venerdì 28 giugno 2013

Crisi Grecia, il governo pensa alla chiusura di quattro ospedali di Atene


Nel giorno in cui la stampa internazionale celebra il premier Antonis Samaras per l’accordo raggiunto con i cinesi del gruppo Cosco, il risvolto delle medaglia si chiama “metodo Ert”. I cittadini greci infatti sono scossi da un’altra notizia diffusa dai giornali ellenici: si profila la chiusura di ben quattro ospedali di Atene. Si tratta di quattro nosocomi storici per la capitale: il Policlinico nella centralissima Omonia, Sant’Elena, Patission, e Agia Varvara. La decisione stupisce perché è adottata con la medesima logica del gruppo radiotelevisivo Ert: anziché ragionare su un riordino del settore, eliminando gli sprechi ma senza lasciare i cittadini senza diritti, si preferisce la cesoia e la chiusura. Si tratta nello specifico di quattro strutture pubbliche che curano la maggior parte dei cittadini di fascia medio e medio bassa, oltre che indigenti e poveri. Con indotti di ammalati che comprendono almeno la metà degli ateniesi oltre a tutto il bacino dell’Attica che conta come regione la metà dell’intera popolazione greca (5 milioni di abitanti su un totale di 11).

“Si tratta della completa degradazione dei principali pilastri funzionali della società greca” protestano tutte le sigle sindacali. Le quattro strutture messe nella lista nera del Ministero delle Finanze e della Salute infatti avranno dei riverberi precisi e dolorosi sugli utenti, ancor di più di semplici tagli di stipendi o aumenti di tasse. Le valutazioni in queste ore al vaglio delle associazioni di ammalati e delle compagini mediche e paramediche vertono sul fatto che ad esempio l’Ospedale Agia Varvara cura circa un milione di casi all’anno, e al momento dal ministero nessuno sa indicare una spiegazione ragionevole sul perché di una simile decisione che coinvolge ammalati ma anche dipendenti di tutte le fasce. Non solo disoccupazione cronica ma il diritto alla salute pubblica che verrà messo in discussione.

Nella stessa lista figura un altro importante centro ateniese, di vitale importanza per la città e per i suoi sobborghi: il Policlinico di Atene. Che, in virtù della sua posizione strategica, a pochi metri da Piazza Omonia, è utilizzato per una varietà di emergenze di ogni tipo: dai senza tetto che popolano la notte ateniese alle contingenze durante manifestazioni o cortei, passando per quei turisti che in vacanza ad Atene hanno proprio il primo punto di soccorso logistico nel Policlinico. Altro grande problema sanitario sarà quello della chiusura del Patission che già serviva diversi quartieri ateniesi come Patisia, Galatsi, Nea Filadelfia, Kalogreza, Peristeri, Ilion Menidi. Ma il governo va dritto per la propria strada e decide che il buco strutturale delle tasse non pagate e gli errori da nove miliardi di cui il Fondo Monetario Internazionale ha fatto ammenda, saranno risolti semplicemente chiudendo ospedali e televisioni.

Mentre una nuova inchiesta, ad esempio, sta iniziando a fare luce sul perché una delle opere presentate come la privatizzazione che avrebbe salvato Atene, l’aeroporto Ellinikon nella splendida marina di Glyfada, abbia vissuto solo di annunci circa i 150 milioni già versati da un gruppo arabo ai tempi del governo Papandreou nel 2011. Ma senza poi che gru e betoniere avessero avviato alcunché. Intanto il nuovo ministro della salute è Adonis Gheorghiadis, coinvolto nello scandalo della lista Lagarde (sua moglie vi è menzionata) e vicino – pare – ai grossi imprenditori che oltre a tv, giornali e squadre di calcio, hanno anche guardacaso interessi nelle cliniche private. I sindacati annunciano mobilitazione in massa.

Fonte: Il Fatto Quotidiano del 27/6/13
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giovedì 27 giugno 2013

Club, tassazione e stadi di proprietà: l’Italia del calcio in serie B

Una delle zavorre tutte italiane è il cosiddetto dossier dei mancati business. Quella fiotta di potenziali introiti che, in virtù di ritardi atavici strutturali e soprattutto a causa di politiche ferme e per nulla propositive, semplicemente “migrano” altrove. Andando a rimpinguare altri Stati che, governati con maggiore lungimiranza ed efficacia, si sono sufficientemente preparati ad accoglierli. È il caso delle attività che si affiancano al calcio professionistico, specificatamente alla questione legata agli stadi di proprietà che, assieme alla cronica mancanza di liquidità per i club italiani, li sta condannando alla marginalizzazione continentale, come dimostra lo scarso appeal del campionato italiano rispetto a quello tedesco, spagnolo e inglese.

Senza legge
A non essere più competitivo è la complessità del sistema-calcio. Mentre i club stranieri possono contare sull’indotto rappresentato dagli stadi di proprietà, in Italia nessun ministro dello Sport si è impegnato a sufficienza per condurre in porto la legge sugli stadi che avrebbe permesso ai club di poter incrementare la voce ricavi: allestendo una rete di attività parallele alla gara sportiva in sé, agganciando a doppia mancata l’impianto all’area urbana circostante con riverberi positivi in termini di produttività, imitando semplicemente il modello inglese o tedesco. In Italia gli stadi, tranne quello della Juventus (che è di proprietà del club torinese) sono vuoti, troppo grandi, senza le adeguate tecnologie energetiche, mal collegati, con il rischio di scontri per via delle frange più violente delle tifoserie che le società non riescono a contrastare : oggettività che producono svantaggi a catena. Lo scorso settembre l’Inter aveva quasi raggiunto un accordo di partnership con una multinazionale cinese per la costruzione dell’impianto a Milano: ma i manager di Pechino, appena avuta cognizione dei tempi e delle modalità burocratiche per le autorizzazioni, fecero marcia indietro.

Danno e beffa
Le conseguenze? Meno spettatori, meno nuclei familiari (che invece come accade altrove potrebbero trascorrere l’intera giornata nell’area “stadio”), indebitamento costante e progressivo delle società italiane, mancanza di competitività con i parigrado europei, scivolamento nelle classifiche Uefa che sono costate all’Italia un posto in meno per la partecipazione alla Champion’s League.

