venerdì 31 luglio 2009

Iran: serve determinazione per fermare l'odio

da Ffwebmagazine del 31-07-09

Farzin, Mehrdad, Mohammad: sono i nomi di altre tre vittime di una violenza cieca, sventolata a vanvera contro esseri umani e giovani dissidenti. La notizia è stata divulgata dal Comitato internazionale di giuristi per la difesa delle vittime della repressione in Iran. Ancora sangue in Medio Oriente, questa volta ad Ashraf, in occasione di un raid iracheno contro il campo abitato da residenti disarmati, i quali godono dello status di rifugiati sancito dall’articolo 4 della convenzione di Ginevra. Si tratta di una palese violazione del Diritto internazionale, ha sottolineato il giurista Mario Lana, mentre Maryam Rajavi, presidente del Consiglio nazionale della Resistenza Iraniano, ha inviato un video messaggio nel quale esprime la «totale incapacità di Khamenei di domane la ribellione».

La polizia antisommossa in pieno assetto di guerra ha sferrato l’attacco contro gli inermi residenti, provocando la reazione indignata di numerosi organismi internazionali, come il Comitato parlamentare britannico per la libertà dell’Iran, il Comitato in search of justice e il Comitato Friends of a free Iran nel Parlamento europeo. «Chiedo al governo americano e a quelli dell’Unione europea – ha proseguito Rajavi – di condannare fortemente i complotti del regime», mentre l’onorevole Elisabetta Zamparutti, coopresidente del comitato parlamentare per l’Iran libero auspica che si predisponga quanto prima la visita ad Ashraf di una delegazione di deputati italiani.

Ma il dato rilevante e confortante riguarda la mobilitazione anche di tipo giuridico contro il regime iraniano, dal momento che questa sorta di para-resistenza, non avrà come scenario esclusivamente le strade e le piazze così come eroicamente fatto dagli studenti sino a oggi, ma anche i tribunali internazionali. Annuncia una denuncia da presentare direttamente a Baghdad l’avvocato Paolo Sodani, secondo il quale non sarà sufficiente testimoniare la propria condanna solo sui media, ma occorrerà «cessare con questa politica dell’accondiscendenza da parte dei governi europei, magari riflettendo anche sul principio di territorialità».
Secondo Maryam Rajavi ci troviamo a un punto di non ritorno, per tre ragioni distinte. Innanzitutto a causa di divergenze che all’interno del regime hanno toccato punte elevatissime tra Khamenei e Rafsanjani. Pare infatti che nessuna delle due anime del regime riesca a desistere dalle proprie posizioni iniziali.

Inoltre, la presenza ingombrante della popolazione per le strade, assieme all’accrescimento delle iniziative di protesta, hanno di fatto svilito le tesi di stabilità e invulnerabilità del regime all’interno della società, ovvero la cosiddetta velayat e faghih. Infine, si rafforza il vuoto ideologico e sociale tra la moltitudine di giovani e le istituzioni antidemocratiche. Tutti segnali, secondo Rajavi, che «di fatto concorrono all’avvio del processo di rovesciamento del regime iraniano» e che potrebbero in futuro rappresentare il fulcro di elezioni libere in un paese libero, ma a patto che il resto del mondo «non faccia finta di indignarsi» e prenda posizioni nette e incontrovertibili. Si pensi per esempio alla tecnologia europea che consente al regime iraniano di oscurare facilmente i siti internet di informazione. Per questo l’auspicio del Consiglio nazionale della Resistenza iraniano è che i paesi dell’Unione interrompano «il dialogo con il regime del Mullah, richiamando i propri ambasciatori da Teheran e, soprattutto, sospendendo collaborazioni commerciali.
Inoltre la stessa Rajavi ha suggerito al consiglio dei Guardiani del regime, di esonerare Khamenei dal proprio incarico e in seguito di provvedere allo scioglimento dello stesso istituto.

La divulgazione della notizia dell’attacco alla comunità di Ashraf ha di fatto preceduto di poche ore un’altra triste notizia, quella di una serie di cariche della polizia in Iran. In occasione della manifestazione in ricordo di Neda, la giovane uccisa lo scorso 20 giugno, le forze dell’ordine hanno attaccato i manifestanti riuniti al cimitero di Behesht-e Zahra, nel sud di Teheran, picchiandoli con bastoni e manganelli. Tra gli arrestati ci sarebbero anche i registi Mahnaz Mohammadi e Jaafar Panahi.

