martedì 26 maggio 2009

SCIASCIA, UNA VOCE CIVILE

« Una grande coscienza e voce civile del Paese », un rappresentante di ‘quei’ valori civici. L`epiteto che il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha rivolto alla figura di Leonardo Sciascia in occasione della sua visita a Racalmuto, testimonia la stima e la considerazione verso una voce libera e vivace, focalizzandone il pregio dell`etica con il preciso riferimento a La scomparsa di Majorana.
Visitando la sede della Fondazione Sciascia, il Capo dello Stato ha operato una sorta di pellegrinaggio in luoghi e ricordi non solo dello scrittore ma anche personali. L‘occasione e`una lettera che Napolitano invio’ all`autore il 5 marzo del ’75, all`indomani della polemica sulla teoria circa la scomparsa del fisico italiano allievo di Enrico Fermi, nella quale esprimeva « grande interesse e adesione, oltre che vero godimento » per la lettura del volume.
Ma e` il fattore etico che e’stato rimarcato piu`degli altri in quella Sicilia della ragione, dove ogni passo era ricamato da sagge e profonde menti, rari esempi di sensibilita` artistica, di cui Sciascia ha lasciato ampie testimonianze. « Ce ne ricorderemo di questo pianeta », rifletteva, concentrando i propri sforzi sull`indagine di quella piazza isolana, si`ebbra di contraddizioni ed ambiguita` (si veda La corda pazza 1970) ma anche capace di contenere al suo interno la forza razionalizzante di una terra che e’stata al centro degli studi di Sciascia, si puo`dire, senza sosta.
Quella coscienza e quella voce civile del Paese (che ha firmato tra gli altri l’Affaire Moro, Nero su nero, Il Contesto, I pugnalatori,) ha segnato un punto di riferimento vero e veritiero circa un modo di condurre indagini e analisi, circa una visione d’insieme della sicilitudine, apprezzata in un legame intenso che Sciascia aveva con Pirandello, il quale fra le righe di Berretto a sonagli, cogitava sul fatto che ogni uomo possiede nella propria mente tre corde di orologio : una civile, una seria ed una pazza.
Nel 1975 pubblico` La scomparsa di Majorana, ovvero una ricerca teorizzata sulla scomparsa del fisico siciliano avvenuta nel 1938, che lo stesso Enrico Fermi paragonava per genialita` e spirito intuitivo a Newton o Galilei.
Sciascia fondo`il suo romanzo sulla retromarcia etica che Majorana innesto`, basata su una volontaria e consapevole fuga dal mondo e dai possibili e terribli sviluppi della tecnologia, con esplicito riferimento alla bomba atomica. Uno scenario nel quale ancora una volta la Sicilia con i suoi ermetismi, non rappresentava certo solo una semplice cornice ambientale, ma era parte integrante di quelle scelte e di quei ragionamenti, un minimo comun denominatore socio-culturale onnipresente. Sciascia e`probabile che in Majorana individuasse il senso di indipendenza dell`individuo, padrone del proprio agire e della propria mente, libero di effettuare le proprie scelte anche in antitesi rispetto a richieste o aspirazioni degli altri individui.
« Credo sia giusto e necessario risollevare con forza in tutte le forme- scriveva di suo pugno Giorgio Napolitano in quella missiva ritrovata da un nipote dello scrittore, Vito Catalano - la questione della responsabilita`dello scienziato,oltre che delle classi dirigenti, dei poteri pubblici e delle diverse forze sociali, per l`orientamento della scienza e per l`uso delle sue conquiste ». Ovvero quel rapporto tra ricerca scientifica e potere che Brecht illustrava nella commeda Vita di Galileo (1938), con particolare riferimento alla sottile linea che intercorre tra cultura nascente e cultura governativa.

Napolitano sentiva quindi il bisogno di « dover richiamare i rischi di regressione che la rivoluzione tecnico-scientifica comporta in assenza di un controllo sociale sullo sviluppo », maturando l`esigenza di dover necessariamente provvedere ad una « regolazione consapevole, nell`interesse della collettivita` ». Due accenni, diretti ed inequivocabili ad altrettanti concetti fondanti e attualissimi, ovvero quel controllo sociale che impedisca stravolgimenti e storture, e soprattutto una visione improntata all`interesse comune piuttosto che del singolo.
Una lezione di democrazia, approfondita e raffinata, datata piu`di trent`ani fa che oggi sarebbe utile tenere bene a mente allorquando le differenti sfide del quotidiano impongono scelte e valutazioni. Per la collettivita`.

venerdì 22 maggio 2009

La postmodernità e la saturazione del mito del progresso

Da Ffwebmagazine del 22/05/09

Tornare alla dimensione organica, alla koinè aistesis, dove il senso comune sia bene supremo e dove non sia più l’individuo che pensi da monocefalo, ma il gruppo pensi nella sua interezza utilizzando tutti i sensi. È nella conclusione del suo intervento che Michel Maffesoli riserva la ricetta per affrontare le sfide sociali che il domani, anzi l’oggi, ci propone.

Il sociologo francese, teorico del neotribalismo, docente di scienze umane alla Sorbona, è stato ospite di una conferenza organizzata da Farefuturo in occasione dell'uscita dei volumi Icone d'oggi. I nostri idoli postmoderni (Sellerio editore) e La trasfigurazione del politico. L'effervescenza dell'immaginario postmoderno (Bevivino editore). Al centro della scena, gli idoli quotidiani, ovvero quelle icone della postmodernità nella politica e non solo, alla presenza di Umberto Croppi, assessore alla Cultura del Comune di Roma, Giuliano da Empoli, sociologo ed editorialista del Sole 24 ore e Angelo Mellone, editorialista del Giornale e direttore editoriale di Farefuturo. Maffesoli sostiene che la modernità sia scomparsa, ha precisato Mellone introducendo il tema, utilizzando la metafora del ritorno dell’emozione. Ne è testimonianza il fatto che nella politica di oggi risultino vincenti leader carismatici che fondano sull’originalità il proprio rapporto con l’elettorato.

