domenica 17 aprile 2011

Peter Gomez: «Quale Predellino? Berlusconi non è più in grado di muovere nemmeno il suo popolo»


Dal Futurista del 16/04/11

Ormai il premier è “minoranza nel paese”, potrà avere i responsabili, i voti in Aula, ma fuori da lì no. Lo dice Peter Gomez, giornalista e scrittore, attualmente direttore del Fatto Quotidiano on line, e lo sostiene sulla base di ciò che accade nelle piazze e nelle strade. Con il sit in davanti al tribunale di Milano, annunciato come composto da un migliaio di persone e poi scoperto di soli duecento individui, con i pullman semivuoti.

Asor Rosa invoca uno stato di emergenza dall’alto, con l’intervento di Polizia e Carabinieri: una resa all’anomalia berlusconiana?

È una gran stupidata. Io continuo a pensare che Berlusconi abbia una maggioranza parlamentare che si regge su un fatto preciso ed anche un po’triste: come tutti sanno da questa legislatura i parlamentari non hanno più diritto al vitalizio ed alla pensione da metà legislatura, ma sostanzialmente alla fine. Questo è il motivo principale per cui Berlusconi riesce a trovare ancora persone che lo sostengono in Parlamento. Assieme ad un altro motivo: i nostri parlamentari sono tutti nominati, quindi la sua capacità contrattuale, a voler prescindere da eventuali reati che sono stati più volte ipotizzati, è di questo tipo. Detto questo il premier è nettamente minoranza nel Paese. Qualsiasi sondaggio, anche i suoi, dice che perderebbe contro chiunque in caso di elezioni, motivo per cui non intende andarci. Polizia e Carabinieri devono solamente continuare a fare quello che già fanno assieme alla magistratura: indagare per proteggere noi cittadini. Poi, considerato che le cose stanno in questi termini, ed intorno a lui c’è un elevato tasso di persone che hanno la tendenza al crimine, può accadere che qualcuno di loro debba difendersi da accuse giudiziarie. Evocare qualcosa che assomigli al colpo di Stato vuol dire anche insultare gli italiani. La nostra resta una democrazia, nonostante tutto.

Dopo il processo breve, la prescrizione breve e il ddl di Scilipoti per depotenziare le intercettazioni: il silenzio della Lega, con la Padania che ignora i fatti, cosa indica?
Che il Carroccio attende il risultato delle amministrative. Ha inoltre enormi problemi con la sua base, e con tutti i suoi funzionari. Si è reso conto che Berlusconi, politicamente parlando, è un cadavere e non importa se rimanga o meno al governo. La percezione che si ha di lui nel Paese non è più di quella dell’uomo con il tocco magico. Anzi, è l’uomo che distrugge tutto ciò che tocca. La Lega sa che appoggiarsi ad un cadavere è un grosso rischio, perché può essere trascinata a fondo con esso. La Padania non ha scritto ciò che è successo perché i padani, chiamiamoli così con i loro molti limiti, in fondo si vergognano di ciò che hanno fatto.

Ha definito Silvio Berlusconi un “Al Capone che si rivolge alla piazza”. Ma il predellino in fondo che cos’è, una personale e finale tribunetta da dove sulla via del tramonto legittimarsi, da soli, per vie diverse da quelle elettorali?
La scena che abbiamo visto fuori dal palazzo di giustizia milanese è emblematica: tutto lo stato maggiore del Pdl si è messo in moto per portare militanti in piazza. Il coordinatore lombardo Mantovani ha dichiarato che sarebbero stati un migliaio, invece sono arrivati in duecento e i pullman erano semivuoti. Il presidente del consiglio non muove più nessuno: è vero, lui è un uomo di carisma, può andare a Lampedusa (dove un premier non va mai) e raccontare agli isolani per impressionarli che costruirà il casinò, abbasserà le tasse e pianterà gli alberi. E raccogliendo di fronte a quella platea qualche applauso. Però se tra sei mesi non lo farà, lì non potrà più tornarci. È ridotto a scegliere questo tipo di piazze, perché non è più in grado di muovere il suo popolo, quello zoccolo duro di gente che legittimamente lo ha sostenuto. Ma tra gli elettori del centrodestra, vi sono persone moderate che restano colpite da chi ogni giorno fa tutto tranne che il moderato.

Altro segnale inquietante e poco chiaro, il consigliere gambizzato per strada a Roma: che spia è?
Sul Giornale ho letto uno strano pezzo di Granzotto in cui annuncia il ritorno agli anni di piombo. Non so cosa ci sia dietro, quello che a me pare di cogliere in questo paese è che il rischio di tornare a quegli anni proprio non esiste. Nel senso che grazie al cielo non ci sono nemmeno più i movimenti ideologici diffusi che possono portare a qualcosa del genere. Non capisco perché qualcuno dica “attenzione, si può tornare agli anni di piombo”. E addirittura in quell’articolo si citava la riunione del Palasharp: non comprendo a quale gioco si voglia giocare. Poi, magari, domani si stabilirà che il consigliere è stato gambizzato da Tizio piuttosto che da Caio. Però ricordo che quando il povero Biagi o il povero D’Antona vennero assassinati dalle Br, abbiamo scoperto che quel nucleo di brigatisti era composto da 30-35 unità. Che si muovevano, probabilmente convinti di un’ideologia, sostanzialmente come dei serial killer con quasi nessun tipo di consenso sociale. Invece chi ha vissuto gli anni di piombo sa perfettamente che Autonomia Operaia riusciva a portare in piazza cinquantamila persone che facevano il segno della P38. Vi era una parte delle masse che ci credeva alla rivoluzione. Ma oggi venirci a raccontare che da qualche parte c’è qualcuno che seriamente pensa di ricorrere alla violenza come arma politica e con qualche seguito numerico, questo è falso. Anzi, un quadro surreale.

Luca Sofri: «Basta, non ispiriamoci più ai modelli peggiori. Solo così cambieremo l'Italia»


Dal Futurista del 15/04/11

Un grande paese, l’Italia tra vent’anni e chi la cambierà non è solo un auspicio o un sogno. Ma il titolo che Luca Sofri ha dato al suo ultimo libro e non per il vezzo di pensare, così come qualche penna distratta ancora giudica certi sforzi. Ma per ragionare antropologicamente sul male interno all’anima del paese, dove si sviliscono le eccellenze, per insicurezza, per fobismo, per sciatteria. E si preferiscono, invece, i modelli mediocri o tristemente normali, che “assomigliano a tutti noi e con i quali non corriamo il rischio di sentirci in competizione”. Ma, di fatto, voltando lo sguardo lontano dagli esempi migliori.

Finalmente un libro pro e non contro: non sarà che il filone ottimistico, ma realistico, era proprio quello che mancava ad un’analisi sul futuro?

Premetto che guardo con grande disincanto alle possibilità di cambiare in meglio le cose di questo paese. Semplicemente dico che, non essendo convinto delle categorie di pessimismo ed ottimismo, reputo il disincanto e la lucidità scarse e mediocri prospettive. E non influiscono sul desiderio o anche sull’inclinazione a cercare di fare le cose giuste.

Affetto e orgoglio: la base di partenza e poi l’obiettivo finale per l’Italia. Ma come arrivarci?
Avendolo presente, in seguito i modi ed i percorsi possono essere molti. Decidendo e coinvolgendo più persone possibili nell’idea che l’Italia ci interessa, al pari della sua identità, delle sue prospettive, e non che siamo sempre minoranza. C’è una tendenza da parte degli italiani che hanno care le cose buone giuste, a pensare che l’Italia sia un’altra cosa diversa da loro. Che siano minoranza in un’Italia che invece è vista come un luogo comune di dati negativi e difetti. Le persone si facciano carico dell’essere loro l’Italia, per poter diventare maggioranza e non per autocompiacersi di essere minoranza.

L’idea di miglioramento come carburante che autoalimenta la felicità del singolo e degli altri: come farlo metabolizzare ai cittadini?
È molto difficile. Una prospettiva di cui parlo nel libro è la soddisfazione di sé, l’autostima: un motore fortissimo nelle scelte contemporanee degli individui, ma non deve essere ricercata con metodi fallimentari. Oggi abbiamo tutti molto bisogno di affermare noi stessi, farci notare: è una continuazione nelle cose che facciamo. Che poi applichiamo su cose assolutamente futili e a breve scadenza. Fallimentari anche rispetto alla nostra soddisfazione da vanità, perché non siamo così stupidi da compiacerci seriamente dal fatto di poter affermare appunto di aver avuto ragione su una piccolezza. O di aver notato un dettaglio prima di altri. La propria soddisfazione del sé, trae in realtà nutrimento da elementi più rilevanti. In un tempo in cui non è più possibile, inevitabilmente, usare come motore l’altruismo, la generosità verso il prossimo, credo vadano presi in considerazione altri parametri: l’autostima, l’essere contenti di se stessi per fare le cose giuste e comportarsi bene; e un sentimento che non è la generosità verso un prossimo sconosciuto, ma verso chi ci somiglia per allargare il più possibile questa prospettiva. Fino a far diventare maggioranza un’idea di nostri simili.

E quel conflitto tra elitismo e antielitismo nel quale il paese è soffocato?
È un tema abbastanza centrale in un passaggio successivo del libro, circa i mezzi con cui portare avanti la possibilità di cambiamento delle cose. Ovvero il percorso all’indietro che abbiamo fatto nel coltivare e far crescere una disistima verso la straordinarietà delle persone, come quelle con capacità particolari, rispetto a ruoli, competenze e situazioni. Oggi sono viste con sospetto, fastidio, competizione. Tanto che, appunto, preferiamo votare come nostri rappresentanti delle persone normali, che ci somiglino, non straordinarie, con cui non ci sentiamo in competizione. Che sono addirittura peggiori di noi. Il risultato, poi, è sotto i nostri occhi. E deriva dal fatto che vediamo con sospetto di presunzione, o con fobismo, gli individui che hanno doti maggiori delle nostre. Ciò ha a che fare con una sparizione di modelli, che rappresenta un guaio contemporaneo, perché non sopportiamo più di poter pensare a delle persone migliori di noi. La verità è che vi sono tanti modelli migliori e soprattutto ci siamo noi stessi, che possiamo diventare migliori di come siamo.

Scrive che “la tragedia di un paese ridicolo è ormai compiuta”. Ma quando toccare definitivamente il fondo, per risalire una volta per tutte, allora?
Probabilmente mai, questa è una cosa che mi incuriosisce: come questi tempi e l’Italia abbiano cancellato quella categoria letteraria metaforica del “toccare il fondo”. Quella speculare ma uguale del “vaso che trabocca”. L’Italia è un posto dove il vaso non trabocca più, dove non si tocca mai il fondo. Dove un inesorabile declino può durare all’infinito. Per lungo tempo ho pensato, avendo alcuni modelli che mi incuriosivano, che ad un certo momento una rinascita provenisse da un totale fallimento. Sono arrivato ad auspicare, rispetto a certi progetti politici della parte a cui sono più vicino, ovvero la sinistra, che vi fossero enormi fallimenti e che potessero portare a degli azzeramenti. Penso a ciò che è accaduto in Inghilterra alla destra con Cameron che, spappolata dopo il successo di Blair, si è consegnata finalmente ad un’idea di rinnovamento totale. E mi sono chiesto se non potesse essere una strada anche per l’Italia: dove ad un certo punto il non sapere che pesci prendere, portasse ad un rinnovamento. Invece ho l’impressione che potrebbe non avvenire all’infinito, in quanto il declino prosegue un pezzetto alla volta, senza necessariamente far rompere gli equilibri. Per molto tempo si è ritenuto che la globalizzazione avrebbe fatto saltare questo tappo. Ovvero che i ritardi e i guai dell’Italia che al nostro interno riuscivano a convivere con se stessi creando una specie di ecosistema proprio, si sarebbero però ad un certo punto confrontati con il resto del mondo. Che avrebbe messo in rilievo i ritardi e avrebbero costretto l’Italia ad affrontare in un altro modo il suo futuro.

E invece?
In realtà mi sembra che neanche questo basti. L’Italia è un paese in grado di coltivare una propria arretratezza e farla sopravvivere, che invece, come da sempre accade nella storia e nelle avanguardie, porta avanti le retroguardie. Un paese dove esse sono così forti da trattenere le avanguardie.

