venerdì 29 gennaio 2010

Claudio Magris e il rifiuto dello Stato azienda

Da Ffwebmagazine del 28/01/10


«In ogni cosa - diceva Bertrand Russell - è salutare, di tanto in tanto, mettere un punto interrogativo a ciò che a lungo si era dato per scontato». Ad esempio: come si è giunti al quadro democratico attuale? Sulla base di quali e quanti sforzi ci si proclama società civilizzata e moderna? E ancora: cosa si intende oggi per Stato? Un agglomerato di esperienze e di persone che convivono insieme, per le quali vale la pena sacrificare vite umane? O, come qualcuno ha postulato, un’entità politica accostabile al concetto di azienda, con le relative e conseguenti implicazioni?

Secondo Claudio Magris la crisi globale è figlia di un aziendalismo universale che danneggia l’economia, implicando una riduzione della visione del mondo e comprimendo gli spazi per la programmazione futura. Ma è l’economia, essa stessa causa di una sorta di mercatismo diffuso, che livella una serie infinita di ambiti veicolandoli esclusivamente sul piano finanziario. Poiché, sostiene lo scrittore e germanista triestino, tutto diventa azienda: l’ospedale, l’ateneo. E tutti diventano clienti, gli ammalati e gli studenti con i loro crediti. Lecito interrogarsi: dove conduce tale visione, se non a considerare la vita un elemento opzionale?
Certo, viviamo in un’epoca nella quale gli indicatori economici hanno riflessi notevoli e innegabili in una miriade di applicazioni e di concretizzazioni. Ma sarebbe quantomeno riduttivo insistere in una sorta di economicismo dell’universo a priori, dal momento che si finirebbe per ignorare chi quelle leve dell’economia muove, chi quelle fabbriche che generano utili fa produrre a pieno regime.

Insomma quell’elemento vivente e cogitante che viene prima del dato economico, semplicemente perché ne è la diretta causa e, per alcuni versi, anche l’effetto. E perché ad esso sopravviverà: l’uomo. Con i suoi difetti, le sue abitudini, le sue imprevedibili condotte. Il ragionamento “pro stato non azienda” di Magris può rappresentare un’interessante occasione per riflettere a mente libera sul tentativo attuato in questi anni di aziendalizzare lo Stato, anche perché no con lo sguardo rivolto alle celebrazioni dell’anniversario dell’Unità d’Italia. E per smontare concezioni troppo spesso globalistiche che, forse per fretta universalizzante, forse – ed è ben più grave - per certa pigrizia analitica, vengono ottusamente proposte come medicina per ogni più banale mal di testa sociale.

Apparirebbe evidentemente da sciocchi insistere nel proporre una società totalmente e anacronisticamente sganciata da valori economici e da inclinazioni di tipo finanziario, dal momento che a tutti gli effetti il capitalismo è il modello di riferimento delle società moderne. Ma da qui a issarlo come totem da idolatrare quotidianamente e come termine di paragone per moltissimi ambiti legati al quotidiano, sarebbe una forzatura non solo fuorviante, ma pericolosamente controproducente. Il risultato, che a tratti purtroppo affiora, è il drammatico regresso del fattore umano. Della mente, dei pensieri, delle idee, delle proposte. L’azienda che Magris avverte nelle università e negli ospedali è realmente un freno? Sì, quando ha la presunzione di ridurre il malato al prossimo numero da analizzare, o quando intende lo studente solo come la successiva matricola a cui affibbiare debiti o assegnare crediti. Tutti legati in una sorta di spirito da caserma che dà la sgradevole sensazione di neuroni congelati, messi lì in un angolo, pronti ad obbedire alla direttiva dell’azienda. Certi che la procedura è stata attentamente vagliata da qualche dirigente ed approvata in via definitiva dal consiglio di amministrazione.

