giovedì 27 maggio 2010

Scommettiamo sulla rinascita programmando il futuro

Da Ffwbmagazine del 27/05/10

I livelli di disuguaglianza in Italia sono elevatissimi, peggio stanno solo Messico e Turchia. Più del 50% dei cittadini segue professionalmente le orme dei genitori, c’è una scarsa mobilità sociale dove ciascuno si tiene stretta la propria posizione di privilegio, badando a null’altro se non alla singola sopravvivenza. E di fatto mortificando le energie del Paese, i cervelli, le ambizioni e le idee nuove che con un modello diverso e più aperto di Stato e di società, così come avviene altrove, potrebbero avere la propria opportunità. Rispetto agli anni ’90 l’evasione fiscale e le disparità tra nord e sud non sono mutati. Né si registrano miglioramenti circa l’accesso al lavoro per le donne. Si tratta di uno scheletro di dati Istat, Onu e Ocse riportati nel volume di Aldo E. Carra e Carlo Putignano Un Paese da scongelare, di cui negli ultimi due lustri si è discusso molto, ma che però nel merito non sono cambiati. A causa di politiche miopi, che si sono concentrate sull’immediato, e che hanno portato conseguentemente a una discussione allusiva, nei fatti distante anni luce dalla realtà.

Basti pensare che nel 2007 in Italia ci sono stati meno laureati che in altri ventinove Paesi Ocse, con un alto numero di giovani che abbandonano gli studi a livello di media inferiore. Più in generale la globalizzazione ha generato paradossalmente più iniquità, strozzando investimenti di lungo respiro e sfide socio-occupazionali che o non sono state lanciate, o vengono clamorosamente ibernate, in attesa di tempi migliori. Oggi le fasce in difficoltà si chiamano ceto medio: è una povertà che ha un suo rilievo antropologico oltre che economico, che impedisce prospettive future. La precarietà indossa i panni di un nuovo ascensore sociale, diretto però solo verso i piani più bassi, perché direttamente collegato alla povertà.

Si registra anche una crisi del racconto, in quanto forse i numeri sono sì pubblici e pubblicati, ma non sufficientemente pubblicizzati. E non per un senso di compatimento astratto e improduttivo, ma per una presa di coscienza dello stato delle cose, al fine di trovare soluzioni adeguate e correttive. Invece l’economia dovrebbe tornare a essere un fattore di progresso umano, accompagnata da una politica che sostenga la costruzione del domani, in un’ottica globalmente sociale, perché come sostiene Bauman «lo Stato sociale è moribondo, solo un pianeta sociale può assolvere alle funzioni che lo Stato sociale ha tentato di svolgere fino a ieri».

Come uscirne? Andando oltre il provvisorio, ridistribuendo il lavoro, unificando i diritti. Sostenendo una nuova giustizia sociale e non per un motivo ideologico, ma semplicemente per un reale bisogno. Tentando di superare il cosiddetto precariato istituzionalizzato, evitando che la rassegnazione diventi certezza. Puntando sulla green economy, una nuova forma di sviluppo che contemporaneamente crea occupazione per l’oggi e benefici economico-ambientali reali per il domani, con l’autosufficienza energetica e la razionalizzazione di spazi e servizi cittadini.

Legittimo chiedersi: in un Paese bloccato, con zero investimenti per il futuro, con la nuova paura del rischio-Grecia, anche l’elettorato è congelato? La risposta è nell’evoluzione dell’astensionismo. Fino a dieci anni fa chi votava scheda bianca o si asteneva lo faceva nella maggioranza dei casi per disinteresse. Oggi, quel 32% di astenuti alle scorse regionali vuol marcare una differenza, evidenziando un malessere. Fecondando di fatto anche un’ immobilità socio-elettorale che non sarebbe prudente ignorare, in quanto direttamente proporzionale all’ibernazione strutturale complessiva.