Ma che cos’è la postmodernità secondo Maffesoli? Non possiamo più pensare a una società con una dicotomizzazione così come è stato fatto sino a oggi. Nietzsche sosteneva che la vera rivoluzione sta nei passi dei colombi, ovvero in quegli elementi che sembrano in apparenza secondari ma nei quali invece risultano sedimentati i veri cambiamenti e che animano il popolo e il suo modo di approcciarsi alla convivenza comune. Su questa procedura analitica si basa la tecnologia, ha puntualizzato il sociologo, e la postmodernità è da definirsi come «la congiunzione di cose che non c’erano».

Inoltre non bisogna sottovalutare un dato: ci troviamo in una fase di saturazione del mito del progresso. L’analisi poggia sul fatto che Maffesoli intende cogitare su «quali siano le vene sotterranee che animano la società», per questo si chiede: cos’è un uomo che non ha più ombra? Forse, sostiene, alla fine della corsa vi è questa concezione schizofrenica del mondo, in virtù della quale egli propone nel suo libro un viaggio itinerante nelle icone di oggi, da Henry Potter a Zidane, da Che Guevara all’Abbé Pierre. «La postmodernità nascente - riflette il docente della Sorbona, impegnato sei mesi l’anno in seminari in giro per il mondo e gli altri mesi nel suo rifugio di montagna dal quale firma i suoi libri - si comprende confrontando l’oggi con il quarto secolo a Roma, quello che definiamo Tarda Antichità, ma che invece dovremmo più volgarmente chiamare Decadenza romana. Il paradosso assoluto, dunque, sta nella sinergia tra arcaico e tecnologia, tra icone e internet. Il vero nodo del pensiero è di essere paradossale».

Ma il primo paradosso è, secondo Giuliano da Empoli, che Masseroli viva in Francia e non in Italia, dal momento che proprio Oltralpe si trova il luogo «maggiormente contestato dell’illuminismo, aggrappato con le unghie a questa icona della modernità». Il fatto che egli sia un apolitico, quasi un anarchico, secondo da Empoli, offre la cifra del suo modo unico e assolutamente calzante di spiegare la politica meglio di quanto non facciano i politologi stessi. In questo risiede la sua concezione ad esempio di Nicolas Sarkozy, interprete di una visione ludica della politica, legata a doppia mandata, non al programma governativo lontano nel tempo, ma al suo modus personale di oggi, del quotidiano più vicino, permeato di elementi tangibili con i quali si mostra vivo all’elettorato.

Croppi però non condivide la visione di Maffesoli secondo la quale la scissione del pensiero si vada pian piano ricomponendo, «dal momento che proprio in questa fase storica che ha nella crisi la sua protagonista indiscussa, vi è la concreta possibilità data alle élite di portare la politica lì dove per molto tempo è stata assente». Rimane il problema di cosa fare e come farlo, sostiene l’assessore alla Cultura della Giunta Alemanno, perché è innegabile che «viviamo una fase di passaggio in cui si è chiusa una forma del pensiero ma noi abbiamo la possibilità di ricostruirla ex novo, producendo un pensiero che non solo interpreti, ma sia autore di questa modificazione in atto».

Il finale è tutto riservato alla crisi economica che, secondo Masseroli, nella evoluzione sociale, dovrebbe incentivare il ritorno delle élite alla realtà, dal momento che a oggi esse si sono drammaticamente disconnesse, vivendo una sorta di limbo parallelo. Inoltre «la nostra specie animale dovrebbe reperire parole pertinenti per dire ciò che pensa», facendo riferimento a una corteccia di uomini a cui manca forse la modalità di esprimere correttamente emozioni, sensazioni, paure, sogni, avviluppati in quella modernità che sovente crea un universo fasullo, come i reality, la tv spazzatura, certi falsi miti, al termine dei quali (perché tali rappresentazioni hanno più di altre una fine) la società si ritrova sola e spaesata, a fare i conti con se stessa e con i propri errori, nella consapevolezza che solo con una visione legata al collettivo sarà possibile, o meglio, più utile, reperire una voce univoca per esprimersi e per godere di “quel” bene comune.

mercoledì 20 maggio 2009

I CONTI NON TORNANO

Da Mondo Greco del 20/05/09

Dunque, i cittadini ellenici hanno votato, in un sondaggio lanciato negli ultimi dodici mesi dall`emittente televisiva Skai, il greco piu`grande di tutti i tempi, e le soprese non sono mancate. Al primo posto il condottiero Alessandro Magno, grande figura carismatica e militare, primo a spingersi in quell`oriente cosi`diverso per cultura e costumi dalla madre patria greca.

Subito dopo il prof. Giorgios Papanikolaou, inventore del famoso pap-test per la diagnosi del cancro all`utero. Al terzo posto Teodoros Kolokotronis, che guido`la lotta di indipendenza contro l`invasore turco. Solo quarto Socrate, quinto Platone. Fuori dai dieci Aristotele.