L’Italia tra vent’anni: chi la cambierà?
Chi si impegnerà, chi si porrà il problema di cambiarla, e di ottenerla cambiata fra vent’anni. E non di mettere delle pezze o trovare soluzioni a piccoli problemi, spesso personali o localissimi, e solo nei prossimi tre giorni. Chi, e dovranno essere in parecchi, dovrà cominciare a pensare alla gallina domani e non all’uovo oggi. Perché nella logica dell’uovo oggi, è sufficiente che quelle uova si rompano per perdere tutto. Per entrare nella concretezza politica italiana, nel libro parlo di come l’unico esempio in questo senso che mi abbia incuriosito, sia stato quello della campagna elettorale di Walter Veltroni. Che ha avuto finalmente una visione effettiva, un’idea di un’Italia che andava più lontano, che era disposta a mettere in conto di perdere le elezioni imminenti per costruire qualcosa che avesse un respiro più lungo. Quella è stata una modalità che mi ha interessato, dopo di che il totale fallimento, all’indomani dell’appuntamento elettorale, di quel progetto sbriciolatosi così rapidamente, non so capire cosa intendesse dirmi. Se quindi una possibilità esiste, ma solo se la si affidasse a qualcuno che sia più robusto di quel Veltroni. Oppure se invece nemmeno quando qualcuno manifesti una visione di quel genere, si riuscirà a cavarne qualcosa.

Margherita Hack: «Le bischerate di De Mattei? Come se non avessimo già altro di cui vergognarci...»


Dal Futurista del 12/04/11

"Sono solo bischerate, si dovrebbe dimettere spontaneamente”. È perentoria l’astrofisica e divulgatrice scientifica Margherita Hack, nel commentare l’ennesima uscita del vicepresidente del Cnr Roberto De Mattei, resosi protagonista di dichiarazioni antiscientifiche. Che non solo appaiono agli antipodi di un uomo di scienza, ma contribuiscono ad impallidire l’immagine dell’Italia agli occhi della comunità internazionale, che già si interroga su “come sopportiamo un governo come quello attuale”.
Il terremoto e lo tsunami sono una voce terribile ma “paterna” di Dio. Gli omosessuali degli “invertiti”, la cui responsabilità è netta nella caduta dell’impero romano. E il paradiso terrestre una “realtà storica”: come può un uomo di scienza anteporre la propria fede ad altri parametri?

Siamo tornati al Medioevo se il vice presidente del più grande ente di scienza e di ricerca del paese dice questa bischerate. Ma del resto non è una novità, in quanto aveva già impiegato soldi dei contribuenti per organizzare nel 1999 un convegno antidarwiniano su creazionismo ed evoluzionismo. E adesso queste dichiarazioni: son cose che non stano né in cielo e né in terra. La fede è così in quanto tale. Una persona è credente ed è ovviamente libera di esserlo. Però la scienza di basa su altro, sull’osservazione, sull’esperimento.

Verrebbe quasi da chiedersi che uomo di scienza sia.
Lui è padrone di credere e di avere fede, nella misura che più lo aggrada. Ma non può in alcun modo pretendere di professare teoremi antiscientifici. O certamente non provabili scientificamente. Tra l’altro i poveri cittadini giapponesi, ammesso che si volesse dar ascolto per un momento a De Mattei, erano già stati puniti con Nagasaki e Hiroshima, non c’era proprio bisogno di mandargli un’altra punizione. Che avranno fatto poi di male?

L’opinione pubblica non rischia di rimanere disorientata da tale fanatizzazione di propri convincimenti travestiti da testimonianza scientifica?
Non so se l’opinione pubblica prenderà sul serio queste sue frasi, credo che oggi sia forse un po’ più smaliziata rispetto a cinquecento anni fa. Beh, posizionare una persona simile alla vicepresidenza del Cnr è vergognoso e si dovrebbe evitare. Penso che dovrebbe dare spontaneamente le proprie dimissioni. Cosa che in Italia non accade mai.

Che segnale è quello di voler indossare una casacca ben precisa, in un ambito come la scienza, non contaminabile se non da ricerca ed esperienza?
Avrebbe potuto benissimo dire di avere fede, ma che poi la scienza opera su un piano diverso. La fede non è dimostrabile, è liberamente perseguibile dal singolo, ci mancherebbe. Ma non si pretenda di asserirlo scientificamente.

Corriamo il rischio di seri passi indietro nei confronti dell’approccio alla scienza, anche in chiave sociale? Si pensi a certo clericalismo esasperato predicato da chi, poi si comporta in modo opposto.
Non so se l’uomo della strada sia rimasto troppo impressionato da questa deriva, credo di no. Al pari dei giovani, anche di quelli credenti: non possono prenderlo sul serio.

Non si rischia, da scienziati, di perdere credibilità nei confronti della comunità internazionale?
È da andare a nascondersi, da vergognarsi. Infatti all’estero ci chiedono soprattutto come sopportiamo un governo come quello attuale. E per fortuna che le nostre università invece, malgrado tutti i problemi che hanno, riescono ad essere buone università. Quando i nostri ricercatori vanno all’estero fanno fortuna, quando presentano progetti al Consiglio europeo delle ricerche arrivano alle primissime posizioni: per fortuna questo ci salva.

Franco Cardini: «Adesso la società civile va scandalizzata»

Dal Futurista del 08/04/11

"Candidatura fasciocomunista? Ancora questi termini, che noia”. Franco Cardini, di professione storico e saggista, entra a gamba tesa nel dibattito sollevato sulla ventilata discesa in campo del premio Strega Antonio Pennacchi alle amministrative di Latina, capolista per centrosinistra e Fli, avversata proprio da vecchie idee e vecchie logiche di qualche esponente attuale. Per sbloccare quindi il paese ed i suoi cittadini, invita ad osare di più: “Siamo arrivati al punto che la società civile, affinchè reagisca, va scandalizzata.

A Latina più che una marcia indietro, si è vista una paura folle del nuovo: da parte di chi? Di tutti. Mentre il mondo e l’Europa bene o male vanno avanti, l’Italia è ferma. Le cose che ha fatto Berlusconi nel 2010 le stava già facendo nel ’94, siamo sempre al palo di partenza quanto a idee e schemi. Quando la sinistra vuole identificarsi, ci dice per l’uguaglianza e perchè antifascista. Quando lo fa la destra, cita la nazione, più la legalità, più la meritocrazia. Siamo ancora fermi al libro Cuore. Considerato il livello culturale a cui è ridotto il Parlamento fa anche ridere sentir parlare di meritocrazia. Ed è chiaro che ci si attacca agli stereotipi per non andare con i comunisti.

Come la vulgata che la “nostra gente non capirebbe” quella scelta fasciocomunista nell’agro pontino?
 Ma sì, sono per così dire esponenti strani. Che danno del traditore a Fini, reo di aver tradito Berlusconi, e poi il fascismo. Allora lo dicano chiaramente quello che si dicono fra loro e che non osano dire quando si sentono ascoltati. Ovvero che Fini ha tradito perchè è andato a Gerusalemme: siamo ancora a questi livelli in certi ambienti. A Pennacchi l’idea in fondo divertiva, ma poi che vuol dire l’idea del Pd che si tratterebbe di un’offerta irricevibile? Purtroppo nessuno prova ad articolare giudizi, ancora che ripetono tutti “si perderebbero voti”. Ma è possibile che in questo cazzo di paese si imposta sempre un ragionamento politico solo su problemi numerici ed elettoralistici? Non vedo più idee, o anche la vecchia capacità che avevano i movimenti popolari, come lo stesso Pci o il Msi, di fare un minimo di esercizio pedagogico, di stampo gramsciano, sulla gente. Adesso all’opinione pubblica le si corre dietro, non si può mettere un passo senza che si osservi come loro giudicano anche la scelta del verbo. Ecco che pensano: “quello ci penalizza”. Nel senso che se si fa una cosa troppo onesta o troppo intelligente, poi si teme che l’elettore non venga dietro. E invece bisognerebbe farne proprio tante di cose oneste ed intelligenti, perchè il paese è ridotto ad essere popolato da ignoranti e disonesti.

Latina come spunto culturale per ragionare su un’occasione persa: ci sono spazi per una scelta innovativa, fatta con occhi diversi? 
É stata avanzata una proposta molto semplice: mettiamoci insieme per buttar fuori Berlusconi. In secondo luogo credo che sia il caso di spiegare alla gente cosa si sta tentando di fare. A parte la desolante schematicità volgare, ben al di sotto del Bignami, mi viene da chiedere: cosa vuol dire che fascismo e comunismo sono l’opposto? Opposto di cosa? Riguardo forse ai valori somatici del rosso e del nero? E anche lì a livello ottico ci sarebbe da dire qualcosa. All’opposto per la questione sociale non lo sono mai stati. E cosa significa che la gente non capirebbe? Alla gente vanno spiegate le dinamiche, le cause e le idee concrete: cosa si propone per gli immigrati, per gli anziani che aumentano numericamente sempre più, per la scuola, per la sanità? Non significa nulla dire, “noi siamo fascisti e loro sono comunisti”. É umiliante persino solo leggerle queste cose. E i politici che fanno? Non dispongono di un ritaglio di tempo per discutere di questi problemi?

Ha definito queste resistenze come “maestrine dalla penna rossa, suffragette del veteroantifascismo e quelle del veteroanticomunismo”: come provare a spuntarle allora?
 Credo che allo stato attuale delle cose si possa soltanto dare dei fulmini sotto pancia, delle ginocchiate nelle gonadi. Arrivati a questo punto la società civile italiana riuscirebbe a scuotersi solo se venisse scandalizzata. E allora se il fasciocomunismo la scandalizzasse, sarebbe ora di spingere proprio in quella direzione. E quindi saremmo tutti fasciocomunisti. È evidente che ormai le parole d’ordine non servono e la politica pratica va tutta in un’unica direzione: l’abbandono del pubblico a favore delle lobbies.

Barbara Ciabò: «Ma Milano è già oltre i vecchi canoni del passato»


Dal Futurista del 05/04/11

Milano è già oltre. “Oltre destra e sinistra, oltre vecchie categorie del passato. I progetti su cui si costruisce il futuro della politica italiana sono altri. E comunque sia - riflette Barbara Ciabò, da due lustri consigliera comunale a Milano, e possibile capolista alle prossime amministrative- la giunta Moratti non rappresenta nessun valore e benché meno alcuna tradizione di destra”.

Che scommessa è quella del nuovo polo a Milano?
Di saper essere alternativi ad altri interpreti, come questo centrodestra che in realtà rappresenta gli interessi esclusivamente di un piccolo gruppo di potenti. Che si comportano come se Milano fosse una proprietà privata. Con arroganza e prepotenza.

La plastica raffigurazione di ciò che avviene a Roma…
Milano è la città di Berlusconi, di Bossi, di Comunione e Liberazione. La città dei ricchi e dei potenti, degli immobiliaristi, dei costruttori. Che vedrà un nuovo piano di governo del territorio, o un grande intervento come l’Expo, accompagnato da milioni di euro che naturalmente interessano molto. E non possono essere gestiti liberamente. Siamo al centro delle logiche affaristiche che in questo momento sono tutte concentrate su questa città. Quello che avverrà in Italia nei prossimi mesi, si aprirà proprio da ciò che accadrà a Milano. Una scommessa per noi strategica, da giocarci fino in fondo. E non avremo paura.

Con quale progetto?
Non intendiamo fare da semplici testimoni, o solo far vedere che ci siamo, ma daremo il cuore per vincere.

Molti hanno definito il sindaco uscente Letizia Moratti, un ago della bilancia di una democrazia complessa, che ha governato solo con certi equilibri. Con quali ripercussioni sui dossier ancora aperti?
Il programma elettorale della Moratti non è stato attuato, tant’è che la percentuale di gradimento per lei è molto bassa. Inoltre per poter tornare a vincere avrebbe bisogno di spendere una cifra pazzesca, si parla di sessanta milioni: una scelta indicativa su che valore di legalità abbia questo Pdl. Sul fatto che venga scelta una persona per fare da capolista, il premier, nonostante sia sottoposto a processi. Per cui è una condotta emblematica, sotto tutti i punti di vista. Loro pensano di riuscire ad ottenere un risultato migliore con Berlusconi in testa alla lista, nonostante tutti i problemi che ha il Paese in questo momento. E comunque la Moratti ha una paura terribile di perdere. Quindi mette in gioco tutto quello che può: compresi quei poteri per i quali la sua politica è funzionale. Mi verrebbe da pensare, se la cifra che viene investita fosse vera, che nessuno al mondo lo faccia per senso civico. Evidentemente si concepisce anche questo mandato come un investimento. E allora quanto pensano di guadagnarci in questa operazione? Lo abbiamo espressamente chiesto al primo cittadino, per curiosità, ma non ci ha ancora risposto.