Ma l’ennesimo episodio di repressione armata da parte del regime iraniano non è riuscito a impedire che sulla tomba di Neda venissero comunque depositate corone di fiori e candele accese, fiammelle di speranza, in un paese strangolato dall’odio e dalla violenza, dove la stampa è bandita, dove le istituzioni fanno a gara per oscurare le voci e placare le proteste degli studenti. Un paese che chiede solo un piccolo aiuto alla comunità internazionale, auspicando che essa non sia troppo impegnata in calcoli di import-export e che finalmente si renda consapevole della gravità assoluta di questi tristi giorni.

mercoledì 29 luglio 2009

Un premio all'impegno contro la pena di morte

Da ffwebmagazine del 29-07-09

«Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettono uno esse stesse medesime e per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio». Così il presidente della Camera Gianfranco Fini, citando Cesare Beccaria, nel suo messaggio all’associazione Nessuno Tocchi Caino, in occasione della presentazione del rapporto 2009 e del premio L’abolizionista dell’anno, consegnato ex aequo da Emma Bonino alla parlamentare Gail Chasey e al governatore Bill Richardson (quest’ultimo assente), che si sono distinti particolarmente per il loro impegno contro la pena capitale. «L’Italia resta in prima linea per l’abolizione – recita il messaggio del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano –. È un dovere continuare a battersi per l’inviolabilità della vita e contro la cultura della morte».

Un appuntamento ormai tradizionale quello in difesa della vita e contro la pena di morte, una conferma di impegno, l’ha definito Emma Bonino, uno slancio di iniziativa. Come quella tenace e costante della parlamentare dello Stato del New Messico Gail Chasey, capace di avanzare la proposta di moratoria sin dal 1999 e in seguito in ogni legislatura successiva, sino ad arrivare al traguardo storico del 13 marzo di quest’anno, quando il governatore Bill Richardson ha controfirmato la legge senza avanzare il proprio veto, così come molti chiedevano. Nel 2005 e nel 2007 la Chasey era riuscita nell’intento di farla approvare dalla Camera, ma in entrambe le circostanze la proposta non aveva superato lo scoglio della commissione Giustizia del Senato.

Così, dopo il New Jersey, il New Mexico è il secondo stato degli Usa in quarant’anni a dire no alla pena capitale, a professare il proprio no a una pratica assurda, ancora purtroppo presente in 46 Stati, a fronte dei 49 del 2007, dei 51 del 2006, dei 54 del 2005. Dei quarantasei Stati che mantengono la pena di morte, la maggior parte dei quali si trova in Asia, il 90% è governato da regimi dittatoriali e illiberali. Si pensi che la sola Cina ha ordinato almeno cinquemila esecuzioni, circa l’87% del totale mondiale, ma fonti non ufficiali ne denuncerebbero quasi seimila.

Sono i dati del rapporto 2009 snocciolati dalla curatrice Elisabetta Zamparutti e da Sergio D’Elia, rispettivamente tesoriere e segretario di Nessuno Tocchi Caino. A quasi due anni dalla moratoria contro la pena di morte da parte dell’Onu, (era il dicembre 2007) i numeri sono estremamente incoraggianti, («quella del palazzo di vetro – ha detto Emma Bonino – è stata una nuova partenza, non un punto di arrivo»), così come quelli frutto del lavoro di Nessuno Tocchi Caino, che quest’anno festeggia il primo quindicennio di attività. Il Vietnam ha abolito la pena capitale lo scorso anno, la Cina ha ridotto le esecuzioni del 30%.

Purtroppo permangono ancora sacche di “resistenza”, come le esecuzioni effettuate nei confronti di minori, rientranti nei cosiddetti record dell’Iran, al secondo posto nel mondo per numero di esecuzioni, (precede l’Arabia Saudita) 346 lo scorso anno e nei primi sei mesi del 2009 già a quota duecento, di cui più di venti impiccagioni nella prima settimana di gennaio. Numeri da brivido, non solo a svantaggio di avversari politici ma anche contro esponenti appartenenti a minoranze religiose, quali azeri, baluci e ahwazi, colpevoli soltanto di non essere allineati nel culto. E poi le percentuali saudite, con il più alto numero in termini assoluti rapportato alla popolazione, ben 102, ma per fortuna ben lontani dal record del 1995, con quasi duecento esecuzioni, per lo più decapitazioni effettuate all’aperto, nei cortili fuori dalle moschee.
Certo, vi è ancora un solido nesso tra mancanza di informazione e intenzioni di condanne, ma ciò lo si deve alla peculiarità antidemocratica dei regimi dove è ancora praticata la pena di morte.