Il rischio concreto sul quale la politica deve interrogarsi alla luce di questi numeri, è che in una società dove il Pil non cresce più le citate disuguaglianze si rafforzino ulteriormente, impedendo alle future generazioni di partecipare attivamente alla vita del Paese. L’estetica dei reality ha drogato la società, senza che vi fosse una risposta adeguata da parte di chi avrebbe avuto il compito di impedire sperequazioni. E non solo in riferimento alla classe operaia o alle fasce da sempre più esposte al rischio, se è vero come è vero che questa deriva da sabbie mobili sta risucchiando pericolosamente anche chi si riteneva tranquillo. E che oggi scopre una realtà friabile, dove trionfa la paura perché anche un piccolo investimento è drasticamente rimandato o cancellato, per far fronte ad altre esigenze primarie.

Si potrebbe allora programmare una crescita mirata, senza che questa inneschi timori e riserve anche solo di parola. Perché sarà solo con uno scatto nella direzione del risveglio, non solo economico ma anche in chiave sociale del Pil, che si potranno scrostare scorie tossiche, scongelando non solo un Paese ma un intero sistema. E dovrebbe essere proprio la politica a farsi carico di una vera rinascita. Consapevole che interventi sporadici e improvvisati non saranno sufficienti a fermare l’emorragia di fiducia e di benessere, ma rischiano di zavorrare ulteriormente una struttura che invece dovrebbe essere rivoluzionata e riprogrammata.

mercoledì 12 maggio 2010

APPELLO AI GRECOBOFI


DA MONDOGRECO DEL 12/05/10

Questo è un appello ai grecofobi. Non abbiate paura, anzi, per superare la crisi date un contributo alla patria di Omero: quest’estate, se potete, venite tutti in Grecia.
“Sappi che il parlare impreciso- diceva Socrate- non è soltanto sconveniente in se stesso, ma nuoce anche allo spirito”. In queste settimane si è letto di tutto sulla Grecia. Circa le considerazioni tecniche in merito alla gestione contabile-finanziaria e le inevitabili ripercussioni mondiali non può esservi discussione: i numeri parlano chiaro. Qualcuno li ha truccati in passato, quel qualcuno non è stato al momento condotto in alcun tribunale, ragion per cui i cittadini ellenici sono alquanto nervosi, se si valutano nel merito i sacrifici ai quali saranno chiamati.
Ma da qui a dipingere l’intero Paese con certa supponenza o, ancora peggio, con velature di scherno come qualche commentatore italiano e tedesco ha di recente fatto, beh semplicemente non è bello. Non solo perché non risponde al vero, ma perché tali giudizi sono stati vergati quando la Grecia non aveva proprio la possibilità di difendersi, impegnata com’è a portare avanti il risanamento.
Dissertare di crisi greca mescolando così sgradevolmente baccanalie e turismo sessuale, - come qualcuno ha fatto pochi giorni fa su un quotidiano- quasi stessimo parlando di Thailandia e non di isole Cicladi, lascia esterrefatti.
In primis la Grecia non è solo Cicladi. Forse le astiose penne che hanno fatto tristemente capolino dipingendo un’Ellade allo sbando e corrosa da depravazioni sociali, non hanno avuto il piacere e l’onore di visitare i monasteri del Monte Athos, le incontaminate spiagge di Elafonissi, o le dolci coste di Porto Carras o di Porto Idra, passando per gli incantevoli vigneti del Peloponneso, o per i paesaggi mozzafiato del monte Olimpo o del Parnassos, quasi ci trovassimo in Svizzera, o le colline dell’Oracolo di Delfi, o le acque termali della piana delle Termopili, dove trecento eroi andarono incontro alla morte non prima di aver dimostrato valore e coraggio. Certamente a Mykonos (ci sono stato anch’io) non si svolgono festival letterari, e senza dubbio la crisi economica ha precise responsabilità, ma altri, e ben diversi, sono gli accenti da porre, se si vuol fare una critica corretta.
Lo stesso Isaia (5,20) scrisse “guai a coloro che chiamano bene il male, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, l’amaro in dolce e il dolce in amaro”. Nessuno sarebbe così miope da non condannare la scellerata politica economica ellenica degli ultimi due lustri. Ma un conto è analizzare oggettivamente dati e congiunture, altro sparare a salve mancando volgarmente di rispetto ad una cultura e ad una storia che non è stata solo regina del passato. E spiace che ciò sia avvenuto su un quotidiano del sud Italia, ben conscio delle proprie origini culturali, orgogliosamente mediterranee.
La Grecia non sarà mai espulsa in senso culturale, geografico, linguistico, non solo dall’Europa ma da nessun altro continente o associazione, semplicemente perché, per quei pochi che lo ignorano, rappresenta il “pan”. Perché insita nella cultura a tutti i livelli, dalla medicina alla filosofia, dalle arti alle scienze. Forse qualcuno non sa che, per dirne una, alla Nasa la prima materia insegnata ai nuovi scienziati è l’antico greco. Giusto per aprire la mente a sforzi analitici notevoli. Altro che lingua morta.
Mi auguro che le righe velenose che tanto sdegno e tristezza hanno suscitato in me, figlio del Meridione ma ancor prima di quella cultura Mediterranea che è nata, piaccia o no, in un lembo di Egeo, siano rilette con più attenzione. E non per ottenere scuse o rettifiche, ma solo per suscitare consapevolezza. Di un passato da onorare, di un presente giustamente da criticare, ma senza inopportune mancanze di rispetto, perché come diceva Pindaro “c’è una misura in ogni cosa, tutto sta nel capirlo”.