Fli come nuova avanguardia di alleanze e strategie: quanto può essere significativa, in chiave meneghina, la proposta di candidare il premio Strega Antonio Pennacchi come capolista a Latina, proprio di una lista centrosinistra e Fli?
Milano ha saputo riservare da sempre sorprese, è una città che ha già superato le vecchie categorie di destra e sinistra. Ultimamente Berlusconi ha detto una cosa simpaticissima, i fascisti ed i comunisti si sono messi d’accordo per farmi fuori. Proprio lui che rievocava il fascismo ed il comunismo. Concetti che ai milanesi non interessano più, perchè invece preferiscono l’ambiente, le strade, la vivibilità. I progetti su cui si costruisce il futuro della politica italiana sono altri, altro che queste categorie del passato. E comunque sia, questa giunta non rappresenta nessun valore e benché meno alcuna tradizione di destra. Non hanno il senso della nazione, né quello del merito, della giustizia e della legalità. Ci dicono: dobbiamo allearci con il centrodestra, ma quale centrodestra? Dov’è? Non lo vedo, non c’è. Per cui noi faremo alleanze in base ai progetti, e sceglieremo persone per bene. Questa scommessa la facciamo per vincerla, saranno gli altri poi a dover decidere con chi allearsi: è un problema che non abbiamo.

Italo Bocchino: «Ma questo governo non è la vera destra»


Dal Futurista del 01/04/11

Una destra europea, moderna, all’avanguardia. Che non abbia paura di concetti come inclusione, meritocrazia, legalità. Che sappia parlare al Paese senza istinti populistici, che risolva i problemi senza strabordare dai ruoli ma rispettando la cosa pubblica. E’l’auspicio che Italo Bocchino, vice presidente di Fli, affida alle pagine di Una storia di destra (Longanesi, introduzione di Pietrangelo Buttafuoco), una storia, ma con all’interno molte storie, di una passione, di un arco temporale affrescato da snodi determinanti ed incontri decisivi.

Da “Polo escluso all’uscita”, a “riveder le stelle” negli anni novanta: che storia è stata quella che lei ha vissuto in prima linea?
La destra italiana ha avuto un percorso sincero, profondo e valido. Dal punto di vista valoriale, programmatico, ma anche di evoluzione della classe dirigente. E anche di una certa contaminazione. Perché oggettivamente il dopoguerra ha generato un parallelismo tra destra e fascismo, peraltro errato dal punto di vista storico e politologico. Così come alcuni valori tipici della destra erano stati schiacciati dal sentimento antifascista, nel Paese dopo la guerra civile. E anche da una prevalenza culturale gramsciana della sinistra. Mi riferisco ad esempio all’idea di Nazione, al patriottismo, che adesso per fortuna sta tornando. Alla legalità, che era vista come un atteggiamento forcaiolo, alla meritocrazia. In seguito pian piano si è avuta la possibilità, anche per il percorso che la destra ha fatto con Fini negli ultimi vent’anni, di costruire un modello di stampo europeo, occidentale. Che ha percorso molta strada, e sarà utilissimo specialmente dopo il berlusconismo.

Prima il sogno di arrivare al timone del Paese. Poi il risveglio, in virtù di un esecutivo, l’attuale, che non è destra ma, come ha ampiamente dimostrato, fanatismo ed occupazione scientifica del potere. Quali le cause?
C’è un limite culturale. Bisogna dare innanzitutto atto a Berlusconi di aver portato un doppio elemento di novità per la destra: da un lato il radicamento nel sentimento degli elettori del bipolarismo; e dall’altro un’appartenenza comune politica di quegli elettori che si sono schierati con lui nel centrodestra, ritenendolo un’alternativa alla sinistra. Un gran lavoro nel contenitore, ma non nel contenuto. Perché poi i valori della destra lui non li incarna: la destra è legge e ordine e Berlusconi non è legge e ordine; la destra è capacità di includere e Berlusconi non ha tale capacità; la destra è tutela della nazione e lui anche nell’essere al traino e sotto il ricatto della Lega, vede schiacciare il sentimento nazionale del Paese; la destra è meritocrazia, lui ha dimostrato al cento per cento con il caso Minetti di non volere la meritocrazia, ma solo la cooptazione per ragioni personali; la destra è legalità, e lui ha abbassato la diga nei confronti della legge. Indubbiamente questo governo non ha fatto nulla di destra, né la rappresenta. Tant’è che le vere destre occidentali, da Cameron a Sarkozy, lo tengono fuori dalla porta.

Il libro è un racconto a ritroso con i ritratti di vari protagonisti: inutile chiedere quale sia il più significativo…
Certamente Tatarella, perché è stato il primo a credere in una modernizzazione della destra italiana. Il primo a credere in un ricambio generazionale e nel recupero di valori di destra, quando addirittura nell’area del Movimento Sociale Italiano si discuteva se dovevamo ancora definirci di destra.

Come spiega, da parte di alcuni attuali ministri, il repentino abbandono di un certo modo, di destra, di intendere la cosa pubblica: tutti folgorati sulla via di Arcore?
Penso che ci siano due ragioni, una di comodità del posto che si occupa e una comodità di vivere sotto l’ombrello berlusconiano. La logica berlusconiana è semplice: dice, “tu non fare niente, stai fermo, penso a tutto io, perché qualsiasi cosa tu possa fare rischi solo di farmi perdere voti. In cambio, quanto più sei servo e quanto più stai zitto, più sarai politicamente avvantaggiato”. Una logica che noi abbiamo rifiutato, altri hanno accettato o per comodità, o anche perché si tratta di gente di una certa età che non ha voglia di rimettere in gioco tutto il proprio percorso politico.

L’oltre il Polo di Tatarella fu il frutto di un certosino lavorìo politico e socioculturale: oggi che cosa si sta seminando invece?
Allora bisognava costruire un contenitore partendo dall’esplosione, un lavoro che necessariamente richiedeva una paziente cucitura di una serie di mondi. Adesso, come dico spesso, è utile fare la cosiddetta operazione bacinella, ovvero il contenitore pronto a raccogliere le acque in uscita dalla damigiana del Pdl pronta a rompersi. Non dico che l’implosione avverrà tra due settimane o tra due mesi, o tra due anni: comunque è destinato ad implodere. Nel momento in cui Berlusconi ha deciso di non strutturare il Pdl come partito ma solo come comitato elettorale di Silvio Berlusconi persona, è evidente che quando uscirà dalla scena politica quell’elettorato diventerà mobile. E se sarà mobile noi vorremo costruire il contenitore della destra moderna, europea ed occidentale che potrà raccoglierlo.

Perché il Pdl risulta così assolutamente distante dagli altri conservatorismi europei?
Ha avuto due anomalie: in primis la divisione del Paese tra fascismo ed antifascismo, e il fatto che la destra sia stata elettoralmente rappresentata come posizionamento politico da Berlusconi. E quel berlusconismo altro non è se non una destra populista, come ormai non ne esistono più neanche in Sudamerica.

Diciannove anni dopo, ancora monetine lanciate contro il potere: solo che parte di quella destra che ieri si batteva per la legalità, oggi è l’obiettivo di quei lanci. Amarezza?
Credo che i lanci di monetine non servano a nessuno, non sono un buon segnale per la democrazia. Quindi lasciamo lo scontro all’interno delle aule del Parlamento, e possibilmente risparmiamone uno al Paese.

Marramao: «Una nuova alleanza tra politica e filosofia, contro la dittatura della credulità»

Dal Futurista del 31/04/11

Viviamo tra cose vere e cose ritenute vere da molte persone, con l’elemento della credulità che gioca un ruolo decisivo. E allora perché non proporre una “nuova alleanza tra politica e filosofia” contro la dittatura della credulità? Lo sostiene Giacomo Marramao, filosofo e autore di numerose pubblicazioni sui filoni del marxismo italiano ed europeo. Attualmente insegna filosofia politica all’Università degli Studi Roma Tre, dirige la Fondazione Basso-Issoco ed è membro del College International de Philosophie di Parigi.

La politica sempre più talk e immaginario distorto: si prenda l’esempio dello spot di Berlusconi sul turismo. Che effetto fa?
Un fenomeno che non sorprende chi fa il mestiere del filosofo, per la semplice ma decisiva ragione che il reame dell’immaginario è esattamente quello degli sdoppiamenti, delle distorsioni, del gioco delle dissimulazioni: anche il reame della contraffazione. Berlusconi, ma non solo lui, perché accade ad altri leader di democrazie occidentali (anche se in forme meno clamorose), tende a collocare la politica nella dimensione dell’immaginario, proprio perché la dimensione della realtà non è simbolizzabile oltre una certa misura.

Per quale ragione?
Per essere in grado di produrre senso la politica dovrebbe saldare l’elemento materiale con quello simbolico. Una saldatura che avviene in momenti della storia in cui si produce una grande politica. Oggi però non viviamo nell’epoca della grande politica, ma purtroppo in quella dei surrogati della politica di massa. Quando dico che l’immaginario altera la realtà, mi riferisco al fatto che è impotente: perché gli effetti che realizza si ritorceranno contro quel tipo di politica che affida le sue sorti e i suoi destini all’immaginario. Esso vive di un vuoto storico, determinato dalla scomparsa delle grandi ideologie del ventesimo secolo. La dimensione dell’immaginario tenta, da sempre, di colmare un vuoto dato dalla divaricazione, dalla forbice che si apre tra il materiale ed il simbolico. Nella lontana estate del 1994, periodo al di sopra di ogni sospetto, scrissi un articolo commissionato dalla rivista francese Lignes, poi pubblicato su Nuovi Argomenti, ma dopo la caduta del primo governo Berlusconi. Mentre lo avevo scritto evidentemente prima.

Con quali tesi?
La fortuna di Berlusconi, sostenni, sta nell’occupare uno spazio vuoto, una voragine. In un certo senso lui è prodotto del vuoto e lo interpreta perfettamente perché a differenza del simbolico non deve determinare effetti di senso. Ma unicamente emozionali immediati. Non importa che lui dica cose il giorno dopo, in contrasto con quelle dette il giorno prima. Non ha rilevanza tutto questo, nè ha rilevanza il fatto che spari delle cifre come dire campate in aria. Lui è figlio e prodotto di questo vuoto pneumatico e l’immaginario come tale è staccato dal reale, ma anche staccato dal senso. Quindi nessuna sorpresa che tutto ciò non abbia una logica. E’una serialità, una ripetitività che può anche contraddire se stessa ad ogni piè sospinto. Perché si muove all’interno di quel vuoto.

Come bypassarlo?
Un fenomeno che può essere superato da una nuova saldatura tra dimensione esistenziale e materiale, intendo un’esperienza concreta, con relazioni effettive. Si potrebbe dire che la tragedia che oggi noi viviamo è che abbiamo spesso una sinistra appiattita sull’elemento materiale. E una destra appiattita sul lato del simbolico. Quella forbice che si è aperta produce tutti questi effetti, che sono linee di tendenza presenti in tutte le democrazie occidentali, dove la politica dell’annuncio è legata al dominio dell’immaginario. E’importante iniziare culturalmente a capire che l’immaginario è diviso tra il materiale e dal simbolico.

In un suo lavoro di qualche anno fa, Passaggio a Occidente, sostiene l’esigenza di una politica universalista della differenza: oggi a che punto siamo?
Un ossimoro che comprende in sé due polarità oppositive. Perché in realtà la situazione in cui viviamo è di scollatura tra un falso universale ed una falsa differenza. Non c’è simbolico se non simbolico di una situazione concreta, e non c’è concreto senza il senso. Una grande lezione di Hegel, ma anche di altri autori come Marx o Nietsche. L’universale che oggi abbiamo è il falso universale della globalizzazione, il dominio del mondo mercantile e del consumo. E delle tecniche, mentre la differenza non è la vera differenza. Ma sono le differenze del multiculturalismo, in realtà delle mascherature di politiche identitarie di destra. Di ghetti identitari. Oggi non avendo una prospettiva dell’universalità che si costruisca a partire dal vertice ottico, dal valore, dall’impulso generativo che valorizzi la differenza come criterio di costruzione dell’universale, noi abbiamo una politica dell’identità e dell’omologazione su entrambi i lati. Io ho una visione romana dell’universale: penso alla civitas romana, uno spazio giuridico-politico in grado di accogliere in sé una pluralità di nazioni e genti. E sotto la rigorosa osservanza della legge di Roma: questa per me è la prospettiva nella quale ci dobbiamo muovere. Di contro abbiamo una pluralità di monoculture identitarie. Una logica di esclusione della sopraffazione, non quella del senso. Una logica che porta a discriminazioni, come quella subita proprio anche da certa stampa, o da certa politica. “Noi siamo così e voi siete un’altra cosa” è il pensiero ricorrente, un qualcosa di profondamente estraneo alla logica del senso.