Qualcuno, come il governatore della California Schwarzenegger, sta aprendo concretamente alla moratoria, anche in considerazione di valutazioni di tipo economico, dal momento che il braccio della morte pare abbia costi reali che si aggirano intorno al miliardo di dollari. I detenuti condannati a morte, infatti, hanno diritto ai migliori consulenti legali e scientifici, oltre ad analisi accuratissime circa la propria capacità mentale, con parcelle conseguentemente molto elevate.

«Che non si parli però di moratoria per ottenere un mero risparmio di dollari – ha aggiunto giustamente Marco Pannella – in quanto è ben altro lo spirito ispiratore di cui c’è bisogno. Ma in Messico per nostra fortuna la voce di Martin Luter King vince su quella del Ku Klux Klan». «È stato nei fatti dimostrato – ha proseguito Gail Chasey – come le esecuzioni non abbiano potere deterrente, perché non contribuiscono alla diminuzione del numero di omicidi. Certo, un segnale importante in questa direzione è venuto dall’elezione di un uomo di colore alla Casa Bianca.

Per questo sono orgogliosa del premio che mi hanno attribuito e dico a tutti coloro che soffrono, non temete, perché la marea è cambiata». Quindi, prima di ricevere dalle mani di Emma Bonino l’opera in bronzo creata per l’occasione dall’artista Massimo Liberti raffigurante una terra a forma di palloncino sul quale sono accovacciati dei bambini al fine di volare più alto, ha salutato e ringraziato con una citazione dell’antropologa Margaret Mead: «Bisogna notare l’abilità di un piccolo gruppo di persone nel cambiare le sorti del mondo».

lunedì 27 luglio 2009

Letteratura in terra d'Africa. Un continente nel continente

Da Ffwebmagazine del 27-07-09

Una grande tradizione orale, uno sterminato numero di poemi e romanzi con sullo sfondo la guerra civile del Biafra e le discriminazioni razziali e umane. E poi il petrolio, lo sfruttamento dei pozzi, l’inquinamento delle coltivazioni agricole, gli assassini politici. L’Africa è un continente complesso, un continente nel continente, dal quale sono fuoriusciti come zampilli di greggio immense produzioni letterarie, veri e propri fiumi di poemi e composizioni, storie di vita vera, vissuta, di drammi e contrapposizioni, di richieste di aiuto, molte rimaste senza risposta, altre ascoltate, sotto il comun denominatore del toddy, il vino di palma, la tradizionale bevanda africana della quale ogni autore vorrebbe essere innaffiato copiosamente e che è stata al centro dell’opera del nigeriano Amos Tutuola, ll bevitore di vino di palma, titolo originale The Palm-Wind Drinkard.

Il bevitore incarna l’alfa della produzione letteraria novecentesca, che trae origini da forme orali tramandate nel tempo dal popolo di Tutuola, gli Yoruba. Un uomo insegue uno spillatore di vino di palma sino alla cosiddetta città dei morti, giungendo in una realtà popolata di magia, demoni e creature sopranaturali. Chiaro il riferimento al consumismo occidentale, a quel vento di distruzione che ha danneggiato il continente africano, depredandolo senza scrupoli. E poi “Il crollo” di Cinu Acebe: è il terzo romanzo più letto al mondo, ma paradossalmente in Italia non è molto conosciuto, se non da una sporadica pattuglia di africanisti incalliti, come quelli che hanno sfidato una calda domenica estiva per trastullarsi sull’isola Tiberina con piacevoli pagine di letteratura nigeriana, ospiti della libreria Griot.

Cinu Acebe, in quelle pagine, non si concentra sul presente, ma ritorna indietro alla generazione di suo nonno per focalizzare l’arrivo dei colonizzatori. I bianchi, sostiene, possono far crollare la società nigeriana dal momento che essa è già minata dalla sua stessa storia. Intende cioè insegnare ai suoi concittadini che le civiltà africane non sono espressione di barbari insediamenti umani dai quali «i bianchi sono venuti a liberarci», ma punta a rappresentare una voce, una testimonianza, una luce nel buio tunnel della sopraffazione. «Ha ragione Salman Rushdie – sostiene l’africanista Maria Antonietta Saracino, docente di anglistica alla Sapienza – , quando sostiene che la letteratura dice la verità nel momento in cui non la dicono né i giornalisti, né i politici, né i cittadini, né alcun altro esponente della società».