Esempio Bayern Monaco
Per una volta sarebbe utile guardare alla Germania senza invidia ma con consapevole cognizione. I campioni d’Europa del Bayern stanno raccogliendo i frutti non solo di una qualità calcistica oggettiva, ma di una concentrazione professionale e programmata di politiche intelligenti. Come fatto nel precedente quinquennio dal Barcellona, anche i tedeschi hanno investito nel settore giovanile: elaborando un investimento che produce utili, ovvero giocatori formati da inserire in prima squadra o da cedere per realizzare plusvalenza. Di contro in Italia, uno dei settori giovanili più costosi e promettenti, quello dell’Inter, sforna talenti che la squadra di Moratti cede altrove. Vanificando tutto il lavoro fatto in precedenza e ottenendo un mancato introito per un giocatore che non vestirà la maglia nerazzurra. Ma non è tutto, perché quella cessione di giovani comporta sempre più acquisti di nuovi elementi, nonostante ad esempio i quattro quindi della difesa della nazionale italiana under 21 sia di proprietà dell’Inter.

Organizzazione
La squadra che ha appena messo sotto contratto l’ex allenatore del Barcellona Pep Guardiola, per dirne una, prevede una ferrea ma scientifica organizzazione interna che consente di ospitare in occasione delle gare di campionato ogni volta un gruppo di tifosi di una città diversa. Con il doppio vantaggio sia di ricevere in una stagione intera la quasi totalità dei club sparsi per il Paese, sia di consentire al singolo gruppo presente per la partita di fare il “pieno” di gadget e magliette. 
Ecco come nasce il business mancato degli stati italiani: legge ferma, permessi biblici, squadre in rosso, mancata concorrenza con le altre compagini europee; settori giovanili non sfruttati. La grande occasione mancata dello sport come investimento. Ovvero il modello Barcellona che non sarà mai in Italia.

Fonte: Formiche del 26/6/13
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mercoledì 26 giugno 2013

La Grecia finanzia le moschee e vende la piana delle Termopili

Debito complessivo immutato rispetto all'inizio della crisi (300 miliardi di euro), privatizzazioni che potrebbero coinvolgere la piana delle Termopili, simbolo della resistenza occidentale all'invasione, almeno seicentomila bambini che secondo le maggiori organizzazioni governative versano in condizioni di indigenza, suicidi da crisi che sfondano quota 2500 in un biennio, l'ombra di nuove tasse se le entrate preventivate dovessero essere inferiori alle attese.

Ecco la Grecia all'era della troika, immobile di fronte alle ammissioni di colpevolezza da parte del Fmi (che ha fatto mea culpa per un errore da 9 miliardi) e che nonostante Berlino chieda di licenziare 20 mila dipendenti pubblici entro l'anno, non trova di meglio da fare che «immolare» un luogo sacro e straripante di storia come il teatro di Leonida e dei suoi 300 e spendere un milione di euro di soldi pubblici per realizzare una moschea nel quartiere ateniese di Votanikos. 
La notizia del tentativo di privatizzare quel fazzoletto di terra dove duemilacinquecento anni fa gli opliti spartiati sfiancarono le truppe di Serse, permettendo con quel sacrificio le successive vittorie greche di Salamina e Platea, è stata accolta con sdegno dai cittadini del comune di Lamia, che hanno fatto ricorso al Consiglio di Stato. Mai e poi mai vorrebbero vedere «quel» luogo dove Leonida urlò «molòn lavè» agli Immortali persiani, trasformato in una fabbrica cinese o in un centro commerciale di qualche imprenditore bavarese. Inoltre sta provocando dure reazioni la prossima costruzione di una moschea in una delle zone ateniesi a ridosso dell'incantevole Keramikos, a poche centinaia di metri dal centro. 

La notizia stupisce, non tanto per il merito della decisione, quanto per i tempi: ma come, si chiedono sbalorditi commercianti e passanti riunitisi nel centro di Atene a due passi dal Parlamento, in un momento drammatico per il paese e per i dieci milioni di cittadini chiamati a tre tagli di pensioni e stipendi in ventiquattro mesi, lo Stato spende quasi un milione per una Moschea?
Il Paese boccheggia, sulla lunga arteria autostradale che collega Atene a Salonicco le auto in movimento sono pochissime a causa della benzina verde ormai stabile a due euro al litro, i supermercati sono vuoti, l'Iva al 23% si fa sentire sui consumi crollati e sul ceto medio scivolato in massa verso ristrettezze indispensabili. 

Inoltre la gente comune si lamenta per una scelta antidemocratica che il governo ha adottato: ovvero inserire nella bolletta dell'elettricità la famigerata tassa sugli immobili, chiamata karatzi (l'Imu greca). Ma con la variante grottesca che ai morosi di quel balzello sulla proprietà privata, viene tagliata la luce. Una contingenza che «rende ancora più assurda la decisione di buttare tutti quei soldi per una Moschea» commenta Aris, proprietario di un distributore di benzina sulla chilometrica circonvallazione che circonda la capitale ellenica. La gente ormai si muove poco e quando lo fa sceglie i più economici bus provinciali o i treni regionali. «A questo punto - aggiunge - me ne andrò anch'io, magari in Germania. Ma è una vergogna che mentre centinaia di aziende chiudono e centomila dipendenti pubblici aspettano solo di essere licenziati dalla troika, il governo sprechi così tanto denaro». 

Giorni fa la firma del viceministro allo sviluppo, Stavros Kaloiannis, in calce allo sblocco definitivo dei finanziamenti che ha fatto infuriare anche gli ultraortodossi oltre che i deputati dell'estrema destra di Alba dorata. I «xrisìavghites» annunciano manifestazioni di protesta, convinti che non sia questa la strada per risolvere il nodo dei due milioni di immigrati presenti in Grecia. Anche perché il 95% della popolazione residente nel Paese è di religione greco-ortodossa.
In tutto ciò ha giurato ieri il governo Samaras II, dopo l'abbandono da parte del democratico Kouvellis che non se l'è sentita di avallare la politica governativa prostrata, sic ed simpliciter, ai desiderata di Berlino. Quarantatre ministri conservatori e socialisti, attesi nei prossimi giorni da voto di fiducia in Parlamento, ma con la bocciatura preventiva di mercati e stampa internazionale. 

Fonte: Il Giornale del 26/6/13
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Grecia, nel giorno del nuovo governo arriva la super tassa sul turismo

Nel giorno in cui giura il governo Samaras bis, che fa storcere il naso ai mercati e alla gran parte della stampa internazionale – il tedesco Die Welt e l’inglese  Financial Times già ritornano a parare di “Grexit” – i liberi professionisti greci si scoprono zavorrati da una nuova tassa. Anziché rifarsi sugli evasori della Lista Lagarde o sulla casta politica che non accenna a rinunciare a benefit e lauti stipendi, infatti, la tassazione per commercianti, persone fisiche o giuridiche che sono stati attivi durante l’esercizio 2012 passa dal 30% ad una forbice che può arrivare sino al 100 per cento.