Nell’era dei social network, e dove con un cellulare si può fare cinegiornalismo, con i blogger che di fatto sono i nuovi inviati di guerra, in Italia si tenta di chiudere i talk show politici.
In Italia c’è una caratteristica adamantina del caso nostrano rispetto ad altre democrazie, che pur hanno situazioni delicate con i media. Ma nulla di paragonabile rispetto a quello che avviene da noi. Uno scenario impensabile negli Stati Uniti, dove si scatenerebbe il putiferio. Mentre nei Paesi del nord Africa, del Maghreb si sollevano le ribellioni, e si coaugulano forze di opposizione sociale che adoperano le tecnologie multimediali, esattamente come accaduto nei Paesi dell’est europeo. Dove le preteste si formavano attraverso comunicazioni a distanza, con gli sms o gli scambi di immagini. Vi era la creazione del fenomeno, ben analizzato da alcuni grandi autori che hanno riflettuto sulla condizione politica coloniale, e il fenomeno nuovo che soltanto il nostro tempo conosce rispetto al passato: la formazione di comunità a distanza in tempo reale. In occasione del 150esimo viene da ricordare che siamo stati la prima nazione in Europa dal punto di vista dell’unificazione cultural-linguistica, sia pure di elite. Anche le nazioni si sono create come effetto delle pratiche sociali, di Costituzione, di comunità, attraverso il libro oltre che con la tradizione orale. E’stato grazie agli strumenti tecnologici offerti dalla galassia Württemberg, che in Europa si sono create le nazioni. Perché le persone che vivevano a migliaia di chilometri di distanza, nel 1200, leggendo le stesse cose si potevano riconoscere membri della stessa comunità ideale. Ma questo non poteva avvenire in tempo reale, oggi invece sì.

Ma nonostante ciò, c’è chi nella politica teme semplici trasmissioni: non è un assurdo anacronistico?
In Paesi non democratici vi è il proliferare di forme comunicative, da noi invece si mette il bavaglio al confronto ed alla comunicazione. In fondo il limite è proprio questo: all’interno della scena politica italiana sta avvenendo che l’immaginario, dopo avere esaurito il proprio potenziale, dalla fase ascendente ed euforica, imbocca la fase declinante. Per un verso la forza di gravità delle condizioni materiali esistenziali della gente riaffiorano, fanno irruzione sulla scena in modo rumoroso. Per l’altro, dal punto di vista delle elite intellettuali e professioniste, quelle che vengono chiamate con una formula che non amo molto “i ceti riflessivi”, si nota l’evidente mancanza del senso. E di conseguenza anche nei talk show rischia di determinarsi l’irruzione dei due lati la cui disarticolazione aveva dato spazio all’immaginario. Quindi il timore che alcuni elementi del pieno entrino all’interno della scena e la possano alterare.

Perché oggi l’immaginario collettivo fatica ad essere definito dai fatti? E invece è sempre più preda di opinioni, spesso cangianti non perché legittimamente cambiate, ma perché effimere?
Vengono in mente le invettive di Platone contro la democrazia come regno della doxa, come una sorta di dittatura dell’opinione. Spesse volte campate in aria. O al nostro grande Machiavelli, che lucidamente analizza il fenomeno avvertendo su un punto fondamentale: che in politica purtroppo non c’è differenza tra una cosa vera ed una che è creduta vera da molte persone. Con questo non intendeva naturalmente invitare a far credere cose non vere, bensì a stare attenti all’elemento della credulità, che è fondamentale in politica come in religione, so di dire una cosa provocatoria. Sarebbe interessante intavolare un discorso serio sulla credulità e promuovere una nuova alleanza tra politica e filosofia, contro la dittatura della credulità.

Caro Langone, di anti italiano c’è solo Berlusconi

Dal Futurista del 17/04/11

Lo definisce un progetto politico “opportunistico, anticattolico, anti italiano, erede di ideologie che hanno sfasciato l’idea stessa di nazione”.

Si può anche non essere d’accordo con la candidatura fasciocomunista della Lista Antonio Pennacchi alle prossime amministrative di Latina, che sta coinvolgendo trasversalmente scrittori, giornalisti ed esponenti di Fli. Ma ciò che non si può fare è utilizzare erroneamente quegli epiteti. Per fare propaganda, così come scritto da Camillo Langone su Libero. Quello slancio, alto e ardito, non è le cose che Langone scrive.

Non è un progetto politico opportunistico: ma il frutto di un ragionamento molto semplice. In una fase di stallo, di stagnazione, dove chi comanda ha deciso di restare immobile nelle proprie sabbie “immobili”, non resta altro da fare che inseguire il nuovo contro il vecchio, la sperimentazione pura per uscire da vecchie ideologie, da pregiudizi, dai fanatismi che hanno caratterizzato la condotta del Pdl. Fermo ancora alle promesse del milione di posti di lavoro e del meno tasse per tutti.

Non è un progetto anticattolico: si tenta, questa volta sì in maniera opportunistica, come fatto per i temi etici, di brandire il credo religioso come un solco. Che serve, strumentalmente a chi si professa moderato o difensore delle famiglie (e poi fa tutt’altro), per sopravvivere politicamente in un palazzo trasformato in bunker.

Non è un progetto erede di ideologie che hanno sfasciato l’idea stessa di nazione: invece è l’idea, coraggiosa e propositiva, di chi la Nazione intende farla rialzare.
E infine non è vero come scrive perfidamente Langone che è un progetto anti italiano: anzi, è al momento l’unico vagito di una creatura nuova. Nuova, perché cerca di unire, di raccogliere i cocci di quel meraviglioso vaso chiamato Nazione italiana che Silvio Berlusconi ha mandato in frantumi assieme ai suoi scudieri leghisti.

Perché alla fine di questa storia, l’unico ad essere anti italiano è rimasto proprio lui, il cavaliere che non vuol bene al paese. Che Langone se ne faccia una ragione.

Parlamento? No, Fort Apache di Silvio

Dal Futurista del 12/04/11

Tutti la conoscevano come un’Aula parlamentare dove portare avanti idee, proposte e concetti. Dove legiferare per il bene del paese. E invece la Camera dei Deputati ed il Senato sono stati trasformati in un bunker al solo scopo di salvare Berlusconi. Perché il Pdl, di fatto, trema sui numeri, vive nell’angoscia di doversi appoggiare sui voti dei Responsabili (che il solito insolente chiama ancora Disponibili). Un passaggio strettissimo, un fronte perenne di guerra, dove rinchiudere la politica italiana con lo scopo di proteggere il capo. Senza spazio per altro, senza la lucidità necessaria per affrontare ben altre emergenze, come il dramma umano dei migranti, la solitudine degli imprenditori, la disoccupazione mai sopita.

In un contesto dove spicca la blindatura dei moderati, la cosiddetta deriva da Fort Apache in cui il Parlamento è stato trasformato. Altro che programma riformista e liberalizzazioni, qui a breve sarà un assedio. La maggioranza balla, e non alle feste di Arcore ma sul timore di non avere sufficienti numeri per far passare il processo breve. E nonostante le rassicurazioni del premier, certo di giungere a trecentotrenta deputati. Ma i Responsabili iniziano a far sentire la propria voce, mugugnano, dal momento che le caselle libere nell’organigramma di governo, ancora non sono state assegnate.

Se perfino un cauto come Gianni Letta ha parlato di settimana incandescente, aggiungendo che si tratta di “giornate incerte, affannose e amare”, significa che di moderato non c’è rimasto proprio nulla. Benvenuti a Fort Apache Montecitorio: l’ingresso è gratuito – ma sconsigliato- agli over settanta.

Stracquadanio? Fa ridere anche noi

Dal Futurista del 07/04/11

Ma sì, hanno fatto bene ad invitarlo in trasmissione ad Annozero. Perché in fondo dice e ridice, logorroicamente, interrompendo scientificamente l’avversario. Perché lui studia, anche la notte, mentre altri colleghi o colleghe se ne vanno ad Arcore a festeggiare. Lui no, resta nel suo studio a ripete, memorizza, ripassa maniacalmente e quanlunquemente. E poi sfodera tutto il meglio del suo repertorio. Ma tu a quale squadra appartieni? Chiede al conduttore Michele Santoro. E poi si risponde da solo, “alla squadra dei giudici”. Ecco svelata la consistenza antropologica di Giorgio Stracquadanio, il guastatatore che per hobby fa il giullare di corte. Un menestrello arcoriano moderno, presenza fissa in quasi tutti i talk show, per via di un’indubbia fotogenicità aggressiva, del ceppo più raro, e che ragiona per magliette. Se dici quella cosa, allora sei di quella squadra. Se ne pensi un’altra, allora sei dall’altra parte.
Il tutto condito dalla spocchia tipica di chi sa di avere dalla propria parte non un bagaglio culturale che magari indirizzi una strategia politica, ma solo l’ombrello del capo. Che protegge dalla pioggia e ripara dalla brutta stagione. Ma anche per quella copertura è arrivato il tempo del sole cocente, che perfora gli ombrelli più rigidi. E non ci sarà più spazio per ampi vantagli dove ripararsi, adesso il re è nudo e quelli della corte verranno visti per quello che sono. Fabbriche di sonore risate. O, come diceva Totò, di sonore pernacchie. Grazie di cuore Stracquadanio: oggi ha fatto ridere anche noi.

E Rivellini disse: «Vado col Pdl perchè sono d’accordo con Fini»

Dal Futurista del 07/04/11

Il nostro percorso? "É coerente con le indicazioni del presidente Gianfranco Fini". Chissà cosa penserebbe il maestro della risata Totò se, per un momento, si affacciasse nella sua Napoli. Ma non per ammirare il mare, le onde e qualche banchetto primaverile, bensì per assistere agli atti di una commedia molto divertente, di quelle che strappano risate, e che però fanno in fretta a tramutarsi in lacrime. Non c’è che dire, alle pendici del Vesuvio nasce un nuovo fenomeno cultural-politico, il triplo salto con l’asta in salsa berlusconiana. Qualcuno potrebbe chiedere: ma quale salsa? O, meglio, perchè riferita al premier? Ma perché il cavaliere c’entra sempre, in quanto riceve (ufficialmente o ufficiosamente) i transfughi, pardon, i signorotti locali che decidono legittimamente di cambiare idea e approdi. E che nessuno provi a fare ironia su di loro!
Ognuno, ad esempio, è libero di denunciare la macchina del fango e qualche mese dopo andare in visita a quella fabbrica, o anelarne consensi: di quella macchina e di quel fango. Cosa ci sarà poi di male? Ma il problema non è visita o non visita, piuttosto che in questo paese ci sono troppi individui che fanno allusioni, cattivi pensieri, insinuano, o provocano. Così come fatto con i Responsabili (che qualche insolente sceriffo ha epitetato Disponibili), o con l’on. Siliquini appena nominata nel cda di Poste Italiane. Tutta spazzatura, tutta robaccia, tutti invidiosi di tanto spessore politico.

Così come quella vulgata di nascondersi così goffamente dietro le spalle del presidente Fini (il quale a Napoli c'è stato, di recente, e per appoggiare pubblicamente la candidatura "nuovopolista" di Pasquino). O quella che vorrebbe Rivellini minacciare l’uscita da Fli non per contrasti sulla linea elettorale, ma per sbandierare poi la propria cacciata come un trofeo: “Se questa è la linea del partito - dice - allora devono commissariare Fli Campania e ci devono cacciare. Tutto questo mi ricorda un altro signore che ha fatto la stessa cosa quando ha detto "Che fai, mi cacci?"". Non c’è che dire, anche stavolta le solite malelingue interpreteranno l’avvicinamento al Pdl di Rivellini come un affare di convenienza. Che insolenti. Che strano paese l’Italia: non riesce mai a capire la statura dei propri rappresentanti.

Questa foto? Nessun imbarazzo. Anzi


Dal Futurista del 06/04/11

Questa foto: nessun imbarazzo. Questa foto: veramente oltre. Oltre i nostalgismi, oltre le polverose appartenenze di ieri, avantieri o di cinquant’anni fa. Oltre gli egoismi. Lo ha scritto Luciano Lanna sulla sua bacheca di fb: “A tutti quelli che stanno ancora nella logica della Guerra Fredda, dello scontro tra antifascisti e anticomunisti. Tutto salta, anche i vecchi muri. Questa foto è il segno della nuova sintesi. A noi!”. E allora basta vecchiume, basta paure, basta tutto. L’Italia è unita in quello scatto, dove convivono senza timori e senza particolari problemi, storie, emozioni e passioni diverse. Unite da un'idea: la salvaguardia di una comunità, la difesa del bene dell’Italia.

Nessun imbarazzo, dunque. Perché attorno a Gianfranco Fini, in questi mesi, si è raccolta una comunità che ha deciso di slegarsi definitivamente dalle catene di un passato velenoso, dai ricatti delle identità, dalle zavorre ideologiche. E ha scelto la via del patriottismo. Di un patriottismo che non si declama soltanto, ma che mette in pratica. Con coraggio. Di un patriottismo che supera gli anni Settanta. Di un patriottismo che mette il destino dell'Italia avanti a tutto. Rinunciando alle etichette, alle rivendicazioni del passato, al proprio piccolo orticello elettorale. Di un patriottismo, soprattutto, che combattere e sconfiggere il sistema berlusconiano. Senza più compromessi.

