martedì 22 dicembre 2009

LE NUOVE GENERAZIONI? SONO PORTATRICI SANE DI VALORI

Da Ffwebmagazine del 22/12/09

Ha scelto musicisti giovani, non celebri, assetati di successo e di fama. Quelli, per intenderci, che non hanno ancora scalato la montagna. E che, forse per questo, hanno negli occhi quell’energia e quella forza che li sosterrà a lungo. Li ha scelti e li ha fatti suonare in un luogo speciale, non un auditorium qualsiasi. Nell’emiciclo del Senato, simbolo delle istituzioni, lasciando che eseguissero la quinta sinfonia di Beethoven e, per il bis, il don Pasquale di Donizetti. E dopo gli applausi, ha rivolto lo sguardo alle autorità presenti.

Dalla musica un invito al paese: le nuove generazioni sono portatrici sane di valori. Il maestro Riccardo Muti ha scelto di presentare con queste parole l’orchestra Cherubini, con la quale si è esibito al Senato per il concerto di Natale, il cui ricavato è stato donato all’Ospedale pediatrico Bambin Gesù di Roma. E lo ha fatto dinanzi alle più alte cariche dello Stato, Giorgio Napolitano, i presidenti delle Camere, quello della Consulta Amirante, il cardinal Bertone. Perché «nel paese lacerato da veleni e tensioni - ha scandito con l’inconfondibile solennità che lo contraddistingue - Cherubini è la dimostrazione che i giovani incarnano i valori. Giovani che hanno intrapreso la strada della bellezza e che operano non per studiare in una stanzetta, ma per portare la musica nella società. Una società che dovrebbe saperli ascoltare e sostenere».

Giovani e società, un binomio spesso stonato, dove i primi faticano a vedersi legittimati dalla seconda. Dove il ritornello sulla fuga dei migliori è stancamente ripetuto a ogni occasione. Ma non in questa. Perché il maestro Muti, che il prossimo anno verrà chiamato a dirigere lo stabile di Chicago, ha fatto qualcosa di più intenso. Avrebbe potuto scegliere ben altri interpreti per il concerto natalizio, più esperti, più titolati, più conosciuti. Ci sarebbero stati più flash a immortalare la scena, con titoli e controtitoli più forti. Insomma, avrebbe potuto essere lui il protagonista, in tutti i sensi.

E invece ha voluto dare un segno, vero e non di plastica. Ha voluto che in un luogo che rappresenta le istituzioni, basi dello Stato e della società, gli applausi fossero concentrati per un gruppo di ragazzi. Professionisti, formati dopo anni di studio e che incarnano alla perfezione il futuro della società e, di conseguenza, del paese. Una mossa assolutamente significativa, che deve far aprire gli occhi realmente, e non solo con vuoti proclami, sulla sofferenza che le giovani generazioni accusano in Italia. Forse è stato proprio quel livello di consensi indiscusso, con riconoscimenti in tutto il mondo, che hanno fatto scattare l’orgoglio del maestro nato a Napoli ma dalle origini pugliesi. E che lo hanno spinto a lanciare un monito alla politica.

L’Orchestra giovanile “Luigi Cherubini”, da lui fondata nel 2004, è composta da giovani musicisti selezionati da una commissione internazionale tra più di seicento strumentisti provenienti da tutte le regioni italiane. Proprio assieme alla giovane orchestra il maestro Muti sta affrontando dal 2007 un progetto triennale sulla riscoperta e la valorizzazione del patrimonio musicale ed operistico del settecento napoletano, nell’ambito di una collaborazione con il Festival di Pentecoste fondato da Karajan. Nel marzo 2007 l’ha diretta in un concerto nella Basilica di San Francesco ad Arezzo, accanto agli affreschi di Piero della Francesca, in occasione del Festival musicale promosso dall’Ente Filarmonico Italiano. «La critica e il pubblico hanno notato che con la "Cherubini" Riccardo Muti fraseggia da par suo con toccante e sicura delicatezza - si legge su Wikipedia - e che i nostri migliori talenti - oramai orchestra - con lui e grazie a lui dimostrano di avere la capacità preziosa di mettere in evidenza, sotto una luce intensa, ogni minimo dettaglio timbrico e armonico delle opere. Riccardo Muti, nel momento della sua piena e riconosciuta maturità artistica, ha deciso di mettere a disposizione dei giovani la sua esperienza ed il suo talento. Un docente eccezionale, per capacità e motivazioni».

Il presidente della Repubblica, a margine del concerto, ha ricevuto proprio una missiva dai ragazzi dell’orchestra “Cherubini”, per nulla rassicurati sul futuro che li attende. E il maestro ha rivolto un appello sulla crisi dei musicisti, affinché non siano lasciati soli e comporre e poi a dover strappare quegli spartiti, persi nelle solite poche occasioni che hanno, con la prospettiva di una carriera da costruire lontano da casa.
Ogni anno ne sceglie diversi: così Riccardo Muti offre a questi musicisti una vetrina, piccola o grande che sia non importa. Quello che conta è che il futuro è di chi ha le forze – fresche - per far emergere il proprio merito. Puro, secco, senza troppi fronzoli e ricami formalistici. «La terra - diceva Shakespeare - ha musica per coloro che ascoltano». Che si drizzino le orecchie, allora, che si ascoltino quelle note e soprattutto che la politica raccolga l’invito rivoltole dalla musica.