Una mannaia, quindi, sull’unica voce che produce pil in Grecia: il turismo. Si tratta di una delle mosse disperate con cui il ministero delle Finanze, guidato dal confermato Iannis Stournaras, tenterà di coprire il buco da due miliardi e rotti di mancate entrate per l’erario e che rappresenta uno degli scogli con la Troika dei creditori internazionali. Che entro una decina di giorni dovrà sciogliere di nodi per dare il nulla osta all’ulteriore tranche di aiuti continentali da otto miliardi di euro attesa per agosto, mentre in giornata è arrivato il via libera dell’Efsf (l’European financial stability facility) all’esborso di 3,3 miliardi di euro ad Atene come seconda rata della vecchia tranche di maggio.

E così la griglia delle nuove tasse sta facendo sobbalzare albergatori e ristoratori: sono previsti 800 euro per i soggetti che esercitano attività commerciale e hanno la loro sede nelle zone turistiche e nelle città o villaggi con popolazione fino a 200.000 abitanti, mille per le persone giuridiche che esercitano imprese commerciali e hanno la loro sede nelle città con popolazione superiore ai 200.000 abitanti; 650 euro per i singoli commercianti e liberi professionisti. E 600 euro per ogni altro ramo commerciale. La nuova tassa sul commercio (una sorta di prelievo tout court) non si applica alle organizzazioni non-profit e alle persone il cui reddito deriva da attività di servizio individuale. Sgravati, e qui sta l’aspetto più assurdo dell’intera questione, aziende e liberi professionisti che esercitano la loro attività esclusivamente in villaggi con una popolazione  fino a 500 persone e un massimo di 3.100 isole, a meno che non siano siti di interesse turistico. Ma proprio la stragrande maggioranza delle isole hanno un riscontro turistico, voce che da sola incide per il 20% del pil nazionale.

Insomma un autogoal che viene segnato dai difensori ellenici nella propria porta, proprio quando sull’uscio si stanno presentando ancora una volta i rappresentati di Bce, Ue e Fmi: “assetati” di duemila licenziamenti nel settore pubblico entro agosto, proprio il numero dei dipendenti della tv di Stato Ert e di altri 20mila entro la fine del 2013. Intanto ha giurato il nuovo governo greco targato conservatori e socialisti. Quarantatre ministri, con vicepremier e superministro degli esteri il leader dei socialisti Evangelos Venizelos, lo stesso  che era in carica negli anni della crisi 2009-2011 e che è rimasto coinvolto in scandali come la Lista Lagarde

Ma l’esecutivo Samaras II nasce già con un record: ancora prima di giurare, si dimette viceministro della salute Sophia Voltepsis. Pare non gradisse fare il numero due di Adonis Gheordiadis, altro personaggio politico molto discusso e coinvolto in scandali pesanti, come la presenza di sua moglie nella Lista Lagarde, particolare che l’inchiestista greco Kostas Vaxevanis, il primo a pubblicare l’elenco, rivelò durante la sua intervista concessa pochi mesi fa al ilfattoquotidiano.it. La nuova ma vecchia squadra di Samaras (confermati sei ministri) è attesa ora dalla fiducia in Parlamento, dove saranno necessari 151 sì. Ma la maggioranza composta da Nea Dimokratia e Pasok può contare in totale su 153 deputati. Un altro voto al cardiopalma?

Fonte: Il Fatto Quotidiano del 25/6/13
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lunedì 24 giugno 2013

Grecia, disastro borsa in attesa del rimpasto. Rafforzate misure di sicurezza

Tre grate di metallo e tre cancelli permanenti montati in tutta fretta all’esterno del parlamento greco in piazza Syntagma. Si prepara così Atene al giuramento del 25 giugno del nuovo governo Samaras-Venizelos, orfano dei democratici di Kouvellis, che tenterà di tranquillizzare i mercati nervosi ai limiti dello choc: con la borsa greca che dopo aver perso il 6% sette giorni fa alla notizia della crisi di governo, accusa ancora il colpo (meno 6,11%). E con i titoli di Stato sotto il Partenone che segnano il passo. Il principale indice azionario su base settimanale è crollato del 9,69%, mentre da inizio anno è diminuito del 8,58%. L’indice large cap è sceso ad un tasso del 5,93%, mentre l’indice mid-cap è sceso dell’1,70%. La stragrande maggioranza dei titoli sono in perdita, tranne Eurobank: giù Banca nazionale (-11,44%), il Viohalko (-10,80%), Ppc (-10,07%), Hellenic petroleum (-8,31%) Mitilene ( -7,92%) e Mig (-7,09%). In calo anche tutti i singoli indicatori. La Troika è di nuovo ad Atene mentre nella comunità internazionale sale in tensione per l’avvicendamento dei ministri greci: pronta la nuova squadra di governo targata Antonis Samaras che dovrebbe vedere il leader del Pasok Evangelos Venizelos vicepremier e ministro degli Esteri. Intoccabile rispetto all’esecutivo in piedi fino a una settimana fa il super ministro delle Finanze Iannis Stournaras, interlocutore della Troika e uomo di fiducia dello stesso Samaras.

Ma la stampa internazionale non sembra particolarmente propensa a dare credito al nuovo governo di conservatori e socialisti. Il quotidiano economico tedesco Handlesblatt rispolvera il ritornello del “Grexit”, perché non crede alla tenuta del rimpasto. Con il parlamentare democristiano Klaus-Peter Vils, noto per le sue posizioni euroscettiche, che ammette di non credere alle rassicurazioni di Samaras sul fatto che la Grecia raggiunga i propri obiettivi fiscali dalla Troika. E chiede che la Grecia lasci l’Eurozona.

Inoltre nella seduta plenaria del Consiglio di Stato greco è stato deciso l’haircut di titoli di Stato detenuti dal marzo 2012. La pubblicazione della relativa decisione è attesa per l’inizio del nuovo anno giudiziario (17 settembre 2013). La Suprema corte dovrà pronunciarsi verso più di 7000 obbligazionisti (privati, enti pubblici, enti privati, Camera di Commercio, Agenzia nazionale per i medicinali, Edoeap, aziende farmaceutiche, Tei di Kavala, ecc.) che si rivolgono contro il “taglio di capelli” su obbligazioni possedute, del valore di decine di miliardi di euro. I ricorrenti contestano le misure del governatore della Banca di Grecia e del vice ministro delle Finanze. A ciò si aggiunga il fatto che la Troika si sarebbe lamentata ufficialmente con il ministro delle Finanze Stournaras sia per un mancato introito di privatizzazioni (che procedono a rilento) per due miliardi di euro, sia per tasse ancora una volta non pagate da cittadini e imprenditori. Ragion per cui il Segretario generale delle Finanze, Haris Theocharis, ha ordinato una massiccia asta dei beni dei debitori dello Stato. Quattromila cittadini che devono all’erario più di 90 milioni di euro.

