mercoledì 29 febbraio 2012

Se a rischiare il default è la vecchia politica…

Se Dio ci ha dato una bocca e due orecchie, riportava un detto rabbinico, è per ricordarci che dobbiamo saper ascoltare il doppio di quanto parliamo. Ovvero valutare le esigenze contingenti che il momento presenta e calibrare su di esse una proposta programmatica seria ed efficace. Contrariamente si corre il rischio di "girare a vuoto", ignorando colposamente l´ambito e le condizioni in cui ci si muove e si agisce. Questa la consapevolezza della moderna proposta politica, all´indomani del fondamentale passaggio storico che ci siamo lasciati alle spalle. Quando, ormai, a ben poco serve inforcare gli occhiali del passato. Dal momento che i vocaboli e i vocabolari del novecento semplicemente non possono più essere utili. E allora occorre rinnovare, puntando, perché no, tutte le fiches sui progetti e non sulle appartenenze.

Ecco perché di fronte a sfide di portata mondiale appare improduttivo fermarsi ancora a ragionare (e farsi bloccare) su provenienze e percorsi, su appartenenze veteroideologiche o compagni di viaggio. Ma puntare dritti verso la meta, nella consapevolezza che la curva storica che il paese sta affrontando non consente sbavature. Laburisti o conservatori, progressisti o moderati: contano ancora tali classificazioni di fronte a questioni epocali? Il rischio-default, l'ambientalismo del terzo millennio, la disoccupazione galoppante, il divario industriale tra Europa di serie A e quella di serie B, la fuga dei cervelli in Australia o Stati Uniti, la ricerca rimasta senza ossigeno, il Mezzogiorno in perenne ritardo e le aziende del nord est in affanno: sono solo alcuni dei grandi dossier sul tavolo (non solo) del governo italiano, che necessitano di risposte.

L´eccezionalità del momento sociopolitico mondiale e continentale dovrebbe invece far maturare la convinzione che non sarebbe utile smarrirsi dietro maglie di appartenenza o ricette buone forse fino a ieri. Ma unire forze e intenti per l'obiettivo unico, tale in quanto coinvolge il bene comune della collettività e non qualche singola corporazione in attesa di "piazzare" l´emendamento che le interessa. Un passaggio che sta sfuggendo, ad esempio a qualche vertice del Pd, dove non tutti fanno mostra di saper interpretare sfumature procedurali o priorità di intervento. Invece il partito dovrebbe accettare, come da invito di Stefano Cappellini, caporedattore centrale del Messaggero in una recente intervista a Formiche, che un grande partito abbia componenti diverse e che "possa prevalerne una in un dato periodo storico, senza che le altre urlino al tradimento".

Il Partito Democratico, come ha osservato da queste colonne Andrea Peruzy, anche al di là dello specifico progetto politico-culturale della Feps, ha l´opportunità di farsi artefice di un progetto di trasformazione del socialismo europeo esplicandolo all´interno di una forza politica democratica e progressista di dimensioni continentali. Che da queste coordinate sia capace di proporre azioni e confrontarsi con la sfida della crisi economica internazionale. Come dire che, scrutando l´orizzonte politico da un particolare versante, tutto ciò che non appaia finalizzato all´obiettivo concreto, proprio in questa delicatissima fase storica, rischia di essere considerato come i titoli greci: spazzatura.

Fonte: Formiche di oggi

giovedì 23 febbraio 2012

Accordo con "naufragio" per la Grecia: default scongiurato ma il futuro è buio

Manolis ha cinquantadue anni, gestisce un bad and breakfast a Creta e un negozio di cornici. Le tasse della crisi lo hanno portato a chiudere il negozio e tenere il B&B, ma licenziando due dipendenti e richiamando suo figlio dall’università nella costosa Atene. Storie elleniche che fanno non da contorno ma da piatto principale alla cronaca. A pochi metri dal default sono stati sbloccati i 130 miliardi di aiuti per la Grecia commissariata dalla troika. Che ha anche provveduto a creare un conto corrente bloccato dove i greci verseranno gli interessi sul loro debito. “Tutti in piazza” titola il quotidiano di sinistra Rizospastisi, mentre Eleftherotypia punta su “Naufragio per le pensioni”, ipotecando realmente il futuro per i lavoratori. “Accordo chiuso, per il prestito e anche per…l’acconciatura” titola ironicamente il quotidiano Lamiakos Typos. Nei fatti non è ancora nulla sicuro, ammette al futurista Christos Alexandris, caporedattore della testata: «Al momento c’è solo un’assicurazione formale e una speranza per i cittadini, ma stiamo vivendo uno dei periodi più difficili della nostra storia». La decisione dell’eurogruppo auspichiamo sia «un punto di partenza per cambiare realmente le cose, vorremmo solo vedere dinanzi a noi giorni migliori».