Altro che "fasciocomunismo". Si tratta di "spirito costituente". E chi ha a cuore per davvero il futuro del paese non dovrebbe scandalizzarsi ma riflettere. In piazza Fabio Granata ha detto alla folla: “Quello che è accaduto in Parlamento è un fatto molto grave, contro il patriottismo e la Costituzione. Voi siete un presidio democratico molto importante. Noi di sinistra? Siamo qui per la legalità e contro la mignottocrazia, per l'Italia e per il lavoro”. Problemi? Verrebbe da chiedere a chi, come l’eurodeputato Potito Salatto si scandalizza, in nome di un sedicente "moderatismo".

Lo scrisse Pablo Neruda in quel meraviglioso diario di vita che è stato Confesso che ho vissuto: “Io voglio un mondo senza scomunicati, voglio che si possa entrare in tutte le chiese e in tutte le tipografie”. Ma oggi non servono le parole e le filosofie. Oggi serve "fare qualcosa". Oggi serve essere patriottici. E quella foto racconta di un paese "vero" e unito. No, nessun imbarazzo. E anzi, sarà bene replicare ogni volta che servirà...

Lele Mora scende in campo? No, nel privè

Dal Futurista del 06/04/11

Il sogno nel cassetto? La pace nel mondo. E poi? No al nucleare, alla guerra, alla violenza in Libia. E magari anche no al panettone, meglio il pandoro. Con preferenza per il pecorino sardo (vista la vicinanza con villa Certosa) rispetto agli altri. Da attuare come? Magari grazie a cubiste che spopolano tra gazebo e raccolte di firme, o di altro. No, non è la seconda parte del film con protagonista Cetto La Qualunque, ma la prima versione del trailers di Lele Mora il ritorno, o la vendetta, o ognuno la chiami un po’ come preferisce. Perché il manager dei vip, o presunti tali, ha annunciato l’impegno politico. E, udite udite, sarà in prima persona per coinvolgere chi ha avuto guai con la giustizia. Con queste premesse, di gente in lista, si può ipotizzare che ce ne sarà non poca, anche in considerazione della schiera di amici e di amichette che il manager tanto vicino a Silvio Berlusconi dispone.

Un film, un trailer, a questo punto soprattutto un incubo. Ma visto e considerato il tenore e la cifra “ammirati” sino a questo momento da chi a quelle feste invitava proprio Mora, commissionandogli musica, gente, (ma solo bella gente), non ci si dovrebbe stupire poi molto. Ma più che una discesa in campo, a questo punto, sarà una discesa nel privè.

È già iniziata la fuga dal cav?

Dal Futurista del 02/04/11

“Il poeta- diceva Arthur Rimbaud- si fa veggente attraverso un lungo, immenso e ragionato disordine dei sensi”. Solo che in questo caso non sono solo i sensi ad essere disordinati, ma anche i pensieri e le parole. Quando Marcello Veneziani sul Giornale analizza con arguzia che “l’Italia sta soffocando nell’odio, sta annegando nel suo stesso vomito”, traccia una lucida panoramica, a tutti evidente, di ciò che sta accadendo, non da oggi. Con pezzi dello Stato che sbroccano causa nervi, che danno il peggio di sé nell’Aula dove dovrebbero dare l’esempio.

Che insultano finanche chi non potrebbe loro agitare il dito medio. Sostiene che quando accadono certi fatti la responsabilità sia di entrambe le parti, ma “non in egual misura”. E perché secondo la sua visione, chi sta al governo ha meno interesse ad accendere il clima. Accipicchia, figuriamoci se allora Berlusconi, Bossi e La Russa fossero all’opposizione: cosa avrebbero fatto due giorni fa, un bombardamento al napalm?
Ciò che Veneziani dimentica di dire è che, altrettanto evidente a tutti, è la causa di questo degrado di proporzioni sovrumane. Quasi dimentica che il padrone del giornale dove scrive è chi ha dato inizio al bunker, alla lotta estrema, alla delegittimazione, alla macchina del fango.

Allora, verrebbe da chiedersi, perchè iniziare questa deriva puritana? Nella quale Veneziani si stupisce, prende le distanze, dice di non sapere, di non esserci stato. E dov’era? Non può sfuggire, lui come tanti altri ha il marchio di B sul mouse e nei neuroni. Non sarà che, a voler essere maligni, è iniziata la fuga dal cav?

Se lo shopping attira più dei comizi pro-Letizia…

Dal Futurista del 03/04/11

Metti un sabato di comizi milanesi, pallido sole lombardo simil-primaverile e tanta indifferenza. Si apre in salita la campagna elettorale di Letizia Moratti per la riconferma a primo cittadino. Certo, se ad accompagnarla c’è anche il ministro La Russa, verrebbe da rilevare, è chiaro che la gente preferisca passeggiate per negozi. Ma non è solo qualche slancio di ironia a giustificare lo scollamento tra la piazza e il palco, ma forse c’è qualcosa in più. Nausea? Disincanto? Delusione? Indifferenza? Lo si chiami come si vuole, la sostanza non muterebbe di una virgola. Le poche centinaia di persone in piazza San Babila rappresentano un’altra spia. Di quelle che, minacciose, si accendono sul quadro dell’auto, e che segnalano imbarazzo. Ecco a voi il libro delle cose fatte e quello delle cose da fare: visto e stravisto, letto e strasfogliato.

Ma dove si annida lo slancio per il capoluogo lombardo? Dove trarre linfa per la salvaguardia di quello spirito meneghino che in passato è stato sì spia di novità e movimenti, anche intellettuali, di rinascita? Ad oggi pallidi ricordi, tra residenze in stile Gotham City e pasticci, vedere alla voce Expo. Milano merita altro, non fosse altro che per quel ruolo di centralità in chiave europea che la contraddistingue, che deve necessariamente intersecarsi con le attitudini nazionali di avamposto economico-finanziario.

Ma non solo pecunia, per una volta si ripensi alla Milano laboratorio avanguardistico, ampolla dove mescere nuove po(si)zioni per sperimentare un cambiamento, per tastare con mano una data tendenza, per insomma alzare lo sguardo oltre le bandierine di Forza qualcosa. E puntando il binocolo oltre. Sì, oltre. Oltre i comizi, oltre quella piazza che sa tanto di predellino, oltre quel ghe pensi mi che aleggia pachidermico nell’aria, oltre un certo modo di annunciare. Di non fare, per poi disfare e ri-annunciare. Semplicemente, oltre.

Berlusconi a Tunisi: più che amici, amici miei

Dal Futurista del 04/04/11

Eccolo lì, circondato dagli amici. Ma più che amici, “amici miei”. Un po’ la brutta copia del celebre film, solo che qui non ci sono schiaffi in stazione o pseudo spostamenti della torre di Pisa, ma zingarate immobiliari e promesse da buontempone. Signore e signori, è la politica internazionale del premier. Ormai è tutto uno scherzo, ci sarà un acquisto di ville anche a Tunisi? Con promessa di casinò annessa? Magari con qualche palcoscenico allestito pro conferenza stampa. E per non farsi mancare nulla, come quando Gheddafi venne in visita a Roma, perché no anche una grande manifestazione pubblica, con folla oceanica e parata militare. E poi promesse, promesse e un mare di promesse. Sarà servito thè nel deserto, accompagnato dalle solite pennette tricolori tanto gradite al cavaliere.

Seguito da un gelato ufficiale, da tante strette di mano e dagli annunci di ritorno: “a Tunisi siamo i benvenuti”. Tutto bello, tutto grande, tutto così vittorioso. Solo che poi, quando quei flash si spengono e quando sono trascorse le fatidiche 48 ore, ecco che le parole nel vento pronunciate da Berlusconi fanno ciò che, da quindi anni, hanno fatto: si sgonfiano, si scoloriscono.
Ben Alì, Gheddafi, Putin. E dopo Obama. Sono tutti amici suoi, sembrano i suoi amici su facebook, invece sono leader passati e presenti, forse futuri, del resto del mondo. Con i quali un Paese normale ed un premier normale intrattengono rapporti istituzionali normali. E non questa cosa, che non si chiama politica estera. Ma politica del cucù.

Che noia, che barba: è la Lega

Dal Futurista del 01/04/11

Un po’ come i reumatismi, che ogni tanto tornano a farsi sentire. O come qualche virus che periodicamente intacca il pc, o come quegli imbonitori che lasciano nella cassetta delle lettere la pubblicità di maghi e fattucchiere. La Lega nord è così, ogni due o tre settimane, chiede le dimissioni del Presidente della Camera. Magari alternandosi con qualche pasradan berlusconiano. Di quelli che devono farsi vedere, che inondano di comunicati stampa le agenzie, dal momento che hanno avuto i loro due mesi di gloria, magari per una nomina o per qualche ospitata a Porta a Porta.

Eccoli allora, logorroici fino al midollo spinale, come quei manifestanti a cui pare abbiano dato panino, bibita e gettone per urlate pro cavaliere a Milano: “I comunisti mangiano i bambini, Silvio ha salvato l’Italia dai comunisti, è tutto un complotto, lui ci salverà”. E poi serve un tavolo tecnico, Padania libera, non ci sono più le mezze stagioni, adesso la prova costume. Fino ad arrivare alle dimissioni della Terza carica dello Stato.

Dal momento che, più volte in questi anni, dalle parti di via Bellerio hanno dimostrato di non essere propriamente dei campioni quanto a diritto costituzionale, e immaginiamo, anche in diritto parlamentare, sarebbe forse utile rammentare a Calderoli e soci che il ruolo del vertice di Montecitorio è di garantire la regolarità dei lavori parlamentari. Cosa che Fini ha fatto da sempre, mantenendo aperta quella seduta (per intenderci, quella in cui l’oxfordiano La Russa ha dato ennesimo sfoggio della propria cifra) anche oltre ogni ragionevole limite temporale. Come gli ha rimproverato persino il capogruppo del Pd, Franceschini.

Poi, se Lega e il Pdl pretendono che l’Aula della Camera si trasformi nell’aula della libertà, dove cantare gingle fino a sera, degustare polenta, con Apicella che tra una votazione e l’altra intrattiene gli ospiti in (sole) riunioni convivialpolitiche, allora che lo dicano chiaramente e senza troppi giri di parole.

Ma vadano a farlo altrove.

Basso impero? No, peggio

Dal Futurista del 30/03/11

Non c’è più nulla da fare. Nulla, neanche un centimetro quadrato di spazio comune, per modi, per tempi e valutazioni. Il comportamento di Ignazio La Russa, ministro della Repubblica italiana, che ha mandato platealmente a quel Paese la terza carica dello Stato che, in Aula e non al bar, chiedeva “rispetto per la presidenza”, è la cifra di un mondo. Per fortuna lontano anni luce. Un mondo assurdo, che pensa di fare politica senza guidare il Paese, che sbraita anziché parlare, che inventa anziché spiegare, che provoca anziché rasserenare.

Che pasticcia anziché risolvere: la becera raffigurazione di chi dovrebbe essere onorato di rappresentare le istituzioni. E che invece le disprezza.
Quando La Russa dice che le opposizioni sono “complici dei violenti” non fa altro che accendere una miccia. E quando, in piena bagarre, esce dall’ingresso principale della Camera, così come Franceschini gli fa osservare, andando incontro ai contestatori, non vuole certo stemperare quelle situazioni. E allora ‘Gnazio che fa? Applaude ironicamente il capogruppo del Pd, provocando una scena profondamente triste. A cui il Presidente richiama all’ordine.
Ma proprio il ministro della Difesa, avvezzo tra l’altro agli ordini, e che in questi giorni dovrebbe essere esempio di pazienza e dedizione, perde miseramente le staffe ed il rispetto che si deve, ad un’Aula, e a chi la rappresenta. E come il suo padrone arcoriano, che quando è braccato inizia il personale show, anche ‘Gnazio non disdegna questa magra deriva: e giù insulti e gestacci.

E'proprio vero, la disperazione non è oggi solo in chi lotta per la sopravvivenza in un fazzoletto di mare. C’è anche la disperazione (di serie B) di chi si è illuso di poter essere il volto di un Paese, ed invece ne è solo l’incubo.

La Minetti e la Farnesina: liaison da poco?

Dal Futurista del 30/03/11

Ma in fondo non è colpa sua, perché dovrebbe fare un passo indietro? E poi, tutto questo accanimento, perché? E nonostante non abbia saltato una sola seduta del Consiglio regionale nel quale è stata eletta grazie al listino bloccato del governatore in quota Comunione e Liberazione: che cattivi, questi commentatori italiani che insinuano. Si sa, tutti comunisti e invidiosi. E’come quando nel campionato di calcio, una squadra neo promossa dalla serie B alla serie A, dopo dieci partite si trova in testa alla classifica con venti rigori regalati: è ovvio che poi punti almeno ad un posto in Europa, almeno nelle intenzioni.

