venerdì 24 dicembre 2010

Il sangue che bagna la bellezza,fino all'ultimo respiro

Da Ffwebmagazine del 24/12/10

Il rifiuto, il rapporto non corrisposto, la decisione di spezzare un’onda di amore. E poi la bieca indole umana, i disastri delle sue mani, capaci perfino di “sporcare le stelle”. Con una correggibilità che, al momento, non si vede.
In un amalgama poetico che profuma di sentimenti, amari, crudeli, forti e violenti. Bagnati dal sangue, il sangue della passione, che annaffia tragedie o quotidiane vicissitudini di un’esistenza intensa e non effimera, ma tragicamente improntata alla rinuncia. Scolpita nei versi di Sangue Poesia, di Antonio Saccà (Poesia Edizioni Artescrittura, euro 15, pp.144), con la mente del protagonista, l’anziano professore Ignazio La Càvera, accecata dal sangue, dal verbo uccidere, in un macroscopico errore giovanile, quando preferì tirarsi indietro “anziché dominare, potendolo”. Affrescando una vita senza coraggio di osare, senza orizzonti, al cui interno ogni battito sistolico è letto come una pugnalata che ritmicamente affonda in quel cuore. E produce vuoti, delusioni, odi, liti, rabbie, separazioni.

Dove ciascuno a seguito di quel bivio proseguirà il proprio cammino a modo suo, consapevolmente certo di un fatto oggettivo. Fino a morire, “in luoghi sconosciuti all’altro”, a segnare un’ulteriore frazionamento di due esistenze ormai agli antipodi. In quella valle di lacrime, dunque, la ferita è data sì dalla separazione, ma sotto quella carne che ulula la propria disperazione, sotto quella pelle morta a causa di violenze, c’è un’altra ferita. Altrettanto grande e profonda, che fa soffrire, che provoca bruciori indicibili.

Mentre la prima è data dagli “amori vissuti tuoi, che mi infierirono”, già di per sé forte tracciato letterario di un cuore infranto, la seconda è infilzata dal “non vivere con me oggi”. In una quotidiana solitudine acefala che profuma di rassegnazione. Con la consapevolezza dell’elemento mancante alla gioia di due cuori, da ritrovare ne “l’ardire di volerla”. In un ventaglio di amore che avrebbe perdonato tutto, anche il tradimento. Spingendosi anche ad accogliere coraggiosamente l’amor dell’amata nei confronti di un altro, fino a questo punto sarebbe giunto il nostro.
Ma a tutto c’è un limite, in panorami e viaggi infiniti c’è un punto dal quale non si fa più ritorno, e Saccà lo identifica in un baluardo estremo, che prende il nome de “la paura di amarmi”. Il timore, quell’ansiogena rivendicazione che anestetizza comportamenti e sguardi. Ecco il vero nemico. Da cui l’amata si allontana ancora di più, o forse vi farà mesto ritorno, in quanto naufragherà “verso chi non hai voluto amare”. Paura di amare, ma anche di vivere, di alzare lo sguardo, di aspirare aria pulita.E poi il sangue, elemento primario delle poesie, una sorta di bussola come termine ultimo del viaggio, dei rintocchi di lancette che segnano il tempo: il tempo dell’amore. Che separano il giorno dalla notte e i mesi dalla fine dell’anno. Ma anche omega tragica di una passione, fine di un bi-sentimento. Che da un lato è rifiutato, ma dall’altro si conforma in dura rivendicazione di quanto dato e di quanto si sarebbe potuto dare. E non solo per chi quel gesto avrebbe offerto, ma soprattutto per colei che lo avrebbe ricevuto.

Consegnandolo su un vassoio di effusioni ed emozioni, e che invece sono sostituite da spine di una rosa che nessuno ha voluto cogliere sino in fondo, a causa proprio del protagonista. Ed ecco la pazzia, non stato confusionale attraverso il quale confrontarsi con attimi indecifrabili o pensieri sconnessi. Bensì simbolo di una donna, “la pazza del mio ultimo giudizio, la mia condanna, sparita, silenziosa, perduta”. Dove ella non incarna semplicemente un muro invalicabile, un contorno effimero di una portata scomparsa. Ma si erge a cappio perenne di sofferenza. In un tragitto di sangue, dove esso si fa “nero, nero come la notte. Nero come la morte, nero come la coscienza degli uomini”.Il passo successivo, però, non si concentra solo nel rifiuto dell’amore, in quel fiore chiuso e che non si schiuderà ad occhi anelanti che cercano solo un pertugio, uno spiraglio in quel buio.
Ma quando Saccà scrive “il Tempo ha concluso il suo delitto quotidiano, non abbiamo che vita, viviamolo” invita al battito di un cuore, al morso di denti affilati che fanno male, all’incedere dei giorni intrisi di sensazioni, passioni, gioie o dolori. “E se non vuoi- aggiunge- se non senti di vivere con me, vivi con chi vuoi, ma vivi, non addormentare l’esistenza, non temere di osare, non ostacolare i tuoi desideri, né chi ti desidera”.
In poche parole: “vivi!”

martedì 21 dicembre 2010

E se un ministro del Futuro disegnasse l’Italia di domani?

Da Ffwebmagazine del 22/12/10

Ecco la vera scossa a certa classe dirigente sorda e superficiale. Ecco la vera scossa alla politica che ormai non scende più in piazza, che non conosce la gente né tantomeno i giovani, se non solo il mese prima delle elezioni. Ecco il vero filo di seta che potrebbe unire, non strumentalmente, il palazzo ai cittadini e questi ultimi al proprio legittimo domani. Dando slancio a un innovativo ruolo: il ministro del Futuro, come proposto qualche giorno fa dall’ex commissario europeo Mario Monti. E, aggiungiamo, che accorpi dicasteri poco funzionali come l’Attuazione del Programma, la Semplificazione legislativa, le Riforme, il Federalismo. Una figura elevata e lontana dalle contingenze della politica spicciola, quella che balbetta quando si trova al bivio della vita, o che delega scelte fondamentali, o che ritarda riforme imprescindibili perché toccano gli interessi di uno solo.