Ma i numeri incombono sul futuro, perché non ci sono solo quelli ufficiali relativi ai centocinquantamila dipendenti pubblici da licenziare o al taglio di tredicesime, quattordicesime e indennità di servizio. Bensì vi è un’altra cifra di cui nessuno parla: la disoccupazione, giunta al 20% con il record europeo. «Difficile combatterla con tagli e tasse - aggiunge il giornalista - le aziende qui chiudono una dopo l’altra mica siamo ai tempi delle Olimpiadi, e lo stato licenzierà ancora. Tutto ciò contribuisce a comporre un quadro molto critico. Fino a questo momento non vediamo la luce in fondo al tunnel. E non ci sono investimenti».
Ma la protesta ellenica corre soprattutto in rete, dove lo slogan è “Barba, capelli e…tagli”, a cui la leader comunista Aleka Papariga aggiunge che in questo modo si sta guidando il popolo verso un sistema di debiti senza controllo.

Ma i partiti fino a ieri dov’erano? Un sondaggio diffuso oggi dal canale televisivo Mega certifica il crollo dei partiti ufficialmente di governo come i conservatori di Nea Democratia al 19%, e i socialisti del Pasok al 13%. Si tratta degli agglomerati politici che hanno governato nel bene ma soprattutto nel male il paese dal ’77 a oggi, e sempre in mano a due famiglie: i Papandreou e i Karamanlis. Che oggi i cittadini vedono come i principali responsabili di balzelli non riscossi e tangenti applicate (la Grecia figura tra i primi tre paesi europei per grado di corruzione). A salire, invece, le ali estreme: i comunisti del Kke e del Syriza rispettivamente con il 9,5% e con l’8,5; oltre al partito di estrema destra Laos che raccoglierebbe il 5,1%. Ma parallelamente alla flessione politica si ingrossa la schiera di cittadini nauseati dal sistema, con il 16% che si dice certamente convinto di astenersi alle prossime elezioni e il 10% che è ancora indeciso se votare o meno.
Significa che al netto di prestiti-ponte e spread, c’è un paese reale che deve fare i conti con la quotidianità e dovrà necessariamente cambiare abitudini e costumi.

Intanto quelle alimentari sono già state modificate, come riferito dalla Camera di Commercio ateniese. Uno studio rivela che per nove greci su dieci il piano alimentare settimanale è stato influenzato dalla crisi e un terzo degli intervistati ha ammesso di consumare carne solo una volta alla settimana, contro le 4/5 di due anni fa. Quando, della crisi, ne erano consapevoli solo i ministri dell’economia e i premier che si sono succeduti. Gli stessi che fino a questo momento non sono stati neanche interrogati dalla troika.

Fonte: Futurista quotidiano del 22/02/12

mercoledì 15 febbraio 2012

Grecia, ora una stagione da "bene comune"

Nell´antica Grecia al termine di una battaglia era costume raccogliere i cadaveri dei nemici e costruire un altare dove bruciare corpi e sconfitte, come fatto a Maratona con il celebre Soros. Oggi piazza Syntagma brulica dei detriti materiali ed emozionali della guerriglia urbana di ieri, quando il parlamento ha detto sì alle misure anticrisi imposte dalla troika. Ma in quella folla di manifestanti non tutti erano black-block e violenti, anzi la maggioranza era composta da una fascia di opinione che abbraccia tutto l´arco costituzionale ellenico. C´erano cittadini conservatori, socialisti, comunisti, ambientalisti, moderati e integralisti di destra. E di svariate attitudini, dal professionista allo studente, dall´impiegato statale all´agricoltore, passando per il disoccupato o il pensionato. Uniti nella gravità eccezionale del momento.

Quella massa di elettori ha di fatto dato un´indicazione su ciò che potrà accadere tra un mese e mezzo, quando le elezioni anticipate metteranno fine al governo tecnico (ma a metà) di Loukas Papademos. Che, dopo aver portato a casa l´approvazione del piano, toglierà il disturbo dal palcoscenico politico ellenico con lo stesso aplomb con cui vi aveva fatto ingresso solo tre mesi fa.

L´Europa chiedeva garanzie al governo di Atene, con i 199 sì della Voulì le ha ottenute, adesso si apre la possibilità per la politica di non replicare i macroscopici errori dell´ultimo ventennio e tentare di inaugurare una stagione "da bene comune" che nella storia recente del Paese è drammaticamente mancata. Proprio in questa direzione va letta la proposta del leader del partito Laos, Giorgio Karatzaferris, che in una lettera indirizzata al premier pochi giorni prima del voto, aveva invocato un rimpasto con l´avvicendamento di quei ministri "politici" che occupavano dicasteri significativi con tecnocrati, sull´esempio del governo italiano. «Mentre ci troviamo nell´ultima e decisiva fase della nostra difficile impresa per la salvezza del Paese - aveva scritto in quella missiva Karatzaferris - propongo per una serie di motivi, l´immediato rimpasto governativo, sull´esempio del governo Monti». L´esempio del governo italiano, quindi, da esportare al di là dell´Adriatico, dove l´esecutivo tecnico tale si è rivelato solo a metà, in quanto composto anche da esponenti politici, alcuni dei quali addirittura già presenti nel precedente esecutivo guidato dal socialista Papandreu.