martedì 11 maggio 2010

Quella parata per la libertà che sa tanto di regime


Da Ffwebmagazine del 11/05/10

Trecento morti negli ultimi dieci anni. Trenta all’anno. Circa tre al mese. È il bilancio dei giornalisti uccisi in Russia in due lustri, un paese che è al penultimo posto nella classifica per la libertà di stampa della Freedom House, al secondo – dietro l’Iraq - per il numero complessivo di cronisti ammazzati. Pare che per assoldare un killer a Mosca siano sufficienti duemila euro. In Russia, come in Cina, Iran e Venezuela, dai dati del “Freedom of the press 2010: A global survey of media indipendence”, risulta che la censura su Internet limita sensibilmente l’accesso alle informazioni. E parallelamente cresce il numero delle voci stroncate. Da un lato, giornalisti e giudici freddati, dall’altro, l’imponente parata militare del 9 maggio nella piazza Rossa in occasione dei 65 anni dalla vittoria sul nazismo, con sfoggio di armi e di missili intercontinentali. Una scena che, se si togliessero i colori agli schermi, potrebbe essere riportata indietro di mezzo secolo, immortalando immagini in bianco e nero figlie di un tempo lontano. Con leader e condizioni geopolitiche del passato. E, invece, sono del 2010, anno della disfatta dei diritti civili in quel territorio sterminato, dai morti in Cecenia alle spinte democratiche inibite, dalle inchieste scomode ai tentativi di tirannizzazione dei media.

Purtroppo, non c’è solo Anna Politkovskaja a evidenziare la vergogna di un paese che non protegge a sufficienza i propri giornalisti. Che dire di Antonio Russo, di Radio Radicale, ucciso in Georgia con lo schiacciamento del torace, tipica tecnica adottata dai servizi sovietici. O l’esperto di Caucaso Ilyas Shurdayen, strangolato con una cintura. Oppure il proprietario di Ingushetiya.ru Magomed Yevloyev, a cui hanno sparato mentre era a bordo di un’auto della Polizia. O come Yuri Shchekochikhin, viceredattore di Novaya Gazeta, morto per una grave reazione allergica poco prima del suo viaggio negli Usa per confrontarsi con l’Fbi circa una sua inchiesta di corruzione. O come la studentessa di giornalismo 25enne Anastasia Baburova: stuprata e uccisa con un colpo di pistola al volto mentre inseguiva l’assassino di Stanislav Markelov, avvocato della Politkovskaja. Ne sa qualcosa Oleg Panfilov, direttore del Centro di Giornalismo in Situazioni Estreme di Mosca (Cjes), premiato lo scorso anno con il riconoscimento Internazionale per la Libertà di Informazione Isf-Città di Siena.