Al di la`di personali scelte e di soggettive simpatie e valutazioni piu`o meno legate al gradimento, un elemento sconcerta sopra tutti: l`assenza sul ‘podio’ di personaggi legati alla filosofia ed alla cultura classica che tutto il mondo indivia e accosta direttamente e senza indugi alla Grecia. Che significa, che il popolo ellenico (moderno) ha preferito innalzare una corona di alloro a chi, avendo comunque e meritatamente lasciato un segno indissolubile nella storia, ha fondato il proprio personale impegno sulla guerra (Alessandro Magno) e sulla scienza (Papanikolaou)? Non solo, direi, dal momento che le motivazioni vertono forse su piu`piani differenti.

Innanzitutto questo sondaggio offre uno spaccato attuale e fortemente significativo della societa`greca di oggi, debole e preda di facili emozioni, a causa delle quali smarrisce forse il senso della storia e le sue implicazioni nel tempo. La figura di Alessandro Magno non ha quasi avuto eguali per la vastita`delle sue conquiste, esso e`un dato inconfutabile, al pari della grandissima opera del medico nato nel 1883 il cui viso era stampato anche sulle vecchie banconote da diecimila dracme. Il punto e`che, per quanto determinanti e fondanti siano stati i contributi dei suddetti personaggi, appare quantomeno riduttivo confinare il pensatore, il filosofo, la pietra miliare delle menti elleniche, ovvero Socrate, cosi`lontano dalla vetta. E a nulla valgono le giustificazioni sul fatto che in molti programmi scolastici la figura del pensatore non sia approfondita accuramente, dal momento che appartiene al Dna della nazione.

Il padre fondatore dell`etica o filosofia morale, figlio di uno scultore e di una levatrice, sanci`la nascita di quel modo di pensare che avrebbe portato alla riflessione razionale ed astratta. Investigando e ricercando, mostro`l`insufficienza della classe dirigente di allora, dialogando con tutti quelli che erano definiti sapienti. Senza dimenticare il ‘conosci te stesso’, dove il significato era da ricercare nell`analisi dei limiti personali di ognuno, senza presumere di essere di piu`.

Senza voler in questa sede effettuare un panegirico (tanto per rimenere in tema) del grande pensatore nato nel 469 a.c. e che fu sposato con Santippe, appare evidente come la societa`di oggi, che vive e lavora in quella terra che diede le origini a grandi filosofi e letterati (non compaiono in questa top ten, solo per fare qualche nome, Erodoto, Aristotele, Eraclito, Leonida, Achille, Omero, Aristofane, Parmenide) non ne conosce realmente la portata storica mondiale, che invero pare sia piu`apprezzata e riconosciuta all`estero, piuttosto che in Patria.

Tale sondaggio, per quanto possa apparire un episodio legato a gusti personali e a inclinazioni sociali quantomeno discutibili, come lo epitetavano alcune trasmissioni televisive greche di questi giorni, rappresenta la drammatica fotografia della ‘kinonia’ odierna, alla quale contribuisce la cittadinanza e la classe politica. La prima e’sempre piu`preda di falsi miti (si veda il numero di ore televisive dedicate all`Eurovision, spropositate rispetto ad una programmazione, ad esempio, di approfondimento giornalistico o di inchiesta), intenta a trastullarsi per ore intere ai cafenia, sovente all`oscuro di quali capisaldi della civilta`proprio la Grecia abbia prodotto.

La classe dirigente, invece, si e`smarrita in improduttive fasi alterne di cronica mancanza di certezze, di una programmazione lungimirante, di un`assenza drammatica di riforme strutturali in mancanza delle quali il paese sconta piu`di altri la catastrofica crisi economica, contro la quale appaiono soluzioni placebo l`insieme delle misure adottate nell`ultimo semestre. Semplicemente perche`non concorreranno ne`finanziamenti e ne`prestiti alla soluzione di questo tsunami mondiale, ma servira`un ripensamento complessivo della societa`in se`, nell`intimo dell`educazione civica di ognuno, dall`ultimo degli spazzini al primo dei ministri.

Nella consapevolezza che la culla della civilta`, quella Grecia che e`stata alfa della filosofia, della medicina, della scienza, della guerra, quel mondo che insomma e`stato il `pan`, non e`accettabile che oggi sia ridotto a un cumulo di scalmanati che lanciano bombe, o a miseri scandali che infangano il quotidiano, o a stuole di giovani che popolano i caffe`, senza rendersi conto che il resto del mondo ha messo la freccia, vedi Cina e India, e sta tentando il sorpasso. Riuscendoci.

De Gaulle: la storia guidata dalla volontà

Da Farefuturo webmagazine del 20/05/09

Le idee prima dei fatti, da manifestare a testa alta, nonostante a volte esse producessero frizioni e malumori. Il Generale Charles de Gaulle non ci pensò due volte nel gennaio 1964: la Francia fu il primo paese occidentale a riconocere ufficialmente la Repubblica Popolare Cinese perché «dal momento che nulla poteva essere regolato in Asia senza l'accordo di Pechino, era necessario abbandonare una sterile quanto anacronistica intransigenza e fare i conti con il mondo così com'è».

Ecco la figura di uno dei personaggi chiave della storia politica del Novecento, descritta da Riccardo Brizzi e Michele Marchi in Charles de Gaulle, autore di quel gollismo che prendendo spunto dalle difficoltà oggettive e partitiche figlie delle due guerre mondiali, riuscì con tenacia e varie fasi di legittimazione, a ergersi a garante della libertà, della democrazia e della governabilità della Francia grazie a un approccio innovativo, con intuizioni lungimiranti. Portatore sano di una terza via riformista e moderna, tra capitalismo e socialismo, si avvicinò da subito agli ambienti pogressisti, che all'epoca erano rappresentati dalla rivista Temps present.