Il paragone è utile per ragionare sul dopo, ovvero come ricominciare a fare politica (e non con la p minuscola) in un paese terremotato da anni di bilanci truccati e con un tessuto sociale che oggi si presenta frammentato e alla deriva, con sperequazioni sociali impressionanti e con sacche di nervosismo sociale da tenere sotto controllo per impedire che si trasformino in altra e deleteria violenza. Un passaggio significativo che, lontano da un certo bacchettonismo, vuol rilevare come il senso dell´azione vada al di là di numeri e dati, come ha ricordato il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei quando ha detto che "senza radici spirituali e culturali anche l'economia non sta in piedi".

È niente altro che l´invito alla riscoperta dell´uomo, che lo scrittore Petros Màrkaris, padre del Commissario Karìtos, edito in Italia da Bompiani e collaboratore del regista Theo Angelopulos da poco scomparso, ha più volte fatto alla burocrazia continentale: e se tentassimo di vivere da cittadini comunitari pensando meno "ragionieri" e più da fratelli continentali?

Fonte: Formiche.it del 14/02/12

lunedì 13 febbraio 2012

Ma non c'è Europa senza Grecia

La costruzione politica di un tessuto comune europeo non può che passare dalla non esclusione della Grecia dall’eurozona e, quindi, da una visione solidale di quanto sta accadendo al centro dell’Egeo. Al di là del merito di conti oggettivamente alterati, di bilanci incoscienti e di politiche da condannare senza se e senza ma, questo sia il momento della solidarietà e di una valutazione generale che non prescinda dalla logica. Salviamo la Grecia perché la Grecia è l’Europa, (è stata creata la pagina facebook SOS Grecia), è la culla di quella stessa civiltà che oggi invita a parlare come ragionieri prima che interrogarci sui valori fondanti della cultura continentale.

Ovvio che non si possa che accettare il piano dell'Ue, dal momento che per usare le parole del ministro delle finanze tedesco «al buco nero va messo un tappo». Ma senza l’astio di qualche commentatore scialbo, senza la frettolosa deviazione verso un’Unione di serie A e una di serie B, con due monete dal diverso peso specifico, con due sguardi differenti, con l’eterna contrapposizione tra il nord e il sud di un punto. Questo il passaggio culturale: essere europeisti oggi significa auspicare un’Unione senza defezioni, sforzarsi di provocare la crescita non solo con i tagli, ma con una politica continentale che è mancata, anelare a un allargamento vero e non solo di comodo.

Di contro è altrettanto ovvio che, condannando fermamente la violenza, non si possa non prestare l'orecchio al malessere sociale della gente. Sarebbe quello il segnale che l’unione non c’è, che è tutta disgregata, che gli insegnamenti di Atene, passata in pochi mesi da “polis” a “polemos”, sono stati vani, che Pericle e Socrate sono state solo due tediose parentesi scolastiche.

Quando, invece, se non vi fosse stato ad esempio il sacrificio delle Termopili oggi quei popoli teutonici che si mostrano di ghiaccio, avrebbero altro nome e altre terre.

Fonte: ilfuturista.it di oggi

Se le tolgono anche la sovranità...

Doppio schiaffo per la Grecia. Le cassandre dell’euro riunite a Davos l’hanno detto in tutte le lingue: dopo la Grecia toccherà al Portogallo uscire dall'euro entro l'anno, e dopo non molto sarà la volta dell'Irlanda e forse della Spagna. La scuola capeggiata da economisti pessimisti come Nouriel Roubini, celebre per aver predetto la crisi dei subprimes e per richiedere irresponsabilmente da anni il ritorno della Grecia alla dracma, si ingrossa. Ma dalla cittadina che ospita il Wordl Economic Forum è partita anche un’altra provocazione, che va ben al di là di battute o di previsioni più o meno rosee.
Come riportato dal Financial Times il governo tedesco, prima di concedere il secondo pacchetto di aiuti per il salvataggio per la Grecia, pretende che Atene ceda la sovranità sulle decisioni fiscali. E lo faccia nelle mani di uno speciale commissario di bilancio europeo. Il noto quotidiano cita a supporto fior di documenti a supporto della presa di posizione tedesca, scrivendo di una «estensione senza precedenti del controllo della Ue su uno stato membro». Quel pezzo di carta però giunge proprio mentre la Grecia sta rinegoziando un complicatissimo accordo di ristrutturazione del debito con i creditori privati.