Solo che in questo caso Nicole Minetti, ex igienista dentale del Cavaliere, non aspira alla sesta posizione in graduatoria, per restare al paragone calcistico, che le consenta di partecipare alla Coppa Uefa, ma niente niente, punta dritta al podio: ammettendo candidamente di aspirare a sedere sulla poltrona di Ministro degli Esteri. Dove, per buttare a casaccio qualche nome, sono passati pezzi da novanta come De Gasperi, Martino, Saragat, Moro, Andreotti, Andreatta, Susanna Agnelli, Dini, Fini, D’Alema. Non proprio giovani sprovveduti alla prima esperienza.

Dagli e dagli, quelle squadre che poi non stanno più con i piedi per terra, che sognano la Champion’s League e di misurarsi con il Barcellona, poi spesso si risvegliano a primavera e si ritrovano dritte dritte a retrocedere nuovamente. Perché prima di recitare un ruolo in palcoscenici mostruosi come lo stadio Camp Nou o come il Meazza di Milano, bisogna dimostrare di valer nel proprio campetto di quartiere. Sporcarsi le mani di fango, collezionare lividi sulle cosce, insudiciare di sudore la propria maglietta, camminare diritti e senza curvature o deviazioni robotiche con le proprie gambe, sapere cosa dire e soprattutto quando. Comprendere chi si sta servendo in quel preciso istante. Non un padrone, ma un Paese. Tutto qui.

Par condicio? No, la solita museruola

Dal Futurista del 29/03/11

Che Paese è quello che la cui politica non vede di buon occhio l’approfondimento politico? E lo teme, lo schiva, ne intralcia spesso modi e tempi, o pretende di dettarne regole anche basilari? Utilizzare un leggina per le prossime elezioni amministrative, ma per estenderla in seguito anche su scala nazionale. Talk show: riecco la museruola informativa per le trasmissioni di approfondimento, che un emendamento di Pdl e Lega in commissione vigilanza vorrebbe nelle intenzioni parificare alle tribune politiche, in vista delle prossime elezioni del 15 e 16 maggio.

Ma di fatto andando contro una precisa pronuncia del Tar, che lo scorso anno aveva stabilito che i programmi di informazione non potessero essere equiparati alle tribune elettorali. Quando un regolamento discutibile aveva di fatto portato alla chiusura coatta dei talk show di informazione politica. Il solito pasticcio all’italiana, con il marchio non solo della maggioranza di governo ma anche di quei Responsabili (o “disponibili” come accidentalmente li chiama qualcuno) che avallano scelte discutibili. E miopi. Da vecchio Pcus sovietico, altro che moderati e liberali.

Quale dunque l’intenzione? A questo punto lo dicano chiaramente, senza blitz improvvisati o emendamenti pirata; dicano che non gradiscono la stampa televisiva, i dibattiti, le provocazioni, le inchieste, i sondaggi (quelli veri), o le analisi. O le iperbole, o le interviste scomode. Lo dicano apertamente, e non nascondano i timori per chi solleva veli e parla o discute, come volontà di parificare condizioni. Scomodando anche quella locuzione latina, par condicio, spesso mortificata con la goffa aggiunta di lettere che ne fanno, vocalmente, un obbrobrio. Proprio come certa politica.

Par condicio? No, la solita museruola

Dal Futurista del 29/03/11

Che Paese è quello che la cui politica non vede di buon occhio l’approfondimento politico? E lo teme, lo schiva, ne intralcia spesso modi e tempi, o pretende di dettarne regole anche basilari? Utilizzare un leggina per le prossime elezioni amministrative, ma per estenderla in seguito anche su scala nazionale. Talk show: riecco la museruola informativa per le trasmissioni di approfondimento, che un emendamento di Pdl e Lega in commissione vigilanza vorrebbe nelle intenzioni parificare alle tribune politiche, in vista delle prossime elezioni del 15 e 16 maggio.

Ma di fatto andando contro una precisa pronuncia del Tar, che lo scorso anno aveva stabilito che i programmi di informazione non potessero essere equiparati alle tribune elettorali. Quando un regolamento discutibile aveva di fatto portato alla chiusura coatta dei talk show di informazione politica. Il solito pasticcio all’italiana, con il marchio non solo della maggioranza di governo ma anche di quei Responsabili (o “disponibili” come accidentalmente li chiama qualcuno) che avallano scelte discutibili. E miopi. Da vecchio Pcus sovietico, altro che moderati e liberali.

Quale dunque l’intenzione? A questo punto lo dicano chiaramente, senza blitz improvvisati o emendamenti pirata; dicano che non gradiscono la stampa televisiva, i dibattiti, le provocazioni, le inchieste, i sondaggi (quelli veri), o le analisi. O le iperbole, o le interviste scomode. Lo dicano apertamente, e non nascondano i timori per chi solleva veli e parla o discute, come volontà di parificare condizioni. Scomodando anche quella locuzione latina, par condicio, spesso mortificata con la goffa aggiunta di lettere che ne fanno, vocalmente, un obbrobrio. Proprio come certa politica.

Rimpasto? Macché, maionese impazzita...

Dal Futurista del 23/03/11

Più che un rimpasto una maionese impazzita: ormai irrecuperabile e immangiabile. La nomina di Saverio Romano alle politiche agricole, nelle intenzioni del Premier, avrebbe dovuto rinforzare la squadra di governo. Un po’ come si fa in cucina, quando l’utilizzo della pasta di riporto è presa da un impasto precedente e successivamente unita al nuovo per migliorarne sapore e consistenza. In questo caso invece c’è ben poco da migliorare, bisognerebbe semmai buttare tutto e ricominciare dal principio. Su Romano gravano tra l’altro le “riserve di opportunità politico-istituzionale” del Capo dello Stato, in un panorama ampiamente abnorme. Non vi era certamente bisogno del passo indietro ufficiale di Sandro Bondi dal dicastero della Cultura per ufficializzare un rapporto (uomo-istituzione) mai nato, con il ministro non presente in sede da tre mesi.Dai libri di cucina si apprende che le cause per cui la maionese impazzisce possono essere diverse.

Ma quello più frequente è legato all’olio: se si aggiunge troppo rapidamente si rischia di far impazzire la salsa. Alcuni prescrivono anche il modo per recuperare quella impazzita: il segreto starebbe nell’aggiungere un filo – e non di più- di olio, sperando che le cose tornino a posto. Ma in questo caso, con Romano all’agricoltura, Galan al posto di Bondi, oltre alla passata vacatio allo sviluppo economico, al caso di Brancher ministro lampo, alle indagini per corruzione e camorra che hanno colpito coordinatore del Pdl e il sottosegretario campano all’economia, pare che di olio ne sia stato versato francamente troppo. E la maionese è bell’è impazzita.

Che allora non si guardino più allo specchio

Dal Futurista del 23/03/11

C’è un limite che non può essere varcato. Perché apre al ridicolo, all’incredibile, all’oltre ogni ragionevole condotta. E’quello da cui ormai tutto è strabordato, i cui argini non ci sono più, devastati (da tempo) sull’onda della considerazione che il Pdl ha del Paese e dei cittadini. “Non è una legge per Berlusconi e quella è la nipote di Mubarak”, dice su Repubblica l’on. Maurizio Paniz, relatore del processo breve e prima voce dell’emendamento sulla prescrizione breve, che di professione fa il penalista. In quell’intervista si preoccupa di far risaltare che ha grande rispetto “e gratitudine per quanto fa il capo del governo. Lo scriva testuale, mi raccomando”. Non si chiede quale immagine offre dell’Italia chi in Parlamento continua a sostenere l’insostenibile, come ne esce una Nazione se non con le ossa rotte e con la considerazione mondiale ridotta al nulla.

Qui non si tratta di svolgere il proprio compitino per entrare nelle grazie del Capo, perché quel (vecchio) limite è stato già abbondantemente superato. Ora addirittura si abbandona anche un minimo di decenza. Prima umana, e poi professionale.Qui non c’entra più il servilismo alla Bondi, terminato con una mesta uscita di scena, o l’acquisizione dei responsabili o dei disponibili, o il Giornale di famiglia usato per mistificare. Questo si chiama svilimento in toto, attentato all’intelligenza degli italiani. Si chiama zero assoluto.

E allora potranno continuare con questa deriva che di rispetto per il Paese non ha nulla, con questa pletora di giustificazioni assurde, con la sottovalutazione storica di fatti ed opinioni, oppure con l’acquisizione di giornali, giornalisti, testate e trasmissioni. Ma quello che non potranno continuare a fare sarà guardarsi allo specchio e, semplicemente, dirsi persone serie. Quelle, sono un’altra cosa.

venerdì 15 aprile 2011

Aldo Cazzullo: «Ecco perché gridare insieme "viva l’Italia"»


Dal Futurista del 30/03/11

“Il localismo? E’la forza dell’Italia unita”, perché in un momento in cui il mondo chiede diversità per contrastare l’effetto globalizzante, un tessuto ricco e vario come quello italiano può fare la differenza. Ma avrà senso solo se quel localismo sarà allietato dalla Patria comune. Per questo la grande festa dei centocinquant’anni, riflette Aldo Cazzullo, giornalista del Corriere della Sera ed autore del libro Viva l’Italia, ha dimostrato in fondo che era vera la tesi del libro, “ovvero che noi italiani siamo più legati all’Italia di quanto amiamo riconoscere”.

Viva l’Italia: oggi un grido, uno slogan o un nome (come Forza Italia, Trenitalia, Alitalia, Bankitalia), ieri invece l’orgoglio della storia.

Credo che oggi quel grido sia meno antistorico e più sentito di quanto non lo fosse qualche mese fa, quando dire viva l’Italia era ancora una cosa da eccentrici, quando la gente non aveva capito dove andasse il mondo. Ora c’è l’Europa, la Lega, il federalismo, le piccole patrie. Invece secondo me questo anniversario ha segnato proprio un punto di svolta. Ci si è resi conto, lo ha fatto anche una parte della Lega, che l’attaccamento giusto e sacrosanto alle piccole patrie (che poi in Italia non sono le regioni ma i comuni ed i campanili) può stare assieme al legame con la Patria comune che ci riguarda tutti. Un dato compreso da una parte della Lega, ad esempio Tosi e Maroni, che hanno accettato il faccia a faccia con me confrontandosi sul libro. E hanno concluso dicendo viva l’Italia, aggiungendo federale ma l’hanno fatto. Il governatore Zaia, invece, non ha voluto farlo. E c’è una Lega, che io chiamo del bunker, che oggi agita ancora lo stendardo del vecchio leone Bossi e si prepara domani ad agitare lo stendardo di Renzo detto il trota, che non ha ancora rinunciato alla secessione. E che si dà di gomito con l’altro fenomeno emergente, i neoborboni del sud. La logica è quella che Marco De Marco nel suo nuovo libro chiama terronismo.

Che significa essere terronisti?
Non vuol dire essere necessariamente dei neoborbonici, anche Zaia è un terronista quando dice che quelli di Pompei sono quattro sassi. E’invece la degenerazione del localismo italiano, che esiste e non è un’esclusiva né del nord né del sud. Anzi, scrivendo un libro dal titolo Viva l’Italia, mi sarei aspettato reazioni negative soprattutto al settentrione. Mentre il grosso degli insulti l’ho ricevuto da sud. Riduttivo definirli neoborbonici, perché vent’anni di invettive leghiste hanno rinfocolato un rancore che al sud esisteva da tempo. E che in questi centocinquant’anni si è espresso rappresentando l’unificazione ed il Risorgimento come una conquista militare da parte del nord. Ma la logica dei leghisti nel bunker e dei neoborbonici, è esattamente la stessa. La colpa non è mai nostra, ma sempre di altri italiani. Per certi leghisti il sud è una palla al piede e la rovina del nord, per i neoborbonici la causa dei mali del sud è il fatto che il nord centocinquant’anni fa avrebbe invaso e colonizzato il sud. Una logica però minoritaria, non da prendere sotto gamba. La grande festa dei centocinquant’anni ha dimostrato in fondo che era vera la tesi del libro, ovvero che noi italiani siamo più legati all’Italia di quanto amiamo riconoscere.