Un altro elemento di riflessione viene dai numeri. Proprio da quelli della Nigeria, un paese grande tre volte più dell’Italia, con una speranza di vita che si ferma a circa quarant’anni, con uno tsunami socio-economico che si chiama guerra civile, in corso dal 1960 quando ebbe inizio l’accaparramento del petrolio, con all’attivo tre milioni di morti. Sono gli anni del postcolonialismo, gli scrittori che fanno menzione dei fatti politici vengono messi al bando, i più fortunati imprigionati, gli altri miseramente ammazzati in nome di una non meglio precisata sete di ordine, quello stesso spirito da caserma che cassa le libertà, strozzando le menti e imbrigliando i cervelli. Come Wole Soyinka, classe 1934, che incarcerato duramente in occasione della guerra civile Nigeria-Biafra a cui si era opposto, nella sua cella scrisse The man died, diario documento. Durante la sua prigionia, non avendo diritto nemmeno a un pezzo di carta, riuscì comunque a ultimare il suo libro, scrivendo tra le righe dell’unico volume che gli era consentito consultare, la Bibbia, e arrivando a vincere il Nobel nel 1986.

E come dimenticare Ken Saro Wiva, poeta, attivista e letterato impegnato sul fronte dei diritti civili ucciso nel 1995, solo perché intendeva difendere il popolo Ogoni, colpevole di possedere coltivazioni agricole proprio in prossimità dei pozzi petroliferi che, trivellati senza alcuna precauzione e protezione, vomitavano quel liquido nero, sì utile per far muovere città intere, ma anche capace di avvelenare flora e fauna del popolo Ogoni. Il delta del Niger, dove per anni hanno operato multinazionali in totale spregio delle popolazioni che da secoli vi abitavano, conducendole ancora di più alla fame e all’indigenza e reprimendo qualsiasi forma vocale di dissenso, è lo scenario naturale dei romanzi con al centro i bambini -soldato, piccoli e indifesi esseri viventi la cui unica voce è quella dell’arma che impugnano, ignorandone anche le motivazioni, ma innescando una reazione affrescata di odio e incomprensione.

E poi Cris Abani, Cimamanda Ngozi, e Helon Habila: quest’ultimo, in carcere perché contro il regime, scrive poesie talmente belle da far suscitare l’interesse del direttore del penitenziario, che gli promette un trattamento migliore se lui comporrà poemi, che l’aguzzino donerà alla sua donna. Africa, Nigeria, cieli e terre che si mescolano, spiriti di bambini che vorrebbero elevarsi ma che non riescono a farlo perché qualcuno spezza barbaramente le loro ali. Luoghi naturali di drammi e tragedie, ma che vengono ribaltati in alcova di speranza e redenzione. La letteratura che ridona fiducia e dipinge il sorriso, su visi nati sereni perché circondati da una natura unica, cresciuti affranti a causa della guerra, e rinati felici per la gloria di quelle pagine.

martedì 14 luglio 2009

Libertà religiosa e virtù civili: un progresso reciproco

Da Ffwebmagazine del 14/07/09

La centralità della coscienza come caposaldo, perché è fattore distintivo e unico dell’uomo. E poi l’apporto del concetto di individualità, la persona singola in opposizione alla collettività che tende a mischiare l’individuo. Sono alcune delle definizioni di Alexandre Vinet, fondatore della Chiesa Libera in Svizzera, autore nel 1826 di una memoria in difesa della libertà dei culti. Un libro che anticipò di un secolo e mezzo il dibattito relativo alla convivenza di culti diversi, citando ebrei e musulmani e chiedendosi esplicitamente «la libertà che va assicurata ai cristiani, deve necessariamente essere garantita agli esponenti delle atre confessioni?».

Libere Chiese in libero Stato è stato scritto nel 1826 dal teologo e pastore protestante Alexandre Vinet, considerato il più influente pensatore protestante di lingua francese dell’Ottocento. Solo lo scorso anno è stato stampato in lingua italiana, (con oltre un secolo e mezzo di ritardo su quel dibattito e su quelle scene) curato da Stefano Molino e con una postfazione di Mario Miegge.

La peculiarità dell`autore sta tutta nella posizione limitrofa che assume fra scienza e dottrina a causa di quattro fattori determinanti: egli si muove in categorie tradizionali; si apre a quelle del mondo risvegliato (connesse al fenomeno del risveglio svizzero); ne arriva ad assimilare taluni tratti, reinterpretandoli e problematizzandoli; ma mai riesce a farsi classificare sotto l’egida di una precisa etichetta. Ed è proprio quest’ultimo aspetto che ha permesso alla critica di individuare in Vinet un riformatore puro, dalle movenze chiare ed essenziali, intenzionato a scompaginare schemi preesistenti non per il semplice gusto di farlo, ma al preciso scopo di riformarli.