Passaggio che dovrebbe rappresentare l’anticamera al un nuovo prestito da centotrenta miliardi di euro. Nel dettaglio, la cessione di sovranità significherebbe niente di meno che un vera e propria “invasione permanente”, con il commissario al bilancio dotato del potere di veto sulle decisioni di spesa e di imposizione fiscale prese da Atene. Una mossa contro tutti i trattati esistenti, contraria al principio di indipendenza dei singoli stati e contro anche qualche migliaio di altre norme e leggi.
Di contro Atene non sembra neanche prendere in considerazione la fanta-ipotesi tedesca: dal governo di Lucas Papademos replicano che non vi sarà alcuna cessione di sovranità, pur confermando l’esistenza di questa nota informale presentata all'Eurogruppo per l'attuazione permanente del controllo europeo sul bilancio della Grecia, «ma la Grecia – è il ragionamento che si fa nella Voulì di Piazza Sintagma - non vuole prendere in considerazione una simile eventualità, è escluso che noi l'accettiamo, queste competenze appartengono alla sovranità nazionale». In questa storia di prestiti scaduti, di eurobond che si tarda ad emettere, di scandali non ancora chiariti (come il coinvolgimento della multinazionale tedesca Siemens in occasione delle Olmpiadi del 2004 ad Atene) c’è da registrare la posizione della cancelliera Merkel. Da un lato assicura che Atene resterà nell’eurozona, annunciando alla Bild che «al momento ci sono 17 paesi dell'eurozona e io conto sul fatto che diventeranno di più, l'ho detto più di una volta: se fallisce l'euro fallisce l'Europa. Perché l'euro è stato un passo decisivo verso una integrazione più profonda, che non si può revocare senza gravi conseguenze e grandi rischi». Ma dall’altro non prende in considerazione altre strade che non siano quelle ufficiali. Come dire che le scottature ottenute da frau Angela nelle ultime consultazioni regionali hanno di fatto modificato (o lo stanno facendo) le sue valutazioni. Anche il premier italiano Mario Monti si è mostrato contrario al commissariamento, definendolo «un’idea folle» perché si tratta per di più di un’ipotesi di cui «ormai è difficile individuare l'autore».

Ma dov’è stato l’errore? Lo scrittore Petros Markaris, vincitore della Palma d’Oro a Cannes con il compianto Theo Angelopulos e padre del commissario Karitos, pubblicato in Italia in otto volumi da Bompiani, non ha dubbi: con l’ingresso nella moneta unica si sono trascurati i valori identificando l’Europa con l’euro. Ignorando le culture, le peculiarità, le storie diversissime che ogni stato membro ha. E individua nell’assenza di solidarietà il cancro del continente. Non era certo questa l’Europa sognata dai padri fondatori, l’italiano Altiero Spinelli su tutti. Non era certamente questa, né con questi burocrati che un bel giorno hanno deciso di commissariare uno stato. C’è chi come il titolare dell'Economia, Evangelos Venizelos, dichiara che il negoziato sul debito è sul filo del rasoio, usando espressioni come linea sottile tra il successo e il fallimento del negoziato.

Ma non bisogna dimenticare che la troika prosegue nel suo programma di austerity, proponendo al premier ellenico un altro piano di interventi da applicare subito, pena l’annullamento della nuova linea di credito bancario. Il paese però è in ginocchio e i sindacati hanno fatto intendere di non poter chiedere altri sacrifici a lavoratori già provati da riduzione dello stipendio, di tredicesime, di permessi, di indennità e con l’aggiunta di tasse schizzate a livelli record, e la benzina alle stelle. Come ha scritto il popolare quotidiano Katimerinì servono fino a tre mesi per gli appuntamenti con medici: è il risultato della grande riforma della salute, con squilibri legati al numero di visite, alla distribuzione dei medici. Si pensi che in 13 prefetture manca la pediatra. Taglia taglia, si è passati dallo spreco al caos.
A Salonicco i coltivatori di patate per protesta hanno distribuito 1.700 pacchi da sei libbre per i cittadini: dicono no al prezzo molto basso, quasi la metà del prezzo dei costi di produzione. Inoltre il 70% della loro produzione rimane invenduta, mentre le patate importate in Grecia dall'Egitto hanno una corsia preferenziale. E ancora, un altro passaggio delicatissimo è la cosiddetta “depressione interna”: la troika intende cassare la quasi totalità dei contratti nazionali del settore privato, far scendere lo stipendio base a 400 euro, e ridurre le pensioni integrative. Il tutto allo scopo di rendere più appetibile e competitivo l’intero sistema economico del paese, ma di fatto schiacciando il costo del lavoro ai livelli di Bulgaria e Romania. Con tanti saluti allo stato sociale e al welfare. Ecco la Grecia della quotidianità, che se ne infischia di note riservate, di riunioni semisegrete o di vertici improvvisati, ma deve fare i conti con i costi della crisi. Come spiegare a questa gente che il prossimo titolare dell’economia non sarà più un cittadino greco ma un burocrate dell’Ue? O, bene che vada, qualcuno che conosce già il paese per avervi trascorso piacevole vacanze in riva al mare? No, non è di queste boutade dal sapore imperialistico che l’Europa ha bisogno, ma di cervelli in fila che si sforzino di trovare soluzioni condivise e per tutti, non impulsi medievali che farebbero tornare indietro (tutti) di secoli. Al tempo delle invasioni barbariche, quando il più forte comandava sul più debole e la dichiarazione dei diritti dell’uomo non era ancora stata pensata né scritta. L’Europa per salvarsi ha un drammatico bisogno di politica e non solo di ragioneria.
Ad Atene però, come osserva Dimitri Delioanes, da trent’anni corrispondente in Italia della tv di stato Ert, sono in molti a volgere lo sguardo verso le idee neokeynesiane di Paul Krugman, Tim Worstall e Joseph Stieglitz. Dal momento che in questo modo sperano di poter convincere i tedeschi che questa è l’unica strada da imboccare. Ma, aggiunge, fino a questo momento con pochi risultati, anzi con la prospettiva di una troika ancora più determinata a tirare dritto «con il rischio di trovare alla fine solo macerie». Si accettano scommesse (solo in euro).

