mercoledì 25 novembre 2015

Grecia, Israele e la cooperazione energetica nel Mediterraneo

Sono trascorsi cinque anni dall'inizio della nuova fase di dialogo tra Grecia e Israele nata nel 2010. Erano i giorni in cui si incrinavano, in maniera significativa, i rapporti tra Israele e la Turchia, e Atene assumeva il ruolo di interlocutore numero uno di Tel Aviv nell'intera area. Nel frattempo si è acuita la fase di stallo con Ankara, complice anche l'accordo sul gas raggiunto tra Tel Aviv e Nicosia nell'ottobre del 2013. E oggi, alla vigilia di una serie di decisioni strategiche nel comparto energetico come quelle relative ai gasdotti, ecco che l'asse fra i due paesi potrebbe essere nuovamente determinante.

A un bivio

Grecia e Israele sono a un bivio: è arrivato il momento in cui entrambe le parti devono decidere se ampliare la loro cooperazione anche in campo energetico, al di là degli stretti legami nel settore della difesa resi ancora più saldi da due lustri di contratti. In questo contesto la visita di Alexis Tsipras in Israele il 25 novembre acquisisce un peso specifico chirurgico. Ma Atene non sembra sapere esattamente quello che cerca e soprattutto con quale metodo ottenerlo, in un momento in cui non può disattendere i diktat di Bruxelles e Berlino, anche perché la nuova classe dirigente al governo non ha una lunghissima esperienza nel settore. La parte israeliana per molto tempo ha tentato un approccio diretto con Tsipras, ma la contingenza delle trattative con la troika e la continua emergenza del dossier migranti non hanno concesso occasioni utili.
Secondo fonti diplomatiche, nonostante le rassicurazioni fornite agli israeliani prima della salita di Syriza al potere, Tel Aviv nutre ancora seri dubbi sulla continuazione della cooperazione. Il tifo per le vicende palestinesi che la stragrande maggioranza della classe dirigente di Syriza non ha mai nascosto e l'accordo sul nucleare iraniano sono stati, fino a questo momento, due precisi deterrenti. Ma l'esigenza di creare nuove partnership in campo energetico, senza incrinare rapporti che potrebbero essere decisivi per il futuro dei due paesi, è il primo punto nell'agenda di Atene e Tel Aviv.

Obiettivi

Gli israeliani puntano alla costruzione di un gasdotto che parta dal deposito "Leviathan" a Cipro, dove ci sarà il gas liquefatto che sarà in seguito trasportato da navi "eccezionali" in Grecia al fine di alimentare condotte future, come TAP e IGB soprattutto in vista della costruzione di un secondo terminale GNL ad Alexandroupolis. Tuttavia vi è un nuovo elemento che potrebbe complicare questo scenario: le intenzioni degli americani di vendere shale gas in Grecia, alimentando in futuro Bulgaria e altri paesi balcanici attraverso la IGB in collaborazione con il gruppo Copelouzos che opererà sulla stazione GNL a Alexandroupolis. Come si fa a fare sponda con Tel Aviv se gli Usa entrano così a gamba tesa nel Mediterraneo?
Facciamo un passo indietro: il gruppo Copelouzos, attraverso Prometheus Gas SA, detiene una posizione di leadership nel mercato greco del gas naturale. Prometheus Gas SA è una società greco-russa fondata nel 1991 ad Atene assieme a Gazprom, nata con l'obiettivo di importare e commercializzare gas naturale russo nel mercato greco. Un piccolo grande risultato Prometheus lo ha già ottenuto, assicurandosi grandi quantità di gas naturale in eccesso rispetto ai quantitativi contrattuali dal Public Gas Corporation (DEPA). Queste quantità sono pari a 3,1 miliardi di metri cubi all'anno fino al 2016 e di 7 miliardi di metri cubi all'anno dal 2016 in poi.