Come in una vecchia puntata di X-Files, dove alcuni esseri umani erano stati “parcheggiati” in agghiaccianti loculi verticali, in attesa della propria sorte. Vale allora la pena provare ad allontanarsi da schemi economicamente ingessati, che tendono a fare dello Stato una sorta di compagnia privata. Dove c’è un piano alto con dirigenti seduti al tavolo del cda e una stuola di operai più in basso a cui impartire fredde direttive di produzione. Non potranno evidentemente combaciare tali logiche aziendalistiche con il concetto di Stato, proprio a causa delle differenti ed evidenti finalità. Se l’una è nata e vive per produrre nient’altro che utili, l’altro invece ha ben altra missione. Garantire diritti, coadiuvare lo sviluppo democratico della società, investire nelle generazioni future. E da qui spalancare le finestre per uno stormo di nuovi pensieri in arrivo, inforcare lenti diverse per leggere testi mai visti prima, mescolare colori difformi per scoprire altre tonalità.

Ovvero educare. Sì, lo Stato deve anche educare, proporre modelli, attualizzarne i contenuti. Fare da padre e da madre. Lo Stato è per i cittadini come un genitore per i propri figli. E a nessun padre verrebbe mai in mente di far pagare al proprio figlio il latte della prima colazione. E poi lo Stato non chiude, non licenzia, non mette in cassa integrazione, non delocalizza, non impone il doppio turno a causa del personale ridotto. Solo intendendo la patria come un’aria avvolgente e coinvolgente, indispensabile alla sopravvivenza, si può scavare nei reali motivi che uniscono un popolo. Ed essere presi dall’emozione di un risultato storico, accorpati dal meraviglioso desiderio di unità, come accaduto centocinquantuno anni fa.

mercoledì 20 gennaio 2010

Lo Stato chieda scusa ai morti d'amianto


Da Ffwebmagazine del 20/01/10

«Se ne andavano alla vita come allora si usava di certo, senza alibi e senza paura a lavorare senza un difetto. Se ne andavano alla vita come giovani assonnati al mattino, con due sigarette in bocca da fumare contro il destino». Inizia così la canzone Cooperativa Vapordotti di Marco Chiavistelli, scritta per le vittime dell’amianto in una piccola realtà industriale dell’Alta Val di Cecina, decimata dalle morti invisibili. Scritta per combattere un nemico senza colore né forma che, sotterraneo, si è insinuato nelle vite di migliaia di lavoratori e delle loro famiglie. Inutile abbozzare numeri e dati, purtroppo destinati a moltiplicarsi vertiginosamente, in alcuni casi beffati anche da una giustizia lenta e a volte cieca. Questa è la storia di un popolo di dimenticati, gente che non solo ha trascorso anni interi in ambienti di lavoro difficili e complessi. Ma che non ha ricevuto ciò che, prima di ogni altra cosa, qualsiasi persona merita: il rispetto per l’essere umano.

Ma chi è e come si muove questo killer silenzioso? La prima presa di coscienza in Italia risale agli anni trenta con alcuni studi condotti da Vigliani. Ma il suo utilizzo, a seguito di produzione e lavorazione, venne incentivato al termine del secondo conflitto mondiale. Ricerche epidemiologiche, indagini su patologie aggressive e decessi inspiegabili non furono sufficienti a fermare una macchina che era già stata avviata. E allora operai delle fabbriche, marittimi, personale in navigazione aerea, ferrotranvieri: tutti soggetti a rischio-amianto. Come gli operai della Fibronit di Bari morti negli ultimi trent’anni, assieme a molti familiari e a cittadini la cui unica colpa era di risiedere nei pressi di quella fabbrica. Prima che fosse chiusa e bonificata. O i lavoratori di quella che era definita la Stalingrado d’Italia, gli otto stabilimenti di Sesto San Giovanni, che nel 1994 contavano circa 42mila unità su una popolazione di 90mila abitanti. O come la storia di Calogero, esposto per quindici anni sino al 1999 perché in servizio alla Priolo-Augusta-Melilli di Siracusa, detta anche il triangolo della morte, dove tutto era in fibra di amianto, e nessuno, neanche chi era preposto alla vigilanza ed alla salvaguardia dei diritti dei lavoratori, si era premurato di allertarli. E ancora come gli anni trascorsi da Fabio Berti nella cooperativa di Larderello, a cui quella canzone si è ispirata, sostanzialmente estinta per malattie asbesto correlate, dopo aver realizzato negli anni ’60 e ’70 lavori di coibentazione con amianto per conto di una grande industria elettrochimica.