Il volume ha inizio con il generale Pétain che firma una citazione di merito per de Gaulle come ufficiale senza eguali sotto ogni punto di vista: era il 7 maggio del 1916, e quello che avrebbe riportato quarantasei anni dopo la nazione alla grandeur, era stato ferito nel corso dei combattimenti ed era recluso nel campo di prgionia tedesco di Osnabruck.

Nato a Lille nel 1890 il Generale aveva assorbito il culto nazionale di genitori, entrambi espressione della borghesia conservatrice francese: «l’amor di patria - gli ripeteva il padre - non deve essere un proclama di facciata, non esiste onore senza giustizia». Appassionato di autori nazionalisti, come Charles Péguy e Maurice Barrès, allacciò le due guerre mondiali sotto la dicitura “guerra dei trent’anni”, comprendendo come la pace della conferenza di Versailles fosse un armistizio provvisorio, una modesta «coperta riposta su ambizioni insoddisfatte».

Il suo tratto caratteriale, assai vicino a quello di uomo giudice di se stesso e artefice delle evoluzioni della propria storia, emerge da una frase che il Generale ripeteva ai suoi allievi militari nel 1921: «La storia non insegna il fatalismo, esistono momenti in cui la volontà di qualche uomo rompe il determinismo ed apre nuove strade». Il nuovo, ovvero la soluzione alternativa alla deriva che in quell’attimo sta prendendo il sopravvento. Un ragionamento che sarà il leit motiv del suo credo politico, avvalorato nel '34 dalla pubblicazione del più importante dei suoi scritti, Vers l’armèe de métier. In quel momento la Germania si mostrava irrequieta uscendo dalla Conferenza sul riarmo e lo Stato militare francese denotava indubbi cedimenti, concretizzati nel degrado dell’apparato militare. Erano gli anni in cui Hitler reintrodusse il servizio di leva obbligatorio fino a occupare la Renania e, contemporaneamente, in Francia si susseguirono quattordici ministeri in sei anni, a dimostrazione di un sistema ancora fragile.

Inizialmente, tenne sempre a precisare la sua distanza dai partiti politici, in virtù del sentimento di sfiducia che molti repubblicani nutrivano nei suoi confronti. Anche a causa del fatto che, almeno nelle prime fasi, il gollismo della France libre appariva più vicino al bonapartismo nazionalista che al repubblicanesimo post 1870, un'importante fetta della sua legittimazione politica sarebbe passata da una graduale e costante accettazione dei principi democratici. La vera consacrazione politica del Generale si verificò nel biennio '41-'42 con la nascita del Comité national français e soprattutto con la Declaration aux mouvements de resistance: essa fu il prodotto finito di un lento ma determinato processo di maturazione politica e ideologica di de Gaulle. Affascinanti e utili alla comprensione della sua sfera emotiva, sono nel libro i passaggi epistolari tra il Generale e i suoi interlocutori, in modo particolare quelli legati alla prima fase post '45, allorquando non disponeva ancora nei fatti e nelle intenzioni della considerazione da parte di Churchill.

Momento di grande criticità, dal quale de Gaulle trasse profonda forza e cognizione, fu alla metà del '43: mentre era intento a trasferirsi da Londra ad Algeri con l'ordinanza già firmata per creare il Comité français de liberation national, Churchill in visita alla Casa Bianca, ricevette un dossier che epitetava de Gaulle come golpista e antidemocratico. All'interno della concezione postbellica di Roosvelt infatti non erano contemplate piccole entità come la Francia che non si sottomettessero alle due grandi potenze continentali (Russia e Gb). Il pericolo di una contaminazione ideologica di Churchill fu sventato dal realismo del laburista Attlee e del conservatore Eden che, riuniti in seduta straordinaria del governo britannico, fecero ragionare Churchill. Ormai il Generale rappresentava l'intera Francia.

Fu in quel preciso istante che il gollismo prese piede verso la piena rappresentatività politica, nazionale e internazionale. Lo dimostrò anche la scelta di coinvolgere due ministri comunisti nel rimpasto governativo del settembe '44, in conseguenza del quale lo stesso Stalin spinse uno dei due, Maurice Thorez, ad attuare una linea politica di compromesso, scartando velleità rivoluzionarie e concentrandosi invece sull`attualità, ovvero la battaglia della produzione.

Il rapporto del Generale con la Costituzione fu un altro degli snodi fondamentali della sua azione: tra de Gaulle e il repubblicanesimo classico esiteva una frattura. Il suffragio universale, al pari dell'adesione popolare, rappresentavano elementi imprescindibili per legittimare le nuove istituzioni. Ma la decisione finale doveva spettare secondo lui all'efficacia delle nuove istituzioni, e non ai principi astratti. Considerava la Costituzione «l'organizzazione dei poteri per meglio rispondere alle sfide della contemporaneità», al contrario dei tradizionalisti repubblicani secondo i quali la Carta era la traduzione pratica di quei grandi principi universali senza tempo.

Nel momento in cui salì al potere il suo primo obiettivo fu quello di non rovinare la propria credibilità compromettendosi con il sistema, per poi dare seguito al decalogo pratico che vedeva cinque grandi direttrici: personalizzazione del potere, volontà di agire al di sopra dei partiti, popolarità tra la gente, dialogo diretto con i cittadini grazie ai frequenti messaggi radiofonici e passione per i gesti a effetto.
Numerose furono le occasioni in cui il Generale si trovò solo, di fronte a un paese smarrito e senza bussola, ma proprio quel frangente rappresentò un elemento di indiscutibile forza, come nel '58 quando dopo l'insurrezione di Algeri, nonostante non disponesse di alcuno strumento politico, ma contando esclusivamente sul proprio carisma, in sole due settimane si impose come soluzione a tutti i problemi, interni ed esterni. In quel modo riuscì anche a far accettare le condizioni alla base del suo ritorno i vertici.