Fonte: Il Fatto Quotidiano del 24/6/13
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Grecia, la Reuters scopre un buco nero da 2 miliardi causato dalle banche Ue

Un nuovo buco nero giunto dal nulla”, titolano oggi la maggior parte dei quotidiani ellenici. La Reuters lancia l’ennesimo allarme sui conti greci: un buco nero di due miliardi di euro di cui sarebbero responsabili i banchieri europei rei di aver “giocato” con i titoli greci. Secondo l’agenzia la Grecia dovrà affrontare un grave rischio dettato da un gap finanziario di due miliardi di euro, almeno stavolta non per proprie colpe. Ma in virtù di comportamenti “anomali” dei banchieri europei. E in riferimento al modo in cui avrebbero gestito le obbligazioni greche nella propria disponibilità. Nel giorno in cui a Patrasso si registra il suicidio numero 2300 di questa crisi ellenica (un 48enne, padre di otto figli, che si è impiccato nel suo alloggio popolare) altre notizie a metà strada tra speculazione e finanza ad alto rischio fanno capolino in una storia che sembra non avere fine.

Secondo alcune fonti bancarie, i creditori della Grecia avevano deciso nel dicembre scorso che le banche centrali dei 17 Stati dell’Eurozona avrebbero dovuto “scontare” in qualche modo il debito greco. Sostituendo parte dei titoli greci in loro possesso con nuovi titoli: ma è in quel passaggio che si sarebbero verificate “significative ostruzioni” e “strani comportamenti”. Che, anziché dimezzare il peso del debito di Atene, lo avrebbero zavorrato ulteriormente per una cifra di due miliardi di euro: per intenderci, la metà esatta dell’ulteriore tranche di aiuti della troika attesa entro una settimana in Grecia. Che sarebbero finiti nelle tasche dei cosiddetti “furbetti anti piggs”.

Una notizia che, per quanto sprovvista di conferme ufficiali, aumenta i dubbi tra analisti e commentatori su come sia stato la gestito il dossier ellenico. Il prof. Simon Wren-Lewis dell’Università di Oxford sul suo blog osserva, ad esempio, che dal 2010 ad oggi la fiducia dei mercati non è stata ripristinata, il sistema bancario ha perso il 30% dei suoi depositi, e l’economia ha incontrato una recessione molto più profonda del previsto con tasso di disoccupazione eccezionalmente alto. Proprio oggi infatti sono stati pubblicati i dati analitici sulla disoccupazione greca: nel primo trimestre del 2013 il numero di occupati è stato pari a 3.595.921 persone mentre i disoccupati a 1.355.237. Il tasso di disoccupazione è del 27,4%, rispetto al 26,0% del trimestre precedente e del 22,6% nel corrispondente trimestre di dodici mesi prima. Per cui l’occupazione è scesa del 2,3% rispetto al trimestre precedente e del 6,3% rispetto al primo trimestre del 2012. Il numero dei disoccupati è aumentato del 4,6% rispetto al trimestre precedente e del 21,0% rispetto al primo trimestre del 2012.

Ma non è tutto, perché Wren-Lewis rileva che il debito pubblico greco è rimasto troppo alto (ad oggi è di 300 miliardi di euro, lo stesso di inizio crisi) e alla fine ha dovuto essere ristrutturato, con danni collaterali per i bilanci delle banche che sono stati indeboliti anche dalla recessione. La competitività è migliorata leggermente ma solo per via del crollo dei salari e del costo del lavoro imposto dalle norme presenti nel memorandum della troika e grazie a privatizzazioni su cui si allunga l’ombra di favoritismi e di conflitti di interessi di cui nessuno parla. Anche di questo discuteranno il prossimo 3 luglio a Berlino Angela Merkel e Antonis Samaras? Sempre che il leader del governo greco, a quella data, sia ancora in sella al suo governo di larghe intese.

Fonte: Il Fatto Quotidiano del 20/6/13
Twitter: @FDepalo

lunedì 17 giugno 2013

Da cerniera d’Europa a focolaio del nuovo default?

Sarebbe dovuta essere la cerniera dell’Europa verso le ansie mediorientali, il colpo ad effetto scoccato alla buca finale di una gigantesca partita di golf giocata sul green dell’Ue. E invece la Turchia che ha dato spettacolo con la misera repressione di Gezi Park impone un’analisi di altro spessore. Lontana da tentativi di annessione immaginari o da promesse e (false) pacche sulle spalle. Il sangue di quei tre morti e dei quasi tremila arrestati non può che far scattare nelle menti e nelle penne un cambio di passo, dal momento che a nulla servirà ripercorrere metodicamente il sentiero della “Turchia prossima ad entrare in Europa”: il ritornello ripetuto sino alla noia da chi, poi, nulla ha fatto in concreto per dare attuazione ai propositi. Non è quello il pertugio dal quale immettersi sui binari più corretti della questione. Ma sarebbe utile, invece, ragionare a mente lucida sul quel macabro gioco degli specchi con i “vicini” greci. Dove, mentre ad Atene i cittadini sono scesi in piazza lanciando cofanetti di yogurth contro il Parlamento perché affamati da tre memorandum suicidi della troika, a Costantinopoli la piazza è servita a rivendicare dell’altro, con cittadini indignati non per un pezzo di pane ma per più diritti.

Takshim come Tahir, rimbomba in questi giorni sui social network: e non si tratta di un paragone suggestivo e buono solo per titolare quotidiani e periodici. Perché se da un lato le piazze delle Primavere arabe nello scorso biennio sono state il palcoscenico da cui urlare il dolore di un pezzo di Mediterraneo stufo di dittature e repressioni, il caso turco ha rappresentato un passo in più. Coraggioso, irto di ripercussioni mondiali legate agli equilibri geopolitici su cui in pochi fino ad oggi si sono soffermati (forse per timore di infastidire i potenti?): la vivacità dei cittadini è come se avesse gettato un ettolitro di vernice rossa sull’immobilismo, austero e medievale, della classe dirigente del paese. Che, accecata dalla foga di mostrare i muscoli del pil e dei fatturati, ha relegato a scomoda cornice il principio sacrosanto della convivenza democratica: la libertà. Di espressione, di diritti, di consumare alcool, di baciarsi, di dire “no” all’ennesima colata di cemento di una città dove, forse, sta andando in scena l’ultimo atto, pardon, l’ultimo  piano,  della torre di Babele.