Esempi che potrebbero essere seguiti da molti altri, per i quali in Italia si è creato un vuoto. Un vero e proprio buco di applicazione della legge. Lecito chiedersi: ma non vale anche per loro il dettato dell’articolo 32 della Costituzione? Quello secondo cui «la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività»? O la prescrizione dell’articolo 41, quando dice che la stessa iniziativa economica privata “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”? O la direttiva dell’articolo 2087 del codice civile quando sostiene che le precauzioni del datore di lavoro «sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro»?

Le procedure per i riconoscimenti sanitari e per gli indennizzi sono state avviate, assieme a numerosi ricorsi alla Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo per una serie di cause con diritti negati, descritti nelle pagine de Lo Stato dimentica l’amianto killer da Ezio Bonanni. Ma al di là degli aspetti puramente burocratici, che non faranno certamente tornare in vita le vittime, urge evitare che altre morti si verifichino, che altri figli restino orfani, che altri lavoratori paghino per colpe non avute, che altre leggi non vengano rispettate. Il tutto nella consapevolezza che in uno stato di diritto che si proclami tale non si può tollerare la disuguaglianza che i lavoratori dell’amianto italiani hanno sino ad oggi patito. Basta poco per fare tanto, sarebbe sufficiente che lo Stato si alzasse e, dall’alto di quel lambone da dove si pontificava e si recitavano passate omelie, chiedesse scusa. Scusa per quei lavoratori che se ne andavano «in cooperativa mentre il fischio risuona lontano, ce ne andiamo senza fatica e ogni ragazzo si tenga per mano». Così le ultime note de La Cooperativa Vapordotti, la canzone dei dimenticati.

domenica 17 gennaio 2010

MIGRAZIONI E MINORI: PIU'CHE UN PROBLEMA, UNA RISORSA

Da Ffwebmagazine del 17/01/10

Di chi è il futuro se non di coloro che avranno la possibilità di vederlo con i propri occhi? E di chi, se non dei bambini che più di altri hanno dinanzi a loro una lunga strada di vita? Non sbagliava Mary Ann Hataway, navigatrice inglese, quando predicava: «Fa sì che ogni giorno si rivesta di speranza, perché le ombre del passato non offuschino la luce del futuro».
Il minore come speranza concreta per quel futuro: è il messaggio della giornata mondiale delle migrazioni 2010, che pone l’accento sul doppio diritto dei più piccoli. Quello di vivere in prima persona il proprio domani e quello di guardare a esso con fiducia e con speranza. Due prerogative che nei paesi democraticamente sviluppati potrebbe sembrare quasi superfluo rammentare, ma che invece sono diventate di primaria importanza, dal momento che non tutti ne possono godere. Anzi.

Numerosi sono stati negli anni i passi in avanti e i riconoscimenti ufficiali, come la convenzione Onu sui Diritti del fanciullo, resa esecutiva in Italia con una legge del 1992. Senza contare il grande lavoro dell’Unicef o delle altre realtà del terzo settore, come Save the children. O il contributo legislativo del testo Unico 286/98 sull’immigrazione, il “Diritto all’Unità Familiare e tutela dei minori”. Ma non è sufficiente. Occorre fare di più, per garantire diritti e per estirpare pregiudizi e sguardi sospetti. Per far integrare chi arriva in cerca di un sorriso, e per ufficializzare chi in questo paese si sente a casa, avendo magari completato qui un ciclo di studi, in virtù di quello ius soli già felicemente applicato in altre realtà europee come Germania e Gran Bretagna.
I numeri registrati nell’ultimo biennio sono assolutamente indicativi e meritano di essere analizzati per quello che sono, senza sottovalutazioni figlie di svarioni socio-culturali. I minori stranieri in Italia sono in progressivo aumento: nel 2008 si è superata la quota centomila, di cui il 40% giunti qui in virtù del ricongiungimento familiare; 72mila nati in Italia da genitori stranieri. Il dato generale schizza sino a più di 800mila unità se sommato ai figli di coppie miste e ai richiedenti asilo, agli adottivi, ai minori non accompagnati. Si tratta di una sorta di “esercito” di piccoli stranieri che potrebbero rappresentare una ricchezza demografica, sempre che la società e la politica ne facilitino intelligentemente l’inserimento. Per un paese, il nostro, come ha riflettuto il direttore generale di Caritas-Migrantes, monsignor Piergiorgio Saviola, che registra un rapido e verticale processo di invecchiamento, contribuendo all’abbassamento dell’età media degli stranieri, a oggi di 31 anni. Inoltre nell’anno scolastico 2008/2009 gli alunni stranieri hanno superato quota 600mila: si tratta del 7% della popolazione scolastica totale, altro elemento molto indicativo.