Il governo che formò ebbe solo due gollisti, Malraux e Debré, al preciso scopo di evidenziare un'intenzione transpartitica, dal momento che occorreva affrontare senza indugi le emergenze come la fibrillazione in Corsica, lo sviluppo industriale, le sfide della Comunità europea. Nel suo messaggio televisivo del giugno '58 definì tre priorità, non solo del paese ma anche del suo stile di governare: elaborazione di una nuova Costituzione, reperimento di un equilibrio finanziario e risoluzione del caso Algeria.

Da menzionare senza dubbio due dati: una rilevantissima curiosità nel testo del nuovo progetto costituzionale, dove vi era incompatibilità tra funzione ministeriale e quella parlamentare allo scopo di allontanare le Camere dal gioco governativo e le sue diposizioni funebri rese al pubblico il giorno dopo della sua scomparsa, il 10 novembre 1970, «gli uomini e le donne di Francia e degli altri paesi potranno, se lo desiderano, fare alla mia memoria l'onore di accompagnare il mio corpo sino alla ultima dimora. Ma è nel silenzio che desidero sia condotto. Rifiuto sin da ora qualsiasi promozione, citazione, dichiarazione o medaglia, sia essa francese o straniera».

venerdì 15 maggio 2009

L'Eur, quella continua aspirazione al futuro

Da FFwebmagazine del 16/05/09

«L`Eur è un quartiere molto congeniale a chi fa di professione il rappresentante di immagini». Così Federico Fellini definiva il quartiere romano, edificato in occasione dell`esposizione universale che si sarebbe dovuta tenere nel 1942, ma che a causa della guerra venne annullata. Una terza Roma, dilatata sopra alti colli lungo le rive del fiume sacro sino alle spiagge del Tirreno: sono le parole scolpite sul fregio del Salone delle Fontane accanto al Palazzo degli Uffici, in via Ciro il Grande, primo edificio permanente realizzato per l`esposizione. Esse racchiudono i significati che portarono Mussolini e un pool di architetti, guidati da Marcello Piacentini, a concepire nel `37, la sperimentazione di un quartiere innovativo, moderno e polifunzionale, rivolto alle esigenze logistiche del futuro, che avrebbe previsto con largo anticipo, l`evoluzione del tessuto urbano di Roma, sino a spingersi verso la costa.

È nel dopoguerra che registrò un’incoraggiante fase di vitalità, architettonica e anche legata agli eventi, alloquando nella meta`degli anni ’50 vennero eretti palazzi e grattacieli, tra cui quello dell`Eni, fino ad arrivare, alla fine del decennio, ai migliori esempi di architettura italiana come la piscina delle Rose, il Velodromo, e il Palaeur di Pierluigi Nervi.

Le esposizioni universali erano una sorta di Olimpiadi delle merci, in occasione delle quali veniva costruito un grande monumento rappresentativo. L`Eur fu ispirato all`urbanistica classica romana, contaminata da elementi del Razionalismo italiano. Il marmo bianco e il travertino sono un omaggio alla Roma imperiale. Oltre al Palazzo dei Ricevimenti e dei Congressi (con il cosiddetto Colosseo quadrato, ispirato all`arte metafisica) vi sono l`Archivio centrale dello Stato, la Chiesa dei Santi Pietro e Paolo, il Palalottomatica (il precedenza Palaeur progettato da Piacentini e Nervi), il fungo, l`obelisco del `900 di Arnaldo Pomodoro (inaugurato cinque anni fa), la stele in onore di Gugliemo Marconi. Vi è inoltre un`ampia area dedicata all`esposizione museale con il museo nazionale della civiltà romana, quello preistorico etnografico ‘Luigi Pigorini’, il nuovo planetario, il museo dell`astronomia del 2004. A partire dal `64 il quartiere è stato anche scelto per ospitare riprese cinematografiche, come ‘L`ultimo uomo della terra’ di Ubaldo Ragona, ‘L`eclisse’ di Michelangelo Antonioni, ‘Boccaccio `70’ di Fellini, ‘La decima vittima’ di Elio Petri. Per arrivare ai piu`recenti ‘Tenebre’ di Dario Argento, ‘Il mago del furto’ con Bruce Willis, ‘Titus’ con Anthony Hopkins.

La vera modernizzazione, con la conseguente metabolizzazione del significato intrinseco che il quartiere aveva avuto nel disegno evolutivo dell città, si è registrata nello scorso trentennio: l`allargamento urbanistico naturale della città, lungo la direttrice che porta al mare, ha imposto l`evoluzione anche del quartiere Eur. Esso oggi può ergersi a strumento multifunzionale in grado di rispondere alle specifiche e cangianti esigenze di una capitale in movimento, interpretandone spunti innovativi e slanci propositivi.
Dalla vocazione terziaria, con ampi complessi dedicati agli uffici e alle rappresentanze di importanti aziende, a quella sportiva e naturalistica: l`Eur è inteso oggi, non solo per l`immediato ma per un periodo medio lungo, come occasione futura per un`espressione cittadina di polmone terziario, che abbia nei propri tratti somatici la qualità della vita e del lavoro, sia ad appannaggio di chi vi risiede, sia di chi lo frequenta professionalmente.