Ma per assimilare al meglio ciò che trasuda dalle pagine del volume è utile storicizzarne i risvolti, innanzitutto partendo da quel risveglio svizzero che è l’ambiente in cui opera l’autore. In quegli anni, lo stato neutrale per eccellenza era attraversato da un doppio panorama storico: da un lato i residui fermenti rivoluzionari che in virtù dell’espansionismo napoleonico avevano contaminato buona parte d’Europa, dall’altro le pressioni della Restaurazione improntate a una retrocessione storica. Rivoluzioni liberali e spinte restauratrici, quindi, sono i due filoni della Svizzera di metà Ottocento. Il risveglio sta proprio a significare la rottura. Si pone sotto le sembianze di una spinta transatlantica che ha nel proprio dna la critica alla condizione spirituale delle chiese tradizionali e il ritorno ai grandi temi biblici. «Voglio il Vangelo - scrive Vinet - e senza dubbio è nelle mie mani. Ma non appena lo voglio leggere, mille interpretazioni si frappongono fra me ed esso».

Secondo Philippe Bridel, Vinet presenta tre peculiarità che rappresentano il suo indubbio punto di efficacia: l’attitudine a dubitare; la fiducia nella potenza naturale della verità, ovvero nella ragione; la sete di umiltà.
L’autore si mostra vicino alle posizioni di Kant e Hegel quando avanza un concetto relativo a «quel luogo che è riduzione della dualità», dove quel luogo è rappresentato dal Vangelo. In un secondo momento però egli diventa assolutamente originale allorquando avanza la soluzione all’antitesi: mentre i suoi contemporanei guardavano alle idee come fornitrici di risposte, Vinet le cerca nel «fatto della croce», che viene proposto al credente al fine di essere accettato per fede.

L’opera si articola in due distinte parti, la prima denominata “Prove” (con una serie di definizioni e di dati ad appannaggio della necessità di una libertà di culto), la seconda “Sistema” (con la proposta di una nuova piattaforma, da cui non potrebbe prescindere la ridefinizione dei rapporti tra Stato e Chiesa). Punto di partenza secondo Vinet è la libertà di coscienza, dal momento che «nessuna interpretazione può rivendicare il diritto di imporsi sulle altre con strumenti che non siano il dibattito e il ragionamento per convincere le parti avverse». Lo Stato non dovrebbe quindi occuparsi della morale religiosa, ma solo di quella sociale. «Essa non trova fondamento nella religione ma nella società stessa».

Quindi lo Stato, mentre da un lato avrà il dovere di intervenire nelle società religiose qualora esse dovessero violare norme della morale sociale, dall’altro ha il dovere di professare la propria «non competenza dinanzi alle problematiche inerenti la sfera religiosa». Il ragionamento di Vinet, ricordiamo datato inizio Ottocento, poggia sul fatto che l’intervento dello Stato nella sfera delle idee che comprendono la morale sociale, non solo è sbagliato ma per giunta anche controproducente, per due motivi: in primis perché la costrizione fa nascere un senso di rivolta; in secundis perché le idee al loro interno contengono comunque una forza propria che appare indipendente rispetto ai tentativi esterni di condizionamento. Quindi, sostiene Vinet, se allo Stato interessa realmente la verità religiosa, dovrebbe favorire il libero esame e la concorrenza tra le differenti opinioni, le quali all’interno della diversità producono una verità maggiormente certa.

Un altro fattore su cui insiste il teologo scomparso ventuno anni dopo questa pubblicazione, è che la costrizione in campo religioso danneggia anche la sottile linea esistente tra discipline filosofiche e religiose. La prima parte relativa alle Prove, dunque, si chiude con una finestra sulla situazione religiosa negli Stati Uniti, dove l’assenza di costrizione, assieme alla libera associazione di Chiese, non comporta certo un numero di miscredenti maggiori che in Europa.

Il Sistema, invece, offre la soluzione al cambiamento. Società religiosa (nata da un sentimento morale) e società civile (scaturita dalla necessità) possono comunicare fra loro solo attraverso un’influenza morale della prima sulla seconda, e con un’azione correttiva dello Stato se le religioni dovessero depotenziare la morale civile. Da questo principio scaturiscono una serie di elementi: è necessario tutelare i diritti di tutti i cittadini, senza distorsioni di fede religiosa; la società religiosa non può adottare una costrizione fisica al suo interno; Chiesa e Stato non devono porsi in concorrenza, né nelle istituzioni né negli atti; il culto deve essere pubblico, così da poter verificare che non si manifestino eventi contrari alla morale civile.