Tempo di vertici

Il 16 dicembre si terrà a Gerusalemme il vertice dei segretari generali di Israele, Grecia, Cipro per preparare il vertice di gennaio e anche la riunione dei ministri dell'Energia. Inoltre sempre a dicembre ad Atene si terrà il Trilaterale Grecia, Cipro, Egitto con Mosca attentissima ai possibili sviluppi, mentre il presidente russo Putin ha incontrato proprio in questi giorni i leader supremi della Repubblica Islamica dell'Iran, Ali Khamenei, e il presidente Hassan Rouhani nel quadro della visita a Teheran programmata per partecipare al Forum dei paesi esportatori di gas Gecf.
È un fatto che il mancato accordo sulla questione cipriota rappresenti, ad oggi, un po' la cartina di tornasole per orientarsi su scelte e dinamiche in quella macro area. Se da un lato Washington non sembra interessata a richiamare “all'ordine” Ankara su molteplici questioni (come la libertà di stampa, il ruolo obliquo del presidente Erdoğan nel primo approccio all'Isis a Kobane, le intransigenze su Cipro), dall'altro Tel Aviv sente che è arrivato il tempo delle decisioni. Anche per via della scoperta del nuovo giacimento “Zor” in Egitto, che cambia sia l'impostazione dei tanti ragionamenti fin qui costruiti che i ruoli giocati dai singoli attori. Il nuovo gas, per assurdo, potrebbe essere liquefatto nei due terminali egiziani e quindi in nave prendere la direzione dell'Europa ma anche dell'Asia sfruttando il recentissimo raddoppio del Canale di Suez.

Scenari

Vale la pena, però, di rimarcare il ruolo per così dire "border line" che Tsipras si è ritagliato in questi dieci mesi di governo, come le estenuanti trattative primaverili con i creditori internazionali dimostrano. Il premier greco, per abitudine, non dispensa integralismo o dogmi preconfezionati. Non lo ha fatto al delicatissimo tavolo economico di Bruxelles, né di fronte a incrinature strategiche e possibili defezioni, come le dimissioni chieste all'ex ministro Yanis Varoufakis nel post referendum del 4 luglio e qualche giorno fa al suo ex portavoce, Gavriel Sakellaridis, che non intendeva votare il ddl della troika approvato dal parlamento di Atene per sbloccare la tranche da 10 miliardi di prestiti.
Tsipras non strappa perché non fa fughe in avanti. Ma più di tutto il resto, le ore successive alla vittoria elettorale del gennaio scorso rappresentano il peso specifico del Tsipras-pensiero. Da abilissimo negoziatore quella notte, prima di scendere in piazza per festeggiare con i suoi elettori, fece due cose da vero equilibrista circense: un tweet di risposta ai complimenti di Doctor House e un incontro lampo con Andrej Maslov, ambasciatore di Mosca ad Atene.

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giovedì 12 novembre 2015

Frodi sull’olio extravergine, Burdo (Dogane): “Il ministero delle politiche agricole? Non ci ha più convocati”