giovedì 17 dicembre 2009

I bambini e l'immigrazione:serve un occhio vigile


Da Ffwebmagazine del 17/12/09

Chi siamo noi e chi sono loro? Dove inizia l’atto di metamorfosi di una società inclusiva, che si dota degli anticorpi necessari a contrastare il pregiudizio e il no preventivo al diverso? Già nel 1846 Proudhon esortava a non divenire «capi di una nuova intolleranza», accogliendo e incoraggiando invece tutte le proteste, e condannando tutte le esclusioni. Che avesse previsto il sisma sociale che si sarebbe verificato un secolo e mezzo dopo? L’Italia non soltanto accusa un pesante ritardo socio-politico nei confronti dell’immigrazione in generale, ma non si è nemmeno posta il problema dei minori, appartenenti a quelle fasce più deboli e maggiormente esposte ai pericoli. Sembra che, ancora oggi, qualcuno non voglia farsene una ragione: l’immigrazione esiste, presenta dei numeri importanti, quindi va gestita e non rimandata a domani, quasi si trattasse di un affare la cui soluzione si può pigramente posticipare.Quanti ragazzi immigrati ci sono per le strade italiane? Quanti conducono una vita dignitosa, civile e quanti invece non godono di diritti, sopravvivendo giorno dopo giorno nell’indifferenza generale? Seimila, risponde il rapporto “Save the children” sui minori stranieri presenti in Italia, ma è un dato che potrebbe essere anche più ingente. Bivaccano nelle stazioni, chiedono l’elemosina ai semafori. E non hanno una rete nazionale che li monitori e che si preoccupi di censirli. Si tratta di ragazzi nati sul territorio nazionale o giunti sin qui in virtù del ricongiungimento. Dal 2004 ad oggi pare siano raddoppiati, ma i più sfuggono al conteggio in quanto manca un occhio che vigili attentamente.

Per questo sarebbe opportuno che si provvedesse ad attivare una forma organizzativa dello stato in grado di gestire professionalmente la fase dell’accoglienza, dove chi arriva dovrebbe trovarsi di fronte a un doppio livello: una persona che parli la sua lingua e si occupi del primo approccio, quindi dei diritti di cui potrebbe godere. E in seguito chi lo indirizzi materialmente verso le procedure di integrazione. È in mancanza di un tale organismo strutturato su due strati, che si verificano purtroppo anche non pochi casi di fuga. E allora serve un modo nuovo di intendere la convivenza, dal momento che, come rifletteva Albert Einstein, «se l’umanità deve sopravvivere avremo bisogno di un vero e proprio nuovo modo di pensare».

Se persino un quotidiano moderato come il Sole 24 Ore arriva a scrivere che «sull’immigrazione la politica italiana continua a scherzare col fuoco» significa che si sta pericolosamente sfiorando il confine tra ciò che va fatto, subito, e ciò che va impedito che accada come conseguenza. E quale strumento se non un ministero ad hoc? Che sia funzionale a un tema che ha avuto un innegabile sviluppo nell’ultimo decennio, che lo ha portato a ricoprire una rilevanza nazionale. Meritevole di specifiche politiche, la cui competenza non può essere caricata esclusivamente sul Viminale.

Le finalità di un ministero per l’immigrazione non si limiterebbero evidentemente solo a un’opera organizzativa sul territorio, ma dovrebbero ampliarsi abbracciando idealmente la sfera sociale, concentrandosi anche su chi quel territorio lo abita da anni. Integrare sì gli immigrati, ma integrare anche quei cittadini che già vivono qui e portarli a convivere culturalmente con l’immigrazione. Intendendola come una risorsa. Educando alla diversità, che non rappresenta una deminutio per nessuno, ma invece è fonte di arricchimento. Rileggendo magari quei versi di Cesare Pavese: «un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti».

Oggi purtroppo accade quello che aveva previsto Arthur Schnitzler, ovvero che «nessuno si occupa mai di come è fatta un’altra persona. Abbiamo paura gli uni degli altri, in verità ognuno di noi è solo». Forse è per questo che la paura si muta in violenza, come accaduto al Cie di Gradisca d’Isonzo nei giorni scorsi, dove è stato fatto recapitare un portafoglio imbottito di polvere da sparo. E che solo per un caso fortuito non ha provocato feriti tra gli immigrati presenti nel centro. E allora lavorare per integrare, unire, convivere, coesistere, evitando in questo modo che, come sosteneva Rudyard Kipling, si arrivi a pensare che «tutte le persone come noi sono noi, e tutti gli altri sono loro»

martedì 15 dicembre 2009

La politica esca da questo Vietnam mediatico...

Da Ffwebmagazine del 15/12/09

E adesso la politica tiri una riga, di quelle ben visibili, e abbandoni questo Vietnam mediatico, un ring paludoso e dalle basi instabili pieno zeppo di imboscate e contraeree, per approdare invece su terreni fertili e finalmente da paese civile. A due giorni dalla deprecabile aggressione al premier, in pochi si sono sforzati di dare seguito alle prescrizioni quirinalizie. Abbassare i toni, smettere i panni delle fazioni contrapposte in stato perenne di derby, evitare titoli sguaiati e offensivi, e aggiungiamo, riflettere prima di parlare. Niente, anche negli approfondimenti televisivi di ieri la stampa e la politica avrebbero potuto fare di meglio. Sì, anche la stampa, dal momento che come sosteneva Philippe Sollers «la scrittura è la contaminazione della politica con altri mezzi».

E invece si sono intestarditi nel compiere voli pindarici verso l’avversario, con l’indice perennemente puntato a mò di inquisizione, con il sopracciglio preventivo - quello costantemente alzato quando a parlare è l’interlocutore - adducendo argomenti improbabili, (come il funerale del bipolarismo o l’incubo del tradimento politico, che francamente nulla hanno a che vedere con la violenza di piazza Duomo) anziché fare tutti il mea culpa: un’altra occasione persa? Forse.

Quando si valutano superficialmente episodi e mal di pancia, senza analizzare con un minimo di profondità quali reazioni susciteranno tali prese di posizione, non si fa altro che ignorare la raccomandazione di Epitteto nel Manuale, secondo cui «non sono i fatti in sé che turbano gli uomini, ma i giudizi che gli uomini formulano sui fatti». Come si può pretendere, allora, che la politica faccia un passo indietro quando i media ne fanno settanta in avanti? Prudenza, circospezione, saggezza, misura: a nessuno sembrano interessare le massime incise accanto al tempio di Delfi dal discepolo di Aristotele Clearco, quelle per intenderci che consigliavano “la misura è la cosa migliore”, “nulla di troppo”, “riconosci il momento favorevole”, “conosci te stesso”. Questo serve perché il famoso clima di odio del paese smetta di essere tale. E chi dovrebbe contribuire a farlo cambiare se non chi veicola le notizie ai cittadini e chi, di quelle notizie, ne è il protagonista?