«Questi ragazzi - ha proseguito Saviola - non solo si trovano a raffrontarsi con le difficoltà tipiche dell’età adolescenziale, ma anche con quelle legate al loro status di migranti o rifugiati». Problematiche che hanno un nome e un cognome, ovvero: scarna socializzazione di alcuni di loro e anche delle famiglie di appartenenza; ristrette opportunità economiche per cultura, sport e svaghi; eventuale immissione precoce nel mondo lavorativo, a volte anche sommerso; incertezza dell’evoluzione migratoria del nucleo familiare; eventuale clima ostile nei riguardi dell’immigrato.
Quando si delinea l’equazione “minori = ricchezza” si intende esattamente questo: essi possono diventare veri e propri mediatori culturali per le proprie famiglie di appartenenza, data la loro età. E con il loro atteggiamento sostenere non poco quella logica di condivisione, che ha il suo avvio nello smussare pregiudizi e diffidenze. Tale doppia appartenenza, culturale e linguistica, può tramutarsi in una vera occasione di inserimento, contribuendo a rafforzare quella società dell’accoglienza e dell’integrazione che si deve, per forza di cose, autoalimentare nel tempo e nelle menti, al fine di nutrire i propri ingranaggi con gli ingredienti del buon senso e della solidarietà.

E allora vale la pena di ricordare le parole pronunciate da Haile Selassie I, sovrano etiope, in un discorso alle Nazioni Unite nel 1963: «Finchè il colore della pelle di un uomo non avrà più valore del colore dei suoi occhi; finchè i diritti umani fondamentali non saranno egualmente garantiti a tutti; fino a quel giorno il sogno di una pace duratura, la cittadinanza del mondo e le regole della morale internazionale resteranno solo una fuggevole illusione, perseguita e mai conseguita».

E SE GLI STADI FOSSERO ECOLOGICI E CULTURALI?