Da Il Fatto Quotidiano del 12/11/15
“Il ministero delle Politiche agricole? Non ci ha più convocato”. CosìRocco Antonio Burdo, direttore dell’intelligence antifrode dell’agenzia delle dogane, racconta a ilfattoquotidiano.it come icontrolli effettuati in Italia sull’olio dal 2009 ad oggi si siano fermati, anche a causa di uno stop da parte del dicastero. “Non c’è stata più occasione di riunirsi nel comitato di coordinamentopresso il ministero che, almeno per ciò che riguarda noi, si è interrotto. In sostanza, non ci ha convocato più nessuno”. Ma cosa aveva scoperto il pool anti frode di Burdo? Interventi presso società della miscelazione in Italia che potevano avere rilevanza investigativa, e che sono alla base del report che ha realizzato e consegnato non solo al dicastero guidato da Maurizio Martinama anche alla Commissione parlamentare di inchiesta sullacontraffazione, il cui vicepresidenteFrancesco Cariello (M5S) l’ha visionato e pochi giorni fa ne ha raccontato i contenuti ailfatto.it. In sostanza con solo il 16% di olive italiane alcuni marchi ottenevano per l’olio che vendevano il prestigioso riconoscimento dimade in Italy anche grazie a un presunto cartello italospagnolo.
Burdo dice di aver iniziato questa indagine nel 2009 “quando abbiamo individuato le prime distorsioni di flusso e le prime relazioni intersoggettive che riguardavano società italiane e spagnole, e abbiamo realizzato report di cadenza quasi annuale (2009, 2010, 2012) destinati al ministero”. In seguito è subentrata una “diversità di opinione tra Ministero delle politiche agricole ed Agenzia delle dogane, con l’interruzione delle attività di analisi partecipate che sono continuate solo dal punto di vista interno con segnalazioni alle nostre strutture territoriali per fare dei controlli mirati, ma i report destinati all’esterno dell’agenzia (ministero e Parlamento, ndr) sono fermi al 2013. Certamente il ministero a oggi ha in mano tre report almeno: del 2009, 2010, 2012”.
Ma chi e perché ha stoppato le indagini dell’intelligence anti frode? Burdo la definisce una “diversità di opinione e di indicazione tattica concretizzatasi nelle indicazioni date dal Ministero alle sue strutture e poi in quelle date dalla Dogana alle proprie”. In sostanza prima vi era “un comitato presso il Ministero che stabiliva un punto sinergico tra le istituzioni e noi realizzavamo le analisi per tutte le forze di Polizia e in presenza di elementi di rischio poi avremmofermato la spedizione sino all’esito del prelevamento campione”. Un passaggio che però ha “suscitato delle proteste da parte delle aziende e il Ministero ha lasciato intendere che si potesse procedere subito allo svincolo e attendere l’esito del prelievo campioni con la merce già partita, ma ciò ha comportato una stagione in cui 30 su 35 notizie di reato sono state fatte senza più il sequestro”. La conclusione è che “non c’è stata più occasione di riunirsi nel comitato di coordinamento presso il ministero che, almeno per ciò che riguarda noi, si è interrotto. In sostanza, non ci ha convocato più nessuno”.
Al danno di controlli interrotti si somma la beffa di una legge che sembrerebbe fatta ad hoc. Nel 2014, continua Burdo, “come effetto di una cultura che premia la scorrevolezza dei traffici a svantaggio dellacorrettezza, è intervenuta una legge promossa dall’onorevole Roberta Oliaro di Scelta Civica che ha vincolato l’amministrazione doganale a concludere il prelievo campione e l’analisi di laboratorio entro tre giorni”. Ma sull’olio in tre giorni non è possibile effettuare quei controlli “perché ciò che fa individuare l’irregolarità della dichiarazione di extraverginità è lavalutazione organolettico-sensoriale che si conclude proprio in minimo tre giorni”. Inoltre la legge prescrive indica “che del mancato rispetto dei quel termine di 72 ore ne risponde il funzionario doganale che ha disposto i controlli, per questo c’è un crollo delle attività di controllo, perché al quarto giorno il tutto avrebbe comportato una causa contro il controllore. E le aziende avrebbero potuto rifiutarsi di pagare le spese di stazionamento dei container dal quarto giorno in poi. Ciò ha così creato criticità valutate anche come un modo di disattendere la leggeitaliana. Nonostante una media di positività dei prelievi del 30% non ci è possibile fare il sequestro in quanto la spedizione è già partita”. E conclude: “Il nostro lavoro? Sta diventando impossibile. Rischia di diventare difficile farlo con decoro”.
La replica del ministero sostiene che “la nota delle Dogane di cui si parla è stata inviata al dipartimento competente del Ministero delle politiche agricole a febbraio 2012 nell’ambito del comitato previsto da un decreto ministeriale del 2003. Il comitato è stato però soppresso a seguito della soppressione generale di tutti i comitati decretata dal Governo Monti con la legge 7 agosto 2012”. E aggiunge che “la nota conteneva dati relativi all’import export di olio che l’Ispettorato repressione frodi del Ministero ha utilizzato in tutte le maggiori operazioni svolte nel 2014 a tutela del made in Italy (FuenteAliud per Olio,Olio di Carta) in cui sono stati usati anche quei dati, tra i molti altri, per mirare al meglio i controlli. La parte riguardante il mercato spagnolo, per presunte posizioni dominanti, afferiva invece all’ambito antitrust non di competenza del Ministero”. L’ultima comunicazione inviata al MIPAAF dall’agenzia delle dogane risale a giugno 2015.
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Grecia, ecco perché scioperare oggi è sbagliato