La pigra Europa, le cui istituzioni attendono una settimana per uno straccio di reazione ufficiale (ma il commissario Ashton è ancora in carica?) si aspettava una risposta matura, democratica ed europea: semplicemente ciò che politici locali e analisti embedded promettono da anni. Se è vero quello che i politici turchi hanno venduto fino ad oggi in termini di promesse di cambiamento, libertà religiosa e sociale, allora che facciano mea culpa delle azioni intraprese in piazza. E sposino la moderna democrazia, senza i distinguo che invece hanno continuato ad immettere in comunicati assurdi e dichiarazioni imbarazzanti. Altrimenti non spaccino la loro direzione di marcia per qualcosa che non è.

Sta tutto lì il binomio “Grecia-cavia” e “Turchia-felix” che nei giorni degli scontri si sono prima annusate e poi studiate con attenzione. Due realtà a una manciata di chilometri l’una dall’altra che, altro non fanno, se non certificare con un bollino di qualità il fallimento sic et simpliciter dell’Europa: delle sue politiche, dei suoi assurdi stratagemmi  e di una strategia di allargamento condotta senza criteri e con tempi sbagliati. E’l’Europa che avrebbe dovuto far ingresso in Turchia, nei meandri di quel potere militare e ultraortodosso con cui il dialogo non è consentito, all’interno di quelle dinamiche che hanno portato il premier Erdogan a felicitarsi per la presenza massiccia di turchi in Germania ma che al contempo non ha dato benefici “comuni” alla famiglia europea. Oggi che i nodi vengono al pettine, oggi che si iniziano a focalizzare meglio le crepe degli investimenti fatti proprio da Erdogan con l’aggravante dei suoi creditori nel golfo Persico che iniziano a reclamare il prestato, i fatti di piazza Taksim hanno un altro sapore.

E un altro piano di azione inizia a farsi largo nella mente di cittadini ed analisti. Nell’ultimo quinquennio Erdogan ha speso una quantità elevatissima di denaro. Il terzo ponte sul Bosforo, il nuovo secondo mega scalo aeroportuale nella capitale, camere di commercio turche aperte come funghi in moltissime città europee e non. Segno tangibile di un’espansione precisa, ma, è l’opinione di numerosi tecnici ed economisti, condotta sulla falsa riga della bolla speculativa. Immettendo denaro inesistente in un circuito che, un giorno o l’altro, chiederà di saldare quel drammatico conto. Se a questi numeri si sommano le testarde chiusure governative ad un’europeizzazione sociale, alla sfera dei diritti, alla libera determinazione di cittadini che, loro sì, si sentono e sono già di fatto europei, si ha un quadro più chiaro di cosa è accaduto a Gezi Park. Perché la storia non la fanno solo i grandi capi di stato, i conquistatori o i comandanti che premono un pulsante: la storia e i suoi grandi movimenti tellurici iniziano proprio da chi, senza stellette o mostrine, decide di sterzare. E di prendersi con coraggio ciò di cui ha bisogno.

Fonte: Gli Altri settimanale del 15/6/13
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Tv greca, chiusura incostituzionale? Lunedì la corte decide. Rischio elezioni

A volte le immagini sono più forti di un mucchio di parole. Nelle stesse ore in cui si discute di una possibile marcia indietro del governo Samaras sul caso Ert, dopo settantacinque anni di esistenza l’Orchestra Sinfonica Nazionale Greca e il Coro di Ert, la televisione pubblica del Paese appena chiusa, hanno fatto la loro ultima esibizione. Le lacrime che hanno solcato i volti dei musicisti proprio sulle note dell’Inno nazionale ellenico stanno facendo il giro della rete, perché è la plastica sconfitta di un popolo che altro non può fare che prendere atto dell’occupazione della Troika.

L’ultimo concerto di addio della National Symphony Orchestra si è svolto venerdì sera al Radiomegaro di Agia Paraskevi, la sede della tv di Stato. Un’impressionante folla si è radunata per l’occasione, davanti a quattrocento giornalisti accreditati da tutto il mondo, poche ore prima che gli emissari della Troika facessero ritorno ad Atene e due giorni prima di uno spiraglio, seppur risicatissimo, che potrebbe aprirsi sulla questione.

L’esecutivo è stato messo sotto pressione dal ricorso presentato dal più grande sindacato dei dipendenti dell’emittente pubblica all’Alta Corte di Stato ellenica, dal momento che pare ci siano i margini di incostituzionalità nella decisione del premier di chiudere Ert. Il giudice amministrativo del Consiglio di Stato dovrebbe pronunciarsi sul ricorso il prossimo lunedì. Secondo fonti giudiziarie se la decisione dovesse essere favorevole ai lavoratori, il governo a sorpresa potrebbe decidere di ripristinare termporaneamente il segnale nelle successive 24 ore. E, fino a quando la decisione finale sulla questione non venisse presa con tempi più comodi, si dice anche prorogare il segnale in chiaro fino a settembre. Ma ciò comporterebbe dei riverberi politici precisi.

Nelle stesse frenetiche ore un pubblico ministero greco, agendo su richiesta del ministro delle finanze Stournaras, ha avviato un’indagine sulle finanze di Ert, alla ricerca di segni di fondi mal gestiti. Qualunque sarà il verdetto in appello dei lavoratori, lunedi sarà comunque un giorno molto critico per il premier Antonis Samaras, atteso dal delicatissimo vertice di maggioranza con Venizelos e Kouvellis. Il capo dei socialisti ha detto che al Paese non servono certo nuove elezioni, ma se si iniziasse un braccio di ferro lui non si sottrarrebbe alle urne. Pesano in questa fase le strategie di Samaras, che secondo alcuni analisti preferirebbe rompere con gli alleati e utilizzare il caso Ert per chiedere nuove elezioni e, forte dei sondaggi, governare poi in solitario. Con molti dubbi su chi abbia consigliato al premier la tempistica quantomeno azzardata sul caso Ert e con i dati sul gradimento elettorale di Samaras che nelle ultime ore si sarebbero pericolosamente sgonfiati.

Ma il Paese non sembra gradire lo scenario, come ha dimostrato lo sciopero generale andato in scena venerdì accanto ai nuovi dati sulla disoccupazione che infrangono ormai un record ogni trimestre: l’ultimo è stato al 27,4 per cento. Inoltre secondo la stampa greca il portavoce del governo Simos Kedikoglu che ha materialmente firmato la chiusura di Ert, avrebbe fatto però nell’ultimo anno ben 28 assunzioni da 100mila euro al mese tra segretari e consulenti esterni. Con tanto di tabella con iniziali dei nomi e stipendio netto, a cui vanno aggiunti regali e straordinari. Ma Samaras pare voglia andare dritto per la sua strada, anche perché Bruxelles ha appena comunicato che entro una settimana arriverà la nuova tranches di prestiti da 4,4 miliardi di euro mentre ad Atene c’è chi giura che i suoi alleati di governo, consci che il Paese è allo stremo, mediterebbero una grande alleanza di centrosinistra da contrapporre ai conservatori pro Troika alle urne. Qualcuno le indica nel 14 luglio, anniversario della Rivoluzione francese.