Ma che invece sia in grado finalmente di volare alto, disegnando percorsi, prevedendo scenari, anticipando criticità, solcando strade nuove. Leggendo insomma fra le righe degli avvenimenti, studiando analiticamente cause per agevolare effetti. Una cosa seria, buona e giusta, che si apra alle istanze di tutti, che ragioni sull’ampio respiro, che non si trovi domani a fare tristemente i conti con l’incompetenza dell’oggi. Ciò che una reclame del passato e del presente - «prevenire è meglio che curare» - dovrebbe aver insegnato a chi sta nella stanza dei bottoni. E che invece mostra disinteresse verso i bisogni di quei ragazzi che tra vent’anni potrebbero essere classe dirigente, o popolo delle partite Iva, o ricercatori, o liberi professionisti, o docenti universitari, o artigiani. Insomma, a quel popolo che domani sarà il motore del Paese, l’architrave sociale di una nazione e al quale oggi la politica semplicemente non sta parlando.
Né possono essere sufficienti i (pochi) contributi a pioggia per iniziative slegate e buone forse per tagli di nastri e mini progetti non certo risolutivi di un malessere diffuso. Ma è poi così difficile comprendere come le basi poste oggi rappresenteranno le fondamenta per lo sviluppo futuro? È impresa titanica, ad esempio, riuscire a convincere chi decide le sorti degli studenti che sarebbe il caso di ascoltare cosa quegli stessi studenti pensano, immaginano, propongono? O riuscire a convincere chi scrive la riforma della professione forense, ad attivarsi per ascoltare le istanze di avvocati e praticanti? O chi si sente investito del potere di ridisegnare la giustizia (per l’interesse di un singolo), ad ascoltare quei magistrati le cui scorte non hanno più un litro di benzina nei serbatoi delle loro auto?

È come se un ingegnere impegnato nel progettare un ospedale, non si consultasse preventivamente con chi quel nosocomio dovrebbe poi utilizzare ogni giorno, infischiandosene anche del fabbisogno di quella struttura, della ricettività del territorio, della capienza di un bacino di utenti. Assurdo.
Amministrare il futuro è anche questo: una figura che lavori per farla finita con la politica legata alla contingenza dell'oggi, dove i protagonisti si preoccupano solo di dichiarare in abbondanza e a sproposito, come le cronache di questi giorni- e non solo- testimoniano, senza preoccuparsi di capire e proporre, senza evitare rischi di demagogia, di populismo, di esasperazione dei toni e quindi dello scontro. Senza rispetto per l’altro, piccolo o grande che sia, senza la benché minima considerazione per il più debole, per i cassintegrati italiani che affronteranno un Natale pessimo, o per quegli immigrati che lavorano senza delinquere, o per quelli che delinquono e che, al pari degli italiani, devono poter essere rieducati.

In quel limbo melmoso dove vale tutto e il contrario di tutto, dove un ministro della Giustizia in un’ispezione ha già scritto la sentenza di colpevolezza per ragazzi e ragazze. In un mondo alla rovescia che va riordinato, spingendo più in là caste, baronìe, assunzioni per chiamata diretta, feste, festini e rimpasti. Ma non per la voglia di introdurre un rigido ordine da caserma, ma solo per dare logica e ragione a un palcoscenico che in apparenza si proclama dritto e sull’attenti, ma che poi si rivela caotico e pretestuoso.
Ecco la portata del ministro del Futuro, il cui raggio di azione sia nell’oggi ma solo per lo spazio-temporale utile a costruire il contenitore di domani, abbandonando finalmente quella polverosa e stucchevole contingenza. Dove conta dichiarare, apparire, inaugurare, anche se poi ciò che si dichiara, o quello che si fa vedere in video o il luogo che si inaugura, alla fine è un triste ripostiglio: vuoto e pieno di ragnatele.

Tutti in piazza con gli studenti per i diritti, senza violenze


Da Ffwebmagazine del 21/12/10

Un invito ad andare in piazza, senza sigle, o targhette di riconoscimento o bandiere, ma solo facendo orgogliosa mostra del proprio senso civico, della voglia di quella generazione che va dai 35enni ai 50enni di oggi, di riprendere il filo di un discorso, di riannodare rapporti con gli studenti. E lontani dalle infinite contrapposizioni, per impedire che il conflitto sia ridotto allo scontro tra polizia e giovani. È l’auspicio lanciato dal gruppo di lavoro del portale informativo Gli italiani, un richiamo a quanti domani decideranno di scendere in piazza per sostenere gli studenti. Perché motivati dall’essere cittadini coscienziosi, gente comune che ha a cuore quello spirito civile che anima imprese e propositi. E la motivazione è che mercoledì 22 dicembre, nelle strade della Capitale non sarà solo celebrato il voto ultimo della riforma Gelmini, con il conseguente pericolo di “eliminare” un’intera generazione. Ma ci sarà, sostengono, una «sfacciata prova di forza per liquidare il patto sociale e la nostra democrazia costituzionale».

La presenza accanto a quei giovani servirà ad impedire che vengano violati diritti e integrità: di chiunque. Di chi ha il legittimo proposito di manifestare la propria contrarietà, non solo di fronte ad un singolo atto legislativo, ma più in generale nei confronti di una classe dirigente con la quale è difficile interloquire. E di chi assicura ai cittadini la quotidiana sicurezza, dal momento che combatte le mafie, con rischi altissimi e con stipendi non altrettanto alti. Perché allora questa chiamata a raccolta? Per una ragione semplicissima, la stessa che i giovani stanno urlando disperatamente: in questi giorni sono in gioco la tenuta sociale e legale del Paese, la democrazia di un popolo, i diritti di tutti.
Si tratta di un vero e proprio patto fra generazioni, soggetti che non possono più chiamarsi fuori da un palcoscenico che invece va vissuto, si legge nel manifesto appositamente redatto. Definiscono la violenza una non-soluzione. Non lo è per chi manifesta contro chi vorrebbe cancellare diritti fondamentali. E non lo è nemmeno «per chi considera l’ordine pubblico una pax bellica». In quelle righe vergate da veri e propri sentimenti di coscienza civile, si allontana lo spettro del muro contro muro, perché figlio di una logica aspra e sterile. Con soggetti espulsi dalla società, relegati ai margini, incattiviti dalla precarietà professionale, da un bioritmo di vita insperato solo due lustri fa.

Ecco lo spirito di questo appello, dunque, in piazza per evitare la violazione dei diritti di integrità, per non lasciar morire ciò che è dovuto. Per srotolare lo striscione che inneggia alla vita, ai pensieri reali, nei quali si trova di tutto: dalla realtà di ogni giorno alle aspirazioni, dalle paure alle idee, dai tentennamenti alle soluzioni. Per gridare finalmente che l’Italia c’è, ed è un Paese con un cuore pulsante, con cittadini vivi e reattivi, proprio quando ci si affrettava a bollare questi adolescenti come abulici e menefreghisti, ecco fare capolino il senso civico, la voglia di partecipare e di condividere, e non solo sui social network. No, non si tratta di studenti passivi, che imparano la lezione e poi filano a casa perché “così si fa”: ma hanno voglia di mettersi in discussione, di esprimere libertà civili e politiche. Per questo è utile che vengano sostenuti, accompagnati, incentivati.
Il gruppo de Gli italiani sarà in piazza con loro, «perché la politica ufficiale in quella piazza non riesce a starci più». Anche per colpa di chi ha troppo spesso delegato irresponsabilmente. In piazza dunque, per difendere una storia, i bisogni, le speranze, i sogni di generazioni intere che sono state illuse, alle quali è stato promesso tanto. Che sono state ingannate, offese, azzerate, imbavagliate da chi intende cancellare, a colpi di strumentalizzazioni, l’univo collante che unisce popoli, Stati e società: ovvero quel tessuto che proviene dal comune senso di giustizia sociale che un Paese che si proclama democratico non può non avere.
Anche per ricordare ai palazzi romani che se i giovani sono animati dalla voglia di partecipare, di dire la loro, di muovere critiche o rilievi, la politica non è bene che si barrichi dal lato opposto, insultandoli, o delegittimandoli. Ma dimostri la propria maturità gestionale, sforzandosi di intercettare quel dissenso, di comprenderne le ragioni, e perché no, suscitando un rapporto di equilibrio con loro. Magari ricordando quell’assunto di Marco Fabio Quintiliano, secondo cui «i giovani non sono vasi da riempire, ma fiaccole da accendere».