Si assiste invece a una predica quotidiana a compiere un’inversione di tendenza, a smetterla con le aggressioni verbali, a fare a meno di turpiloquiare, fomentando l’elettorato e disabituandolo così a ragionare, prima che inverire. E poi si mette in pratica esattamente l’opposto, quasi inscenando una gara tra quale partito abbia spruzzato più veleno nell’arena. Uno spettacolo che mette brividi. L’analisi di ieri avrebbe invece dovuto favorire una comune presa d’atto sullo stato dell’aria nel paese, oggettivamente irrespirabile. E insieme tutti avrebbero dovuto convenire sulla necessità di spalancare le finestre e cambiare passo.

Le parole di Bersani - «gesto da condannare, senza se e senza ma» - rappresentano un esempio di come iniziare un nuovo corso. Ma sarebbe auspicabile che abbiano un seguito anche da parte degli altri protagonisti, che a oggi rimangono purtroppo frastagliati in una sorta di costellazione di micro ragionamenti assurdi, distanti fra loro anni luce. «Gli uomini - diceva Immanuel Kant - non possono disperdersi isolandosi all’infinito, ma devono da ultimo rassegnarsi a incontrarsi e a coesistere». Quel momento è giunto da un pezzo. Serve incontrarsi, parlarsi, chiarirsi. Per ricominciare il confronto, franco, duro, serrato, ma non armato.

«Le pieghe amare intorno alla bocca - scriveva Hemingway - sono il primo segno della sconfitta». È ciò che appare sul viso della cattiva politica, quella di serie B che grida a squarciagola nei salotti televisivi, quella che non perde occasione per pompare adrenalina in una società ultra elettrizzata e allo sbando, dove il lume della ragione viene sacrificato e impacchettato, affinché si smarrisca in qualche polverosa soffitta. Il rugby è uno degli sport in assoluto più maschi. Corsa, mischie ruvide, infortuni frequenti. Ma al termine dell’incontro ecco le due squadre unirsi nel terzo tempo, in quell’abbraccio vero e sincero che riconosce il valore innegabile dell’avversario, anche di quello uscito sconfitto dall’incontro. No, non è buonismo, ipocrisia, retorica. Si chiama correttezza. Ed è un valore, per chi lo ignorasse ancora.

Tornano alla mente le parole rivolte da Giorgio Almirante a Gianfranco Fini, che gli chiedeva come mai si fosse recato da solo a rendere omaggio alla camera ardente allestita per Enrico Berlinguer a Botteghe Oscure: «Oltre il rogo non v’è ira nemica» rispose, a testimoniare uno spesso velo di quella correttezza e di quella onestà intellettuale che oggi tragicamente mancano. E che la politica, quella di serie B, non sembra per nulla interessata a recuperare.

venerdì 11 dicembre 2009

Se la burocrazia blocca la libertà di scelta


Da Ffwebmagazine dell'11/12/09


Quando si è cominciato a parlare di digitale terrestre, si è messo l’accento sul fatto che ne avrebbe guadagnato la libertà di scelta dei telespettatori. E, messa così, la questione sembrava interessante. E lo è. Pensiamo all’utente medio che tra le varie bollette da pagare - luce, gas, telefono e riscaldamento, quando non anche l’affitto a fine mese - di certo non ha i soldi sufficienti per permettersi un’ulteriore spesa per la tv a pagamento.
E allora, non potendo fare altrimenti è costretto a sorbirsi i soliti programmi delle sei o sette tv generaliste che non ti mandano in onda un film nemmeno se ti appelli alla Corte dei diritti di Strasburgo. Finalmente, arriva il digitale terrestre e la scelta dei canali – non a pagamento - aumenta vertiginosamente, e così anche la speranza di trovare anche un film, magari quello che si è perso al cinema qualche tempo prima. O di poter seguire, tutte le volte che lo voglia, documentari di storia, che non fa mai male. Se lo si guarda da questo punto di vista il digitale terrestre, dunque, sembra un innegabile strumento democratico e liberale. Per i telespettatori e anche per gli operatori.

Maggiore libertà nello scegliere un’offerta più ricca e diversificata, per gli uni, un mercato in cui misurarsi con una più marcata concorrenza, per gli altri. Impedendo l’avvio di “Cielo”, il nuovo canale di Sky entro i termini stabiliti, è venuto meno questo insieme di propositi. Chi è il colpevole, con chi prendersela? E perché?«Chiunque può arrabbiarsi, questo è facile- sosteneva Aristotele -. Ma arrabbiarsi con la persona giusta, nel modo giusto e al momento giusto per lo scopo giusto: questo non è nelle possibilità di chiunque». Con chi dovrebbe rivalersi un privato a cui è impedito lo svolgimento di un’attività che sottolinei i valori del liberismo e della concorrenza? Soprattutto come e con quali argomenti dovrebbe arrabbiarsi? E in quale misura? Quando la burocrazia stringe i lacci a nuove opportunità, ad un ventaglio di opzioni diversificate, a tipologie di scelte in più, è in quel preciso istante che, da strumento di azione, si trasforma in zavorra insostenibile, in cemento armato pazientemente stivato nella poppa di una barca, in ruvide catene che impediscono il volo.
E che costringono inesorabilmente a terra idee e iniziative. Ma la burocrazia, come insegna il ministro Brunetta, dovrebbe invece favorire l’amministrazione, quella buona, sorridere a chi la utilizza per le operazioni di cui dispone, essere di slancio ad un paese che procede con il freno a mano tirato. Accade però in questo paese, sempre quello che circola con le gomme sgonfie, e che gli rallentano la corsa, che taluni impulsi di liberismo e di applicazione pratica del principio di concorrenza, vengano per così dire sedati da massicce dosi di valium, da cesoie che puntualmente spuntano quelle timide presenze di erba fresca e nuova che pian pianino tentano di nascere su un terreno non sempre fecondo.

