lunedì 26 maggio 2014

Un greco su tre vota Tsipras La Sinistra non aveva mai vinto

Dal Giornale del 26/5/14

l vento anti troika davanti a tutti. Le elezioni europee in Grecia parlano una lingua diversa dal tedesco mandato a memoria dal premier Antonis Samaras, con la sinistra radicale di Alexis Tsipras primo partito nel Paese con almeno quattro punti in più rispetto ai conservatori al governo. Troppo forte la delusione popolare per chi ha accettato senza fiatare un memorandum che stringe un cappio al collo dei greci sino al 2055. E così il Syriza si spinge fino al 27%, con Nea Dimokratia al 23. Prosegue l'exploit dei neonazisti di Alba dorata, stabilmente al terzo posto con circa il 10%. Scompaiono i socialisti, dati intorno al 6% con l'esperimento di Elià, una sorta di Ulivo che avrebbe voluto federale ciò che resta del centrosinistra guidato da Evangelos Venizelos, ma che di fatto ha avantaggiato chi, come il giornalista Stavros Teodorakis, in un mese ha messo su il partito del Potami (il fiume) dato al 6%, così come i comunisti del Kke. 

Ai ballottaggi per le amministrative in grande spolvero i candidati indipendenti, come Ioannis Moralis al comune di Pireo, molto vicino al club calcistico dell'Olympiacos, segno che i greci poco si fidano ormai della politica 2.0 ma preferiscono dare fiducia ad imprenditori e volti nuovi. Un risultato che, se confermato, sarebbe storico per la Grecia dove mai un partito di sinistra è risultato primo assoluto ad un'elezione. 

Si fa sempre più rischioso il gabinetto guidato da Samaras in tandem col socialista Venizelos, che già possono contare su di un solo voto in più in Parlamento.


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giovedì 15 maggio 2014

Strage in miniera, assalto a Erdogan

Se anche solo piovesse a Istanbul, le piazze si rivolterebbero contro Erdogan. È ormai un trend incontrovertibile quello del disagio sociale nei riguardi del premier turco.
Persino un fatto dolorosissimo come l'esplosione nella miniera di Soma, il peggior disastro che la storia del Bosforo ricordi, si trasforma in occasione di protesta contro un regime inviso. La Turchia tutta si è fermata. Troppo grande l'angoscia per le 240 e più vittime, per i 120 minatori ancora intrappolati e per gli 80 feriti a seguito dello scoppio nell'impianto carbonifero situato nella parte occidentale del Paese, accaduto a cavallo tra un cambio di turno, con il monossido di carbonio che si è diffuso rapidamente. Poche in verità le speranze di trovare minatori ancora in vita, mentre si continua a scavare anche a mani nude e dopo che per tutta la notte di martedì i soccorritori hanno pompato ossigeno nella miniera. Anche Papa Francesco ha lanciato un appello in occasione dell'udienza generale del mercoledì: «Vi invito a pregare per i minatori morti nella miniera di Soma, in Turchia e per quanti si trovano ancora intrappolati nelle gallerie». 
Ma è la rabbia a soffiare adesso sul fuoco delle polemiche, con gli oppositori di Erdogan che accusano il governo di aver ignorato i ripetuti avvertimenti sulla sicurezza delle miniere. Una regione, quella situata a 300 km a ovest di Istanbul, che negli ultimi dieci anni ha fatto registrare un'impennata alla voce sviluppo/pil e che oggi si interroga su come sia possibile morire per un salario bassissimo. Proprio la società proprietaria dell'impianto è messa nel mirino dal partito di opposizione Chp: avrebbe impiegato alcuni minorenni, facendoli lavorare ben al di là dell'orario stabilito, e con l'ombra rappresentata dai dati dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro che posiziona la Turchia come il terzo peggior Paese al mondo per le morti sul lavoro.
La protesta è sfociata ad Ankara, dove gli attivisti anti-Erdogan hanno invitato i cittadini a sdraiarsi per terra nelle stazioni della metropolitana, in ricordo delle vittime. Le forze dell'ordine non hanno gradito la manifestazione e, per il solo fatto che non era stata preventivamente autorizzata, hanno lanciato lacrimogeni e cannoni ad acqua per disperdere i presenti, presso la Middle East Technical University. Violenti scontri anche a Istanbul. «Noi, una nazione di 77 milioni di abitanti, stiamo vivendo un grande dolore», ha detto Erdogan in una conferenza stampa improvvisata dopo aver visitato la miniera. All'uscita il premier è stato costretto a rifugiarsi in un supermercato fuori dal quale lo attendeva una folla inferocita, che ha poi preso a calci la sua auto al grido di «Ladro e assassino». Le sue parole non sono bastate a chi vede proprio nelle politiche governative l'epicentro dei problemi. A chi gli chiedeva conto delle misure di sicurezza, Erdogan ha reagito con stizza, replicando che esplosioni come queste possono accadere in ogni momento. I tre giorni di lutto nazionale e l'aver annullato la visita ufficiale in Albania non saranno certo un vaucher per chi, nonostante la vittoria alle amministrative di un mese fa, vorrebbe il prossimo agosto sedere sulla poltrona più alta del Paese, mostrando totale disinteresse per chi scende in piazza. Ovvero quei cittadini che sulla parete del pronto soccorso di Soma hanno inciso con una chiave parole dure come il marmo: «Per coloro che danno la vita in cambio di una manciata di carbone».