All’interno di questo quadro, Vinet fa trasparire la possibilità concreta che lo Stato, lasciando proliferare confessioni diverse e perseguendo la massima libertà religiosa, riesca a educare i cittadini «che anelano sinceramente alla verità». Un modus operandi che, solo se posto in questi termini e circondato da tali precise assunzioni di responsabilità, si erge a paladino del bene comune. Perché, riflette Vinet, se la libertà religiosa comporta il progresso dello spirito religioso, esso a sua volta favorisce la crescita di virtù private. Più esse si cementano, più di pari passo migliorano le virtù pubbliche, in quanto il buon credente è anche un buon cittadino.


Alexandre Vinet
Libere Chiese in libero Stato. Memoria in favore della libertà dei culti (1826)
Edizioni GBU
pp 353, euro 20

sabato 11 luglio 2009

Più ricerca scientifica per sconfiggere la crisi



da FFwebmagazine dell'11/07/09

«Cultura, imprese e sindacati stringano una grande alleanza per svegliare la politica italiana dal torpore nel quale si è cacciata, sempre e solo intenta a occuparsi di tornate elettorali». No, non è la solita lamentela del giornalista straniero di turno, che si imbatte negli affari di casa nostra. O dell’imprenditore cinese spaventato dalla mole di burocrazia che caratterizza il nostro paese. Il richiamo è firmato da Claudio Cavazza, fondatore del colosso farmaceutico Sigma-Tau, a margine di un seminario sui biosistemi. E non lascia spazio a interpretazioni o precisazioni. Il messaggio è diretto e viene esattamente un mese dopo quello lanciato dal vertice di Confindustria, nel quale Emma Marcegaglia aveva ammonito «tutti di nuovo in aula, la ricreazione è finita». La politica, nella sua globalità, a volte non soddisfa: non è un’opinione, né una polemica, né tantomeno una forzatura. È un malessere con il quale purtroppo è necessario fare i conti, e contro il quale possibilmente pensare soluzioni valide ed efficaci.

«In Italia stiamo buttando via una ricchezza, che è rappresentata dai cervelli nostrani - ha aggiunto il project manager del progetto di innovazione industriale per le nuove tecnologie per la vita, a cui tra l’altro la Contea del Maryland ha intitolato nel 1995 il premio “Claudio Cavazza Science Award” -. Se i politici non lo capiranno, beh noi inizieremo a strillare». Detto da un imprenditore che non si definisce illuminato ma semplicemente avveduto, assume un certo valore e non solo in virtù di un curriculum di tutto rispetto.
Significa che i tessuti produttivi del paese, a vari livelli, avvertono l’esigenza di efficacia, che non è né di sinistra, né di destra. È un’esigenza reale di tutti, a sostegno della quale bisogna rispondere in tempi brevi attraverso lo strumento delle alleanze.

Da noi si considera la ricerca come un lusso, per via della crisi economica che taglia fondi su fondi, non comprendendo invece come essa non solo rappresenti un’occasione di sviluppo e benessere futuro (economico e sociale), ma quanto essa sia il vero elemento di ricchezza culturale, prima, e produttiva, poi.
Come aveva ribadito il presidente della Camera Gianfranco Fini in occasione di un convegno sulla cittadinanza, «in Italia stenta ad affermarsi una mentalità da democrazia matura. È debole la percezione dei valori e degli interessi che uniscono gli italiani». È quindi su queste direttrici che la classe politica dovrebbe investire forse qualcosa in più, soprattutto in termini qualitativi.

Se ad esempio la fuga dei cervelli, così come è stato accertato da anni, è un problema che ha anche ricadute economiche e sociali negative per il territorio, che si predisponga un piano pluriennale per far rientrare in Italia i migliori scienziati, mettendoli al servizio del paese. Se, come ha rammentato lo stesso Cavazza, è necessario un anno e mezzo di tempo per esplicare gli adempimenti burocratici in seguito alla registrazione di un nuovo farmaco e se, come ormai è evidente, quel lasso di tempo ha irrimediabilmente messo fuori mercato il prodotto che tanto lavoro ha comportato e che tante vite umane potrebbe salvare, bisogna provvedere a una semplificazione di tempi e modi. Insomma, urge darsi da fare di più e meglio.
Né bisogna ritenere che riflessioni come quella del fondatore di un colosso farmaceutico, o del presidente degli industriali italiani, o di chiunque altro, debbano per forza di cose essere ricondotte a un certo pessimismo, o a un vezzo di critica fuori luogo, semplicemente perché non è così.