Da Il Fatto Quotidiano del 12/11/15
Ha scritto Confucio che “per una parola un uomo viene spesso giudicato saggio, e per una parola viene spesso giudicato stupido. Dunque dobbiamo stare molto attenti a quello che diciamo”. E che facciamo.
Mille e più volte ho raccontato quali e quante distorsioni siano contenute nella gestione della crisi greca da parte della Troika, con prestiti scaduti, affari poco trasparenti, scelte discutibili. Tre anni dopo il mancato default, però, la parola d’ordine da utilizzare credo sia responsabilità. Lo sciopero generale che sta andando in scena in tutta la Grecia è sbagliato. Sindacati, ordini professionali, trasporti cittadini, aerei e navi si fermano per protestare contro il governo Tsipras, ma viene da chiedersi perché lo abbiano rivotato meno di due mesi fa. Forse non avevano letto il programma di Syriza che prevedeva al primo posto l’attuazione del terzo memorandum siglato nell’agosto scorso? Forse nessuno sapeva che senza compiti a casa non sarebbero stati assicurati altri prestiti miliardari (che non chiudono i conti, ma li peggiorano)? Forse chi in queste ore scende in piazza si aspettava come per magia che tutto potesse tornare come nell’anno delle faraoniche Olimpiadi, costare tre volte rispetto a quanto pattuito, dove non esistevano gare di appalti?
In Grecia, al netto delle storture politiche dell’Unione che non cessano come sul caso migranti, si continuano a non pagare le tasse: sino al giugno scorso si contavano sei miliardi di mancate entrate per l’erario. Si continua a importare l’85% dei prodotti di cui il paese necessita e non si investe in ambiti nuovi e diversi. Si gigioneggia attribuendo la colpa dello status quo solo a Bruxelles, a Berlino, agli americani, ai servizi, alla geopolitica, quando invece bisognerebbe allestire un tavolo dove condividere responsabilità e atteggiamenti.
E’ come se chi manifesta oggi sia in qualche modo colluso con un intero sistema che ha prodotto, assieme alla complicità secondaria dell’Ue, il danno a cui si assiste oggi. E’ lo schema seguito dalla penna di Nicola Mariuccini in “La prigione di cristallo” (Futura Edizioni) in una coinvolgente narrazione dove l’esperienza dellaviolenza domestica vissuta si fa “collusione” con l’aggressore. Mariuccini in un lunghissimo dialogo decide di accendere un focus sulla soggettività dei protagonisti che urlano tutta la loro voglia di libertà e autodeterminazione. Un racconto ambientato nella Grecia dei colonnelli, in un momento storico in cui i diritti umani erano solo sulla carta. Un po’come oggi quando il contesto socio politico legittima tutti i tipi di reazioni, anche uno sciopero inutile e mediaticamente deleterio contro quel governo che si è appena votato a tamburo battente.
La piazza dunque come lavatrice di coscienze e comportamenti, dove il mancato cambio di passo di una mentalità datata e assistenzialista è il principale freno ad un futuro che non sembra stagliarsi all’orizzonte: dove restano solo cirri sconfortanti e prestiti sempre più scaduti.
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giovedì 5 novembre 2015

