domenica 30 aprile 2017

La vendetta su Londra: il divorzio dall'Europa costa 40 miliardi in più


Da Il Giornale del 30/04/17

Proteggere i negoziati dai «furbetti d'oltre Manica» che vorrebbero uscire dall'Ue senza pagare un solo poundMentre invece, alla cassa, potrebbero dover sborsare fino a 60 miliardi di euro. Il vertice straordinario di Bruxelles sulla Brexit (lampo, meno di 3 ore) si è aperto, da un lato, con l'approvazione all'unanimità delle linee guida dell'Ue, come cinguettato dal presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, in attesa delle raccomandazioni sulla direttiva tecnica da varare mercoledì. E dall'altro, con la certezza che qualcuno a Londra si era fatto «delle illusioni», parafrasando il trio Juncker-Merkel-Hollande, a cui si era aggiunta anche la chiusa puntuale del feldminister Schaeuble: «Londra non può avere, dopo la sua uscita, vantaggi che altri Paesi non hanno. Nulla è gratis, i britannici devono saperlo».
Come dire che chi ha imboccato, oggi, una via non pretenda, da domani, di proseguire quel cammino come se nulla fosse. Che vuol dire? In prima istanza dare assicurazioni ai cittadini sui loro diritti: «È la nostra principale priorità», ha aggiunto Tusk con l'assist del premier italiano Paolo Gentiloni secondo cui senza un accordo sui 500mila cittadini che risiedono nel Regno Unito «non possono esserci accordi seri». Londra è di fatto messa con le spalle al muro: il ragionamento avanzato dalla Cancelliera Merkel, alla vigilia del vertice, poggiava sul fatto che un terzo Stato, quale sarà la Gran Bretagna, «non potrà avere gli stessi diritti di uno stato europeo». E il fatto di aver dovuto esprimere «concetti che sembrano scontati» è indicativo di come qualcuno a Londra abbia fatto i conti senza l'oste. Il riferimento è alle discussioni sulle spese del divorzio dall'Ue che dovranno essere fatte in apertura dei negoziati sulla Brexit e non work in progress, come più volte vergato tra le righe nei giorni scorsi dalla Frankfurther Allgemeine Zeitung.
Il capo negoziatore dell'Ue, Michel Barnier e il presidente dell'Europarlamento, Antonio Tajani, sono «pronti ai negoziati» che saranno articolati in due fasi. La prima sarà dedicata ad un accordo sui futuri diritti dei cittadini europei e sugli impegni finanziari del Regno Unito verso Bruxelles. Più complessa la partita per la seconda, quando i Ventisette dovranno materialmente scrivere un futuro accordo di partenariato con i britannici.

E qui i nodi verranno facilmente al pettine, con la maggioranza dei membri Ue che, per la prima volta uniti, premono per bypassare la prima fase e arrivare più rapidamente al quantum. Il timore di un possibile vuoto giuridico nelle relazioni commerciali con il Regno Unito è la ragione delle turbolenze, anche perché Londra fa spallucce e vorrebbe invece ragionare dei vari temi in simultanea (per avere uno sconto?). Schermaglie, dicono alcune fonti di Bruxelles, certi che nascondano il vero vulnus di tutta questa vicenda: il fronte finanziario che sul conto britannico potrebbe pesare fino a 60 miliardi di euro, come confermato da Juncker, mentre Westminster avanza una «stima prudente» di soli 20 miliardi e con la coda rappresentata dall'adesione di Gibilterra alla Ue.
Il governo britannico aveva chiesto formalmente alla fine di marzo il ritiro dalla Ue, oltre alla negoziazione da realizzare nel mese di giugno dopo le elezioni generali annunciate a sorpresa giorni fa da Theresa May. Contraddizioni, le hanno definite ai piani alti della Commissione, che adesso spinge per un risultato formale (sui conti) da ottenere entro il prossimo autunno e così chiudere definitivamente la pratica entro marzo 2019. La questione è delicatissima, anche perché investe anche due riverberi logistici di non poco conto: l'Agenzia europea per i medicinali (EMA) che Milano vorrebbe scippare a Londra, ma c'è la concorrenza di Amsterdam, Copenaghern, Stoccolma e Dublino, e l'Autorità bancaria europea, sui cui è già molto forte la candidatura di Francoforte. Potere e denaro. Per una volta l'Ue marcia straordinariamente a senso unico. Ed è già una notizia.
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giovedì 13 aprile 2017