Chi alza un dito per esternare la propria opinione, anche in considerazione dei modi e dei tempi in cui si esprime, deve rappresentare un accrescimento, contrapposto alla calma piatta di mari e laghi passivi, che non fanno bene a nessuno. A tutti piacerebbe navigare in acque tranquille, ma tutti sanno che non è possibile, non è purtroppo nella quotidianità. Per una serie di ragioni. Anche la stampa e la critica hanno i propri doveri in questo senso, perché, come diceva Pierre Lazareff «il giornalismo è vedere, sapere, saper fare e far sapere». Che sia quindi la parola al centro, che si moltiplichino i dibattiti, le voci, anche se possono apparire stonate, ma è essenziale che ci si confronti, dal momento che il silenzio non aiuta, al pari del nascondere problemi o del sotterrare aspirazioni o, perché no, consigli e suggerimenti, come non di rado accade

lunedì 6 luglio 2009

«Adesso le riforme sono imprescindibili»


da Ffwebmagazine del 06/07/09

Costruire è più complesso che distruggere in un colpo solo quanto realizzato, per questo il ruolo della persona deve essere rivalutato, concentrando attenzioni e provvedimenti dello Stato verso l’individuo, nella consapevolezza che, accanto a rivisitazioni sociali, è imprescindibile programmare e realizzare una seria e ragionata azione riformatrice. È l’opinione del sottosegretario agli Esteri Stefania Craxi, che riflette sul significato di un progetto - quello di mettere al centro la persona - che prima di essere politico deve essere per forza di cose culturale.

D. Rimettere la persona e la sua dignità al centro dell’azione politica: lo ha sottolineato il presidente della Camera Fini pochi giorni fa in visita in Spagna, e lo ha ribadito Maurizio Sacconi (con la citazione “people first”) in occasione del G8 dei ministri del Lavoro. Come attualizzare questo proposito in chiave di welfare?
R. Innanzituto lasciando da parte il vecchio e datato concetto assistenzialistico, che in questi quarant’anni non ha prodotto quello che ci si aspettava. Credo si debba tornare a ragionare su concetti come la sussidiarietà, investendo appunto sulla persona, cercando di comprendere i nuovi bisogni di un tessuto sociale che è radicalmente mutato, anche in virtù di un diverso approccio al lavoro. Direi dunque attraverso un’osservazione attenta della realtà che è profondamente cambiata.

D. Osservare i cambiamenti, quindi, e progettare con lungimiranza dei correttivi: ma anche avviare una stagione delle riforme che prenda finalmente il via, senza intoppi e vincoli demotivanti?
R. Il momento giusto per le riforme credo sia sempre. Nel 1978 Bettino Craxi intravedeva l’assoluta necessità di una grande riforma, che investisse il paese in ogni suo settore, mi riferisco alla vita sociale, a quella politica e civile. Purtroppo quelle riforme non sono mai state realizzate. Per questo ritengo che se vorremo investire sulla modernità del nostro Stato, sulla sua capacità e rapidità di offrire risposte concrete ai bisogni veri, quelli di tutti i giorni, in un mondo sempre più globalizzato, allora le riforme saranno necessarie e imprescindibili.

D. Marc Lazar, dalle colonne di Repubblica, giorni fa ha accusato le sinistre europee di guardare l’attuale crisi con gli occhiali del passato: condivide l’analisi, anche pensando al conseguente scatto di reni che il centrodestra dovrebbe avere?
R. È evidente come la sinistra italiana, e anche quella europea, sia rimasta incrostata a un passato che non c’è più e che non ritornerà. Penso al welfare State, che ha dato tutto quello che poteva dare. Quegli stessi interpreti però, in questo lasso di tempo, non si sono accorti che la realtà attorno a loro si è profondamente trasformata. Personalmente, se avessi vissuto in Francia, non avrei votato certo per Segolène Royale ma per Sarkozy, il quale dice oggi delle cose che ho sentito professare venti anni fa dal Psi di mio padre.

D. A proposito di Sarkozy, cosa ne pensa del suo “sguardo” gauchista per porre un freno all’estremista Le Pen?
R. La sinistra francese è molto diversa da quella italiana. All’interno del panorama partitico d’Oltralpe sussistono certamente maggiori punti di contatto tra conservatori e riformisti, di quanti ce ne siano al momento tra liberali nostrani e vecchie logiche diessine.

D. Antonio Ghirelli, già portavoce di Sandro Pertini, utilizzando recentemente una metafora calcistica ha detto che al Partito democratico manca un numero dieci.
R. Purtroppo al Pd oggi non manca solo il fantasista, ma addirittura la squadra e più propriamente un obiettivo. Per questo non posso che consigliare loro di fare i conti con il passato e di chiuderlo.