lunedì 12 maggio 2014

La crisi greca e i 300 alle ‘Termopili dell’Europa’

Ha scritto Jemolo che il pregio del Mondo di Pannunzio era quello di vedere gli avversari, di destra e di sinistra, “per quel che fossero, e non costruire un manichino di comodo, troppo facile a colpire”.
È quello che ho tentato di spiegare ieri sera, in un’Atene dolcemente tiepida e profumata all’inverosimile di gelsomini, ai trecento cittadini greci (sì, trecento, proprio come alle Termopili) che hanno voluto dedicare un’ora alla presentazione del mio libro “Greco-eroe d’Europa” presso la Segreteria Generale dei Media ellenici. Ma come, potrebbe chiedere qualcuno, non è più colpa dei tedeschi, della Merkel, del rigore, della troika, degli sprechi? Certamente sì, ma il caos ellenico ha molti padri.

Abbiamo impiegato gli ultimi due anni a certificare un’evidenza: il medico della troika ha sbagliato la cura per la Grecia? La risposta è sì, ma non perché lo asserisce qualche analista o qualche commentatore che ha toccato con mano i numerosissimi controsensi di un memorandum che chiude la macro falla del debito con altri debiti fino al 2055. Bensì perché lo ha ammesso il Parlamento Europeo, non proprio l’ultimo organo elettivo del continente. Accanto a questa contingenza la consapevolezza che la politica che si dice democratica, quella che oggi sta issando la bandiera del rigore tout court, delle riforme che ancora non si vedono, delle migliaia di conflitti di interessi che in Grecia sono macroscopici e imbarazzanti, è la principale responsabile dell’eurodisastro. E invece si tira fuori dalle sabbie mobili, come se negli ultimi due decenni sia stata in vacanza su Marte.

Cosa c’entra tutto ciò con i greci? Molto. Perché adesso, quando ormai la diagnosi è nota in tutto il mondo, occorre un passo in più: prendere coscienza e agire, alzando la testa con una visione, senza trastullarsi cercando responsabili che purtroppo non saranno puniti e interrogandosi su quelle deficienze che attengono l’antropos. Un esempio del passato potrebbe essere d’aiuto. Un gabinetto di crisi per ri-trovare l’Unione perduta, che nascerà lì dove la storia ha lasciato segni indelebili e dove oggi l’uomo sta mortificando quel senso intimo e unico di condivisione.

Alle Termopili nel 1500 a.C. vi fu il primo tentativo di unire le varie anime elleniche e nell’agosto del 480 a.C. lì una pagina di eroismo venne scritta da Leonida e dai suoi spartiati. Nell’antica Grecia le Amfiktiones, organizzazioni sovranazionali originariamente fatte nascere nel centro esatto del paese dove si svolse la battaglia delle Termopili, (nell’attuale comune di Lamia) erano un specie di prove generali dell’Unione europea. Un gran consiglio a cui facevano riferimento le città- stato per trovare soluzioni ai conflitti e dove l’ultima opzione era rappresentata dalla guerra, in quanto si perseguiva in primis la pace e la convivenza fra diversi.