La doppia politica di Mister Quagliariello


Da Ffwebmagazine del 21/12/19

Di lui restano impresse nelle immagini e nei ricordi le urla velenose e cariche di astio di una sera di febbraio, quando il Parlamento si ricordò di prendere in esame la questione del testamento biologico, ma solo perché la povera Eluana Englaro smetteva di soffrire. Insulti rabbiosi, occhiate spiritate segno di quella politica perennemente con l’elmetto in testa, sempre in trincea, lontana anni luce da “altri” esempi e interpreti che facevano della moderazione, del rispetto e dell’alta modalità di legiferare una priorità. Ma il vicepresidente dei senatori del fu Pdl, Gaetano Quagliariello, oltre che per quella sera del 9 febbraio 2009, viene curiosamente osservato negli ultimi mesi per via di una sorta di doppia veste, indossata in due luoghi distinti. Che, forse a causa della differente latitudine, modificano la sua linea politica.

Mentre a Roma fa il berlusconiano, in Puglia fa il finiano. Chiariamo: nella Capitale censura chi non la pensa come lui, svolgendo il ruolo di alter ego di un altro campione del liberalismo, come Maurizio Gasparri a sua volta distintosi, in occasione della sfiducia, per una nuova direttrice politica chiamata trasformismo cravattino, per la rapidità con cui ha sostituito al suo vecchio nodo, il colore e il modello indossato dal capo. Si dirà, di questi tempi meglio essere allineati. Ed è proprio così, come testimoniano le migliaia di dichiarazioni del senatore Quagliariello improntate più al contorno che alla sostanza.

«Sulla bioetica? Già in conflitto», ha detto, mostrando di promuovere, forzatamente, i pur importanti temi etici, a punto primario di un esecutivo, paragonabile alla finanziaria o alla spinta riformista per uscire dal pantano della crisi economica. Oppure sulla legge elettorale, «non è un tabù ma basta ipocrisie». Forse quelle del suo capo, che fa di tutto per continuare a ignorare quel 35% di italiani che non vota, e che certamente non contribuisce a far arrivare il famigerato gradimento del premier alle ridicole quotazioni del 60%, come Berlusconi ama ripetere in occasione di cene e barzellette semi ufficiali. Apprezzabile, di contro, lo sforzo culturale compiuto con la fondazione Magna Charta di cui Quagliariello è l’ispiratore, meno quello di inserirvi come praticante una ex partecipante del Grande Fratello.

A cinquecento chilometri più a sud, invece, Quagliariello è vittima di una mutazione genetica. Infatti ogni sabato è a Bari, per supervisionare le ormai - si dice - prossime consultazioni regionali che lo vedrebbero candidato per il Pdl (dal momento che le scelte di Fitto degli ultimi dieci anni si sono rivelate perdenti contro la corazzata Vendola), ma con un piglio che lo rende irriconoscibile ai suoi. Dice: «Il Pdl non deve emarginare nessuno, deve essere un contenitore dove le idee diverse abbiano pari cittadinanza, sia aperto a tutti i moderati, vada oltre se stesso e in grado di convincere anche chi ora nel partito non ci crede», parafrasando Pinuccio Tatarella, uno che veramente guardava avanti. Beh, sembra quasi voler sconfessare il capo di Arcore. Facendo riferimento al partito pidiellino del ministro Fitto, plenipotenziario berlusconiano in loco, e definendolo monopensiero, blocco granitico, unicuum dal quale è necessario distinguersi per aprire al dialogo. Contrastando l’assenza cronica di dialettica interna, l’assoluta genuflessione a un padrone che decide e dispone. Passando per feste di partito separate e conferenze stampa natalizie convocate in luoghi distinti.

Lecito chiedersi: ma chi è allora il vero Quagliariello? Quello che a Roma bastona chi alza un dito per eccepire, quello tifoso dello status quo dell’attuale esecutivo, berlusconiano folgorato sulla strada di Arcore e che brandisce i temi etici come una clava? Oppure quello pugliese che fa il custode delle minoranze e del polipensiero, in quella terra intrisa di accoglienza e di multiculturalismo? Non sarà che questa duplice cornice sia invece forgiata - ma è un solo cattivo pensiero - dalla contingenza geopolitica elettorale? Con la precisa volontà di frenare in terra di Puglia il potere del ministro Fitto? Lecito interrogarsi serenamente e analiticamente, lecito anche trarne logiche ed elementari conseguenze.

domenica 19 dicembre 2010

Fini: «L'Europa è unificata dal comune retaggio civile e culturale»


Da Ffwebmagazine del 19/12/10

«L’unità politica europea? Non potrà comporsi solo condividendo interessi economici, ma dovrà passare per un comune retaggio civile e culturale”. Non ha dubbi il presidente della Camera Gianfranco Fini, aprendo i lavori del seminario sull’unità dell’Europa, fra mito, visione e futuro, promosso dalle fondazioni Adenauer e De Gasperi, nel tracciare le linee guida della futura convivenza di popoli e Stati all’interno di quel grande conglomerato che si chiama Unione Europea, al quale però manca a volte un humus che sia più unificante. E riferito a molteplici temi contingenti, come il binomio immigrazione-integrazione. Fini fa riferimento alla riflessione avviata dalla cancelliera tedesca Angela Merkel sulle differenti tipologie di politiche migratorie sino a oggi adottate dai governi continentali.

Se da un lato sta riscontrando non poche criticità il metodo dell’assimilazionismo adottato in Francia, dall’altro non sta portando i frutti sperati quello del melting-pot tipico del centro nord Europa, in un mosaico con molteplici tessere ma che stentano a comporre un unicuum, e che si sta rivelando di contro una fucina di contrasti anche aspri, come le recenti manifestazioni di piazza testimoniano. Sarebbe bene riflettere su un tipo di multiculturalismo che non sia solo garante statico di diritti e doveri, ma che si sforzi di fare un passo in avanti, verso uno scatto più accentuato che consideri le regole fondanti delle società ospitanti come un primo punto di riferimento, e andando oltre i luoghi comuni del politicamente corretto.