Inoltre si ergerà a contemporanea occasione di arricchimento, in virtù delle numerose opportunità che l`intera concezione del quartiere presenta, e potrà continuare a presentare grazie alle già citate modifiche strutturali. Così l`Eur è diventato nel tempo un altro centro della città, che sia alternativo al centro storico, sede di rilevanti manifestazioni sportive, presso il Palalottomatica, e culturali. Proseguendo poi verso iniziative di educazione e intrattenimento, con spazi espositivi permanenti, al preciso scopo, non solo di far transitare eventi ed espressioni artistiche, ma di far vivere fisicamente qui la civiltà italiana.

Proprio di questo si discuterà il prossimo 22 maggio alla Casa dell`Architettura di Roma in occasione del convegno ‘A 100 anni dal futurismo, quale futuro per Roma e Parigi ?’. L`evento prende spunto dalla riflessione avviata in Francia sugli effetti e sulle visioni future del ‘Grand Paris’, oltre che dalle celebrazioni del centenario del futurismo. Un`occasione per cogitare sulla cifra futura delle strutture, se da intendere come spazio pubblico di cui riappropriarsi, all`interno di nuove alleanze tra mobilità materiale e immateriale. E dove il termine ‘futuro’ sta a significare quale vita potranno offrire alle nuove generazioni Roma e Parigi, ovvero con che qualità urbana, con quale raccordo ideale fra bellezza e funzionalità, non solo in centro ma soprattutto nelle periferie.

Ed è proprio in questo senso che si inserisce l`attuale progettazione sistematica del quartiere, con la torre-giardino di Renzo Piano, che sostituirà le due torri delle finanze, la cosiddetta nuvola di Fuksas, l`Europarco (un business park con edilizia residenziale, direzionale e commerciale), la città dell`acqua (dedita al benessere e al fitness con dodicimila metri quadrati di piscine), il Mare Nostrum Aquarium (unico acquario virtuale al mondo assieme a quello di Tokyo). E, in ultimo, lo svolgimento di una gara di Formula 1 nel 2012, originale e innovativa destinazione di uno spazio che si insinua sempre piu` all`interno di una città che parli molte lingue, interpretandone esigenze e, perché no, sogni e aspirazioni future.

giovedì 14 maggio 2009

SE LA FERRARI SI RIBELLA AL CAOS

Da FFwebmagazine del 14/05/09

La ragione è ancora quel sistema di regole che gli uomini si sono dati per poter convivere? Zygmunt Bauman sosteneva che l'essenza della modernità sta nel poter mettere in discussione le regole del gioco all'interno del gruppo sociale in cui si vive. Altro però è proclamarsi autonomamente detentore ed estensore e, forte di tali cariche, stravolgere autarchicamente modi e tempi senza consultarsi con i diretti protagonisti.

La Formula 1 è nel caos: la Federazione internazionale vorrebbe mutare regole e parametri senza preoccuparsi preliminarmente di condividere scelte e proposte con le singole scuderie. Accanto alla presa di posizione della Ferrari di non partecipare al prossimo campionato, si stanno accostando anche altre case, Renault e Toyota su tutte. È come se la Lega calcio decidesse improvvisamente di spostare il dischetto del rigore più avanti di due metri, senza chiedere il parere ad arbitri e giocatori.
Modificare i regolamenti ignorando chi quelle regole dovrebbe applicarle per gareggiare, non può che portare alla fuoriuscita dei protagonisti dal circo sportivo che progressivamente perde i suoi tratti somatici, svilendone significati e peculiarità. Cosa resta oggi, in quelle idee strampalate e antidemocratiche, della concezione sportiva come elevazione della competizione e della compartecipazione più pura?

Secondo Von Wright le regole del gioco, se considerate sotto l'aspetto dell'attività ludica, sono deontiche, ovvero determinano cosa è obbligatorio, cosa è vietato, cosa è permesso. Wittgenstein sosteneva che nel gioco degli scacchi un pezzo è la somma delle sue regole. Non è detto che esse non possano subire nel tempo un'evoluzione, anzi è auspicabile che la società sia dotata di quegli strumenti per ammodernare le regole che, negli anni e in base a valutazioni di tipo qualitativo e funzionale, dovessero risultare obsolete o desiderose di nuovi spunti. Ma in assenza di un ragionamento a più cervelli su cosa e su come cambiare, si rischia di produrre uno scenario nel quale un individuo sceglie cavalli e burattini, per farli trottare a proprio piacimento.

Che significa, allora, che le regole del gioco sono drammaticamente in mano al più forte che ne detiene moralmente e praticamente il predominio? Che un altro individuo, sprovvisto della medesima forza non potrà mai dissentire da quella decisione? E non perché in minoranza, come il sistema democratico all'interno del proprio funzionamento prevede, ma semplicemente perché più debole? Si tratta di un frame dal quale emerge il ricordo preadolescenziale di quel bambino che, essendo proprietario del pallone, e per questo sentendosi investito di chissà quale potere decisionale, imponeva campo e porte a proprio piacimento. E chi non fosse stato d'accordo sarebbe stato libero di trovarsi un altro pallone e un altro gruppo di amici con cui giocare.

E ancora, se oltre allo scenario descritto, con una medioevale contrapposizione tra lupi e agnelli, tra re e schiavi, tra forti e deboli, si verificasse anche una clamorosa assenza di una figura super partes, cosa accadrebbe? Tornando al casus belli, non soltanto la Fia tramite il suo massimo vertice Max Mosley ha imboccato tale deriva solitaria, ma anche il patron del Mondiale, Bernie Ecclestone non sembra avvertire una benché minima responsabilità sulle proprie spalle. Non una voce, da parte di chi quel ruolo di garanzia dovrebbe ricoprire, si è levata: e non in difesa di questa o quella posizione, di una scelta piuttosto che di un'altra, di una proposta conservatrice o progressista.