Il nuovo canale di Sky sarebbe dovuto partire lo scorso primo dicembre, allargando così un panorama di offerta e di scelta per i fruitori ed è fermo ai box perché - dicono dal ministero dello sviluppo economico - privo delle necessarie verifiche circa il possedimento dei requisiti formali, ovvero stato patrimoniale, frequenze. La legge stabilisce il termine di tale iter in sessanta giorni, estendibili anche a novanta. Ma la Newco ha già ricevuto il nulla osta dell’Agcom e soprattutto gli uffici del vice ministro con delega alle comunicazioni hanno già in mano la risposta di Bruxelles circa l’interpretazione degli undertaking firmati da Newco, in occasione della nascita di Sky Italia. La stessa Newco ha già chiarito che gli undertaking non precludono a Sky Italia di operare sul Dtt con un canale gratuito in chiaro. Quale il motivo dunque di un simile ritardo? Nel 2003 la New Corporation sottoscrive una serie di impegni, che le consentono di operare all’interno della pay-tv italiana, a seguito della fusione tra Tele+ e Stream. Essi sono recepiti favorevolmente dalla Commissione Europea con decisione del 2 aprile 2003. È previsto, come riportato dall’art. 9, che «con riferimento al Dtt, le società obbligate non dovranno agire in Italia in qualità di operatore di rete o operatore di servizi televisivi a pagamento al dettaglio e non potranno chiedere alcun titolo abilitativo al tal fine necessario. Tale obbligazione si applichera' sia durante la sperimentazione del Dtt attualmente in corso, sia, successivamente, per tutta la durata dei presenti impegni» (31 dicembre 2011). Termini che non ostacolano la trasmissione di un canale in chiaro.

Ma che ne è di un paese dove si chiude la porta in faccia a una nuova piattaforma? Che sia culturale, giornalistica, di intrattenimento non importa. Ma come, si chiederebbe il solito alieno che capitasse per caso in Italia, nel resto del mondo si assiste alla globalizzazione, al tutto per tutti, a una ventata di libero scambio – come l’apertura dell’area nel 2010 –, alla realizzazione pratica di principi strutturati da illustri pensatori e teorici del liberismo, Stuart Mill, Tucidide, Aristotele, Bobbio, Dostoevskij, La Pierre, Brandeis, Philips, Mac Arthur, Rand, Adams. Qui invece si fa un passo indietro nel tempo, quasi tornando a un secolo fa. A quando i vari regimi, diversi nei colori e nei rappresentanti, erano però unificati dall’assolutismo e dal voler strozzare ogni alito di vento non allineato.

Certo, in questa storia c’è chi potrebbe sostenere, come disse Edmund Burke che la libertà è uno “dei doni della Provvidenza”. Giustissimo, ma ciò che la eleva a dono elargito in seno alla collettività, è il fatto che poi dovrebbe essere allargata di fatto, in quanto la libertà al singolare “esiste soltanto nella libertà al plurale” , rammentando la postulazione crociana. Aveva forse ragione Nicola Matteucci, dunque, quando rilevava che “abbiamo tanti liberali fra loro diversi, ma non il liberalismo”? E che cos’è il liberalismo se non il riconoscimento delle libertà?

mercoledì 9 dicembre 2009

MA UN NEONATO NON PUO'MORIRE PER INDIFFERENZA

Da Ffwebmagazine del 09/12/09

Ma chi sbaglia, in questo paese, deve pagare? O è sufficiente schivarsi dietro commi e scorciatoie burocratiche per mettere al riparo responsabili e reati? La vergogna italiana, in questi giorni, abita in Sicilia, e indipendentemente dalle migliaia di pagine che verranno stampate per inchieste, verbali e scartoffie che puzzano di ipocrisia, nulla potrà cancellare lo sconcio per la morte di una bimba di pochi giorni, partorita dalla madre 23enne su di una sedia, senza che nessuno, ma proprio nessuno, si sia premurato di condurre la donna in sala travaglio. Nel silenzio generale, nel disinteresse collettivo.

No, non si vuole incolpare preventivamente gli operatori dell'ospedale di Canicattì, ci mancherebbe. Preventivamente no, ma a posteriori, dopo aver valutato la gravissima omissione a cui la madre è andata incontro, si vuole denunciare. Si vuole alzare la mano, civilmente ma con fermezza, per esprimere rabbia, sdegno, urla di disapprovazione, di rigetto, di tutto fuorché questo a cui si è assistito. Si sta parlando del diritto primario alla salute, quello di una donna attanagliata dalle doglie, che grida il proprio dolore in una sala del pronto soccorso. E che viene lasciata dare alla luce in solitudine una bellissima bambina su quella sedia, salvo essere aiutata nel taglio del cordone ombelicale. Tutto bene? Niente affatto, perché dopo sette giorni la bimba cessa di vivere. Infezione, addome gonfio. Non contano le valutazioni mediche. Nemmeno quelle tecniche tediosamente devianti sulla natura del problema.

Il caso toglie il velo a un palcoscenico semplicemente aberrante, dove un'ammalata non viene nemmeno ascoltata, abbandonata lì al proprio destino, con solo il marito accanto che tentava di rincuorarla. Nell'indifferenza di un presidio medico, nella noncuranza di addetti alla salute, non di passanti presenti lì per caso. È stato stimato che in Italia i luoghi più a rischio per morti "sanitarie" siano la sala operatoria (32%), i reparti di degenza (28%), i dipartimenti di urgenza (22%), l'ambulatorio (18%). Le quattro specializzazioni più a rischio invece sono ortopedia e traumatologia (16,5%), oncologia (13%), ostetricia e ginecologia (10,8%) e chirurgia generale (10,6%). Numeri che fanno impallidire, se è vero come è vero che i casi di malasanità si verificano frequentemente in quelle regioni dove altissima è la spesa per la sanità e dove sovente, vedi Calabria, Sicilia e Puglia, si oltrepassa pericolosamente il budget. Dove finiscono quei soldi? E con quali risultati?