Romania, la piazza caccia il premier Ponta

Ieri Gezi Park, oggi Podgorica e Bucarest. Non solo per il rogo in una discoteca della capitale rumena, che ha fatto 32 morti e almeno 180 feriti, si è dimesso ieri il premier socialdemocratico Victor Ponta. Ma anche, o soprattutto, per il vento di protesta dei cittadini scesi in piazza contro corruzione e malaffare. Dopo il devastante incendio nella discoteca Colectiv (tra i feriti anche la 27enne studentessa italiana Tullia Ciotola), in 20mila hanno protestato contro l'esecutivo, accusandolo di incompetenza e corruzione. In molti vedono nell'incidente una vera e propria miccia in grado di far detonare un malessere diffuso contro governo e partito di maggioranza. I tre proprietari del locale infatti sono accusati di omicidio colposo per aver consentito la realizzazione di uno spettacolo di fuochi d'artificio durante il concerto nella discoteca, senza le necessarie cautele di sicurezza: secondo i manifestanti, la plastica raffigurazione del mancato rispetto delle regole da parte di una minuscola oligarchia.
Nonostante sia il più giovane premier della storia rumena, il 43enne Ponta è visto come simbolo di un sistema vecchio e consumato. Esattamente un anno fa si era candidato alla presidenza della Repubblica contro il Klaus Iohannis, membro del Partito nazionale liberale: vinse al primo turno. Ma a fare scalpore furono i presunti brogli sul voto dei rumeni all'estero. Quattro mesi fa è stato incriminato per corruzione. È accusato di falso, frode fiscale e riciclaggio durante gli anni di professione forense oltre a conflitti di interesse nell'esercizio delle funzioni di governo. I pm lo sospettano di aver creato fondi neri sui contratti fittizi per lavori mai svolti dal suo socio e avvocato Dan Sova. Primo ministro dal maggio 2012, è stato al centro di accuse di plagio in occasione della sua tesi di dottorato, copiata da uno studente di Catania. Quando era procuratore generale della Corte di Giustizia fu invischiato nel caso Panait, dal nome del pm deceduto nel 2002 quando fece un volo dalla finestra del terzo piano della sua abitazione.
Ponta lascia la testa del governo e a sostituirlo potrebbe essere il suo ex numero due al partito, Liviu Dragnea, meno compromesso con la giustizia. Secondo la Costituzione il nuovo governo deve essere formato dal partito con più seggi in Parlamento, ovvero i socialdemocratici, con i partner dell'Unpr. Se per due volte non vi dovesse riuscire, allora si andrebbe ad elezioni anticipate ma tutto lascia intendere che si troverà un accordo su un nome di garanzia. Alle urne si andrà l'anno prossimo e già scalda i motori il 48enne liberale Catalin Marian Predoiu, primo ministro ad interim della Romania dal 6 febbraio al 9 febbraio 2012, a seguito delle dimissioni di Emil Boc. Scossi i mercati, con la valuta locale che perde lo 0,3% sull'euro, il livello più basso dallo scorso agosto.

mercoledì 4 novembre 2015

Podgorica come Gezi Park e Bucarest: il caos

C’è un non più sottile filo che lega (presunte) democrazie, piazze in subbuglio e nuove strategie europee guardando a cosa sta accadendo alla dorsale balcanica e alla cosiddetta eurasia. Le piazze montenegrine e rumene, dopo il sangue versato in Turchia a Gezi Park, prendono coraggio e chiedono a gran voce un passo indietro da parte dei loro governanti. Ma al momento ricevono solo violenza e repressione.
In Romania 20mila cittadini in piazza per chiedere la testa del premier Ponta che si dimette, dopo sangue e morti per un incendio. A Podgorica i montenegrini non credono più nel premier Milo Djukanovic, al timone da un quarto di secolo e attenzionato in passato dalle procure di Napoli e Bari per contrabbando internazionale di sigarette: mai condannato perché coperto dall’immunità diplomatica.
Il paese, definito dall’US Foreign Affairs  uno “stato mafioso”, vive la sconvolgente situazione di scontri tra cittadini e forze dell’ordine, accaduti nel silenzio europeo per tutto il mese di ottobre a cui la polizia ha reagito con gas lacrimogeni lanciati contro migliaia di montenegrini.
Lo scorso 18 ottobre gli scontri sono avvenuti dinanzi al Parlamento di Podgorica, quando i manifestanti hanno cercato di sfondare un recinto di fronte alle forze di polizia, che si erano barricate. E mentre si assisteva al lancio di pietre e razzi, alcuni cittadini sono stati anche colpiti alla testa, mentre la piazza gridava “Milo ladro Milo! Ora è finita!”.
Djukanovic tre anni fa è stato rieletto premier per la terza volta ma negli ultimi due lustri le accuse di stampa e opinione pubblica su corruzione e malaffare sono aumentate esponenzialmente. Nel 2011 l’americana Securities and Exchange Commission ha accusato di tangenti Magyar Telekom Plc, il più grande provider di telecomunicazioni in Ungheria e tre dei suoi ex dirigenti: avrebbero pagato mazzette a politici del Montenegro e della Fyrom per impedire la concorrenza nel settore delle telecomunicazioni.
In seguito Magyar Telekom ha accettato di pagare una sanzione penale da 59 milioni di dollari come parte di un accordo raggiunto con il Dipartimento di Giustizia americano. E anche Deutsche Telekom come parte di un accordo di non-azione penale con il Dipartimento di Giustizia pagò una penale di 4,5 milioni di dollari.
A questo punto sembra che Djukanovic sia fermamente convinto e che la sua retorica anti-russa, infarcita da ambizioni pro Ue e pro Nato gli possa garantire un vaucher eterno che in qualche modo gli consenta di evitare i guai giudiziari. Non solo gli ungheresi, ma possibili guai giungono a Djukanovic anche da tre casi praticamente simili: la cipriota Ceac, l’olandese Msnn e l’italiana A2a che in Montenegro hanno perso milioni di euro.
Ma davvero l’Ue sarebbe così sprovveduta da cadere in un tranello del genere? Magari andrebbe ricordato il caso dell’ex primo ministro croato Ivo Sanader, che ha guidato il paese in Europa e nella Nato per poi essere condannato per corruzione a dieci anni di carcere, anche se pochi giorni fa quella pronuncia è stata annullata nello sdegno generale. Lo scorso luglio inoltre la Corte costituzionale croata, aveva annullato la sentenza di secondo grado ad otto anni e mezzo di reclusione per l’ex premier: era stato condannato per aver ricevuto una tangente di 10 milioni di euro dalla compagnia petrolifera ungherese MOL. Il suo scopo secondo l’accusa era far sì che la compagnia, nonostante possedesse meno del 50%  delle azioni dell’Industria petrolifera croata (INA), avesse voce in capitolo per quanto concerne la gestione.
Ma l’ex premier croato non è solo: procedimenti giudiziari sono in corso anche per il sindaco di Zagabria Milan Bandić, e soprattutto per il numero uno del calcio croato, il ceo della NK Dinamo, Zdravko Mamić. Entrambi sono a piede libero in attesa di processo: lo ha deciso il tribunale dopo il pagamento di una grossa cauzione.