No, non è in questa direttrice che va riscoperta e applicata "quella" figura garantista. Ma nella possibilità di concedere a tutti gli attori protagonisti di poter concorrere a quella scelta, a quel cambiamento, a quel miglioramento, se di miglioramento dovesse trattarsi, e ciò lo si potrebbe appurare solo a seguito di una discussione, come l'agorà ateniese insegna. E soprattutto impedendo a chi, nell'impossibilità di rappresentare la propria istanza di dissenso, si veda costretto a sgombrare il campo. Così facendo si produce il vero fallimento, sociale e culturale. Passerebbe allora la linea del "te ne devi andare se non sei d’accordo"? E quindi abbandonare la partita, il terreno del confronto, del concorso di idee, della dialettica?

Fanno tenerezza in questo senso le parole pronunciate dal pilota finlandese Kimi Raikonnen: «Quando ero alla McLaren - ha raccontato nei giorni scorsi - la scuderia di Maranello era il punto di riferimento, l'avversario con cui misurarci. Da quando sono arrivato qui ho capito che è molto più di una squadra, è un mito che si perpetua attraverso le sue macchine stradali e da corsa. Ho sempre avuto la passione per correre con tutto ciò che avesse un motore e ho sempre guardato alla Formula 1 come alla massima espressione dell'automobilismo sportivo, come competizione e come tecnologia». Il mito emerge dalle riflessioni del pilota, ovvero un'eccellenza che, nonostante abbia alle spalle una storia imponente, una bacheca ebbra di trofei, un'organizzazione basata non solo su professionalità ma anche su uomini, rischia di non correre e cambiare circuito, per usare un eufemismo.

venerdì 8 maggio 2009

SECONDA GENERAZIONE, C'E' IL RISCHIO SERIE B

da FFWebmagazine del 08/05/09

Può una legge, datata e palesemente insufficiente, porsi di traverso alle mutanti esigenze di una collettività in continua evoluzione? In queste giornate, per tanti versi drammatiche per gli immigrati nel nostro paese, emergono storie di vite incrociate, di ragazzi, - non hanno più di trent’anni - che, nonostante siano nati in Italia non hanno conquistato lo status di italiani. Qualcuno obietterà: la solita burocrazia farraginosa, pachidermia, stucchevole di casa nostra? Non solo.

Qui si tratta di comprendere come il termine integrazione debba provenire sì da un comma o da un decreto (meglio se non d’urgenza), ma anche da spunti più civici, per consentire un processo di maturazione socio-culturale. Loretta Grace è una cantante di origini nigeriane nata e vissuta ad Ancona. Mohamed Tailmoun è laureato in sociologia, e da tre decenni vive in a Roma. Due esempi di individui dediti ad una personale corsa contro il tempo per il riconoscimento della cittadinanza italiana. La legge n°91 del ’92 prevede infatti che i figli di immigrati, la cosiddetta seconda generazione, abbiano diritto alla cittadinanza solo se dimostrino di aver vissuto nel nostro paese per diciotto anni consecutivamente. E ciò con una serie infinita di carte e scartoffie, che vanno dalle pagelle scolastiche alle prove di vaccinazione: tutto ciò potrebbe essere vanificato se l’italiano in questione (perché di italiano o italiana indiscutibilmente si tratta) in quei diciotto anni si fosse spostato anche per qualche mese.

«Una legge assurda e anacronistica - riflette Eugenio Cardi, responsabile dell’osservatorio Ugl sui fenomeni sociali e promotore della tavola rotonda ‘Sono una seconda generazione, figlio di immigrati nato in Italia: cittadino italiano? Quando e come?’- dal momento che negli ultimi vent’anni il panorama sociale è cambiato completamente». Al tempo in cui quella legge fu partorita il fenomeno delle seconde generazioni era da queste parti sconosciuto, nè vi furono tentativi di aggiornarsi magari facendo raffronti con paesi dove l’immigrazione si era radicata ben prima che in Italia, vedi la Francia o la Germania.

Ecco la politica nostrana niente affatto lungimirante, che si preoccupa delle problematiche giorno per giorno, man mano che si presentano, senza una programmazione che guardi avanti e al di là del proprio naso, che avrebbe il vantaggio di sanare in tempo utile ferite e lacerazioni, confezionando un paese migliore, e non per voler fare retorica.

Due testimonianze dirette, dunque, che fanno toccare con mano il disagio che la cosiddetta rete G2 purtroppo oggi patisce nelle nostre città e nei nostri parchi pubblici, nelle nostre scuole, nei ristoranti, negli aeroporti, nei musei. Insomma in quello stesso paese che nel 2008 ha registrato la presenza di un milione di figli dell’immigrazione e dove si calcola che fra quarant’anni gli studenti stranieri potrebbero addirittura superare numericamente quelli nostrani. Numeri che impongono una riflessione e una presa di coscienza immediata, così come la tavola rotonda ha inteso fare, alla presenza tra gli altri di esponenti delle istituzioni (Renata Polverini, don Giandomenico Gnesotto, Mario Morcone, Giovanni Puglisi, Savino Pezzotta, Mussie Zerai, Valerio Savio) e dell’arte (Francesca Reggiani, Mimmo Calopresti e Salvatore Marino). Sostegno che parallelamente è venuto anche da Massimo D’Alema secondo il quale «è interesse dell’Italia che chi lavora nel nostro paese, paga le tasse e contribuisce al Pil nazionale abbia una rappresentanza: vorrebbe dire un fattore di sicurezza e di riduzione del conflitto dal momento che tutto quello che avviene alla luce del sole è controllabile e governabile».