Fini giudica un’illusione il fatto di utilizzare fattori economici come unico collante armonico fra persone e comunità, ma è necessario partire dall’individuo, come essere a cui deve essere garantito il pieno rispetto della dignità della persona, e accanto ad esso serve chiedere il rispetto dei valori legislativi del Paese ospitante. In una doppia condotta, dalle conseguenze ben precise, perché solo con una duplice azione, da parte di chi accoglie e da parte di chi è accolto, si potrà costruire quel tessuto di accoglienza ed inserimento che gli europei, non bisogna dimenticarlo, hanno attuato negli altri continenti nei secoli scorsi.

È chiaro che una buona base di partenza è certamente data dalla vicinanza culturale tra Italia e Germania, testimoniata non solo dalle frequenti cooperazioni tra due fondazioni culturalmente attive come la Adenauer e De Gasperi, ma soprattutto da comuni dati sociali. I due Paesi hanno in passato superato ferite profonde, e non devono secondo Fini smarrire oggi quell’altezza morale che hanno profuso nella seconda metà del secolo. Lo spirito europeo, quindi, si ritrova in una serie di atti della storia recente, come la volontà di ricongiungere le due Germanie, o l’introduzione della moneta unica, o la stesura della Costituzione europea, in occasione della quale, riflette la terza carica dello Stato, si perse un’opportunità quando non si vollero inserire le radici giudaico-cristiane all’interno della carta.

Ma il pungolo in chiave europea, sette anni dopo quell’esperienza, sta oggi nell’individuazione dei valori comuni, imprescindibili per affrontare i temi legati alla vita reale, come le pulsioni separatiste in svariati ambiti del continente, che non bisogna raccontare in toni troppo allarmistici ma che è bene tenere sotto controllo, per scongiurare rigurgiti xenofobi e antieuropeisti.

È quindi la prospettiva futura che deve stimolare l’opera di analisti e classe dirigente, dal momento che guardando all’oggi ma soprattutto al domani, si avrà un tessuto sociale sempre più pervaso da logiche di contaminazione, di scambio civile e culturale, di presenze di stranieri. Per cui non appare di ampio respiro una condotta amministrativa che sottovaluti tale dato di fatto. Quando invece si rende necessaria una valutazione a lunga gittata, per la creazione di sovrastrutture culturali in grado di fare da incubatrici ai prossimi flussi migratori.

Ecco che il presidente della Camera valuta estremamente positivo il dibattito avviato da frau Merkel, dal momento che una maggiore dialettica in ambito comunitario non potrà che portare prospettive costruttive e incoraggianti, ma solo se il dialogo verrà attuato a trecentosessanta gradi, magari coinvolgendo i rappresentanti in loco delle comunità straniere, in una sorta di agorà europeo dell’immigrazione. Che sia propedeutico a quell’integrazione che, più che data da carte bollate e visti ufficiali, deve innanzitutto essere metabolizzata nei gesti di ogni giorno.

Elogio di un altro cinema: leggero ma non cretino


Da Ffwebmagazine del 18/12/10

Perché cambiare una formula per il gusto di inseguire il mercato dei sorrisi? Perché contaminarsi con scorciatoie illusorie, per strappare consensi e presenze ai botteghini? È il dilemma di sempre, che combatte alacremente tra genuflessione al mercatismo e inseguimento della qualità. Un compromesso efficiente però è possibile, e tra i tanti cinepanettoni o web pandori già scaduti, ecco il film di Natale di Aldo, Giovanni e Giacomo che riporta la comicità sulla terra, lontana da viaggi esotici, ma saldamente ancorata a una sana e pura ilarità.

Non c'è bisogno di vallette, di parolacce e di bungabunga. Per far ridere bastano anche un paio di battute normali e simpatiche. Lo ha sempre fatto il cinema italiano, leggero sì ma cretino no. E non si venga a dire che la narrazione sullo schermo si adegua al livello dei cittadini, perché invece servirebbe recuperare quel ruolo anche educativo o pedagogico di pellicole o fiction. E poi, chi l’ha detto che per ridere bisogna scadere? Nella maleducazione, nell’insulto, nella denigrazione, nel malcostume. Non è affatto vero, sempre che si voglia produrre un qualcosa di costruttivo. Dialoghi, sceneggiature, fotografie, location: se l’intenzione è suscitare un’emozione vera e pulsante, allora è necessario impegnarsi molto. E oltre la mera immagine della bella di turno, con décolleté compreso nel prezzo del biglietto. Senza per questo voler coattamente preferire caste mise, bacchettone o troppo prudenti, non è questo il punto. Se poi si vuol solo fare prodotti in serie, con scadenza natalizia o pasquale, beh, non è il caso de La banda dei babbi Natale, ultimo lavoro del trio siculombardo.

Un cinema normale, con risate normali, fa ridere non lo stesso, ma il doppio. Perché insegna che la normalità spesso è la marcia in più, quella cosa che collega idee e fatti, mondi ancestrali a vite di ogni giorno. Dove lo spettatore si ritrova, e ci ride su, riflette, si domanda perché. E poi, dopo un’altra risata, esce dal cinema alleggerito, ma non per questo carico di parolacce, insulti e cafonaggini assortite. È quell’assembramento di frame che coinvolgono un veterinario inaffidabile, un medico in perenne memoria della moglie scomparsa e un incallito scommettitore senza lavoro.

È un film, La banda dei Babbi natale dove, se si ride, lo si fa perché la comica immagine dei tre attori produce vivo divertimento, senza ricorrere al nudo perché, forse, non si ha poi molto da far dire. È la tragicomica avventura di tre amici, è il filone delle peripezie frutto di incomprensioni grottesche, di scambi di opinioni e valutazioni, di intenzioni fraintese. Con scelte di cast distanti anni luce dal nome del momento, buono per vendere una lavatrice, ma non per “fare” un certo tipo di film. Dettagli che, uniti come si faceva anni fa con quei puntini sui cruciverba, realizzano l’immagine finale. Dove non è necessario affannarsi tra manager e agenti, impegnati tra inaugurazioni e big event per individuare la protagonista.