Contro l’idea leghista e contro l’idea retorica del belpaese: quale il ruolo unificante della lingua italiana, ieri e soprattutto oggi?
Bisogna riconoscere che la lingua l’ha inventata Dante ma l’unificazione linguistica l’ha fatta la televisione. Spesso la lingua che prevale è molto mediterranea, nel gergo romanesco. Parole come pischello, buzzicona, gallettata, che vent’anni fa a Trieste o Torino sarebbero state incomprensibili, adesso le pronunciano anche gli adolescenti. Credo che non dovremmo aver paura dei dialetti, perché anche dove lo si parla molto come a Napoli o in Veneto, i 150 anni hanno dimostrato che l’attaccamento all’Italia sia fortissimo. Ho portato nei teatri di Mestre, Este, Abano, Rovigo, Verona questo spettacolo teatrale, che il Teatro Stabile di Verona ha tratto da Viva l’Italia. Con attori e attrici che leggono brani del libro, prima del mio commento. Ci sono musiche ed immagini dell’epoca: ed ho trovato nei veneti una reazione straordinaria. E ho visto le città venete imbandierate di tricolori tanto quanto Torino, Roma, o Napoli.

Il generale Perotti, il colonnello Montezemolo, don Bagiardi: ma anche sangue di vincitori o vinti. Quanto dista nella psicologia dell’Italia la pacificazione?
Abbiamo avuto prima un eccesso da una parte, è esistita sicuramente una retorica resistenziale favorita da una certa privatizzazione della memoria. E la sinistra ha rivendicato a sé una memoria che doveva essere collettiva. La resistenza deve essere patrimonio di tutta la nazione e non di una fazione. E in questi ultimi dieci anni c’è stato l’eccesso opposto. Pagine che a lungo erano state rimosse, occultate, e che invece è giusto raccontare e denunciare con forza. Ma queste pagine sembrano quasi diventate il tutto. Penso che un ragazzo di vent’anni sia cresciuto con nelle orecchie il ritornello per cui i partigiani erano tutti criminali sanguinari, e i ragazzi di Salò erano tutti bravi ragazzi. Ho scritto questo libro anche per ricordare che non è andata così. Penso che sia giusto raccontare le pagine nere che ci sono state, sia nel Risorgimento e sia nella Resistenza. Detto questo dobbiamo imparare la lezione di Francesco De Gregori, che ha perso suo zio partigiano ucciso da altri partigiani comunisti. Quella tragedia familiare gli ispira una canzone bellissima, Il Cuoco di Salò, piena di pietà per tutte le vittime. Perché le vittime vanno rispettate tutte e dovremmo sempre ricordarci che anche dall’altra parte c’erano ragazzi, che sono morti gridando viva l’Italia. E che credevano in buona fede di servire la patria. Però dovremmo anche ricordare che nella guerra civile c’era una parte giusta ed una sbagliata. E’vero che ci fu una guerra civile anche alla fine del Risorgimento, il cosiddetto brigantaggio. Le prime vittime dei cosiddetti briganti sono i patrioti meridionali della Guardia Nazionale.

Non fu quindi una guerra del nord contro il sud?
Tra patrioti, fra cui moltissimi meridionali, ed esercito piemontese, che non è un aggettivo ideologico ma in quanto esercito italiano. Comandato da Cialdini, che era di Modena. Presidente del Consiglio era Ricasoli, fiorentino. E le prime vittime erano meridionali, patrioti inquadrati nella Guardia Nazionale che si battevano in divisa dell’Unità d’Italia, faticosamente raggiunta. E dall’altra parte c’era quella strana alleanza di briganti in senso tecnico, partigiani borboni (festa, farina e forca) e nostalgici del potere temporale del clero. Non esattamente un’alleanza per il progresso. Nonostante grandissime sofferenze, e orrori ed errori da entrambe le parti, fortunatamente la parte giusta è finita per prevalere.

Geolocalismi esasperati da un lato, ed europeismo globalizzante dall’altro: l’Italia è in ritardo?
Non sarebbe in ritardo se capisse: che il localismo è la nostra forza, che non è in contraddizione con la patria comune. Dovremmo valorizzare il fatto di essere il Paese dalle cento città, che cambia paesaggio ed accento ad ogni crinale di collina. Il mondo globale che diventa sempre più uniforme, più uguale a se stesso, ci chiede proprio questo: la nostra diversità. C’è nel mondo una grande domanda di Italia e di prodotti italiani, di stile e di cultura italiana. E noi dobbiamo essere consapevoli di noi stessi, per essere in grado di valorizzarlo, perché l’Italia è un nome che piace.

Mughini: «C’è un debito pubblico italiano nei confronti di Svevo»


Dal Futurista del 28/03/11

Una vita da eroe, quella di Svevo, un gigante della letteratura nei confronti del quale Giampiero Mughini, autore di In una città atta agli eroi e ai suicidi. Trieste e il caso Svevo (Bompiani, pp.160, € 15), crede che ci sia un enorme debito pubblico. La Trieste di Saba, Stuparich, la città dove c’è un fiume di etnie, razze, religioni.

Un atto riparatore nei confronti di Svevo?
Non solo nei confronti di Svevo, anche se quello è un atto dovuto. L’ho scritto: è come il debito pubblico italiano, ognuno di noi ne ha una parte anche se non lo sa o finge di non saperlo. C’è un debito pubblico italiano nei confronti di questo gigante della letteratura nazionale ed europea. Lui scrive nell’ottocento, ma è uno scrittore del ventesimo secolo. Quindi un atto riparatore nei confronti di Svevo certamente, ma ancor di più un atto, non dico di riparazione ma di present arm, di levata di armi nei confronti di questa città dimenticata: la capitale italiana della storia moderna, la civiltà per la quale abbiamo fatto una guerra affinchè fosse italiana, una città i cui figli sono andati in prima linea da volontari e con il pericolo che venissero impiccati, se presi prigionieri degli austriaci. Non si dimentichi che la donna cui venne affidato l’incarico di scegliere una tra le undici salme di militi ignoti, scelse quella di una madre tedesca, Maria Bergama Sobbergamas, che aveva perduto il figlio durante i combattimenti della prima guerra mondiale: aveva disertato l’esercito austriaco. Ora, questa città, Trieste, con un tale risalto, con la storia del dopoguerra viene amputata dal resto d’Italia. Per un tempo, sino al 1954, è sotto l’amministrazione inglese. Corre il rischio di entrare a far parte della Jugoslavia. Mentre i comunisti italiani esaltano l’ipotesi. Poi quando torna a far parte dell’Italia, beh, i giochi sono fatti. Quella città è rimasta lontana, poco pronunciabile, non più il porto dell’impero austriaco, ma una città geograficamente marginale. I cui figli non stanno più a Trieste, ma appena possono se ne vanno a cercare fortuna nel resto d’Italia. Valga per tutti il caso di Renzo Rosso, scrittore anche lui dimenticato, in realtà tra i più grandi negli anni sessanta-ottanta.

Come si fondono eroi e suicidi in quella città?
A volte è la stessa persona, è il caso lampante di Carlo Stuparich, suddito austriaco ma volontario nell’esercito italiano. Intellettuale di grande raffinatezza, ha 22 anni quando viene circondato dagli austriaci lì su una collina. Se venisse preso prigioniero sarebbe impiccato. Un eroe suicida, che è anche un ebreo: sono queste le tre valenze fondamentali di questa straordinaria città. Un eroe intellettuale e assieme un suicida. La bellezza di questa Trieste italiana è che nasce lì dove c’è un fiume di etnie, religioni, razze. Quindi Svevo è soltanto un eroe della letteratura, in una città che come capitale del moderno vive in anticipo tutte le febbri del moderno. E chi legge Svevo potrebbe essere nella Milano o nella Roma dei tardi anni trenta. Quella città semplicemente era in anticipo sul resto dell’Italia, una città borghese dirimpetto alla Vienna di Freud, all’Austria della grande cultura.

Da non triestino si impegna a richiamare l’intimità di Trieste: perchè e come ci è riuscito?
Perchè le uniche cose che contano sono quelle che stanno nella testa. Io non ho più alcun interesse di quello che accade. In questi mesi ho pensato ad un certo punto di fare una capatina a Trieste: la città che mi stava a cuore era quella della mia fantasia. Che avevo un po’imparato a conoscere con alcuni libri: Svevo, Stuparich, Saba.

E’proprio questa inquietudine interiore a spingere verso una ricchezza, come summa di contrasti?
Le cose non coincidono a perfezione, nel senso che il commercio è una cosa e il commercio delle idee un’altra. Però le due cose non sono neppure contrastanti. Era una città aperta al mondo, nella quale contemporaneamente si parlava il dialetto triestino, l’italiano, lo sloveno, l’inglese ed il tedesco: vera punta dell’Europa e delle capitali europee. In un’Italia dove altrimenti si parla il dialetto regionale, la cultura è fondata sul latinorum o sul rimpianto delle vecchie zie. Mentre Trieste è una città dove è spietata la legge del dare e dell’avere. Svevo viene mandato da suo padre a studiare il tedesco, non perché suo padre volesse che mandasse a memoria Freud o Nietsche, ma perché doveva imparare la lingua del business. Poi naturalmente Svevo invece legge proprio Nietsche e Freud, Otto Weininger: questo tempio eretto alla misogenia di inizio secolo. Un autore, quest’ultimo, oggi molto dimenticato. Circolano quindi queste idee, questi umori, queste passioni: mammamia, che città!

Cito: “Se uno che scrive non ci caccia nei guai, che razza di scrittore è?”. Crede che gli scrittori oggi evitino quei guai?
In un mercato editoriale come quello di adesso, questo libro è di difficile apprezzamento. Certo, se ne avessi scritto uno sulla biografia di Berlusconi o una filippica contro la camorra…

Sull’Italia di oggi, qualche tempo fa, ha detto che è un altro Paese, né migliore né peggiore. Il raffronto invece di quella Trieste di ieri con quella odierna, può essere attualizzato con la sua riflessione?
Trieste è una cosa, il resto d’Italia un’altra. Non si può chiedere alla Trieste di oggi un raffronto con quel passato, di Svevo, di Saba. L’Italia, invece, l’abbiano davanti. Dopo gli anni sessanta, gli anni di piombo, il benessere in parte fasullo degli anni ottanta, e poi tangentopoli. E, questa, che io definisco la tragedia della seconda repubblica, che in questo momento è nel pieno del suo esercizio. Siamo arrivati al punto di avere un non- governo ed una non-opposizione. In quanto non vi è né una forza politica degna di governare, né una che sia degna di esercitare l’indispensabile diritto e dovere dell’opposizione.

Come uscirne, dunque?
L’unico vantaggio che ho è che non appartengo alle nuove generazioni, non ho questa responsabilità. Io la vedo senza uscita. E’come la retorica fasulla sull’unità d’Italia, figuriamoci se non siamo tutti per l’unità. Ma poi questa unità dov’è? Le regioni, le generazioni e le fazioni sono l’una contro l’altra, armate. Non c’è un linguaggio comune, non vi è un tessuto di riconoscibilità delle parole.

Gian Antonio Stella: «Non mi piacciono i leader troppo adorati»


Dal Futurista del 27/03/11

“Mi fa paura un leader adorato in questo modo dai suoi adepti.” Gian Antonio Stella, giornalista del Corriere della Sera e autore assieme a Roberto Faenza e Sergio Rizzo di Silvio Forever, definisce così il rapporto di pancia che si è instaurato tra la gente e l’idolo politico rappresentato da Silvio Berlusconi. E aggiunge: il suo rapporto con le donne? “Riassunto nel modo in cui ha chiamato le ministre del suo governo, le mie bambine. Nessun capo di governo del mondo oserebbe dirlo, altrove una ministra definita bambina dal Presidente del Consiglio si toglierebbe scarpa per tirargliela addosso”.

Dalla Casta a Silvio forever: un altro racconto, ma dello stesso Paese?
Sì, perché il ritratto di Berlusconi è il ritratto dell’Italia. Si vedono tantissime folle che lo adorano come nessuno è stato adorato.
Da questo punto di vista starei in guardia, non mi piacciono i leader adorati, non mi piacciono né se sono comunisti, fascisti o democratici. Era stato Previti il primo a parlare di centralismo carismatico: non mi piacciono i leader il cui carisma si trasforma in adorazione, di qualunque colore sia. E in questo senso non mi piace questa faccia di Berlusconi. Mi fa paura la sua adorazione, ugualmente se fosse adorazione nei confronti di D’Alema o Prodi. Se io fossi Berlusconi sfuggirei a questo sentimento dei suoi adepti, ma a lui piace. E che ci posso fare?

Il film appena uscito è il ritratto di un uomo col pennello dell’ironia.
Siamo partiti da quell’antico motto teatrale che recitava ridendo castigat mores, scritto qualche secolo fa. Cioè invecchia sorridendo i costumi.

Lo avete presentato come un film non pregiudizievole, ma un lavoro meramente giornalistico: con che finalità?
Il film ha una tesi, solo che ci chiamiamo fuori dai giochi dei sostenitori berlusconiani e degli antiberlusconiani.