In quel luogo si forgiò la prima forma di unione continentale, in quello stesso luogo oggi ho esortato i fratelli greci e rimboccarsi le maniche e iniziare ad immaginare un euro rinascimento mediterraneo che scacci gli incubi del medioevo 2.0 in cui siamo finiti: travolti da spread e numeri, da sondaggi e urla di piazza, da burattinai e imbonitori. E con la speranza di tanti nuovi 300 che con orgoglio rivendichino un euro patriottismo Mediterraneo.

Italiani all’estero: attenzione alla demagogia

Ambasciatori del made in Italy, o espressione di chi ha scelto (o dovuto scegliere) l’emigrazione, o ancora zavorra da eliminare? Si sprecano, in tempi di spending review, gli epiteti per gli italiani all’estero con un’escalation di commenti anche spiacevoli e analisi su vari blog dedicati appositamente a quegli italiani che risiedono ormai da anni lontano dal nostro Paese e che grazie alla legge Tremaglia dal 2006 possono esprimere il proprio voto. Il rischio che si corre, in verità, è di buttare il bambino con l’acqua sporca, dimenticando che tutto è perfettibile, a patto che si imbocchi la strada più corretta e senza populismi di pancia che non risolvono i problemi ma ne enfatizzano le criticità.

Migliorare la legge che attribuisce agli italiani all’estero il potere di votare i propri rappresentanti in Parlamento dovrebbe presupporre un giudizio di merito e non ideologico. Fin dalla sua costituzione nel 1968, il Comitato Tricolore per gli Italiani nel Mondo (CTIM) si è sempre distinto per il suo impegno a favore degli Italiani che vivono fuori dai confini della madrepatria. L’esercizio del voto è il frutto di battaglia condotta in Parlamento da Mirko Tremaglia, al pari del censimento degli Italiani nel mondo e l’istituzione dell’Anagrafe degli Italiani all’Estero (AIRE). Il nodo potrebbe essere risolto non con l’eliminazione di quel diritto, così come l’ex ministro degli esteri Emma Bonino aveva lasciato intendere qualche settimana prima di essere sostituita alla Farnesina da Federica Mogherini, ma ad esempio con l’introduzione di un consenso esplicito ad esercitare quel diritto al fine di evitare gli spiacevoli disguidi legati alla ricezione dei plichi contenenti le schede elettorali, che in molteplici occasioni passate o non sono mai giunti agli elettori o addirittura due volte.

Un secondo intervento dovrebbe riguardare la questione delle sedi. Sin dall’insediamento di “mister spending review” Carlo Cottarelli, si è paventato (e in qualche caso si è già purtroppo verificato come a Salonicco in Grecia) la chiusura degli Istituti di Cultura all’estero, di alcune sedi diplomatiche: due presidi significativi dell’italianità nel mondo che certamente meritano attenzione al fine di evitare sprechi e disservizi, ma che non possono essere cassati con un semplice tratto di penna. Una soluzione potrebbe essere, in quei territori dove già la scure si è abbattuta, di concentrare in un singolo ufficio il consolato italiano e l’istituto di cultura in modo da ottenere un doppio vantaggio: accorpare sedi e uffici per un risparmio effettivo e non mortificare quei cittadini italiani che chiedono solo di non essere dimenticati in quanto fisicamente distanti dall’Italia.

Per dirne una, l’Istituto Italiano di Cultura di Salonicco è stato chiuso dopo 51 anni lo scorso febbraio. Era un capitolo di storia non solo della città ellenica, ma soprattutto della presenza culturale italiana nel mondo. La tradizione delle scuole italiane a Salonicco risale alla fine del 19esimo secolo, con un enorme contributo che ha consentito di veicolare e intrecciare le culture dei due Paesi, che corrispondono alla cultura del mondo intero. Un patrimonio che oggi viene sacrificato dalla crisi e da anni di mancata programmazione.

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