Senza dubbio occorre lavorare di più e meglio, sforzarsi di produrre allegria vera e non di plastica o al silicone, costruire un filone di risate che per divertire non abbiano bisogno di scollature e allusioni. In quel caso di farina del proprio sacco non ne serve poi granché, perché c’è la maschera della quarta misura di seno, della miccia provocante, dell’occhiatina magnetica, della barzelletta da cafonacci. Da rispettare comunque, ognuno in fondo guarda al cinema ciò che gli pare. Ecco, però, lì le cose sono più semplici, perché si antepone a una storia, a una trama, a un’emozione o ricordo, un’intera sovrastruttura per così dire felicemente cafonal, tanto per usare un termine alla moda e mediaticamente presente. Quasi una maschera di carnevale indossata tutto l’anno. Che fa ridere, magari per un istante, ma che poi scompare con i titoli di coda.

venerdì 17 dicembre 2010

Pietro Scoppola: lezioni di patriottismo costituzionale

Da Ffwebmagazine del 17/12/10

«L’insegnamento - diceva Pietro Scoppola - è ascolto del nuovo, il nuovo delle nuove generazioni». Ciò che spesso non si riesce a fare, non solo con i giovani, ma anche con quelli meno giovani, in una sorta di isolamento acustico che ovatta l’interlocutore, azzerandone idee, convinzioni, proposte. È la logica del non approfondimento, a causa della quale lo sbriciolamento socio-politico-culturale che è sotto gli occhi di tutti si insinua pericolosamente anche in quei pertugi del Paese che resistono coraggiosamente.
L’occasione per ricordare l’apporto di Pietro Scoppola è un delizioso volumetto, Lezione sul '900, curato da Umberto Gentiloni, di quelli che scaldano il cuore perché ritornano su pagine non poi così lontane, stimolano all’analisi e a una riflessione lontana anni luce dagli umori del momento. Ma frutto di intensi e analitici studi, senza i quali risulta complesso valutare la quotidiana evoluzione della cronaca. Pietro Scoppola proprio qualche giorno fa avrebbe compiuto 84 anni. Il libro è frutto dei suoi appunti per il corso monografico di storia, nelle sue lezioni tenute alla facoltà di Scienze politiche. Arriva quasi 40enne alla docenza universitaria e per generazione non era legato a una concezione ex cathedra, riflette Camillo Brezzi, ma all’esercizio del giudizio come un itinerario selezionato, con inquietudini contingenti da un lato, e riflessioni sul passato dall’altro.

Non troncava mai le sue lezioni al suono di una campanella o del gong di un orologio dopo il sessantesimo minuto, ma le proseguiva nei corridoi e soprattutto quelle analisi si depositavano nelle menti di chi lo ascoltava. Peculiare era l’eloquio pacato del suo costrutto, del suo ragionamento, senza supponenza o astio, ma con “altri” ferri del mestiere abbastanza rari in certe interlocuzioni di oggi: dati, analisi, teoremi, approfondimenti logico storici. Fu protagonista di approfonditi studi nei rapporti fra liberalismo e Chiesa, tra fascismo e Chiesa. La storia, dunque, come risposta alla domanda circa gli intrecci tra la Chiesa e la democrazia. Storia e revisioni le sue passioni, da cui spicca una forte intensità nel suo magistero universitario. Non una conoscenza fine a se stessa, ma una sorta di amichevole cenacolo, che affrontava anche i temi dell’attualità solo con il conforto delle nozioni storiche. Scoppola era uno storico a modo suo, parafrasandone una riflessione che egli scrisse nel volume Un cattolico a modo suo, uscito postumo. A modo suo perché non ebbe particolari maestri (o padroni, come si usa fare spesso oggi), ma solo i testi, gli amici e i familiari.
Divenne presto punto di riferimento di una generazione di nuovi ricercatori, ma non volle essere primus inter pares, bensì preferì un approccio collegiale, laico, libero, senza la rigidità di appartenenza a una scuola uguale per tutti. Scegliendo la libera libertà di insegnamento e di apprendimento. Né volle intitolarsi riviste o correnti di pensiero. Trent’anni fa i commissari universitari avevano i nomi di Pasquale Villani, Pietro Scoppola, Renzo De Felice, «forse sta tutta qui la differenza», riflette Brezzi. Nel 2002 scrisse: «In questo momento di crisi dell’università, la crisi sta tutta nel rapporto fra docenti e studenti.

Ecco il nodo dal quale dipende il futuro». Offrendo poi la chiave di lettura risolutiva, in quanto «l’insegnamento sia libero, lo prevede la Costituzione. Non servono leggi e circolari, per chiarire la validità costituzionale dell’insegnamento». È un testo di otto anni fa, ma sembra vergato solo ieri.
E allora, dove ritrovare la strategicità delle lezioni sul Novecento? Sono importanti perché frutto dello sforzo di uno studioso della crisi del modernismo, ricerche svolte in funzione dei suoi approcci universitari, come quel lavoro del 1971 intitolato Laicismo e anticlericalismo. O cinque anni dopo La proposta politica di De Gasperi, testo di un ricercatore incallito che voleva andare a fondo nelle analisi, scavando, rimettendo in discussione, provando a valutare cause ed effetti, in una modalità di cui oggi si sente una drammatica mancanza. Un consolidato atteggiamento storiografico che uno storico non può non adottare: tracciare nuove vie, sperimentarle, arricchire il percorso intellettuale con una maggiore comprensione di fatti e di opinioni, senza lasciarsi distrarre dalle sirene delle appartenenze.
Come quando analizzò quel referendum che per De Gasperi fu «vera occasione di pacificazione», il tramite per «collegare popolo e Stato». O quando all’indomani degli anni di Tangentopoli, studiò l’evoluzione e la crisi di un sistema politico, scrivendo che «il Paese è in bilico tra compimento della democrazia e nuovo punto di rottura», con una mentalità da «annozero della politica». Ma è in 25 aprile liberazione uscito nel 1995 che Scoppola, con il consueto rigore intellettuale, narra il rapporto della politica con i drammi umani all’indomani del secondo conflitto mondiale. Ribadendo in una lezione quanto mai attuale, come il passato vissuto dagli italiani, serva per costruire un innovativo tessuto di solidarietà.

Una nuova ottica storiografica, non più legata a una singola elite ma aperta a tutti. Giungendo all’assunto che «la Resistenza fu movimento sociale che si sviluppò nelle parti più interne del Paese», in quanto non corrisponde al vero il fatto che l’Italia tra l’8 settembre e il 25 aprile - scrisse - si perse «in un grigiore». Ma fece «Resistenza armata e civile, costruendo un tessuto molecolare nazionale e di responsabilità».
E ancora, altro suo cruccio fu la difesa della democrazia e della Costituzione, che gli fece dire «la storia ci aiuta a capire cosa siamo e ad essere liberi». Diagnosticando la vera soluzione al carcinoma socio-culturale del fine secolo italiano, ovvero «recuperando una cittadinanza come quella che non si può non ritrovare nel patriottismo della Costituzione, che tutti dovrebbero condividere, anche provenendo da autonome singole declinazioni».

giovedì 16 dicembre 2010

GRECIA, UNA TREGUA PER LA RIPRESA


Da Mondo Greco del 15/12/10

Ha scritto Confucio che governare “significa correggere. Se tu dai l’esempio con la tua rettitudine, chi oserà non essere corretto?”. Da ventiquattro mesi la patria della filosofia vive uno dei momenti più bui della sua storia, peggio di qualsiasi invasione del passato o guerra civile. Conti in rosso, piazze infuocate, precarietà non solo professionale ma soprattutto umana e sociale.
E se fosse un armistizio a riportare serenità in Grecia? E se si provasse, almeno per una volta, ad ascoltare anziché reprimere? Tra anniversari, misure economiche, disagi e colpevoli del crack ancora introvabili, la Grecia si avvicina al Natale pervasa da scioperi e intemperanze.