Che Berlusconi viene fuori da questo affresco?
Un Berlusconi in tutta la sua meraviglia, detto con ironia. Nel senso che è un uomo così’ eccessivo in tutto: nelle barzellette, nella violenza verbale, nell’autocommiserazione, nella lamentela per gli attacchi, nell’amore per i suoi fedeli, nel rapporto con quelli che sono innamorati di lui e con le donne. Per cui risulta irresistibilmente adorabile per chi lo ama, e irresistibilmente detestabile per chi lo disprezza.

A proposito di donne, è significativo il ruolo della signora Rosa: assieme alla figlia Marina, due figure molto presenti nella sua vita. Con quali ripercussioni?
Cita anche le ex mogli, però ha avuto un rapporto fortissimo con sua madre. Quanto a sua figlia, che gli assomiglia tantissimo, è l’unica sulla quale ha investito davvero. Perché le ha messo in mano la Mondadori. Ma certo anche con il resto delle donne ha un rapporto che può essere riassunto nel modo in cui ha chiamato le ministre del suo governo, “le mie bambine”. Nessun capo di governo del mondo oserebbe dirlo, altrove una ministra definita bambina dal Presidente del Consiglio si toglierebbe scarpa per tirargliela addosso.

Dalla scelta di tratteggiare un ritratto a trecentosessanta gradi ne risulta uno più pubblico o privato?
Le due cose in Berlusconi si mischiano, per questo a nessuno di noi sarebbe venuto in mente di mettere in un film la mamma di Andreotti o di Prodi. Anzi, ce lo chiediamo: ne hanno avuta una? Per Berlusconi invece è diverso: lui ha tirato in mezzo sua madre, i suoi figli, si è fatto fotografare con i bambini. Le famiglie sono state funzionali alla sua politica. E’per questo che noi abbiamo dovuto attenzionarle nel film. Contrariamente non ci sarebbe stato senso. Per dirne una, non so neanche se Andreotti abbia dei figli o quanti ne abbia. Perché con Berlusconi tutto si mescola, il pubblico ed il privato: gli affari suoi, quelli dello Stato. Gli accordi con Putin, ad esempio, sono per lo Stato italiano o riguardano anche lui? E quelli con Gheddafi? Lo ha ricordato anche Indro Montanelli nel film, era chiarissimo che avrebbe confuso le due sfere. Ma lo ammette lui stesso, quando del conflitto di interessi dice: bisogna intendersi, quando “faccio l’interesse mio e non quello di tutti c’è il conflitto. Se faccio l’interesse di tutti facendo anche il mio, allora il conflitto non c’è”. Una visione eccentrica, che all’estero gli costerebbe la poltrona, da noi ormai no.

Sarebbe stato troppo più facile pensare un film perfido?
Certo, troppo facile un film tutto contro. Che senso ci sarebbe? A noi non interessa massaggiare le convinzioni di chi è convinto che Berlusconi sia il peggio del peggio. Abbiamo voluto raccontare una storia, nel modo più ironico e distaccato possibile. Poi confidiamo nell’intelligenza di spettatori e cittadini che vedendolo diranno: “porca miseria che roba”. E decideranno se sarà il caso di innamorarsi nuovamente di Berlusconi o meno.

Nessuno come lui ha un rapporto così di pancia con il Paese: crede che il vostro lavoro gli piacerà?
Non ne ho idea, certo alcune cose non gli piaceranno. Perché vorrebbe dimenticarle. Vorrebbe anche cancellare le foto in cui ha pochi capelli, o la bocca storta. E’chiaro che determinate cose che sono fuori dall’autoincensamento non saranno di suo gradimento.

E ai cosiddetti berluscones farà storcere il naso?
Ho visto le reazioni del Foglio, di Libero e del Giornale: almeno di quello ci hanno dato atto. Noi non siamo partiti per fare un film contro il nemico Berlusconi, è una logica che non ci appartiene. E’ridicolo solo pensare che ci sia una briciola di odio nel lavoro che abbiamo fatto. Divertimento sì, ci siamo comportati come quegli studiosi che prendono una farfalla e poi la guardano per capire com’è fatta.

Crede che al Paese storie come questa servano ancora per approfondire, comprendere e ragionare sugli eventi e su chi li pone in essere?
Usando un linguaggio comprensibile a tutti, sì. Altrimenti no. Spero che il film sia visto da tanta gente. Anche perché non c’è una lira, o un euro di finanziamento pubblico, tutto è autoprodotto. Noi abbiamo lavorato gratis, la maggior parte delle spese è stata impiegata per comprare i diritti dei filmati dalle tv straniere. E perché in Italia è diventato tutto complicato. Forse sarà noto anche ai vostri lettori, ma Berlusconi qualche proprietà ce l’ha. Non di tutto avevamo l’audio, quindi non c’era verso quando eravamo in presenza di uno rovinato. Che è stato sostituito dalla voce di Neri Marcorè, non caricaturale ma un’imitazione in cui cerca di somigliargli il più possibile.

Quale l’anomalia più grande? Il popolo che adora in maniera così evidente, o il leader, anomalo per mille ragioni, così adorato?
Ha un carattere assolutamente anomalo, come è anomalo il conflitto di interessi, il rapporto che ha con gli elettori, che a volte non sono solo semplice elettori ma veri e propri adepti. Anomala è la carica di ostilità, che a volte è anche odio, da parte degli antiberlusconiani più accesi e più apocalittici. Anomalo il modo con cui lui ed i suoi nemici si affrontano: è come se ogni volta in caso di vittoria dell’uno o dell’altro, la Terra dovesse piegarsi su se stessa, e il polo nord arrivare al polo sud, o essiccarsi la foresta Amazzonica, o inondarsi il Sahara. E’ridicolo questo modo di affrontarsi. Ed è una delle tante anomalie riprodotte da questo scontro micidiale intorno alla figura di un uomo che, proprio per questo, appare molto interessante.

Franco Bomprezzi: «Fratelli d’Italia o scrocconi?»


Dal Futurista del 26/03/11

“Scrocconi” e accanto un’immagine molto chiara. Una carrozzina stilizzata, con un Pinocchio altrettanto stilizzato, ed il sommario che rimanda ad un’inchiesta sui furbi che fregano l’Inps. E’la copertina dell’ultimo numero del settimanale Panorama, che ha procurato un senso di nausea al giornalista e scrittore Franco Bomprezzi, definitosi “giornalista a rotelle che vive libero e vorrebbe restarlo”. E che si è interrogato su quale sia l’immagine reale del Paese: se “Fratelli d’Italia” o se quella degli scrocconi, come da infausto titolo.

Per qualche giorno, ha scritto di aver nutrito “l’illusione di un Paese nuovamente unito”. Poi quella copertina di Panorama.

Vorrebbe farci ripiombare nella tentazione che si ha il bisogno in questo momento di trovare qualche nemico. Sul quale scaricare la tensione sociale di una crisi che rende tutto più complicato. Ecco l’amarezza: individuare nei disabili un obiettivo, i colpevoli che rendono difficile lo sviluppo del Paese. In realtà è una cosa che dura da tempo, da quando il ministro Tremonti ha espressamente dichiarato, nell’avviare la campagna sui falsi invalidi, che questo Paese non si può permettere due milioni e settecentomila invalidi. E’più o meno la statistica media mondiale, non vi vedo nulla di straordinario. Non è che nel frattempo in questi anni forze dell’ordine e magistratura non abbiano fatto nulla. Tanto è vero che le storie di falsa disabilità sono ben note alle cronache.

Simboli come la carrozzina per deviare l'attenzione altrove: strategia ormai diffusa?
Si possono fare inchieste, servizi di qualsiasi tipo, ci mancherebbe: ma non utilizzare in modo così irresponsabile un simbolo che viene tra l’altro impiegato per connotare le persone con un handicap vero. La carrozzina è il simbolo internazionale della disabilità. Magari un simbolo un po’vecchio, che non rappresenta ovviamente il tutto ma una sola parte. Perché vi sono anche persone che non siedono su di essa. Ma è universalmente considerata come qualcosa che la connota. Metterla in copertina con quel titolo “scrocconi”, appare un’operazione piuttosto imbarazzante.

Lontano anni luce il Panorama di quattro lustri fa?
Fui uno dei primi abbonati a quel Panorama, quando ero ragazzo. Un settimanale che giunse a fare un’operazione di giornalismo anglosassone, con uno dei primi titoli “i fatti separati dalle opinioni”. Lo ricordo bene, Lamberto Sechi era un grande direttore, quello che portò in Italia ciò che era Newsweek in America. Aiutandoci a fare un giornalismo da settimanale di inchiesta. Davvero sembra preistoria, un altro mondo.

Perché crede che dietro quella copertina ci sia un disegno mediatico?
Vedo molti segnali in questa direzione. Il primo è proprio nell’operazione ormai insistita da parte dell’Inps, chiamata dal ministero dell’Economia a fare un lavoro di riduzione della spesa sociale della disabilità. Perché dietro i controlli monotematici, che hanno certamente un ampio consenso sociale, si pensa di scovare il tipico malaffare italiano, quell’indignazione come rito collettivo. Siamo ormai abituati dai media a scoprire che siamo un popolo di imbroglioni, specialmente al sud. Quindi anche con una connotazione territoriale molto ben precisa. Questa campagna di controlli in realtà sta soprattutto portando a sospendere o togliere provvedimenti economici già minimi, come le indennità di accompagnamento, a persone che ne hanno pienamente diritto. Facendo leva su un dubbio: ciò porta ad un enorme contenzioso, e al di là delle cifre dichiarate dal presidente dell’Inps, che vengono usate molto male. Quando si parla infatti di una pensione ritirata su quattro, in realtà ci si riferisce ad una su quattro di quelle controllate. Un dato che non arriva nemmeno al 25% del totale. Credo che ci sia una gran confusione sulle cifre e una voglia di indicare un nemico sociale. Una situazione che mi ha ricordato molto da vicino ciò che è accaduto durante il nazismo, non ovviamente con la medesima preoccupazione e le estreme conseguenze. Ma l’atteggiamento culturale e comunicativo è stato molto forte. Basti pensare all’episodio, piccolo ma inquietante, di quella bufala diffusa su internet di imprenditori meritocratici, protagonisti di una campagna contro i disabili nel mondo del lavoro. Che purtroppo stava già prendendo piede attraverso la rete. Si comprende bene che il clima nel quale stiamo vivendo favorisce i peggiori pensieri ed i peggiori atteggiamenti. Nonostante il Paese abbia un tessuto sociale forte, buone leggi e anche una radicata esperienza a livello internazionale del movimento delle persone disabili.

Danno forse fastidio allora quelle strade piene di gente sorridente il 17 marzo scorso, e quelle parole del Capo dello Stato per un clima maggiormente unitario?
Sono davvero convinto che quella sia la strada giusta, il Paese deve riconciliarsi con se stesso e con la propria memoria, con la propria storia positiva. Luci ed ombre, certamente, non mancano, ma è un Paese che merita di riconoscersi in ciò che il Presidente Napolitano in questi mesi ha ribadito ad ogni piè sospinto. E non solo lui. Occorre maggiore coesione sociale, spirito di sacrificio condiviso, perché ne vale la pena e non perché siamo un Paese di farabutti o di gente che cerca sempre di imbrogliare. Da quella parte non si va, si rischierebbe soltanto di avvitare la Nazione nell’egoismo e nel cinismo più spietato. E la medesima situazione dei cittadini disabili potremmo viverla in ganti altri ambiti, come il lavoro, l’immigrazione. Che potrebbero trovare soluzione, indipendentemente dalla collocazione politica. Ricordo che tutte le leggi sulla disabilità sono state approvate in modo bipartisan, praticamente all’unanimità. Possibile, mi chiedo, che si smarrisca così tanto il senso della convivenza civile e della responsabilità sociale? Questo è l’aspetto che mi preoccupa di più.

Perché crede ci sia sempre la volontà di spaccare il Paese in due, come se tutto fosse riconducibile ad una barricata, con buoni da una parte e cattivi dall’altra?
La paura che un sistema di potere politico non corrisponda più ad un consenso reale nel Paese, porta ad alzare i toni e ad inventare sempre nuove guerre interne, per ricompattare le schiere. Ed essere sicuri che in caso di “scontro finale” prevarrebbe la parte conservatrice del Paese. A me pare che questo sia un colpo sbagliato. Si tenga conto, inoltre, che non esiste un solo modo di essere conservatori, ma tante posizioni differenti. Il nostro è un Paese sostanzialmente moderato, in cui la sinistra ha una sua notevole forza. E la destra ha fatto un percorso importante di avvicinamento a valori della destra sociale, che hanno sempre avuto una capacità di essere concretamente nei temi della società. Credo che dovremmo recuperare questo tipo di dialogo politico, mentre c’è chi vorrebbe portarci nella direzione opposta.