D. Dialogo e confronto, aperto e costruttivo: quale puo`essere in questo senso il ruolo delle fondazioni, come la Fondazione Craxi, Italianaieuropei, Farefuturo, Italiadecide, Medidea, all’interno del dibattito politico e culturale italiano?
R. Considero strategico il ruolo delle fondazioni, per una serie di ragioni. Se considerassimo l’ipotesi di avvicinarci a un sistema come quello americano, ci renderemmo conto che avremmo molti più vantaggi. Negli Usa, le fondazioni e i media rappresentano il luogo di produzione di idee, dove convergono diverse posizioni, dove ci si scambia riferimenti e proposte circa la visione attuale e futura del paese. In un momento caratterizzato dal fatto che in Italia partiti tradizionali non ci sono più, e in virtù della scarsità di luoghi di dibattito, credo che il ruolo delle fondazioni possa risultare determinante.

Quell'integrazione vera, che parte dal campo di calcio

da FFwebmagazine del 06/07/09

«Amate dunque il forestiero – diceva il Deuteronomio –, poiché anche voi foste forestieri nel paese d’Egitto». Hans George Gadamer predicava «È un errore molto diffuso quello di ritenere che la tolleranza consista nel rinunciare alla propria peculiarità cancellandosi di fronte all’altro». Dio, Budda, Allah, nessuno: non importa chi, non importa cosa e non importa se pregheranno, importa che lo facciano assieme in un luogo diverso dalla loro casa, uniti nello sport, nei riti che precedono una gara di calcio, uniti perché gruppo. Si stringeranno prima del fischio di inizio, al termine di una sconfitta o per festeggiare una vittoria. Quello che importa è che lo facciano insieme, e insieme partecipino al terzo tempo, quando i ventidue in campo si saluteranno al novantesimo minuto prima di far ritorno nei rispettivi spogliatoi.

La notizia che la comunità romena di Bari prenderà parte con una propria squadra composta da tredici elementi (che in passato hanno militato in compagini romene) al campionato italiano di terza categoria, rafforza il concetto di integrazione. Quella vera, reale, quella che si consuma tutti i giorni per strada, al supermarket, nelle università, in pizzeria, oppure allo stadio. Non quella annunciata ai quattro venti dai mille buoni propositi (come il no alla guerra, alla fame) e poi abilmente mascherata dietro barriere e muri. E il fatto che a battezzarla sia un evento sportivo non può che accrescere quel sentimento di coinvolgimento e di comunione che parte dal basso, e non da vertici o da summit internazionali.

Qui c’è un gruppo di amici che nelle pause di lavoro (si occupano di agricoltura e di edilizia) hanno deciso non solo di tirare quattro calci a un pallone, ma di unire le forze e fare squadra. Così è nata tre anni fa la Asd Romania Bat, (che sta per le iniziali della provincia di nuovo conio di Barletta, Andria e Trani), grazie all’entusiasmo di Mihai Gecaleanu, in passato in forza alla squadra dell’Universitatea Craiova. Giunto in Italia e con l’aiuto di qualche annuncio sui giornali locali, ha fatto la sua campagna acquisti ed ecco che nel 2008 è riuscito a portare a casa il suo prezioso scudetto: il primo posto in un campionato dilettantistico organizzato da un centro sportivo di Andria.

Da oggi la squadra è ufficialmente affiliata alla Federcalcio ma non è questo il solo elemento di soddisfazione. Senza scomodare il concetto tanto caro a Pierre de Coubertin di partecipazione leale e bella (dentro) all’evento sportivo, che vada al di là della vittoria, qui emerge un fatto, che non si presta a interpretazioni o a valutazioni analitico/filosofiche: gli italiani, acquisiti o meno, oggi sono una realtà. Come aveva rilevato il presidente della Camera Gianfranco Fini in occasione di un seminario sulla cittadinanza, «il nuovo moderno e strategico impegno delle istituzioni deve inoltre essere quello di far sentire l’Italia come patria anche a coloro che vengono da paesi lontani e che sono già o aspirano a diventare cittadini italiani. Non si può chiedere a questi nuovi italiani di identificarsi totalmente con la nostra storia e con i nostri costumi. Sarebbe ingiusto e sbagliato pretendere di assimilarli nella nostra cultura. Per loro la patria non potrà mai essere la terra dei padri. Però si può e si deve chiedere loro di partecipare attivamente e lealmente alla vita collettiva».

E iniziare da un campo di calcio di terza categoria, magari senza le tribune vip o le panchine termoriscaldate, è un segnale importante, per chi come la Asd Romania Bat il suo scudetto l’ha già vinto. «Uniti ma indipendenti, distinti ma inseparabili. È questa la chiave della nostra identità comune»: questo appello di Zygmunt Bauman dovrebbe indurci a più di una riflessione.