I provvedimenti di natura fiscale ed amministrativa messi in atto dal governo, se da un lato puntano a risistemare conti che da anni erano preda di una sorta di “brigantaggio” legalizzato, dall’altro stanno mettendo a dura prova la resistenza dei cittadini. Passi per le classi agiate, per i più abbienti, per i proprietari terrieri. Ma gli altri? Chi si preoccupa degli statali tagliati, o degli operai in cassa integrazione, o di quei liberi professionisti sprovvisti degli strumenti di lavoro, o di quelle famiglie monoreddito che scivolano pericolosamente verso la soglia di povertà? L’esecutivo socialista Papandreu non può certamente percorrere strade diverse dal rigore, impostogli (in ritardo) dall’Unione Europea e dagli standard economici continentali. E a caro prezzo, come testimonia l’acquisto greco di due modernissimi sommergibili dalla Germania, in un impeto di, come si potrebbe definire? Follia, sbadataggine, coincidenza, investimento fuori luogo?
Ma sarebbe stato utile, forse, aprire una finestra di dialogo con le parti sociali, con le imprese, con il mondo produttivo, con gli statali, almeno per provare ad armonizzare decisioni e ridimensionamenti, per smussare e comprendere la loro protesta. Anche perché sino ad oggi non sembra che alcun politico o burocrate abbia pagato dazio per il disastro economico del Paese. Nessun manager della pubblica amministrazione, o ministro, o deputato, sembra sia stato interrogato, o coinvolto in qualche inchiesta della magistratura per fare luce su questa grande anomalia del secolo.

E’come se un capofamiglia un bel giorno si svegliasse, e mettesse al corrente tutti gli altri componenti del nucleo familiare, dell’impossibilità a garantire loro un pasto. E con quali premesse, per quali cause, con quali e quante responsabilità? Ciò che più lascia perplessi dell’intera vicenda è la mancanza di orgoglio e di onestà intellettuale da parte dell’intera classe dirigente, che non si è sentita nemmeno in dovere di chiedere scusa non solo ai greci ma a tutti gli europei, di una condotta amministrativa suicida, con sprechi di danaro grossolani, con iniquità senza precedenti, senza una visione minimamente lungimirante.
Qualcosa, però, si può ancora fare. Prima di chiedere sacrifici, tripli salti mortali per arrivare alla fine del mese, c’è ancora qualcosa che la politica ellenica può fare. Un segno, non servirebbe altro per risollevare, almeno temporaneamente, gli umori della gente. Un segno che solo una politica alta e ragionevole, potrebbe e dovrebbe dare. Devolvendo gli stipendi del Parlamento di dicembre a chi non percepirà la tredicesima, o a chi non riuscirà a tagliare la Vasilopita, o a chi dovrà rinunciare anche al minimo per far quadrare i bilanci. In quel caso sarebbe più agevole far comprendere i perché di una manovra, partecipando assieme al popolo a quei sacrifici. Almeno testimoniando la vicinanza alla gente di una classe politica che non ha poi fatto molto per spiegare la bontà di quei sacrifici.
Contrariamente si renderebbe ancor più profondo, quel solco che divide i palazzi della politica dalla vita di ogni giorno; i grattacieli del potere, dai sottani che combattono dall’alba al tramonto per produrre qualcosa o far produrre a qualcuno. Non si tratta di svoltare politicamente o populisticamente di qua o di là, se proprio si vuol definire una strategia politica più attenta e meno avventuriera, solo prendere atto che le coordinate geopolitiche e sociali sono drammaticamente mutate. Per tutti, non solo per quei cittadini che pagano le tasse, o che rispettano le leggi, o che non cercano la scorciatoia delle fakellakia (bustarelle) per ottenere il rispetto dei propri diritti.

mercoledì 15 dicembre 2010

E grazie alla cultura sbocciano i fiori a Kirkuk


Da Ffwebmagazine del 15/12/10

Kosmos, mondo, universo. Ma anche altro, altri e ancora finestre su ciò che accade a longitudini e latitudini lontane, senza preclusioni per posizioni ed opinioni. Un approfondimento costante e sotto traccia, in collaborazione con L’interprete internazionale, per slacciare quel cordone ombelicale che troppo spesso lega l’informazione alla contingenza locale, impedendole di mettere il naso fuori dalla propria visione. (Per segnalazioni e commenti inviare una mail all’indirizzo: francesco.depalo@libero.it).

Un io, un noi, tanti loro. E poi quegli altri che li perseguitano, che brandiscono spade e tranciano vite ed esistenze. I fiori di Kirkuk, di Fariborz Kamkani, è un film che disegna passioni. Il regista, nato in Iran ma curdo da sempre, in quanto minoranza (perché relegato a oggetto da eliminare, a popolo da distruggere) narra la storia di Sherko e Najla, due giovani medici che si conoscono in Italia. Ma la diversa identità territoriale dei due (lui curdo, lei irachena), convoglia la storia verso un amore impossibile, dal momento che la dura mano di Saddam Hussein ha violentato migliaia di villaggi curdi, imprigionandone i cittadini, relegandoli ai margini sociali e politici, infliggendo loro torture e pene severe.

La pellicola restituisce frame mai andati in onda nei tg occidentali, crudi e violenti, che contrastano con i sentimenti dei protagonisti: verso la propria terra, ragione per cui decide di rimanere in Iraq nonostante la persecuzione del regime; e verso il proprio partner, che al suo interno contiene molto di più di un rapporto di coppia. Perché si tratta di un film di affermazione, di dialogo interreligioso e interculturale, attraverso il quale, rivela il regista ai microfoni de La settimana internazionale, si può far luce su un periodo troppo spesso ignorato. Del quale poco si conosce e si approfondisce, perché si ignora quel background iracheno degli anni ottanta di usi e costumi, di circostanze, di delegittimazioni, di minoranze ignorate o colpite.