Fonte: Il Fatto Quotidiano del 16/6/13
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sabato 8 giugno 2013

Chi tocca il gas russo si scotta: silurato pure l'ex premier greco

Chi tocca la Russia muore (politicamente)? L'interrogativo, non solo per gli amanti di spy stories e complotti internazionali, è maledettamente attuale rispetto a ciò che è accaduto e che potrebbe accadere nella partita del gas che si gioca nel Mediterraneo. Una partita con riverberi internazionali crescenti per via della crisi economica che da un triennio è esplosa in Grecia, per le soluzioni non intraprese, per i «no» che Bruxelles ha pronunciato (ispirati da chi?) nei confronti di quei rubli che avrebbero potuto soccorrere Atene e Nicosia. E soprattutto che ha coinvolto alcuni dei protagonisti di rapporti economico-imprenditoriali forse non troppo graditi oltreoceano.

Accanto alle ricostruzioni che da queste colonne sono state fornite sul triangolo Milano-Bengasi-Mosca, con l'emarginazione internazionale di Berlusconi premier nel 2009, nella vicina Grecia proprio nelle ultime settimane sta emergendo un filone analogo. Con similitudini temporali e contingenziali inquietanti ma con, rispetto al caso italiano, la certezza in più di un'inchiesta ufficiale della magistratura.

In scena l'ex premier conservatore Kostas Karamanlis, i suoi rapporti con Mosca e con Gazprom, il tentativo di dare seguito all'accordo sul South Stream (proprio come ha fatto Berlusconi) che avrebbe portato il prezioso gas direttamente nel mare nostrum. Nel 2004 Karamanlis vince le elezioni con il 45.36%, conquistando 164 seggi su 300. Tre anni dopo gli impongono le elezioni anticipate e nel settembre 2007 le vince nuovamente. Nulla può però quando, due anni più tardi, con i primi scricchiolii della crisi economica, i socialisti rifiutano le larghe intese e si impuntano per le urne, vincendo di poco. Ma senza che il premier Papandreou per almeno un anno dica una parola sulla voragine finanziaria del paese.

In Grecia lo dicono e lo scrivono da tempo: dopo le Olimpiadi del 2004, il conservatore Karamanlis si sarebbe «bruciato» per via del gasdotto e del ruolo che avrebbe potuto avere Gazprom, per nulla gradito a Washington. Un passaggio sul quale si è soffermato anche Dirk Mueller, ex broker della Banca di Francoforte, nel pamphlet Showdown che disegna gli scenari dell'ultimo biennio horribilis del continente. Sottolineando come Papandreou, fino a poche settimane fa leader dell'Internazionale socialista e ancora docente in un prestigioso campus americano, fosse niente altro che il factotum ad Atene di Washington e il frangiflutti puntato su Mosca.

I pm greci intanto indagano su una pista accreditata: qualcuno voleva assassinare Karamanlis quando era premier perché troppo vicino a Putin. Il primo articolo in merito venne pubblicato sul settimanale greco Hot nel 2011. È la stessa rivista diretta dall'inchiestista Kostas Vaxevanis, finito in cella sei mesi fa perché l'unico a diffondere i duemila nomi della lista Lagarde, un elenco di illustri evasori ellenici, in cui figurano uno dei principali consiglieri economici dell'attuale premier Samaras, Stavros Papastavrou, e Margareth Papandreou, madre di Giorgios, con la faraonica cifra di 500 milioni di dollari. La signora ha più volte smentito la sua implicazione, ma l'apposita commissione parlamentare di inchiesta è ancora al lavoro ad Atene.

Nel febbraio 2009 i Servizi greci informarono Karamanlis che secondo il Servizio federale russo per la Sicurezza (Fsb, ovvero l'ex Kgb) egli era diventato un obiettivo. In quei mesi sul territorio greco operava un «gruppo di lavoro» di 19 agenti russi per controllare la politica energetica del paese, così come ad esempio anche i parigrado italiani fanno in forma preventiva nelle zone dove è al lavoro l'Eni. Si faceva riferimento all'esistenza di un piano denominato «Pizia 1», che comprendeva quattro punti per danneggiare Karamanlis: instabilità politica attraverso lo scandalo Vatopedi su terreni concessi al clero ortodosso che nei mesi successivi è detonato sulla stampa nazionale; destabilizzazione economica, attraverso il progressivo degrado dell'economia greca e il rapimento di uomini d'affari; destabilizzazione sociale con disagio sociale e terrorismo. Su quest'ultimo punto un report dei servizi russi si esprimeva in questi termini: «L'attuale generazione di terroristi greci è controllata dai servizi segreti occidentali».

Ricostruzioni su cui anche Wikileaks appone una certificazione di autenticità, quando annota in data 17 dicembre 2007 una comunicazione dell'ambasciatore Usa ad Atene Daniel Speckhard: «.. al lavoro per “annullare“ l'acquisto di serbatoi nell'accordo con la Russia e nell'accordo per il gasdotto South Stream».
Quattordici mesi dopo, esattamente il 5 febbraio 2009, il Ministro degli interni Pavlopoulos, informò Karamanlis che secondo i servizi russi era pronto un piano per assassinarlo. Lo stesso Karamanlis da quel giorno restò confinato in «quarantena» per quasi un anno come emerge dal documento top secret del National Intelligence dal nome in codice «Special paper» (n. 219/5 del febbraio 2009). Mentre qualche giorno dopo nei pressi del monastero di St. Efraim ci fu anche un «incontro ravvicinato» tra agenti russi, colleghi occidentali e un nucleo del Mossad. L'intrigo è servito.

Fonte: Il Giornale del 8/6/13
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#occupyue, l’altro summit in Grecia contro il sistema

Sindacati, ong, movimenti giovanili, studenti ed euroscettici riuniti attorno al capezzale della grande malata d’Europa: quella Grecia che se da un lato viene celebrata dai fogli tedeschi (Faz e Welt su tutti) per via del rigore accettato e attuato, dall’altro si scopre essere stata un vero e proprio esperimento. “Cavia” l’ha definita ieri il Wall Street Journal citando un riservatissimo paper del Fondo Monetario Internazionale che, dopo l’intervista dello scorso dicembre di uno dei suoi dirigenti in cui aveva ammesso la falla nei tre memorandum della troika, in questo retroscena addirittura recita il mea culpa per una strategia che non chiude una voragine macroscopica.