Il diritto alla salute, quello citato a gran voce dall'articolo 32 della Costituzione, quello che si applica a tutti, ma proprio a tutti, anche ai prigionieri di guerra, ai nemici, agli avversari, ai poveri, ai miscredenti, ai terroristi, ai diversi, a tutti. E che viene ancora calpestato, in un paese che si traveste di modernismo e progresso, popolato da benpensanti e tradizionalisti solidali, che quotidianamente si sforzano di cucirsi addosso la contraffatta targhetta di custodi dei diritti - prima per gli italiani però -, dove sembra che il mondo si sia fermato in un punto esatto della penisola. Oltre il quale non v'è certezza del nulla.
Bisogna dire basta a simili scenari, utili solo a far contorcere budella e far sdegnare, opponendo questa volta sì un muro invalicabile contro tali scempi. Non sarà in questi casi che si attiveranno le diplomazie, gli accordi, i "si risolve tutto". Non si risolve un bel nulla, invece, quando in gioco c'è la vita umana, come nel caso siciliano, o in tanti altri. I responsabili dovranno pagare, tentare di riparare al danno causato, a una micro vita spezzata barbaramente, senza il benché minimo rispetto. Perché qui c’è stata una vera barbarie umana.

Chi si assumerà il gravoso compito di dire a Manuela Daniela Gradinariu e a Valentin Paun, giovani genitori della piccola salita in cielo, che la loro bambina non c'è più? E non per un comprensibile e possibilissimo errore medico durante un intervento chirurgico o durante una terapia rischiosa. Ma per una colposa condotta irresponsabile e nauseante, per quel "non mi interessa" troppo spesso pensato e pronunciato da chi ha precisi doveri nei confronti dei malati. Verso persone con sangue nelle vene, con un cuore, con un dolore vivo.

Vengono in mente le parole di Martin Luter King, «la disumanità dell'uomo verso l'uomo non si materializza solo negli atti corrosivi dei malvagi, si materializza anche nella corruttrice inattività dei buoni». Quella stessa inattività che dovrà essere punita severamente, senza se a senza ma. Senza scorciatoie e senza inghippi burocratici dell’azzeccagarbugli di turno. Perché alla barbarie non si può rispondere con un semplice scappellotto dietro la nuca.

martedì 8 dicembre 2009

Ma le morti bianche non sono reati di serie B


Da Ffwebmagazine del 08/12/09

Rischio di reati di serie B in Italia? Ovvero, i morti sul lavoro sono meno importanti di altri? Il magistrato torinese Raffaele Guariniello, autore di indagini note come le farmacie negli spogliatoi del calcio italiano o i decessi alla multinazionale Eternit, alza la mano e accusa certi pm: sarebbero troppo pigri con le morti sul lavoro. E non vi sarebbe la necessaria comunicazione fra le procure europee dove, mentre le aziende si parlano alla velocità supersonica di email e social network, i tribunali fanno ancora i conti con la carta e le lunghe attese.

Argomento delicato, questo, non poco ingarbugliato, specie dalle nostre parti. Ignorando per una volta il monito di Sun Tzun - «non bisogna mai accamparsi su di un terreno pericoloso» - sarebbe molto utile fermarsi invece a riflettere su quei morti e su quelle cause, anche a rischio di impattare su realtà crudeli. Le settemila vittime sul posto di lavoro degli ultimi cinque anni non rappresentano una cifra da poco. E se anche lo fossero ciò non giustificherebbe certa approssimazione nell’affrontare la questione, anche da parte di alcuni media.

Il procuratore aggiunto di Torino ha ragione quando sostiene che in Italia si assiste a una diseguaglianza di «trattamento giudiziario a danno dei lavoratori e delle stesse aziende». I processi in piedi per infortuni sul lavoro e per malattie professionali corrono il rischio di essere prescritti in Cassazione. Pochi quelli che si celebrano, anche con il corollario di tempi biblici. Il risultato non è soltanto il mancato riconoscimento di un diritto previsto dalla legge al lavoratore, ma anche uno squilibrio evidente per l’intero sistema economico-professionale. Perché si produce un innegabile corto circuito tra operaio, impresa e welfare. Perché quell’operaio che ha sacrificato tempo e salute per il proprio lavoro non uscirà dal tribunale con una coscienza rafforzata. Si vedrà invece dimezzata la fiducia nella giustizia e anche in se stesso, dal momento che, come accade in molti casi, non potrà più riprendere il precedente ritmo di lavoro, oppure, come purtroppo accade in altri più tristi casi, non avrà nemmeno la possibilità di riprendere la precedente esistenza. Vengono in mente le parole di Leonardo Sciascia, quando affermava: «Si suol dire che l’Italia è culla del diritto, quando evidentemente ne è la bara».

Perché non approfittare, allora, della riforma della giustizia in cantiere, per prevedere misure risolutive, accelerando così l’iter delle cause per le morti sul lavoro? Perché non inserire norme che tutelino maggiormente il lavoratore monoreddito, magari con più di due figli? Intervenire insomma concretamente sul welfare, sui bisogni reali e concreti di un operaio, la cui esistenza dipende da quel posto di lavoro, da quel salario e della sua salute nel conservarlo al meglio.

Le morti bianche. Dove il bianco appare un colore smunto, pericoloso perché indefinito, non sufficientemente rassicurante, privo di certezze. Un bianco dove lo Stato deve impegnarsi a puntare dei paletti, severi e duraturi. Come ha sottolineato il ministro Maurizio Sacconi in occasione della giornata del volontariato, non è più sufficiente circoscrivere gli incidenti sul lavoro a eventi racchiusi nel circuito della legge e della relativa applicazione. Urge una rivisitazione del problema, magari analizzandolo da una prospettiva meno giurisprudenziale e più sociale. Intendendo creare un dialogo più intenso tra imprese, lavoratori e Stato, con una formazione che sia finalmente all’altezza, con provvedimenti invasivi da avviare anche all’interno dei cicli scolastici. Spazzando via l’attuale geografia nazionale con tante Italie, ciascuna dotata di tempi e modi diversi, come testimoniato dalle sole ventuno denunce di incidenti sul lavoro in dieci anni, segnalate alla procura di Vibo Valentia. Un’assurdità.

Bene prevenzione e formazione, dunque, ma si potrebbe anche andare oltre: la sicurezza dovrebbe essere una cultura, e non solo un diritto o un obiettivo, per quanto nobile esso sia. Una vera educazione alla sicurezza, come intima convinzione civica ad appannaggio dei lavoratori e degli imprenditori. E dove le imprese e la politica dovrebbero sforzarsi di portare il peso maggiore, venendo incontro alle esigenze dei più deboli.

