ATENE- Un’implosione. Dai meandri
di una terra che ha vissuto nei secoli peripezie e invasioni. È come se Zeus si
fosse ribellato, avesse armato Gea e volesse ribaltare tavolo e sedie. Buttando
all’aria un sistema ormai in cancrena, per rifarlo ex novo, ma senza tornare a
quella pangea immobile e grumosa da cui un nuovo Rinascimento sarebbe troppo
complesso. Le elezioni in Grecia sono state uno tsunami continentale, anzi,
mondiale, per una miriade di motivi. Non solo un big bang della politica,
radicalizzata dalla crisi, con il vento del meltèmi xenofobo che spira,
cruento, dall’Acropoli sino ai fiordi settentrionali. Ma una sorta di big
crunch, una risacca restauratrice, un ritorno al passato che non ha prospettive
reali di crescita. Almeno a breve termine. Perché chi è uscito con le ossa
rotte dalle urne per proprie deficienze strutturali e programmatiche, non può
pretendere di comportarsi come se nulla fosse, modificare i programmi
elettorali magari solo per arraffare un esecutivo instabile e claudicante.
Sembra acquisito il dato dell’esautorazione democratica: la maggioranza dei
greci non ha votato per i due grandi partiti, i conservatori di Nea Dimokratia al
18,8% e i socialisti del Pasok al 13,2%, che invece si preparando a comporre un
governo di unità nazionale. Con tanti saluti alla rappresentatività popolare.
Ecco il corto circuito, grave e ingannevole, che il bipolarismo muscolare e
farlocco che ha “guidato” molti paesi europei ha prodotto, lasciando sul campo
macerie partitiche e un malcontento popolare pericoloso e dall’esito incerto. Lasciamo
stare per un momento la risposta dei mercati, con le borse continentali e
asiatiche in picchiata, ma guardiamo negli occhi chi si è recato alle urne per
esprimere un voto. Ha ancora un peso specifico e partecipativo reale? O corre
il rischio di essere maciullato dalla deriva antidemocratica non solo di chi
siede in pianta stabile nei ministeri di un paese senza più sovranità autonoma,
ma finanche da quegli stessi partiti che dovrebbero quantomeno garantire la
propria indipendenza nazionale. E che invece si arrabattano alla meno peggio,
senza rispondere alle domande della crisi, senza che nessuno abbia invocato una
sorta di Norimberga per ministri e deputati che, di fatto, hanno truffato la
Grecia e l’Europa.
Ioannis è un insegnante in
pensione da due anni. Prima del piano della troika ogni mese riceveva 2.180
euro, oggi solo 1.500. Mi guarda fisso, dopo aver fatto un bagno da trentotto
gradi alla sorgente naturale delle Termopili (dove Leonida si immerse
duemilacinquecento anni fa prima di affrontare Serse) e mi chiede: ma la
pensione è un diritto dei lavoratori o un regalo dello stato? “Io l’ho pagata
con quarant’anni di servizio e di contributi, in base a quale principio oggi mi
viene decurtata di ben 500 euro? E per garantire chi o cosa? Forse le banche
francesi o tedesche?”. È un dato acquisito, anche da parte degli elettori più
radicali, che non si poteva andare avanti con il metro con cui la Grecia è
stata governata fino ad oggi, aggiunge, ma “la colpa è della cattiva politica
che ci ha condotti sino a questo punto di schiavitù e di mancata dignità”. Per
queste ragioni lui è stato tra quelli che hanno contestato fuori dalla Voulì un
mese fa con il famigerato lancio di yogurth, per questo si augura che la classe
dirigente che ha prodotto lo sfacelo attuale esca sconfitta dai riverberi post
elettorali. Come è cambiata la sua vita? Si consuma meno carne, il carrello
della spesa è tendenzialmente più leggero, addio alle gite domenicali, i prestiti
con le banche vedono il 75% dei clienti morosi con almeno sei mesi di
arretrati. Insomma, ci si prepara ad un inverno freddo, e non solo per via dell’aumento
del prezzo dei riscaldamento. Ma la cosa peggiore è che “hanno tolto a tutti un
futuro, vallo a spiegare il piano della troika a quelli che prendono la
pensione minima di 250 euro”. Mentre un paio di telegiornali danno la notizia (non
ancora confermata) che le mogli di alcuni deputati sarebbero state assunte in
parlamento, anche con una buonuscita da decine di migliaia di euro, mentre
Ioannis ha atteso più di un anno per la sua liquidazione. “Con quale coraggio
gli stessi politici che hanno ingannato di conti, che non hanno vigilato, che
hanno anche scommesso azioni sul default, oggi ci chiedono nuova fiducia? Non
se la meritano”.
Ecco che allora lo scenario si
arricchisce di una chiave di lettura più ampia. A questo punto non c’è solo da
interrogarsi sul voto di protesta verso le “ali” estreme, come i neofascisti di
Alba dorata al 7%, o i comunisti più ortodossi del Kke all’8,4%, senza
dimenticare l’astensione al 40%. Piuttosto politologi ed analisti, ma
soprattutto l’intera classe dirigente continentale farebbe bene a guardarsi
allo specchio e ragionare senza pregiudizi o paraocchi su una nuova forma di
unione che al momento latita. Che sia meno ingiusta di quella che si è vista
fino ad ora, attenta a tutte le fasce sociali, non solo ai banchieri o ai
centri di potere rimasti illibati dalle misure di austerity. Chiedere più
Europa, non significa essere accusati di antieuropeismo dunque. Lo ha fatto la
vera sorpresa delle elezioni elleniche, il 37enne Alexis Tzipras alla guida del
Syriza, secondo partito del paese: che non ha cavalcato il facile populismo del
“fuori dall’Europa subito”. Ma ha puntato sulla rinegoziazione del piano della
troika, guadagnando consensi trasversali, anche al di qua dell’elettorato
classico di sinistra.
Serve allora un’idea, una rupture,
uno sforzo propositivo innovativo, non un rinchiudersi all’interno di
consuetudini vecchie che puzzano di chiuso e di marcio, ma almeno rispettando
la volontà popolare (a meno che non si voglia ufficialmente considerarla carta
straccia). E allora, al di là di numeri, bizantinismi e possibili gattopardismi
in salsa ellenica (il vero pericolo), quello che conta è il macroelemento post
urne: il duo “Merkozy” è già ieri. Adesso, prima di ogni altra cosa, serve
ripensare l’Europa su cui calibrare stati equi, sociali e intimamente
democratici. E farlo seriamente, senza pericolosi ritorni al passato. Per far
cambiare idea al triste Ioannis, che sostiene come “nella culla della
democrazia, oggi non è solo morta quella forma di governo e di convivenza di
popoli nata proprio qui: oggi è morta la speranza”.
Fonte: Gli Altri settimanale dell'11/5/2012
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