Montenegro: i continui errori europei sulla piazza

Un altro silenzio. Dopo l’indifferenza europea nei confronti delleprimavere arabe, prima invocate e poi relegate a scomoda cornice, ecco che il vecchio Continente decide di non interessarsi della più grande protesta di piazza della storia del Montenegro, a due passi da casa nostra. Il paese balcanico, dopo 25 anni di regno targato Djukanovic, che governa più di quanto fatto da Alexander Lukashenko in Bielorussia, chiede con forza un cambio di passo.
Pochi giorni fa la polizia montenegrina su impulso del governo di Milo Djukanovic (in passato mai condannato per contrabbando milionario di sigarette solo perché già premier) ha sparatolacrimogeni sui manifestanti in piazza: chiedevano le suedimissioni e un esecutivo di garanzia che portasse il paese ad elezioni libere. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è il possibile ingresso nella Nato e nell’Ue del Montenegro a cui Dukanović replica accusando Mosca della regia delle proteste. Un po’come faceva il presidente turco Erdogan che imputava al suo ex amico, il predicatore Gulen, le proteste di piazza: e solo per avere il potere di premere il pulsante della repressione.
Ma Djukanovic gioca la sua partita sul terreno dellacomunicazione e sa quello Ue e gli Usa vogliono sentirsi dire in questo momento: censurare pericoli di instabilità, incolpare qualcun’altro dei moti di piazza così come fatto da Erdogan a Gezi Park e rafforzarsi in questo modo agli occhi di Bruxelles e Washington. Il problema, però, è che al netto di strategie, simpatie e rapporti personali, il Montenegro è un paese dove i parametri democratici e relativi alla libertà personale e imprenditoriale non sono garantiti.
Le ragioni principali delle manifestazioni anti-governative risiedono nella povertà diffusa e nella corruzione. Quasi tutte le principali imprese industriali sono chiuse. Il tasso di disoccupazione è superiore al 15,5%. Le persone sono in fuga dal paese, nel tentativo di trovare una vita migliore in Ue. E, altra analogia con il governo di Ankara, i giornalisti di opposizione vengono quotidianamente attaccati e anche uccisi, come dimostra l’ex direttore del quotidianoDan, Duško Jovanović freddato da tre killer nel 2004, e definito il Čuruvija montenegrino: infatti Slavko Čuruvija direttore del Dnevni Telegraf e di Evropljanin fu ucciso a Belgrado l’11 aprile del 1999 e del processo poco o nulla si sa.
E ancora, il Foreign Office americano classifica il Montenegro come uno stato mafioso: ciò significa che alti funzionari del governo in realtà diventano veri e propri players in barba a tutte le regole di concorrenza e mercato. Lo stesso Djukanovic è stato indagato dalle Procure di Napoli e Bari per contrabbando internazionale di sigarette ma non ha pagato dazio in quanto aveva l’immunità diplomatica. Mentre nel 2009 l’italiana A2A ha pagato oltre 400 milioni di euro per il 51% della montenegrina Epcg che produce elettricità e oggi dopo sei anni sembra stia perdendo i propri investimenti. Proprio come accaduto alla cipriota Ceac e alla olandese Mnss.
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lunedì 2 novembre 2015