«La repubblica è la nostra famiglia - diceva Calamandrei - la nostra casa. Un senso di vicinanza e di solidarietà in cui ci riconosciamo». Proprio quella solidarietà che trasuda, copiosa, dal parco inaugurato l'altro giorno a Torino dedicato alle vittime della Thyssen, a due anni dalla tragedia che costò la vita a sette operai. Un segno - verde - dagli spiccati connotati di speranza. Perché chi deve garantire l’equilibrio della giustizia si impegni a farlo sul serio, lasciando da parte luci e palcoscenici. E concentrandosi un pizzico di più su certe zone tristemente grigie, dove la vita umana troppo spesso conta meno di un tot.

lunedì 7 dicembre 2009

Vertice di Copenhagen, speriamosia soltanto l'inizio...

Da Ffwebmagazine del 07/12/09

«Tutti pensano a cambiare il mondo- diceva Tolstoj- ma nessuno pensa a cambiare se stesso». Se da oggi, inizio del vertice del clima di Copenhagen, tutti i paesi decidessero di cambiare veramente le regole dell’inquinamento, si potrebbe tentare di consegnare ai nostri figli un mondo senza rischio di autodistruzione. E, perché no, utilizzare la green economy per produrre anche un vantaggio finanziario, vitale in questo biennio di crisi.

In Groenlandia i ghiacci si sciolgono a una velocità che non era stata prevista dai calcolatori elettronici. La temperatura in aumento sta modificando completamente i sistemi di vita animale e vegetale: fioriture sfasate e presenza di specie mai viste prima. Il Bangladesh è il paese con il più alto numero di bimbi morti annegati, causa le copiose inondazioni. Molte zone del pianeta, fra cui Spagna e Italia, sono vittime della desertificazione. Altre, come l’Olanda e isole come Maldive e Seychelles, potrebbero sparire, ingurgitate dal mare. Proprio la crescita dei mari di circa un metro e mezzo, associata alla massiccia dose di Co2 presente nell’atmosfera, sta portando la morte negli oceani. «Serve un impegno per il futuro e il rispetto delle leggi della natura», ha ammonito Benedetto XVI. Ma quante volte sono stati avanzati i medesimi propositi?

È chiaro che se l’appuntamento danese dovesse risultare l’ennesima assise internazionale in cui a regnare incontrastate sono ipocrisia e buone intenzioni, non solo non si risolverebbe il problema, ma - se possibile - lo si aggraverebbe in maniera esponenziale. Decantare mediaticamente ecologia e uso delle energie sostenibili, e poi non incentivare le auto elettriche, i pannelli solari nei palazzi di nuova costruzione, le piste ciclabili almeno in tutte le strade dei centri cittadini, la creazione di nuovi parchi pubblici (veri e propri polmoni naturali), significa fare terrorismo ambientale. E mostrare un “corto respiro” estremamente dannoso.

Che senso ha sedersi al tavolo con altri cento capi di stato del mondo pur continuando a inquinare con industrie che, è il caso di Città del Messico, causano il maggior numero mondiale di problemi respiratori tra i cittadini?

Parallelamente alla distruzione terrestre, cresce nel mondo anche la quantità di popolazione che lo abita. Continuando di questo passo, è stato stimato che entro settant’anni si giungerà a nove miliardi di persone, che però dovranno rivedere i loro modi di vivere. Perché, inevitabilmente, non potranno condurre la medesima esistenza e soprattutto non potranno farlo nei medesimi luoghi.

Una rivisitazione urbana in chiave ecosostenibile non solo è possibile, ma potrebbe rappresentare una soluzione anche per ottenere un ritorno economico. È il caso dei centotrenta progetti elaborati dal comune di New York per ripensare lo sviluppo cittadino a trecentosessanta gradi. “Grattacieli che respirano” ha proclamato il sindaco Michael Bloomberg, e il riferimento non è esclusivamente alla questione ecologica. Strutturare ex novo la crescita dei quartieri, la relativa evoluzione negli spazi e, perché no, nelle vite dei cittadini, equivale a creare nuovi posti di lavoro, a dare luce a specializzazioni fino a oggi semisconosciute, ad aprire nuove possibilità di esplorazione scientifica. Insomma, aspirare aria nuova, sotto tutti i punti di vista. Vorrebbe dire innescare un circolo virtuoso dove formazione, università, industrie, edilizia e vita umana, si troverebbero avvolti in un unico fazzoletto di buon senso. Consapevoli che dalla riuscita dell’uno dipende la vittoria dell’altro.

Un punto di partenza, attuabile in tutti i comuni d’Italia, potrebbe essere la costruzione di abitazioni - di vario genere o di edilizia popolare - completamente autosufficienti dal punto di vista energetico, con pannelli solari impiantati sui tetti. O su tutti gli edifici pubblici, come le sedi di regioni, province, comuni, tribunali. Per poi trasferire tale modus operandi al maggior numero possibile di palazzi. Diffondendo, velocemente e con la necessaria completezza, informazioni utili a una vita che sia essa stessa ecosostenibile.

Non è concepibile che uno dei più grandi acquedotti d’Europa, l’Acquedotto Pugliese, perda sistematicamente il 25-30% dell’acqua a causa di condutture difettose o obsolete. O che a causa delle gomme non sufficientemente gonfie, molti automobilisti italiani consumino il 20% di carburante in più. Sono numeri da paesi culturalmente sottosviluppati, che una democrazia matura, una democrazia che guardi al di là del proprio naso, deve sforzarsi quantomeno di dimezzare. E con piani di azione specifici: non siamo più agli albori delle crisi climatiche, quando le nozioni sul tema risultavano frammentarie, o quando veniva tutto declassato come il solito catastrofismo.

La situazione, a oggi, è grave ma ben visibile, soprattutto per restare ai confini nazionali, in alcune realtà specifiche dove, tanto per fare un esempio, la raccolta differenziata è ancora una chimera. O, per dirne un’altra, dove in alcuni uffici pubblici anche parecchio importanti, si spreca un’incredibile quantità di carta per distribuire documenti senza dubbio importanti, ma che potrebbero essere veicolati a costo zero grazie alla tecnologia (vedi file in formato elettronico, o e-mail).