Appuntamento nel fine settimana ad Atene, per una due giorni organizzata con il movimento sociale greco e il sostegno delle organizzazioni non governative oltre che grazie a personalità politiche e culturali provenienti da tutta Europa. Sarà, annunciano gli organizzatori, un passo in avanti nella costruzione di una maggiore convergenza tra i movimenti che si oppongono alle politiche anti-sociali e anti-ecologiche attualmente promosse dai governi e dalle istituzioni europee. Non a caso il luogo prescelto è l’Ellade, l’alfa della crisi e la sua detonazione più cruente, dove (dati ufficiali del Ministro dell’Economia di Atene) il debito pubblico registrato a febbraio 2013 è pari a quello precrisi: ben trecento miliardi di euro. Con il drammatico interrogativo che i cittadini si pongono: a cosa sono serviti allora tre memorandum imposti dalla troika? Solo a coprire i debiti con altri debiti?

La Grecia è il laboratorio dell’austerità distruttiva e delle cosiddette politiche di competitività, scrivono i partecipanti nel gruppo appositamente creato su facebook e sui numerosi blog sorti nell’ultimo biennio, ma può anche diventare il laboratorio della resistenza contro l’austerità. Sarà anche l’occasione per presentare il manifesto dell’Alter Summit, dove sono elencate le proposte alternative contro la crisi, tarate sulla ridistribuzione e non sui tagli a sanità e welfare.

Mea culpa del FMI
Ecco che l’appuntamento ateniese da semplice moto di protesta antisistema sta pian piano guadagnando attenzioni anche da comuni (e moderati) cittadini, che dopo aver letto quanto scritto ieri dal Wall Street Journal, iniziano a non fidarsi più. Il quotidiano economico pubblica una rivelazione scioccante che mina la stabilità e la credibilità del governo greco cosiddetto “mnimoniakòn”, ovvero legato tout court al memorandum. Basandosi su un documento strettamente confidenziale inviato dal Fondo Monetario Internazionale all’Ue, l’intera politica salva Ellade avrebbe favorito non la Grecia ma il resto d’Europa. Risulta che il FMI è stato fin dall’inizio contrario all’integrazione della Grecia nel piano di salvataggio in quanto non soddisfaceva tre dei quattro criteri pertinenti. In effetti il Fondo ammette che ha violato le proprie rigidissime regole per rendere altamente crescente il debito della Grecia e rendere praticabile il memorandum conseguente. Nonostante il fatto che fin dall’inizio del programma si è sempre sostenuto il contrario.

E i nuovi dati sulla disoccupazione sono lì a certificare uno stato di salute prossimo al coma: 26,8% di disoccupazione a marzo, disoccupati 1.309.071 persone, mentre la popolazione economicamente attiva è pari a 3.379.478 persone. Lecito chiedersi: ma dall’Ue nessun commento?

Fonte: Formiche del 8/6/13
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giovedì 6 giugno 2013

Grecia, contro le ronde di Alba dorata arrivano le “Black panthers”

Non sarebbero voluti arrivare a questo ma, dopo l’ennesimo attacco a sfondo razzista, un gruppo di africani residenti ad Atene ha deciso di rispondere alle ronde di Alba dorata: si chiamano “Black panthers” , la stessa sigla adottata dal movimento afro-americano negli Stati Uniti d’America negli anni ’60 e ’70. E fanno la guardia ai banchetti degli immigrati nella capitale ellenica. Per circa due mesi, due volte a settimana, i membri delle comunità di immigrati nel Comune di Atene si sono riuniti clandestinamente in palestre o vecchi negozi, per tentare di capire come difendersi dalle ronde di Xrisì Avghì: dopo mille discussioni e molti no per via della spirale di violenza che si sarebbe potuta innescare, ecco la decisione di dare vita alle Black panthers.

Lo rivela uno dei membri della nuova organizzazione antixenofoba, il 28enne Michael Tsegos, dal canale britannico Channel 4. Se da un lato, dice,“il fuoco non si estingue con il fuoco”, dall’altro non rinnega la sua scelta: “Personalmente sono un membro delle Pantere nere, lo sanno tutti”. E ai suoi avversari consiglia di non mettersi “contro i neri”. Ammette di essersi personalmente trovato ad affrontare estremisti “in oltre dieci battaglie reali” nei sobborghi ateniesi. L’intervista ha però provocato la reazione dell’organizzazione migrante Asante che da anni si occupa attivamente del mondo africano in una realtà delicata come quella greca (le seconde generazioni nell’Ellade). E proprio a seguito delle dichiarazioni Tsegos, Asante in una nota ufficiale ha dichiarato che “da noi non sono mai venuti né organizzazioni né individui identificati come Pantere nere”.

Asante è la prima organizzazione giovanile migratoria operante in Grecia, che ha portato in modo dinamico nel dibattito pubblico la questione degli immigrati di “seconda generazione”. Sin dal 2006 lavora per evidenziare il problema della cittadinanza a bambini di diversa estrazione linguistica attraverso iniziative per modificare la legge sulla cittadinanza. E tramite eventi sociali e culturali, convegni e seminari, e con rappresentazioni teatrali a cura del gruppo “Secondgeneration07”.

Ma chi è Michael Tsegos? Giunse ad Atene con la sua famiglia quando aveva solo otto mesi di vita, frequentando poi le scuole greche e riuscendo a trovare lavoro come tecnico informatico, ma senza la cittadinanza greca così come migliaia di altri bambini migranti nati in Grecia o arrivati in tenera età. Lo scorso ottobre venne attaccato personalmente da una ronda di Alba dorata, i xrysìavghiton, ma come lui stesso dice a muro duro dinanzi alle telecamere, “non ho paura di questo neonazista, stupido, idiota gruppo. Potremo sterminarli dalla faccia della terra”. I membri delle Pantere nere si salvano a vicenda, se uno è attaccato lancia l’allarme agli altri tramite rapidi metodi di comunicazione come le app sugli iPhone e i social network. Utilizzando telefoni cellulari con l’instant messaging la loro risposta è immediata e i soccorsi sono assicurati. Le Black panthers, conclude Michal, “hanno trasformato in meglio la nostra vita, almeno nel nostro quartiere”. Ma la domanda da farsi sarebbe: in tutto ciò, le forze dell’ordine greche che ruolo hanno?

Fonte: Il Fatto quotidiano del 5/6/13
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lunedì 3 giugno 2013

Alla ricerca di un Renzi di destra: quasi pronta An 2.0?