Perché non ricordare allora le vittime della mancanza di libertà in quel territorio? Perché limitarsi a parate celebrative che sanno di regime? Consapevole, forse, che tanta esposizione di forza non sarà sufficiente a chiudere bocca ed orecchie a chi fa ancora un mestiere scomodo da quelle parti. A cosa serve pavoneggiarsi e far sfilare muscolosi carri armati, quando poi ci si scopre privi della libertà basilare? L’unica libertà che è direttamente proporzionale alle altre. Senza della quale non vi è Stato, né società, né partecipazione, né diritti, né doveri. «La voce della verità - sosteneva Robert Musil - si accompagna a un rumore accessorio sospetto, ma gli interessati non vogliono sentirlo». E in questo contesto non si può non pensare a quelle che potrebbero essere definite “le nuove non-libertà” nel mondo, dai dissidenti cubani, alle drammatiche vicende birmane di Aung San Suu Kyi, dall’onda verde dei ragazzi iraniani alle limitazioni di internet in Corea.

Il presidente Medvedev ha annunciato invece che solo insieme si potranno affrontare le minacce odierne. Ma Vladimir Putin evidentemente non la pensa allo stesso modo, se a stretto giro ha aggiunto che ritiene la politica estera americana paragonabile a quella del terzo Reich. Schermaglie dialettiche poco affini a una giornata di festa. Ammesso che di festa si possa parlare. Tra l’altro, sulla celebre piazza moscovita sono sfilati anche i nuovi missili a lunga gittata Topol-M, forse per ricordare al mondo intero che la Russia è ancora una potenza nucleare. Ma anche che ha ancora dinanzi a sé molta strada da percorrere per diventare, non una potenza, ma quantomeno una normale espressione di democrazia ed emancipazione.

giovedì 6 maggio 2010

CRISI GRECA, CHI INCHIODA I RESPONSABILI?


“…solo un muro di legno non vi tradirà”, sentenziò l’Oracolo di Delfi agli ateniesi in attesa di conoscere la profezia sulla battaglia che di lì a poco si sarebbe consumata alla piana delle Termopili tra spartani e soldati del re Serse. Quel muro che segnò un vantaggio per i trecento in realtà era stato innalzato anni prima dagli abitanti della Locride e della Focide per difendersi da Macedoni e Tessali: Leonida, quando giunse in quello spicchio di terra, lo trovò in rovina e provvide a ricostruirlo.

Quello stesso muro potrebbe oggi, duemilaquattrocentonovanta anni dopo, giungere in soccorso di una Grecia minacciata non dall’invasore straniero ma dai debiti: e prende il nome di Unione Europea. E fatto da mattoni di solidarietà, non forzatamente romantica ma finanziaria, che gli stati membri non possono non offrire ad Atene. Anche per non rimetterci di tasca propria. E in considerazione delle drammatiche conseguenze che, un ritorno greco alla dracma, avrebbero per l’intero continente aprendo, per dirne una, una falla gigantesca sulla tenuta dell’euro e sul significato politico più intimo della moneta unica. A cosa servirebbe isolare gli stati membri in difficoltà, quando forse proprio la crisi è l’occasione per vedere finalmente e nei fatti l’Unione dell’Europa?

Pochi giorni fa il primo ministro greco, George Papandreu, dalla lontana isola di Kastellorizo, ultimo pezzo di Grecia prima delle coste turche- e chissà se non sia stato un caso- ha chiesto ufficialmente l’aiuto del Fondo Monetario Internazionale, suscitando ulteriori perplessità della Germania. A quali risultati porterebbe, come la cancelliera Merkel sta facendo, chiudere le porte in faccia alle richieste di aiuto ateniesi? Quali scenari apparirebbero con una Grecia che potrebbe fare da apripista ad altri illustri fallimenti all’interno dell’Ue? Si legge che Spagna e Portogallo registrerebbero gli stessi gravi indici economici. E’chiaro che un prestito-ponte da solo non sarà sufficiente a riequilibrare conti dilaniati da anni di sperperi e, sarebbe il caso di dire, di illusioni mitologiche sul potere di acquisto. Ma neanche un gelido rifiuto di collaborazione o di estintore per la casa del vicino in fiamme, come ha metaforicamente rilevato Giulio Tremonti, servirebbe granchè.