Da Ffwebmagazine dell'11/01/10

Come sfruttare l’occasione di un’imminente trasformazione edilizia per ottenere un contributo all’evoluzione sociale della popolazione? Incentivando una percezione nuova e mai approcciata prima, quanto a convergenze tra stimoli ed eventi sino a ieri lontanissimi?È proprio il caso di dire che l’assist, questa volta, potrebbe venire dal mondo dello sport, precisamente dalla Federcalcio, che entro un mese dovrà valutare se candidare l’Italia a ospitare gli Europei del 2016. E per farlo, sarà costretta ad allegare al proprio dossier un curriculum più che convincente. Dove non conteranno titoli vinti e risultati raggiunti, ma attrazione positiva in termini di strutture.A questo punto perché non puntare a una doppia operazione, che utilizzi il calcio come grimaldello culturale? Ovvero stadi che abbiano l’opportunità di incarnare uno spirito diverso da quello adottato sino ad oggi, uno spirito per cui il luogo dedito allo sport potrebbe mutarsi in un contenitore ampio e policulturale, che vada al di là della gara in sé. E consentendo al fruitore, o al gruppo di fruitori, di godere anche di altro. Pensando, ad esempio, a un museo all’interno dello stadio, e non solo strettamente dedicato alla squadra in questione, ma con stimolanti varianti tematiche come mostre itineranti, per rendere quello stadio e quella pista di atletica un punto di riferimento innovativo. Si immagini quanti sportivi potrebbero essere avvicinati ad esempio all’arte, con eventi mirati pre o post partita, o anche durante l’intera settimana, e di contro quanti cittadini “asportvi” potrebbero essere incentivati a guardare una partita dal vivo. Con al seguito numerose e interessanti variabili, come percorsi di fair play per i più piccoli, o lezioni di tecnica e sistemi di gioco anche per i non addetti ai lavori. Il tutto all’insegna della commistione totale. Un pertugio nella stretta cruna dei singoli e differenti modelli socio-culturali, per sperimentare un modo nuovo e propositivo di accrescere l’offerta. E con un occhio di riguardo all’eco sostenibilità, come l’assoluta indipendenza energetica dello stadio grazie a pannelli fotovoltaici. Un altro segnale di progresso sociale e industriale, con un preciso segnale rivolto a chi ancora crede che ratificare protocolli ambientali sia un’utopia.E allora no a cattedrali nel deserto, sì a eco impianti sportivi, polifunzionali e a vocazione sociale, per modernizzare il paese e colmare una volta per tutte il gap con il resto d’Europa. È l’intento della legge per la costruzione di nuovi stadi che, se approvata in tempi brevi, consentirebbe non solo di innovare le strutture sportive esistenti o di erigerne di nuove, ma di candidare l’Italia agli Europei di calcio del 2016. Si tratta di un’operazione da circa sei miliardi di euro, che ha registrato il “sì” bipartisan della commissione cultura del Senato. Il ddl in questione prevede che si proceda entro un mese, in modo che le società di calcio ottengano le concessioni per realizzare nuovi impianti che siano rigorosamente multifunzionali, quindi stadi con residenze o uffici, ma anche con servizi che vadano al di là del singolo evento sportivo, come ristoranti, teatri, in modo da coinvolgere una consistente fetta della popolazione. Producendo oltretutto occupazione e altri “ritorni” positivi. Una mossa strategica, in tempi di stallo commerciale, che avrebbe anche una valenza economica non indifferente. Legambiente si è detta preoccupata per un intervento che considera alla stregua di una speculazione edilizia. Stiano tranquilli gli amici ecologisti, dal momento che nel ddl è previsto espressamente che vengano rispettati i vincoli paesaggistici, grazie alla convergenza del ministro della cultura Bondi con il sottosegretario allo sport Crimi. In un colpo solo, quindi, si potrebbero modernizzare gli stadi italiani evitando di costruire enormi strutture circondate dal nulla, preferendo invece armonizzare il nuovo con il territorio in questione, e grazie ad una mente architettonica finalmente sganciata da canoni precostituiti, ma a vocazione universale. Nuovi stadi non solo per risultare in linea con la media europea, ma non commettendo gli errori del passato, come dimostrano alcuni bellissimi impianti edificati ad Atene in occasione delle Olimpiadi del 2004 e a oggi tristemente inutilizzati e privi di manutenzione, con una dispersione di capitale economico e sociale. Che si vada avanti rapidamente, quindi, per non perdere una ghiotta occasione di sviluppo e occasioni concrete. Ma che lo si faccia con strumenti innovativi, recuperando lo svantaggio italiano non solo dal punto di vista logistico ma anche culturale. Magari sull’esempio del modus operandi applicato a Londra per le prossime Olimpiadi: una volta terminati i giochi, gli impianti verranno smontati e venduti al Brasile per le Olimpiadi del 2016. Un paradigma non da copiare in toto in nome di un’emulazione astratta, ma da metabolizzare per uscire definitivamente da quel vecchiume di proposte e di strumenti che rappresentano una pesantissima zavorra allo sviluppo del paese.

giovedì 7 gennaio 2010

E`IL MOMENTO DI UNA POLITICA DI SERIE A

Da Ffwebmagazine del 04/01/10


Quale partito ragionevole e democratico sarebbe manifestamente contrario a fine del bicameralismo perfetto, riduzione del numero di deputati e senatori, rafforzamento parallelo dei poteri del premier e dell’assise parlamentare? Riflessioni obbligatorie che dovrebbero stimolare analisi e mea culpa per iniziare il nuovo anno con la giusta lena.

«Le riforme non possono essere bloccate dagli opposti pregiudizi. Dalla crisi può uscire un’Italia più giusta. Andiamo avanti con fiducia». Così il capo dello Stato in uno dei passaggi maggiormente significativi del messaggio di fine anno. Perché fossilizzare il dibattito riformista? Attorno a quale modello di società impegnarsi a costruire? Se socialista, liberale, aperta, chiusa, plebiscitaria o rappresentativa. A cosa servirebbero sigle e cap alla vigilia di dodici mesi carichi di difficoltà ma anche di opportunità? E ancora: non sarebbe più utile rimboccarsi le maniche seriamente e dare avvio ai lavori, con all’ordine del giorno la parola concretezza e senza perdersi dietro paraventi etimologici che non offrono nessun plus, ma possibilmente rallentano ulteriormente i passi da fare?