Fonte: Il futurista settimanale del 10/02/12

giovedì 9 febbraio 2012

La Lega ha nostalgia del cappio

Il pretesto è il decreto “svuota carceri”, su cui oggi il governo ha deciso di mettere la fiducia. Ma le invettive volgari e deliranti della Lega in Aula confermano un dato di fatto ormai assodato: il Carroccio ha nostalgia del “cappio”,
perché preda di quella visione giustizialista a intermittenza (si vedano le alleanze con Pdl e le convenienze elettorali ad hoc), perché intende il Parlamento
come un’osteria, anzi forse meno, perché altro non è se non un partito con la bava
alla bocca che rutta contro il tricolore e inveisce contro quello stesso sistema dal quale incassa fior di stipendi e di gettoni delle municipalizzate. La decisione del governo, per bocca del ministro per i Rapporti con il parlamento, Piero Giarda, produce una di quelle performaces in cui gli allievi del senatùr sono maestri. Urla
e sbraiti, subito dopo aver praticato l’ostruzionismo in discussione generale.

Il voto di fiducia si terrà giovedì a mezzogiorno, mentre le dichiarazioni di voto cominceranno domani mattina come deciso dalla conferenza dei capigruppo di Montecitorio. Una necessità alla quale non ci si poteva sottrarre, ha commentato il ministro della Giustizia Severino, sottolineando che l’unica motivazione che ha spinto il governo è stata «esclusivamente quella dei tempi, di fronte al rischio» dell’ostruzionismo «preannunciato e già messo in atto» dalla Lega. Ma i signorotti dal fazzoletto verde, dopo la parentesi governativa “pro Silvio sempre e comunque”, mostrano di non rendersi conto di come il sovraffollamento carcerario sia una criticità oggettiva. E innescano le consuete polemiche, improduttive e tediose. Il provvedimento è indispensabile, dal momento che il carcere non può essere inteso come occasione di umiliazione sociale.

Ma anche se così non fosse e prescindendo per un momento dal merito della questione, rimane l’amaro in bocca per un dna politico che tale non può definirsi. Fatto di strappi e volgarità elevate al cubo. La Lega, oggi come ieri, è solo questo.

Fonte: il futurista quotidiano del 9/02/12

martedì 7 febbraio 2012

Ipotesi "Monti" anche per la Grecia?

L’esempio del governo italiano da esportare al di là dell’Adriatico, dove il meltémi della crisi spira ormai inarrestabile. Monti e la sua squadra di “tecnocrati” potrebbero essere imitati anche dall’esecutivo di Lucas Papademos alla guida di una Grecia a un passo dal default. Lo chiede Giorgos Karatzaferis, il leader del Laos, partito di estrema destra che insieme ai socialisti del Pasok, e ai conservatori di Nea Democratia sostengono il governo di salvezza nazionale. In una lettera indirizzata al premier invoca un rimpasto con l’avvicendamento di quei ministri “politici” che occupano dicasteri delicati con tecnocrati, sull’esempio del governo italiano. «Mentre ci troviamo nell’ultima e decisiva fase della nostra difficile impresa per la salvezza del Paese – scrive Karatzaferris- propongo per una serie di motivi, l’immediato rimpasto governativo, sull’esempio del governo Monti».

E il duo “Merkozy” chiede alla Grecia di seguire l’esempio italiano per il risanamento. La politica intanto dice no al taglio di tredicesime e quattordicesime, (ma sì al taglio del 20% dei salari minimi, scesi da 500 a 400 euro mensili) al termine di un vertice nella notte tra ipartiti dopo il fallimento della riunione di ieri con la troika (domani nuovo e decisivo incontro). In mancanza di un accordo entro il 13 febbraio, il Paese non potrà rimborsare 14,5 miliardi di titoli e il fallimento sarà a un passo. La situazione, almeno al momento in cui scriviamo, è ancora sul filo del
rasoio. Come ha detto il presidente dell’Eurogruppo Juncker in un’intervista al settimanale Spiegel, gli aiuti alla Grecia non arriveranno a ogni costo, sottolineando che se Atene non rimetterà in ordine i propri conti un default potrebbe non essere evitato. Messaggio positivo dall’agenzia di rating Fitch: la Grecia accetterà “un’ordinata ristrutturazione del debito”, benché un “default” non debba essere sottovalutato”. Intanto domani sarà sciopero generale di 24 ore proposto contro il nuovo piano di austerity. E mentre la Commissione europea ha autorizzato l’estensione fino al 30 giugno dei due regimi di sostegno pubblico alle banche elleniche.