Edison e Total, chi e come cerca petrolio in Grecia


Peloponneso, Corfù e Aitoloakarnania: sono le tre aree greche dove il ministero dell’Energia ha concesso il permesso per esplorazioni petrolifere. Una di esse, nei pressi dell’isola di Corfù, è a 80 miglia dall’Italia che ha detto no alle trivelle lo scorso anno. I greci di Hellenic Petroleumuna delle maggiori compagnie petrolifere dei Balcani, avanzeranno in partnership con i francesi di Total e gli italiani di Edison. È dal 1970 che si discute sulle potenzialità energetiche in Grecia, ma mai si era passati alla fase operativa in un Paese dove si stima anche la presenza di miniere di oro e di argento nella penisola Calcidica(dove gli ambientalisti hanno cacciato gli investitori canadesi) oltre ai giacimenti di gas che continuano a sollevare gli appetiti della Turchia. Ora è atteso il via libera del Parlamento ateniese, che già ha in agenda le valutazioni sul nuovo gasdotto EastMed.
ESPLORAZIONI
Le decisioni che autorizzano le esplorazioni offshore contemplano una serie di misure per proteggere l’ambiente, come la zona cuscinetto dalla costa entro cui non devono essere sistemati gli impianti di produzione, trattamento o immagazzinaggio. Previste anche misure di salvaguardia per i siti turistici più visitati e per quelli migratori delle specie di fauna. Da un anno il governo greco ha messo sul mercato due dozzine di siti di perforazione offshore tra lo Ionio (Corfù) e Creta. Il consorzio è guidato da Total e ha già avanzato un’offerta per un blocco nello Ionio.
Risale allo scorso ottobre il vertice decisivo tra il ministro dell’Energia di Atene, Giorgios Stathakis, e il consorzio. Total ha presentato un’offerta per il blocco 10 dello Ionio (tra Corfù e Zante), mentre Hellenic Petroleum (HP) ha fatto un’offerta indipendente per altri due blocchi nella stessa regione.
La spinta decisiva nacque in occasione della conferenza ateniese dell’Associazione Americana dei Geologi (AAPG), nel 2013, alla quale parteciparono 150 dirigenti di 40 importanti società di esplorazione petrolifera. Ma pochi mesi prima della conferenza, HP e Total avevano pagato i 5 milioni di dollari per accedere ai dati sismici e agli studi geologici preliminari.
POTENZIALITÀ
Risale a un anno fa un report prodotto a Londra dal Centro Studi della HP secondo cui una riserva di petrolio significativo è presente nel golfo di Patrasso (Peloponneso occidentale), al pari di quella a Prinos al largo dell’isola di Tassos. Tale riserva è stata quantificata in 80-100 milioni di barili. I i ricavi per lo Stato greco sono stimati in 300 milioni di euro l’anno, pari a circa lo 0,2% del pil, per oltre 25 anni. Sin dal 2015 i principali operatori del mercato hanno espresso il loro interesse per l’area: su tutti Exxon Mobil, Shell, BP, Total e Repsol, ma il primo accordo ha riguardato solo i tre soggetti già citati.
Questa significativa porzione di territorio sottomarino della Grecia occidentale mostra caratteristiche geologiche simili a siti già attenzionati in Italia e in Albania, dove sono state localizzate importanti riserve. Le aree di terra di Arta-Preveza e Ioannina, concesse a Energean Oil, sono considerate le più ricche e si estendono a nord fino in Albania, dove sono state individuate già notevoli riserve di petrolio.
CHI È SPIRO LATSIS
Hellenic Petroleum è controllata dal banchiere greco Spiro Latsis55mo uomo più ricco del mondo fino a prima della crisi (oggi al 779mo posto), tramite la Paneuropean Oil. Si tratta di uno degli oligarchi greci più noti sul panorama internazionale, assieme ai Niarchos, proseguendo la tradizione ellenica di Onassis e Vardinoyannis. Vanta una personale amicizia con l’ex presidente della Commissione Europea Manuel Josè Barroso, spesso ospite del suo yacht e con la Regina d’Inghilterra. È anche il principale azionista di Eurobank, istituto che ha beneficiato del programma di salvataggio delle banche nel 2012. Possiede 47, tra società e controllate. Tra cui spiccano Efg e Paneuropean Oil in Lussemburgo, Sete Energy Saudita a Djedda, Privat Sea che gestisce imbarcazioni di lusso, Crems immobiliare in Inghilterra, Sete Aviation Holding in Svizzera, il gruppo bancario Efg in Svizzera. Vive a Montecarlo.
Tramite il consorzio Lamda, si è assicurato per la ridicola cifra di 915 milioni di euro, i 620 ettari del sito del vecchio aeroporto di Atene, Hellinikon, nella splendida marina di Glyfada (come parte di un programma di privatizzazione lanciato dallo stato greco) assieme al gruppo emiratino Al Maabar e ai cinesi di Fosun. L’obiettivo è farne la Dubai del Mediterraneo, con grattacieli e resort pentestellati.
Il gruppo Latsis ha interessi anche nell’aviazione. La compagnia aerea PrivatAir (nata come il PetrolAir) è stata da loro acquistata come parte di una transazione in un altro affare. Oggi ha 425 dipendenti e si basa su uno dei suoi mercati tradizionali, in Arabia Saudita.
MEDIO ORIENTE
Il rapporto con il Medio Oriente è stato da sempre nelle intenzioni operative di Latsis. Infatti è stato attraverso la costruzione della città petrolifera di Rabigh che nel 1970 Latsis padre ha gettato le basi della sua fortuna. Il greco capì subito l’importanza di costruire relazioni durature con i sauditi, al più alto livello. Nel 1980 nacque il suo impero a Ginevra grazie un team di ingegneri che assicurarono high performances di grandi progetti in Arabia Saudita nel settore petrolifero.
Ultima creazione, in ordine di tempo, la Fondazione Internazionale Latsis (FLI), presieduta da Denis Duboule, docente presso l’Università di Ginevra, che ogni anno grazie ai 300mila franchi donati dall’istituto elvetico, premia i migliori giovani ricercatori sotto i 40 anni.
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