Un cartello di idee per stimolare una costituente di destra, razionale, europea e non demagogica per rientrare nel dibattito politico nazionale e prepararsi all’appuntamento delle elezioni europee del 2014. Si scorgono i primi passi dell’idea di un’An 2.0, il rassemblement tra i contenitori della destra italiana, al momento iperbalcanizzata, che stanno verificando l’esistenza delle condizioni per tornare a dialogare e offrire una proposta elettoralmente spendibile ed unitaria. Alle prime resistenze delle scorse settimane, dovute a vecchie ruggini e a malumori (ancora esistenti) verso chi vorrebbe lasciare scranni e incarichi a figli e figliastri, si sta affiancando una logica ragionevolezza delle cosiddette colombe. Che invitano ad aprire una pagina nuova, anche alla luce delle molteplici incertezze che nel centrodestra si stanno facendo largo. Non solo le questioni personali e giudiziarie legate a Silvio Berlusconi, ma il dibattito interno nel Pdl circa la gestione del partito che procedono di pari passo con il primo mese del governissimo di Letta e Alfano. L’imperativo, a destra, sembra essere quello di provare ad affrontare una nuova scommessa, ma senza lasciarsi distrarre da nostalgismi e riedizioni del passato. 

Per dirne una, se l’occasione fosse solo quella di rimettere insieme foto in bianco e nero senza una proposta moderna e credibile, allora sarebbe meglio lasciar perdere, ragiona sottovoce un dirigente di quel mondo, che di coraggio ne ha dimostrato parecchio in passato (quanto a poltrone lasciate dalla sera alla mattina). Che invece punta a guardare più lontano, al futuro del centrodestra italiano che dovrà gioco forza nascere quando l’esperienza politica di Berlusconi volgerà al termine.Per il momento i primi segni di questo attivismo destroso si ritrovano, oltre che in un vertice romano in un prestigioso ufficio di via Veneto e in un possibile appuntamento pubblico prima della pausa estiva, in due tweet di Roberto Menia, reggente di Fli e una delle anime più movimentiste delle ultime settimane, impegnato in incontri e convegni da nord a sud per tastare il polso di un possibile elettorato di riferimento. Che ha pubblicamente fatto il proprio endorsement per Gianni Alemanno sindaco, in occasione del ballottaggio per il Campidoglio e ha chiesto al governo di aprire la fase due, “giù irap e irpef”. Che, in maniera alquanto singolare, risulta lo stesso invito che a Letta hanno fatto nell’ordine Matteo Renzi, Raffaele Fitto e pezzi consistenti di Confindustria.

Il difficile però viene adesso. Non solo risultare credibili di fronte a nuovi e vecchi elettori (ingannati da svolte, uscite di pista e inversioni di marcia), ma tentare di non scivolare nell’ennesimo pastrocchio all’italiana: dove la mancanza di chiarezza e la ricerca spasmodica di un Renzi di destra vengano gestiti con gli stessi strumenti che hanno prodotto lo sfascio attuale.

Fonte: Formiche del 2/6/13
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Che cosa si muove al Centro? Il caso dei Popolari per l’Europa

Cosa si muove al centro? Niente minestre riscaldate, ma un contenitore innovativo in chiave di popolarismo europeo per attirare elettori disorientati: questa la direttrice di marcia che sta ispirando in queste ultime settimane il rassemblement di forze “centrodestriste”, non necessariamente cattoliche e di matrice riformatrice ed europea, che trova il suo punto focale nell’associazione “Popolari italiani per l’Europa” (domani attesa da un passaggio statutario determinante). Nata dallo stimolo di alcuni europarlamentari, come Gargani, Salatto, Zanicchi e Tatarella e senatori come Albertini e Di Biagio, punta a rappresentare un pungolo in chiave partitica, nella consapevolezza che liste civiche e iniziative singole necessitano poi di una conformazione politicamente più caratterizzante. É in questo senso che i rumors danno già molto interessati alla cosa (ma non la si chiami cosa bianca, chiede uno dei promotori) battitori liberi come Alfio Marchini, reduce dal primo turno delle amministrative per il Campidoglio. 

Sarà un partito?
Nessuno può dirlo ancora con certezza, ma dalle menti che stanno lavorando sui territori per procedere a un ricambio generazionale, al momento trapelano solo due date, verosimilmente prima della pausa estiva, da cui si comprenderà qualcosa in più di questo progetto. A Trento ci sarà un convegno incentrato sulla figura di Alcide De Gasperi promosso da Gargani e in Sicilia, in una cornice simile, uno su Don Sturzo. Con un mantra che in molti vorrebbero fosse ben chiaro: porte chiuse a chi ha già “dato” in termini di legislature e presenze sulla scena, ma spazio ad una classe dirigente di 40enni, da formare in vista delle elezioni europee del 2014. E che abbiano una forte identificazione nei territori di riferimento. Come dire, niente nomi calati da Roma (o da Milano).

Quali compagni di viaggio?
L’obiettivo della nuova cosa, che a settembre inizierà a radicarsi nelle regioni italiane con coordinamenti e strutture organizzative, è di coagulare nomi e forze che gravitano nel Pdl così come in Sc e nell’Udc, ma senza disdegnare i moderati (e gli scontenti) del Pd in un dialogo franco e aperto a tutti (tranne alla sinistra anti europea). In questo senso un’opa significativa potrebbe essere fatta dal ministro della Difesa Mario Mauro, con un passato nelle stanze europee (è stato vicepresidente del Parlamento) ma soprattutto collante ideale tra le due formazioni. Per dirne una, se il suo fosse non solo un semplice endorsement, ma da benedizione si tramutasse in qualcosa in più, l’Udc in molte regioni d’Italia non avrebbe dubbi di sorta. Frenetici negli ultimi giorni sono stati i contatti con esponenti storici dell’ex scudo crociato, come Angelo Sanza e l’eurodeputato Potito Salatto, detentore di un consistente pacchetto di voti nel Lazio, che sarebbe pronto a non ricandidarsi sulla scorta del principio “largo ai giovani”.

Imperativo futuro: novità
Ciò che sarà strategico, in un periodo dove vanno sempre più di moda i rassemblement e le novità 2.0 come i recenti movimenti segnalati a destra, sarà di evitare “minestre riscaldate”, confida sotto voce una delle teste che sta fornendo spunti e consigli ai giovani interessati a questa nuova avventura. Sia perché la gente non capirebbe, sia perché almeno al 50% un brand del tutto nuovo attira a priori, si veda il caso Renzi. Quindi tanto vale rimboccarsi le maniche e farsi venire alla svelta idee, possibilmente originali e veramente innovative.

Fonte: Formiche del 3/6/13
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