Gli ultimi giorni del 2009 sono stati caratterizzati da alcune analisi che hanno diagnosticato lo status quo, azzardando anche qualche pronostico. «La rivoluzione liberale si è risolta in un grande inganno. Non c’è stata perché in Italia non esistono masse liberali. Ci eravamo illusi che ci fossero». Sono le parole, amare, di Piero Melograni affidate al Corriere della Sera. Piero Ostellino invece ha sostenuto la netta distinzione fra liberalismo e assenza di regole, in quanto «lo stato sociale nelle democrazie del nord Europa è un servizio reso a uomini liberi e responsabili, come corrispettivo delle tasse che si pagano», sottolineando la doppia valenza delle libertà in quanto tali. Di contro può bastare, come ha riflettuto ottimisticamente Giuliano Urbani, aver tolto il bavaglio a quella che definisce «maggioranza silenziosa», per parlare di autentico rivolgimento storico? Evidentemente no.

Altra direzione ha imboccato Paolo Del Debbio, che ha intrecciato indissolubilmente il varo della riforma fiscale tremontiana alla rivoluzione liberale. Nessuno vieterebbe, però, di iniziare ad avviarla indipendentemente delle mosse del ministero di via XX Settembre, in virtù di un certo interventismo più marcato. Certo, la vera rivoluzione secondo Del Debbio sarebbe abbassare le tasse, che non sono state tagliate a causa del debito pubblico troppo alto. Ma quest’ultimo potrebbe essere snellito anche da una condotta più virtuosa della politica.

Visioni multilivello, che hanno affrontato il grande tema da angoli diversi, ma che se valutate intimamente e con un occhio ampio, prestano il fianco a una intuizione. Se, dopo aver stappato spumanti e scartato panettoni, le forze politiche faranno il possibile, assieme, per dare seguito a nobili intenzioni riformiste, magari partendo da una base condivisa, forse si metteranno finalmente in pratica le raccomandazioni quirinalizie. Giorgio Napolitano ha messo l’accento sullo spirito riformista, ovvero nella direzione dell’interesse generale, da cui dipende il funzionamento dello Stato. E con l’ausilio di regole certe per maggioranza e opposizione, che sostengano quell’Italia, che non è poi così divisa come appare dallo scontro politico.

Nel messaggio di fine anno il capo dello Stato ha ancora una volta rammentato che esiste un rapporto di diretta proporzionalità fra riforme economico/sociali e adeguamenti di tipo istituzionale. La seconda parte della Costituzione può essere ammodernata, ha detto, con due stelle polari: la misura e l’intesa. E poi recuperando tre valori troppo spesso ignorati : rispetto per la comunità, sobrietà nello stile di vita, rifiuto della violenza. Quel che è certo, è che da gennaio si riprenderà dalla cosiddetta bozza Violante, con un calendario ipotizzabile che parta a giorni già in commissione Affari costituzionali e che prosegua a cavallo delle consultazioni regionali.

Inutile e dannoso sostenere, come hanno fatto alcuni, la distinzione tra la condivisione sulla natura e sulla sostanza di riforme istituzionali, e la condivisione sulla necessità delle stesse. E allora vale la pena di caldeggiare la proposta del “doppio binario”, valutata senza foga ma con raziocinio, ovvero avviando le riforme condivise in un ramo del Parlamento, al fine di approvarle entro un anno con una maggioranza superiore ai due terzi. E lasciando all’altro ramo l’avvio di ciò che non è condiviso, come ad esempio le norme costituzionali sulla giustizia.

Se il 2010 sarà effettivamente l’anno delle riforme, dipenderà anche dalla risolutezza con cui la politica, quella di serie A, che non convive con il fiato corto, deciderà di procedere. Anche per far sì, usando le parole di Piero Ostellino in un editoriale di fine anno, che una volta per tutte si recuperi un minimo di cultura liberale che faccia «cadere definitivamente anche da noi il muro del ritardo culturale e politico».
Che si proceda, dunque, con solerzia e fiducia, sforzandosi di andare avanti scacciando sterili contrapposizioni perché, come diceva Diogene, «magari potessi farmi passare la fame solo grattandomi la pancia».