In un continente moderno dove coesistono stati e civiltà, il primato della persona deve essere sopra tutto, così come il presidente Fini aveva ripreso nel suo discorso alla nuova Fiera di Roma, quando aveva sottolineato che «va difesa e in qualche modo incrementata la dignità della persona umana quale che sia il colore della pelle, quale che sia il Dio in cui credi, quale che sia il ruolo sociale».

APRITE I LUCCHETTI

Da FFwebmagazine del 04/05/09

Campetti di calcio sotto il Colosseo per una festa dello sport in grande stile che rievochi antichi fasti: chi ha paura di tornare indietro a duemilaottantanove anni fa? Era l’80 avanti Cristo quanto Tito inaugurò una delle meraviglie della storia, che venne utilizzata come stadio per spettacoli di gladiatori e manifestazioni pubbliche. Oggi è stata candidata a luogo prescelto per ospitare l’Uefa Champions Festival Colosseum, dal 23 al 27 maggio, giorno della finale di Champion’s League che si terrà proprio nella capitale. Dove sta la minaccia al patrimonio italiano e mondiale?

Alla notizia, i veterani della politica vecchia e stantìa di casa nostra, non hanno avuto di meglio da fare che sparare a zero contro un’idea classificata come insicura per la gente (sono previste per caso slavine o maremoti?), dannosa per le antichità dei Fori (gabinetti chimici e tribune verranno montati forse sopra l’Arco di Costantino?). Ed ecco sciami di parole contro una proposta apostrofata pericolosa, dannosa, quasi che il sindaco Alemanno intendesse portare dentro il Colosseo 200mila persone colpite da febbre suina.

Il Colosseo nell’antica Roma era un luogo dedito allo sport, era uno stadio insomma. Non un museo dove oggi si vuol far credere che si perpetri chissà quale azione dissacratoria. Tito, figlio di Vespasiano che inaugurò i lavori ma morì prima della loro ultimazione, vi fece disputare i cento giorni di giochi proprio nell’80 a.C. Due anni fa, in occasione della finale di Champion’s League tra Milan e Liverpool ad Atene, i campetti e gli stands in questione furono posizionati all’interno del meraviglioso Kalimarmaron Panatinaikon Stadium (l’unico al mondo completamente in marmo bianco dove il nostro Baldini vinse l’oro nella maratona olimpica del 2004), stadio dove tra l’altro, giusto per rimanere ad eventi “recenti”, si svolsero le prime Olimpiadi moderne nel 1896, senza che alcuna penna versasse inchiostro in proposito, se non apprezzandone la location.

Campi in erba sintetica su via di San Gregorio e su piazza del Colosseo, servizi igienici per i visitatori e stands per le strade, in un momento in cui tutto il mondo potrà godere di quello che è stato definito da un ironico commentatore “stupido e noioso pietrame grigiastro”, il quale con queste parole voleva bollare l’iniziativa come “perdita della memoria”(esperimento fallito, tra l’altro). Riproporre oggi sport e giochi pallonari quale alto senso morale dovrebbe svilire? I campetti “infamanti” inoltre si troverebbero ad essere allocati nei pressi di quegli stessi luoghi dove Tito fece edificare spogliatoi e spazi per gli allenamenti degli atleti. Èquesto dunque il sacrilegio in barba alla storia? Chi avanza così ferocemente critiche e allusioni o travisa i fatti o non guarda in avanti con spirito costruttivo.

Certo, se poi quel qualcuno ricorda addirittura come un “incubo” il memorabile concerto tenuto dai Pink Floyd a Venezia, non fa altro che, con tutto il rispetto, anzi no, professare una bestemmia, perché quell’evento ha fatto storia, ha segnato un’epoca, ha rappresentato un momento di musica, cultura, aggregazione, produzione di idee allo stato puro. Definirla incubo, (liberi tutti di ascoltare o meno la band di Money, di annoverarla o meno tra i preferiti, ci mancherebbe), o etichettarla come scempio significa però cancellare fatti veri e vissuti. Sarebbe come dire che Woodstock non c’è mai stata. Un’assurdità.
Addirittura qualcuno (lo stesso del “pietrame” e dei Pink Floyd) ha paventato che le dimissioni di Guido Bertolaso da commissario della Soprintendenza archeologica di Roma, potessero in qualche misura derivare dal timore che gli eventi calcistici tra i Fori del prossimo maggio rappresentino un gravità assoluta, con danni di immagine alla città, per una kermesse che sarà una “vera emergenza”. Ragionamenti figli di una cultura obsoleta, impolverata, la cui evoluzione non si è mai verificata completamente, che si continua ad arroccare su posizioni “archeologiche”, lontane da una qualsiasi forma di progresso, soggiogata ancora da lacci ideologici che non la fanno progredire.

Aiuto, svegliateci dal marasma di invettive e di commenti più o meno autorizzati a fermare per sempre l’orologio del tempo. Nessuno qui dice di voler consentire a calciatori e massaggiatori di effettuare il riscaldamento tirando calci ad un pallone contro l’Arco di Costantino o contro quel che resta di cotanta storia, solo che come rammentava tempo fa Rita Levi Montalcini “non si può mettere il lucchetto al cervello”. Perché fermare la produzione di idee e proposte? Forse qualcuno ha paura che menti e iniziative possano in qualche maniera rompere l’oblio in cui certa sinistra (culturale, giornalistica, artistica, politica) vorrebbe che il paese intero continuasse ad essere avvolto? Semplicemente non esiste una paura del genere, non è politica, non è un’azione rivolta al domani, perchè non ha futuro.