Turchia, la straordinaria anomalia di Erdogan


Rigore è quando arbitro fischia, recitava un vecchio saggio del calcio come Vujadin Boskov, indimenticato allenatore della Sampdoria. Nel senso che metteva i puntini sui fatti e sull’oggettività, lasciando ad altri polemiche, recriminazioni e retropensieri. Il dato elettorale fuoriuscito dalle elezioni turche dello scorso fine settimana ha molti fatti dietro le urne, l’ultimo dei quali si chiama lotta all’Isis, ma che mi mescola con una serie di ingarbugliate vicissitudini, come la partita per i gasdotti, la nuova guerra fredda che si combatte in Siria tra Washington e Mosca, gli equilibri territoriali, l’esodo dei migranti e il nuovo ruolo degli Emirati, accanto all‘accordo raggiunto con l’Iran.

Turchia, dunque, centrale guardando al panorama mediorientale. Non bisogna però dimenticare che solo dodici mesi fa il governo di Erdogan fu scosso da un immenso scandalo di corruzione, con tre quarti dell’esecutivo coinvolto, finanche il figlio dell’attuale presidente, che con la sua Ong faceva secondo i Mm affari illeciti. Senza un passaggio parlamentare, Erdogan decise per rimpasto e poi elezioni, arrivando anche a minacciare la Magistratura, la stampa a pochi mesi dal bagno di sangue di Gezi Park.

Un altro fronte, silenzioso, si ritrova nell’aggressione turca al gas di Cipro, anche con minacce ad aziende italiane, e con la contemporanea presenza sino a pochi mesi fa in quello specchio d’acqua di una fregata russa, sei caccia israeliani, due navi oceanografiche turche e un sottomarino greco. In sostanza Ankara rivendica titolarietà sul gas presente nelle acque cipriote, ma senza il conforto della legge dal momento che ha invaso Cipro dal 1975 lasciandovi in loco 50militari nel silenzio di Onu e istituzioni internazionali.

La questione turca però sino a questo momento non è mai stata affrontata sino in fondo, in quanto si tratta di uno di quei rari casi in cui una posizione particolarmente strategica di un Paese, sotto il profilo militare e politico, produce una specie di bonus a vita. Alla Turchia sono stati condonati molti atteggiamenti che ad altri Stati non sarebbero mai ammessi? La risposta è sì. Ankara da un punto di vista strategico ha ricoperto il ruolo di partner basilare per l’Occidente impedendo l’uscita della flotta russa al di fuori dei Dardanelli. Come dire che il fatto di essere il cane da guardia piazzato lì a proteggere la strategia anti russa della Nato, di cui è membro, le ha consentito svarioni e atteggiamenti colonizzatori come accaduto a Cipro.

E incassando una sorta di bonus a vita, grazie al quale la comunità internazionale ha deciso di chiudere un occhio (anzi, due) dinanzi ad atteggiamenti che, altro non sono, se non una palese violazione dei diritti. Come il blitz nelle redazioni dei quotidiani anti Erdogan, la crociata contro i social network, sino alla violenza perpetrata senza ritegno contro curdi, armeni e greci del Ponto, passando per il silenzio sui massacri del passato come accaduto a Smirne nel 1922. Il sospetto è che quel plebiscito elettorale ottenuto ieri sia frutto più della paura di un altro caos in quella macroregione che di effettiva scelta politica.

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domenica 1 novembre 2015

Olio made in Italy solo sulla carta: l’antifrode ipotizza il cartello, Parlamento secreta il dossier.