Fonte: Il futurista quotidiano del 6 febbraio 2012


Fonte: Il futurista quotidiano del 6 febbraio 2012

Quel nemico silenzioso che uccide ancora

Una sentenza tra pochi giorni, il 13 febbraio; la voglia di non piegare la testa per un pugno di quattrini (e non sono pochi); un nome, quello di Casale Monferrato, che fa rima con la piaga silenziosa del secolo. Ma è solo una delle mille storie di morte e di fabbriche che sono state scritte in Italia. Il nemico numero uno dei lavoratori biancorossieverdi si chiama amianto, un killer sotterraneo che ha colpito operai delle fabbriche, marittimi, personale in navigazione aerea, ferrotranvieri: tutti soggetti a rischio. Come gli operai della Fibronit di Bari morti negli ultimi trent’anni, assieme a molti familiari e a cittadini la cui unica colpa era solo di risiedere nei pressi di quella fabbrica. Prima che fosse chiusa e bonificata. O i lavoratori di quella che era definita la Stalingrado d’Italia, gli otto stabilimenti di Sesto San Giovanni, che nel 1994 contavano circa 42mila unità su una popolazione di 90mila abitanti. O come la storia di Calogero, esposto per quindici anni sino al 1999 perché in servizio alla Priolo-Augusta-Melilli di Siracusa, detta anche il triangolo della morte, dove tutto era in fibra di amianto, e nessuno, neanche chi era preposto alla vigilanza ed alla salvaguardia dei diritti dei lavoratori, si era premurato di allertarli in alcun modo. Braccia e sguardi che, nel pieno esercizio di un diritto costituzionale (il lavoro, su cui la nostra Repubblica è fondata) contemporaneamente erano colpiti da questo mostro a sei teste. Nel silenzio più totale.
Ma pur nelle difficoltà che storie del genere comportano, come i numerosissimi decessi e le migliaia di parenti ammalatisi, negli ultimi anni qualcosa si è mosso. Per la caparbia di chi ha detto “no” a una sorte già scritta, imbracciando il codice civile e quello penale e tentando di far valere i propri diritti, in primis quello alla salute. Sono così state avviate le prime richieste di risarcimento, con realtà sociali capillarmente diffuse su tutto il territorio nazionale, come l’Ona (Osservatorio Nazionale Amianto). Che, assieme ad una maturata consapevolezza sia da parte dell’opinione pubblica, sia da parte di chi ha scelto di non essere vittima passiva, ha prodotto alcuni risultati. Si pensi al processo torinese denominato “Pirelli bis” conclusosi lo scorso 19 gennaio, quando a giudizio sono andati alcuni casi di malattie professionali riconducibili all’amianto di trentasei operai impiegati tra il ‘54 e il ‘96 negli stabilimenti di Settimo Torinese. Condannati tredici ex dirigenti aziendali a pene che vanno dai 4 mesi e 15 giorni, ai 3 anni 2 mesi e 15 giorni, cinque assoluzioni. Dovevano rispondere del reato di omicidio colposo. I casi si erano manifestati per mesoteliomi pleurici e tumori alla vescica, purtroppo con venti operai su trentasei già deceduti. Le parti civili si erano però ritirate dal dibattimento dopo aver ricevuto sette milioni di euro in risarcimento. Il mesotelioma costituisce la causa di decesso di circa il 10% dei lavoratori esposti. Tutti i tipi di amianto sono cancerogeni, anche se in modo diverso: per cui per azzerare il rischio oncogeno occorre rendere nulla proprio l'esposizione.