E allora, Copenhagen non sia un evento inutile. «Non sia l’arbitro finale del successo né il punto di arrivo dell’azione globale» ha detto il segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon. Magari la sua chiusura fra dieci giorni, con la relazione finale di Barack Obama, potrebbe segnare l’inizio di mini eco-congressi nei singoli paesi, dove si passi rapidamente dalle parole ai fatti, con la consapevolezza che il problema coinvolge tutti, senza esclusione. E che non sarà sufficiente la solita soluzione tampone per chiudere una falla di proporzioni epocali.

venerdì 4 dicembre 2009

Alla lotta per i diritti umani serve un'informazione libera

Da Ffwebmagazine del 04/12/09


E se i giuristi di tutti i paesi islamici si riunissero in conclave? E se facessero uno sforzo comune per delineare problemi e soluzioni , spronando così gli stati nella battaglia per i diritti umani? La proposta viene da Mario Lana, avvocato e direttore della rivista I diritti dell’uomo che, a vent’anni dall’uscita del primo numero, apre una riflessione sul rapporto sotterraneo fra la dignità della persona e la libertà di informazione. Un intreccio che, parafrasando Roberto Saviano, poggia l’uno sull’esistenza dell’altro, dal momento che nonostante tale consapevolezza sia ormai un dato ampiamente acquisito, «in Italia l’informazione sgomita costantemente per affrancarsi da manifestazioni di tifoseria da stadio. O con noi o contro di noi, questo sembra essere il concetto. Come fossimo in una guerra dove è impossibile ragionare oltre una logica di schieramento».

La guerra. Atrocità che si presta a molteplici immagini visive. Dove armi impugnate e sangue versato non sono solo quelli del Vietnam di ieri, o dell’Afghanistan o delle stragi nel terzo mondo di oggi. Ma sono anche le vite spezzate di Peppino Impastato, di Giancarlo Siani, di Giuseppe Fava, di Anna Politkovskaja, di don Pino Puglisi, di Ilaria Alpi, di Milan Hrovatin, di Maria Grazia Cutuli. Giornalisti, idealisti, attivisti che hanno combattuto- e scritto- per vari diritti civili. Non importa se denominati con nomi diversi, mafia, signori della guerra, assolutismo. Ciò che conta è l’impegno, quello sì eguale per intensità e onestà intellettuale. O come la vita strappata a Stefano Cucchi. È anche quello un esempio di diritti civili, o no? Ecco che l’informazione diventa fondamentale, perchè può scavare sui fatti o farne a meno; può precisare o generalizzare; fornire alibi o inchiodare a responsabilità; diffamare o esaltare; aprire dibattiti o centralizzare il tutto antidemocraticamente. Ma come preservare il fruitore da un’informazione drogata, rammentando allo stesso tempo ai media il proprio ruolo di campanello d’allarme nei confronti dei diritti civili? Nel 1921 Walter Lippman evidenziava come la persuasione fosse divenuta «un’arte deliberata e un organo regolare del governo popolare», rafforzando la posizione del famoso quarto potere.

Già Stuart Mill predicava l’esigenza di «proteggersi dalla tirannia dell’opinione. Se tutti gli uomini, meno uno, avessero la stessa opinione, non avrebbero più diritto di far tacere quell’unico individuo di quanto ne avrebbe lui di far tacere, avendone il potere, l’umanità». Primario diritto della persona è quindi la libertà di pensiero e di idee. Ma tale diritto deve anche essere in parte alimentato da una panoramica visione globale. Quanti giornali, ad esempio, nell’ultimo mese hanno dedicato ampio ed approfondito spazio ai morti in Niger, o agli operai asserragliati sul tetto della azienda per cui lavora(va)no, o alla possibile introduzione del reato di tortura, o alla mancata ratifica del trattato contro il traffico degli esseri umani, o allo sgombero forzato di migliaia di rom dalle città italiane? O, per certi versi, a coppie a cui è impedito di avere dei figli artificialmente, o a cittadini a cui non è ancora consentito di rifiutare l’accanimento terapeutico, o a individui non nati qui che non possono votare i propri rappresentanti in parlamento? Interrogativi legittimi, che dovrebbero porsi, non solo quanti nella società vivono e crescono in maniera non superficiale, ma soprattutto coloro che quella società foraggiano di impulsi e di direttive. Piccole, medie o grandi che siano.

Un quadro che entro il prossimo febbraio sarà al centro di un focus da parte delle Nazioni Unite, che provvederanno ad analizzare, tramite controlli procedurali, la situazione dei diritti civili in tutti i paesi. Dove il raggiungimento di risultati nell’azione pro diritti civili , in questo senso sarà inevitabilmente proporzionale alla qualità dell’informazione assicurata a tali tematiche.

Uno spunto a sostegno potrebbe essere quello di prevedere e diffondere una strategia culturale di difesa dei diritti dell’uomo. Con l’ausilio di assise internazionali che non siano solo l’ennesima occasione di scambiarsi cifre e fredde valutazioni statistiche su fame nel mondo e sugli squilibri democratici patiti da molti cittadini. Ma che rappresentino il laboratorio per sperimentare soluzioni nuove, sforzandosi di assistere maggiormente realtà che già operano su territori difficili, come Medici senza frontiere o Amnesty International, tanto per citarne due. E non per organizzare sontuosi e costosi meeting dove la portata principale è sempre più spesso un’abbondante porzione di ipocrisia, condita da laconici propositi per l’anno successivo. Una tavola imbandita a cui l’informazione, quella buona, non dovrebbe accomodarsi, preferendo se possibile il digiuno. Digiuno da milioni di “farò”, da accordi con paesi antidemocratici, da stati che alla vita umana non riservano la necessaria considerazione, da pagine e pagine di memorie inutili al cambiamento.