Un presunto cartello dell’olio italospagnolo che tiene bassi i prezzi, bypassa la qualità del prodotto ed elude le regole sulla concorrenza, ottenendo il marchio made in Italy pur avendo solo il 16% di olio italiano. Lo denuncia il nucleo di intelligence anti frode dell’Agenzia delle Dogane, che dal 2009 al 2013 ha redatto una serie di report che sono stati tutti secretati dalla commissione parlamentare d’inchiesta sulle contraffazioni. 
Il motivo? La presenza di profili giudiziari penalmente rilevanti anche perché coinvolgono stati esteri. Sui documenti in questione il ministero delle Politiche Agricole tace e preferisce non fornire spiegazioni a ilfattoquotidiano.it, che lo ha interpellato più volte. I report, tuttavia, sono stati scansionati dal deputato del M5S Francesco Cariello, che per legge ha diritto di leggerli in quanto vicepresidente della commissione sulle contraffazioni.
In sostanza lo stesso soggetto, che fa capo alla società iberica Deoleo, a sua volta controllata dal fondo di private equity Cvc (che ha acquisito marchi italiani come Carapelli, Bertolli e Sasso) vende e compra olio ottenendo il marchio made in Italy nonostante la provenienza non sia italiana, bensì Ue ed anche extra Ue (greco, spagnolo, tunisino, marocchino). Francesco Cariello ha raccontato a ilfattoquotidiano.it che nei documenti secretati l’intelligence denuncia che “uno stesso soggetto abbia acquistato noti marchi italiani rigorosamente toscani e umbri appartenenti al giro di una sola famiglia, i Fusi. E che “con solo il 16% di prodotto italiano guadagna il marchio made in Italy, mentre il restante 84% è di provenienza straniera”.

Un autogol in un momento già delicatissimo per via del fenomeno Xylella fastidiosa, che sta causando seri danni alla produzione di olio salentino, ma soprattutto un atto formale da parte di chi previene frodi per tutelare gli interessi nazionali, a cui la politica non presta l’orecchio. “Noi non sappiamo che olio consumiamo – è stata la denuncia del parlamentare 5 Stelle – perché mentre su tutti i prodotti di eccellenza italiana come ad esempio il vino si trova esattamente composizione e provenienza, sull’olio invece c’è solo un generico made in Italy, che non specifica la provenienza delle olive e che non consente all’Italia di ottenere i benefici economici che invece meriterebbe” in virtù delle proprietà organolettiche e polifenoliche uniche al mondo del suo olio.
Nello specifico, i controlli effettuati nell’anno 2014 dal nucleo anti-frode hanno confermato che il settore oleicolo italiano sia tra i più interessati da frodi commerciali. I rilievi penali sono stati già segnalati alle procure per reiterazione dei reati (art. 515 c.p.). Inoltre dall’analisi degli esiti delle indagini sono emerse una serie di incongruenze: si va dalle realizzazione di frodi commerciali compiute da filiere di aziende italo-spagnole alla miscelazione in Italia di olio spagnolo, tunisino, greco ed in minima parte italiano destinato a prodotti esportati come “olio extravergine di oliva”.
Non solo. Sono emerse anche alcune “correlazioni soggettive“, scrive il report, tra aziende italo-spagnole in grado di movimentare il 40% dell’intero interscambio commerciale in uscita dalla Spagna e ad un prezzo inferiore ai tre euro al chilo. Inoltre alcune realtà aziendali italo-spagnole “sono governate dalla stessa persona fisica” e al contempo risultano sia venditori che acquirenti di considerevoli quantitativi di olio d’oliva non italiano, ma importato da Spagna e Tunisia. Lo scorso 5 ottobre, a Expo, l’apposita commissione d’inchiesta sulla contraffazione ha diffuso i risultati del lavoro, tra cui le conclusioni sul cartello italospagnolo. Nella platea non c’era il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina, che ha declinato l’invito. E successivamente ha preferito non fornire risposte alle domande de ilfattoquotidiano.it. Identica la decisione di Carapelli che, interpellato sull’argomento, ha preferito per il momento non replicare. “L’Italia – ha sottolineato Cariello – ha 350 cultivar, non poche decine come la Spagna per cui non si capisce perché dovremmo puntare alla quantità mortificando invece la qualità del nostro olio in grado di rappresentare una ricchezza unica per il Mezzogiorno”. Proprio per questo motivo, ha proposto un ordine del giorno in sede di approvazione del Disegno di legge (A.C.1864) intitolato “Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea – Legge europea 2013 bis” con cui chiede che venga istituita, presso il Ministero dell’Agricoltura, una banca dati rappresentativa delle diverse produzioni di oli extra vergini di oliva.

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