Tale patologia evidenzia che il rischio è presente anche con inalazioni minime, dettaglio per cui in Italia i dati epidemiologici hanno fatto emergere un'altissima incidenza tra le mogli che lavavano le tute e tra i barbieri che tagliavano i capelli, dei lavoratori esposti. In questa direzione va la direttiva comunitaria 477/83/CEE, (norme “sulla protezione dei lavoratori contro i rischi connessi con l’esposizione all’amianto durante il lavoro”), che però in Italia venne recepita soltanto dopo la condanna della Corte di Giustizia dell'Unione Europea del 13.12.1990. Le polveri di amianto attraverso il circolo sanguigno raggiungono tutti gli organi: emerge che le basse esposizioni sono quindi dannose e, in alcuni soggetti particolarmente predisposti, o in particolari condizioni enzimatiche, possono essere sufficienti per innescare il processo cancerogeno. Oltre al caso Eternit di Torino, altri sono i procedimenti in corso. Come quello di Praia a Mare dove è stato ottenuto il rinvio a giudizio di tutti i responsabili: il processo è nella fase dibattimentale e il Tribunale di Paola ha accolto la richiesta di citazione della Presidenza del Consiglio e di enti locali, oltre alle società datrici di lavoro, quali responsabili civili per i danni subiti dalle vittime. Si pensi, ancora al caso di Portoscuso, in provincia di Cagliari, con appena seimila cittadini che lì vivono, ma con il triste record di leucemia infantile: la popolazione infatti accusa un’altissima percentuale di piombemia. Le cause? Il polo industriale più grande della Sardegna, dove hanno sede gli stabilimenti Nuova Samin (gruppo Eni), Eurallumina, Aluminia e Consal oltre a una centrale Enel.

Ma amianto non è solo sinonimo di morte e disperazione: sempre in quel luogo simbolo che prende il nome di Casale Monferrato, le scuole hanno battuto un colpo nella direzione contraria al killer invisibile. Hanno scritto la parola vita a caratteri cubitali grazie all’iniziativa di un “Laboratorio della memoria e della speranza, per una multinazionale contro l’amianto, giustizia, bonifica, ricerca”. I firmatari del protocollo sono i presidi delle diverse strutture scolastiche cittadine che nel progetto promosso da Afeva (l’associazione familiari e vittime dell’amianto) punta a costruire una memoria condivisa legata alla dannosità dell’amianto, al fine di informare e quindi prevenire, soprattutto in quelle realtà nazionali e internazionali dove ancora oggi l’amianto viene estratto e lavorato. E ancora, l’Ona non solo sta scandagliando in modo particolare le province lombarde confermando l’emergenza amianto nella metropoli meneghina, ma sta tentando di allargare il proprio raggio di azione anche sulla somministrazione di protesi difettose, che sono state impiantate in centinaia di pazienti, alcuni dei quali non ne avevano alcuna necessità, e che continua nonostante le numerose denunce. Per questo è stata depositata un’ulteriore richiesta al Procuratore della Repubblica di Latina affinché intervenga, per tutelare la pubblica incolumità e per evitare che altri subiscano la stessa sorte. Inoltre ad Avellino, i militanti dell’Associazione Osservatorio Nazionale Amianto, unitamente ai dirigenti locali hanno già depositato ulteriore denuncia-querela alla Procura della Repubblica competente per il rischio amianto che colpisce l’intera popolazione, richiedendo in gran forza la bonifica dei siti inquinati.

«Se ne andavano alla vita come allora si usava di certo, senza alibi e senza paura a lavorare senza un difetto. Se ne andavano alla vita come giovani assonnati al mattino, con due sigarette in bocca da fumare contro il destino». Inizia così la canzone Cooperativa Vapordotti di Marco Chiavistelli, scritta per le vittime dell’amianto in una piccola realtà industriale dell’Alta Val di Cecina, decimata dalle morti invisibili. Scritta per combattere un nemico senza colore né forma che, sotterraneo, si è insinuato nelle vite di migliaia di lavoratori e delle loro famiglie. Inutile abbozzare numeri e dati, purtroppo destinati a moltiplicarsi vertiginosamente, in alcuni casi beffati anche da una giustizia lenta e a volte cieca. Questa è la storia di un popolo di dimenticati, gente che non solo ha trascorso anni interi in ambienti di lavoro difficili e complessi. Ma che non ha ricevuto ciò che, prima di ogni altra cosa, qualsiasi persona merita: il rispetto per l’essere umano.

Fonte: Il futurista settimanale n.34

sabato 4 febbraio 2012

Acab, la cavalcata selvaggia di un odio liquido

La cavalcata selvaggia di un odio liquido, che crea continua instabilità. La sensazione di essere seduti perennemente su di una polveriera eterna, attorno a cui gravita un senso di esplosione incombente. Ecco spiegato l’andamento «carsico dei fattori di odio e di violenza», che nella contrapposizione tra poliziotti e ultrà emerge in tutta la sua imponenza. ACAB il libro, firmato dal giornalista di Repubblica Carlo Bonini, diventa oggi film per il grande schermo con i volti di Favino, Giallini, Nigro e per la regia di Sollima, autore di "Romanzo criminale". Il libro e ora il film rappresentano il tentativo di raccontare il nocciolo di un odio. Anche per evidenziare come sia fin troppo facile giudicare piuttosto che analizzare con coscienza certi risvolti italiani ancora più o meno oscuri. È stato il tentativo «di raccontare che nessuno è davvero immune dall’odio e dalla rabbia – riflette al Futurista Carlo Bonini – sia in qualche modo il paese ma in modo particolare una sua parte consistente: quelle giovani generazioni che in questi anni hanno subito una sorta di contagio progressivo che si è alimentato di una condizione sociale, di una solitudine politica, oltre ad un’ incultura politica, quale essa sia.