Un’informazione che dovrebbe tentare di essere non soltanto corretta, obiettiva, non faziosa, nè di parte, come tra l’altro da molti mesi si legge nei rilievi quirinalizi, ma per usare le parole di Saviano, «un’informazione che non sia diffamante, che non estorca consensi, è premessa necessaria a molte battaglie civili, che altrimenti morirebbero asfissiate da montagne di parole».

giovedì 3 dicembre 2009

VEDERE E APPARIRE: LO SGUARDO CHE DISTORCE LA REALTA'


Da Ffwebmagazine del 03/12/09

Siamo circondati da una “camera obliqua”, formata da telecamere presenti in tutti gli angoli delle strade, che produce un quadrilatero – l’immagine reale, gli occhi che la osservano, la camera che la riproduce, l’immagine riprodotta – dove più che il vedere, si potenzia il far vedere. Ovvero, il costruire fenomeni al solo fine di esibirli, in una sorta di raddoppio del reale: accanto al livello delle cose tangibili che accadono, c’è un altro sottolivello, parallelo e artefatto, composto da elementi prodotti esclusivamente per apparire.

Anche questo rappresenta il vedere nella modernità, rispetto alle diagnosi aristoteliche o, per rimanere a ragionamenti più recenti, a quelle formulate da Hannah Arendt, che ne La vita della mente sosteneva che nessun altro senso che non sia la vista riesce a stabilire distanze di sicurezza tra soggetto e oggetto.
Ma cosa si intende per vedere? Nell’ortogenesi del singolo individuo, quando si scopre la lettura concentrandosi sui singoli caratteri, è in quel preciso istante che accade qualcosa di rilevante nel cervello, come sostenuto da Mary Anne Wolf in Proust e il calamaro e da Stanislas Dehane in I rumori della lettura. Si tratta di un frangente nel quale si creano nel lettore le connessioni celebrali che rimarranno per sempre, attive al fine di agire in futuro come un vero sistema di apprendimento.

“Vedere”, secondo Raffaele Simone, linguista dell’Università Roma Tre, è un termine povero rispetto a quello che l’occhio potrebbe fare. Due riflessioni possono aiutare l’analisi: castità della vista, in quanto via di percezione; e ascesa di una tipologia di visione detta “alfabetica”. La prima è intesa come espressione stessa della vista: essa è la regina dei sensi. D’altronde i greci accostavano il vedere al sapere, con la metafora “ho visto dunque so”. Aristotele nella Metafisica sosteneva che, anche senza avere intenzione di agire, l’uomo preferisce il vedere, perchè rende manifeste le differenze delle cose. Eraclito asseriva che gli occhi sono testimoni più acuti delle orecchie, come si ritroverà più avanti nel diritto processuale. Platone scriveva che l’occhio è, tra gli organi di senso, quello che per aspetto ricorda più il sole, e per questo ne garantisce il primato.

Ma S.Agostino aggiungeva un aspetto al panorama celebrativo sin qui descritto: «Benchè sia la prima, la vista è esposta al rischio per l’accesso alla bellezza delle forme». Particolare che si presta a una doppia considerazione: se da un lato vi è il piacere di osservare “il bello” e ciò che tale azione comporta, dall’altro vi è il rischio di farsi infatuare da ciò che appare bello a un primo impatto, ma che in seguito si rivela fasullo o, peggio, brutto.

Ma la modernità ha sparigliato tutto, aprendo di fatto una seconda fase di pensiero sul vedere. La tecnologia non è stata solo la causa di un cambiamento oggettivo, ma la ragione di un ripensamento totale. Si pensi al cinema o ad altre forme di vedere – le telecamere dei telefoni cellulari o la web cam del pc – separate da oggetti che li rappresentano, e che per questo introducono elementi nuovi. O si pensi agli effetti speciali, dove non solo ciò che appare potrebbe non essere fisicamente presente in quel luogo, ma potrebbe anche non esistere affatto in quanto riprodotto artificialmente. Provocando quindi un distacco tra ciò che si vede e l’occhio che osserva. Come riportato da Hans Blumenberg nelle pagine di Naufragio con spettatore dove si sostiene che è “bello” osservare un naufragio stando lontano, sia perchè non è possibile aiutare alcun passeggero, sia perchè si assiste anche a un grande spettacolo.

Allontanarsi dall’oggetto visto dal soggetto vedente, e quindi il vedere a distanza, garantisce la distanza di sicurezza. D’altronde si possono vedere rivoluzioni, incidenti, stragi, senza per questo esserne protagonisti. Ma c’è un altro aspetto che caratterizza la visione: il taglio, l’indifferenza nei confronti di un pezzo di ciò che si osserva, quello che viene definito “cut off”. Nel campo della visuale esso rappresenta un organo settore, che isola un’immagine decontestualizzandola e disinteressandosi del resto, per concentrarsi su un focus preciso. Si insinua nella mente umana attraverso la cosiddetta fascinazione, dove la cosa vista esercita un’attrazione più forte di qualunque altro stimolo sensoriale, perchè “il vedere ci attrae”.

Oggi osserviamo ad esempio una persona per strada, ma non sappiamo effettivamente chi e cosa rappresenti, anche a causa di due passioni associate alla visione: la vergogna e la vanità. La prima indica una sofferenza morale di chi è visto in condizioni in cui non vorrebbe essere visto. O di chi è costretto a vedere cose di cui farebbe a meno. La seconda, molto più frequente, implica il far vedere immagini in cui il se stesso è esaltato. Due elementi in forte antitesi, con la vanità in forte ascesa e la vergogna in triste declino. Quest’ultima,tra l’altro, anche al centro del volume Sul declino della vergogna di Bauman.

Il quadro visionale moderno, dunque, se da un lato registra un incremento della possibilità di visioni grazie alla tecnologia, dall’altro accusa il rischio di vedere uno spettacolo al posto della realtà, perdendo il contatto con essa, facendosi ingannare da sfavilii e da scenari di comodo, come ad esempio il raggiungimento di un risultato senza sforzo. Arrivando a convivere con una realtà che è essa stessa effetto speciale, o troppo vera, come nel film The Truman show. Convinzione che Giorgio Manganelli definiva “troppezza”. Mentre Debord imputava alla commistione scriteriata tra reale e finto la produzione di un mondo a sè.

Che poi rappresenta il doppio errore della società di oggi e della politica: potenziare a dismisura il far vedere e l’apparire, mortificando il vedere oggettivo scevro da artifici; e rivolgere lo sguardo esclusivamente all’oggi, limitando colposamente il campo visivo e impedendogli non solo di guardare, ma soprattutto di immaginare il domani.