Dopo mesi di travaglio mediatico sulla crisi economica greca, appare sin troppo semplicistico avanzare analisi e riflessioni sullo status quo. I numeri parlano chiaro. Altrettanto deleterio è però continuare con quella strana deriva che ignora palesemente responsabili e cause del crack di oggi. Il default ellenico non è figlio solo della crisi che ha colpito il mondo, ma della concorrenza di più elementi. Chi, all’ombra dell’Acropoli ma anche in sede comunitaria, avrebbe dovuto vigilare sui bilanci? Vi sono le premesse per ipotizzare un qualche coinvolgimento di istituti di credito, che hanno “affiancato” i governi ellenici degli ultimi due lustri nel gravoso compito di camuffare numeri e dati? E ancora: perché far pagare il “conto” della crisi al ceto medio ellenico, già dato in picchiata verso la condizione di semipovertà, con prezzi schizzati alle stelle e commerci paralizzati?

Inutile nascondere che il progresso socio-economico è stato visto a tratti in Grecia come volano per avventurose iperboli finanziarie. E per la diffusione a tutti i livelli del concetto di spreco. Un’agenzia di stampa ellenica ha riportato due episodi chiarificatori: in uno si apprende che il sito internet della camera dei deputati, pare sia costato effettivamente 200mila euro, a fronte del milione investito; nell’altro, si sosteneva che alcuni proprietari di ville con piscine, per pagare meno imposte, denunciavano quelle graziose vasche come semplici fontanelle. Un panorama allucinante che si è districato su vari fronti, dai rapporti dello Stato con le gerarchie ecclesiastiche sui cui poca chiarezza anche finanziaria c’è stata, ad alcune operazioni commerciali azzardate; da scandali post Olimpiadi del 2004 con il coinvolgimento di multinazionali tedesche, alla scelta di non incoraggiare carburanti alternativi. Difficile credere che in un Paese privo di un regime fiscale ben applicato, e dove non vi era un solo investimento “reale”per le future generazioni, non si sarebbe abbattuta la scure della crisi post annus orribilis 2009. Le precise condizioni che hanno portato allo scenario di oggi, sulle quali tutti convengono, non sminuiscono di contro le mancanze della classe politica di un decennio. Perché il Fmi non interpella i ministri delle finanze ellenici degli ultimi cinque esecutivi?

Di contro in questa fase sarebbe saggio preoccuparsi non solo del versante burocratico, ma anche degli aspetti sociali della situazione. Non potrà certo essere sufficiente il gas lacrimogeno spruzzato contro impiegati statali, operai e semplici cittadini scesi a Syntagma a manifestare nella piazza del Parlamento ateniese per spiegare loro come dovranno far fronte allo spaventoso buco. Forse il Governo socialista insediato da meno di un anno dovrebbe fare di più per impedire non solo disordini, ma per evitare che la sperequazione sociale che oggi migliaia di ellenici stanno vivendo in prima persona, si trasformi in lacrime di violenza. Come accaduto nel passato, non solo greco.

E allora il ricordo della battaglia delle Termopoli, forse può essere utile per rimboccarsi le maniche e prepararsi ad una lunga corsa contro il tempo, che vede pochi pronostici a favore come in quel 480 aC. Negli attimi che precedettero lo scontro alle “porte”, si narra che uno dei trachini avesse fatto notare allo spartano Dienece come gli arcieri persiani erano talmente numerosi che, quando tiravano, migliaia di frecce in cielo oscuravano il sole. Se possibile, ancora più incredibile fu la risposta del condottiero: “Bene, almeno in questo modo combatteremo all’ombra”.