E se quella sceneggiatura fosse oggi presa in considerazione per tracciare nuove linee in un Paese solcato da mille cambiamenti e metamorfosi in chiave democratica? E se fosse proprio l’esempio di Najla, decisa a mutare gli eventi grazie al proprio senso di responsabilità, a spingere i protagonisti dell’Iraq di oggi a valutare anche l’opzione culturale come strumento di rinascita? Una strada percorribile, dal momento che di questo Paese noto per il petrolio e per essere stato scenario di guerre vicine e lontane, manca un’approfondita visione di insieme. Con scenari che si sono rapidamente accavallati, intrecciati, con sangue e vittime, da una parte e dall’altra. Con strumentalizzazioni frequenti, di questo o quell’esponente. Con condanne a morte, con celle umide di carceri medioevali, con elezioni, esecutivi, dubbi e speranze.
Servirebbe più cultura del dialogo, ammette Habeeb M. H. Al-Sadr, ambasciatore dell’Iraq presso la Santa Sede, nell’analizzare la contingenza di oggi, legata a quegli omicidi che vedono cittadini di fede cristiana assassinati senza un apparente motivo.

Secondo il diplomatico il traguardo dei terroristi è di innescare una guerra civile, supportata da un conflitto interreligioso, per distruggere lo spirito democratico che lentamente sta tornando nel Paese. Non ha dubbi l’ambasciatore nel dissipare i dubbi circa una persecuzione ad cristianum, all’indomani dell’uccisione di altre due persone, freddate nella loro casa di Baladiyat, zona prevalentemente sciita di Bagdad. Secondo fonti militari a premere il grilletto sarebbero stati individui non iracheni, lasciando intendere la matrice straniera. A seguito di questi fatti di sangue, è salito a 500 il numero delle famiglie cristiane che cercano riparo in Kurdistan.

Due gli elementi da cui ripartire, entrambi di matrice legislativa, con la nuova Costituzione che appare inclusiva al pari della nuova legge elettorale che consente ai cristiani una quota parlamentare di cinque seggi. Provvedimento che rientra nel solco della politica avanzata dal premier Al-Maliky, per un governo di unità nazionale che non sia dei più forti, ma garanzia di tutte le rappresentanze. Certo, permangono dubbi e incertezze, come il fatto che il Paese sia rimasto per nove mesi sprovvisto di una guida politica, troppi per una comunità dagli equilibri fragili come l’Iraq. O come il fatto che inizialmente gli americani abbiano lasciato interamente in mano agli iracheni la questione della sicurezza interna, dato che ha favorito le escalation terroristiche che, oggi, continuano a sfruttare eventi come le rappresaglie contro cristiani e contro alcune moschee del Paese, per ottenere un eco mediatico in occidente. Non bisogna dimenticare che si stanno chiudendo ancora conti del passato rimasti in sospeso, si veda la condanna a morte inflitta a Tarek Aziz, il cosiddetto volto presentabile del regime di Saddam.

Nonostante evidenti passi in avanti, politici, amministrativi e sociali, ciò che non convince è la possibilità prevista dalla carta costituzionale di costituire regioni per cittadini cristiani, ma solo su loro richiesta. Un’eventualità miope di creazione di veri e propri ghetti, i quali più che l’integrazione ed il rispetto dei diritti umani e religiosi di tutti, segnerebbero un ulteriore confine invalicabile tra popoli che, nei secoli passati, sono riusciti tranquillamente ad esistere nello stesso Paese. Fino a quando la politica e i macrointeressi non si sono infilati in quel pertugio di convivenza.

domenica 12 dicembre 2010

Tutto quel silenzio che può uccidere di nuovo

Da Ffwebmagazine del 12/12/10

Da 37 anni su 32 morti è calato un silenzio triste e indecoroso. Che ha taciuto cause e perché, indizi e ipotesi, ma anche che ha scoperchiato circostanze e successive ammissioni. I nomi di quelle 32 persone non esistono in alcuna carta processuale, come i nomi dei mandanti. Nessuno sino a oggi ha cercato fra documenti, né si è insinuato fra le briglie di una storia oscura. O forse molto chiara. Il lavoro di inchiesta di Salvatore Lordi e Annalisa Giuseppetti in Fiumicino 17 dicembre 1973 parte da un dato di fatto, da quel patto semi segreto detto Lodo Moro, la stipula del fantomatico accordo tra palestinesi ed italiani, siglato durante un incontro presso l’Ambasciata d’Italia al Cairo nell’ottobre del 1973. Allorquando iniziò la guerra del Kippur e solo 60 giorni prima dell’attacco a Fiumicino.

Patto di cui, approfonditi dettagli, sono stati illustrati in un intervento sulla stampa italiana vergato da Francesco Cossiga nel 2006, che parlava apertamente di “Patto Giovannone”, dal nome del funzionario del Sismi di stanza a Beirut. Accordo che, nei fatti, prevedeva in cambio dell’impegno palestinese a non colpire obiettivi italiani in territorio italiano, il passaggio sullo stesso di tutti i traffici di armi, di cui, riflette Sandro Provvisionato nella prefazione, «la stagione dei dirottamenti anni prima e quella ancora più selvaggia degli attentati mirati dopo, prevedeva». Il lavoro degli autori si scontra, però, con l’assenza di atti processuali. Come risulta dall’intervista a uno dei magistrati di punta della lotta al terrorismo, Rosario Priore, il quale conferma come negli ultimi anni, stia emergendo una verità storica della vita del Paese. Ovvero l’esistenza tra l’Italia e tra diversi settori della resistenza palestinese, di un «ben congegnato patto di non belligeranza, gestito da uomini dei servizi italiani». Il libro non punta solo a fare luce sulla vicenda da un punto di vista giornalistico, anche grazie alle parole dei protagonisti dell’epoca, ma riesce ad evitare quella fastidiosa deriva che inevitabilmente cade nel tranello politico, nella solita definizione della cronaca da un punto di vista meramente di fazioni.

I fatti: siamo a dodici mesi dal famoso attentato terroristico di Monaco di Baviera, quando un commando di Settembre Nero lancia due bombe a bordo di un volo Pan-Am, nella piazzola di sosta del Leonardo da Vinci. Trentadue i morti, diciassette feriti, oltre al sequestro di un altro aereo della Lufthansa, sino alla conclusione dopo più di un giorno in territorio Kuwaitiano. Come mai, si chiedono gli autori, nonostante il Mossad avesse segnalato ai servizi italiani la presenza a Ostia di cinque arabi- poi arrestati- non venne rafforzata la vigilanza a Fiumicino? E come mai nessuno di quei testimoni è stato ascoltato dagli inquirenti? In questo groviglio di spie, mezze spie, ministri e depistaggi, il libro si chiede se il massacro sarebbe stato evitabile. Ed è stato scritto interloquendo con quei volti e quegli occhi presenti in quelle ore di trentasette anni fa, quando una mattinata uggiosa di metà dicembre, sfociò in tragedia.
Come quando di scava nei molti punti oscuri. Uno dei Carabinieri in servizio quella mattina, ad esempio, ha rivelato che le telecamere puntate sulle postazioni di controllo-passeggeri dove avvenne l’attentato, erano misteriosamente spente. E ancora, una delle donne ferite lievemente, la sedicenne saudita Robin Haccard, venne comunque sorvegliata a vista nel nosocomio fino al chiarimento della sua posizione: perché tanta attenzione nei confronti di una ragazzina?
Lo scalo romano era di fatto diventato un obiettivo del fondamentalismo: tre mesi prima il controspionaggio italiano, su segnalazione dei colleghi di Tel Aviv, aveva bloccato cinque cittadini arabi che a Ostia stavano progettando l’abbattimento di un aereo israeliano. E quello stesso giorno dell’attentato a Fiumicino, si sarebbe dovuta celebrare un’udienza di quel processo. Solo coincidenze?