Ma anche di parole d’ordine e di un linguaggio irresponsabili». Tutto questo ha finito per creare una situazione in cui nessuno è stato estraneo a tale contagio, neanche gli uomini che indossano la divisa della Polizia di Stato. Si è così creata una situazione di «odio liquido che produce una continua instabilità, una direttrice attraverso cui rendersi conto delle continue esplosioni di violenza». Lunghi, medi o brevi periodi di quiete, li definisce Bonini, fino alla successiva deflagrazione. Una parabola per cui poi la violenza cresce di qualità, con un tratto distintivo comune: la perdita progressiva della percezione della violenza, del valore della vita umana. Il racconto dipinge chi nell’immaginario collettivo ha le sembianze di un potere fisicamente forte, che si scopre poi fragile e con pertugi di crepe. Come il personaggio di Negro, uno schizzato che trasferisce sul campo i suoi disturbi personali. «In una rappresentazione autoassolutoria potremmo individuare i buoni da una parte e i cattivi dall’altra – spiega - con il bianco e il nero ben distinti: in realtà c’è tanto grigio, per cui anche il poliziotto porta in strada l’intero carico di sofferenza personale che condivide spesso con i suoi antagonisti». Può essere il problema della casa, dei rapporti interpersonali, ma anche a un lavoro che ti depriva affettivamente. Dal momento che viviamo in un paese dove mancano quelli che si definivano fino a ieri “corpi intermedi”, ovvero il partito, la parrocchia, il circolo, ecco che la solitudine secondo l’inchiestista di Repubblica risulta implementata. Diventando uno spaventoso incubatore di violenza e un suo moltiplicatore. È il problema di quasi tutti i protagonisti della storia, sono uomini soli, nonostante siano affratellati in un clan, contrapposto a quello degli ultrà. Due mondi che trovano nello scontro il drammatico punto di contatto: «È come se fossero due metà della stessa mela, dal punto di vita socioantropologico. Gli uni e gli altri alla fine scoprono di essere molto più simili di quanto non immaginino». Aprire uno scrigno di storie simili non deve essere stato indolore? «Ho provato tanta emozione, come quando si penetra per la prima volta un mondo chiuso, come quelli in questione.

Che hanno proprie regole di appartenenza, gesti e comportamenti peculiari. Da osservare senza l’angoscia di qualsiasi sovrastruttura che di fatto sarebbe una zavorra mentale: un pregiudizio nel senso letterale del termine, ovvero un giudizio già maturato». Pertugio che incarna alla perfezione la criticità italiana, ovvero un paese che preferisce dare giudizi piuttosto che sforzarsi di ragionare e analizzare comportamenti e derive. Da questo punto di vista il libro, e a maggior ragione il film, sono molto disturbanti. La cosa in assoluto «più disturbante per ciascuno di noi è raccontarsi la verità, che ha sempre una sua meravigliosa complessità, semplice nel senso che risulta oggettiva, ma normalmente la semplicità oggettiva dei fatti poi apre a un quadro di straordinarie contraddizioni». Un passaggio molto doloroso, significa dover fare i conti con le forme più diverse di pregiudizio. Mentre un paese maturo è abituato a coltivare questo tipo di approccio, è la traccia del ragionamento di Bonini, il nostro lo rifugge. E quando è obbligato a farlo, sempre troppo tardi, in quel momento si dispera. «Da questo punto di vita noi siamo dei campioni, quanto a raccontarci, tardi e male, la verità. In passato questo percorso era accompagnato da una marcata caratterizzazione ideologica del dibattito pubblico, e le ideologi di fatto impedivano tale esercizio. Oggi nonostante l’assenza della pesantezza di quel contesto, permane l’incapacità». Vi è un problema culturale evidente, molti sociologi sostengono che in questo blocco c’è un portato della nostra marcata cattolicità, rispetto a paesi protestanti che sono nella logica del peccato e del perdono. Ciò ovviamente allontana l’esercizio crudele dell’approccio alla verità, perché il perdono dopo il peccato accorcia ed elimina tale sofferenza. «Però penso che il nostro paese ne avrebbe un gran bisogno: guardare dentro se stesso con gli occhi finalmente aperti nelle pieghe delle sue dinamiche sociali». La strada da imboccare, ancora una volta, è quella del racconto: «Non penso sia un esercizio retorico tentare una sorta di spurgo delle tossine di questi due mondi, un po’come si dovrebbe fare per la memoria del terrorismo. Il tempo non passa a vuoto, il succedersi delle generazioni serve proprio a questo. Penso che la pacificazione non possa passare attraverso l’elusione della memoria, ma solo attraverso la costruzione proprio di una memoria condivisa, rispetto al nostro passato prossimo e alle nostre radici». Da mettere per un momento da parte e iniziare finalmente a parlarsi. Senza più paura.

Fonte: Il futurista settimanale del 25/01/12