodestra unito sarebbe arrivato dignitosamente secondo. Mentre invece i voti dei Cinque Stelle da soli valgono quelli delle tre liste a sostegno di Schittulli: Oltre con Fitto, Fratelli d’Italia e Movimento Schittulli.

Il macro dato è che il centrodestra, dalla scomparsa di Pinuccio Tatarella in poi, non è stato capace n'è di progettazione nè di selezione della classe dirigente, perso tra beghe familiari e liti frutto, forse, di una pochezza politica e contenutistica oggettiva. Senza dimenticare che un leader vero proprio non s’è visto. Spicca invece, al di là delle diatribe partitiche, il leaderismo di Emiliano che con i pregi e i difetti che l’uomo ha, è riuscito a mettere assieme un filotto non da poco: con due mandati da sindaco e questo sulla poltrona che (per due volte) fu di Nichi Vendola.

Dappertutto crescono i 5 stelle, anche in Puglia rispetto alle bassissime percentuali delle comunali 2014: il 18,2% della candidata Laricchia segna una svolta. Dopo i numeri nazionali, ecco che anche nei territori i cittadini scelgono l'antipolitica di Grillo che paradossalmente proprio da Grillo si sta smarcando. Perché, al di là dei difetti e degli svarioni, è oggi una delle due alternative a Renzi. Il premier non veleggia più in solitario e il 40,8% conseguito alle europee del maggio 2014 è solo un ricordo. Ieri ha perso in 7 regioni circa 2.000.000 di voti rispetto a dodici mesi fa.

A questo punto quindi in Puglia chi rischia di meno è proprio Emiliano, al cui orizzonte non c'è solo un quinquennio in sella al tacco d'Italia, ma il trampolino verso un futuro sempre più romano. Già non poche erano state le voci che lo volevano prima in corsa per un sottosegretariato, poi addirittura al posto del dimissionario Maurizio Lupi alle Infrastrutture. Ma il tutto non ebbe un seguito per le note divergenze con Renzi: i due non si sono mai presi, perché entrambi galli in un solo pollaio, perché affetti da decisionismo puro. 
E a Roma chi rischia di meno è paradossalmente Salvini, che ha lanciato un'opa sul centrodestra senza neuroni (ha doppiato Forza Italia e lancia il populismo come programma di governo) e un M5S che fa avanzare gli alfieri Di Maio e Fico: non più a sola protezione dei “due re”, ma all’attacco.


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