Salvatore Lordi e Annalisa Giuseppetti
Fiumicino 17 dicembre 1973. La strage di Settembre Nero
Rubbettino editore
Pp.181, euro 13,00

venerdì 10 dicembre 2010

Ma i veri bamboccioni sono quelli che dimenticano la cultura

Da Ffwebmagazine del 10/12/10

Altro che bamboccioni trentenni. Qui pare che l’epiteto stoccato qualche tempo fa da Tommaso Padoa Schioppa sia oggi da riconvertire - e senza offesa - verso chi non si impegna a sufficienza per la cultura e l’istruzione del Paese. E se è vero come è vero che l’assioma “con la cultura non si mangia” è stato sbugiardato da più parti. Chi nutrisse ancora dei dubbi potrebbe dissiparli rapidamente osservando come altre realtà del pianeta, con certamente meno opere artistiche e storiche dell’Italia, gestiscono commercialmente la cultura con ricavi interessanti.

Scrive il professor Giovanni Sabbatucci sul Messaggero che «ci sono appelli inascoltati, responsabilità di cui l’Italia è investita perché il massimo contenitore mondiale di beni artistici e siti di rilevanza culturale», come Silvio Berlusconi ama ripetere (solo) in campagna elettorale. E ancora, «investire nella cultura e nella storia italiana non è solo un obbligo, ma rappresenta uno straordinario asset economico». Per intenderci, se Pompei, in qualità di sito unico nel suo genere al mondo, richiama da tutti i continenti milioni di visitatori, è uno scempio non provvedere ad una manutenzione dal doppio significato: conservazione di un patrimonio culturale che tutti ci invidiano e incremento degli utili che quelle visite e quei turisti consentono. Ecco ciò che una politica seria e lungimirante dovrebbe fare, anziché ignorare eventi e trascurare tesori nazionali, così come il Ministro della Cultura ha inteso fare, prima disertando la Mostra del Cinema di Venezia, e poi, solo due giorni fa, la prima Alla Scala di Milano.

Sabbatucci prosegue la sua analisi rilevando come, complice la scarsità di fondi e a questo punto si aggiunga anche di mentalità europea, non sarà più sufficiente trovare i pochi centesimi che ormai il governo ha deciso di assegnare a cultura e istruzione, ma l’impresa più difficile sarà evitare di spenderli «in pratiche politiche e clientelari. Di contro servirebbe una gestione fondata sul merito di spesa per siti e opere d'arte italiane, tralasciando l’assegnazione di micro-interventi a pioggia», allo scopo di ottenere visibilità per un solo giorno.

Come il caso di alcune delegazioni straniere ospitate a kermesse cinematografiche nostrane, tanto per fare un esempio. Capovolgere queste pratiche, invita dunque Sabbatucci, anche in considerazione di un dato di fatto di cui, il non prenderne ulteriormente atto, fa semplicemente venire i brividi. L’Italia potrebbe con tre riforme dirette e massicce, dare una sterzata decisiva ai propri conti: incentivando la produzione artistica con sgravi fiscali ed investimenti su giovani idee; intervenendo legislativamente su un’editoria plurale, sia per evitare che grosse fette di media confluiscano in singole mani, sia per svecchiare l’informazione del Paese; capovolgendo il sistema universitario, facendo della ricerca e della conoscenza un’industria vera.

L’invito quindi rivolto ai ministri della Cultura e dell’Istruzione è di sforzarsi di non far apparire come tedioso e inutile l’intero comparto del sapere in questo Paese. In quanto si commetterebbe (anzi, si sta già commettendo) un doppio errore: cassare le spinte propositive delle eccellenze, mortificando un tessuto socio-culturale che non ha nulla in meno degli altri; e consegnare i cervelli italiani a una nostalgica mediocrità. Tra l’altro prendendo spunto da una lodevole iniziativa firmata in prima pagina sul Corriere della Sera di ieri da Mary Beard, docente di Storia antica all’Università di Cambridge, quindi non proprio l’ultima d’Europa: è riuscita a fare ciò che Bondi nemmeno ha provato ad abbozzare, ovvero rivolgere un appello alla comunità internazionale per non lasciare solo sulle spalle dell’Italia il fardello della conservazione di un luogo unico come Pompei. Ancora una volta, una lezione per i politici di casa nostra.

mercoledì 8 dicembre 2010

L'ambasciatore iracheno: «Così costruiremo la democrazia»


Da Ffwebmagazine del 08/12/10

Kosmos, mondo, universo. Ma anche altro, altri e ancora finestre su ciò che accade a longitudini e latitudini lontane, senza preclusioni per posizioni ed opinioni. Un approfondimento costante e sotto traccia, in collaborazione con L’interprete internazionale, per slacciare quel cordone ombelicale che troppo spesso lega l’informazione alla contingenza locale, impedendole di mettere il naso fuori dalla propria visione. (Per segnalazioni e commenti inviare una mail all’indirizzo: francesco.depalo@libero.it).

«Le violenze in Iraq? Non sono concentrate contro i cristiani, ma prendono il nome di terrorismo. Un modo per stare al centro dell’attenzione sui media europei». Non ha dubbi Saywan Bazani, ambasciatore iracheno in Italia dai microfoni de Settimana Internazionale, nell’allontanare le ipotesi di razzismo religioso, in occasione dei recenti attacchi contro alcuni cristiani nel Paese. Un territorio che tra l’altro sta per registrare un vistoso incremento di produzione petrolifera, passando dagli attuali 2,5 milioni di barili al giorno ad un dato che potrà essere a breve quadruplicato. Numeri che contribuiscono a fare chiarezza sulla situazione generale dell’Iraq, dove il ministero dell’elettricità metterà presto a gara 22 bandi per la progettazione di turbine a gas, che sicuramente andranno ad incrementare la capacità di produzione di energia del 30% circa nel prossimo quinquennio.

È un binomio, quello tra aspetti sociali ed energia, che viaggia saldamente unito, e non potrebbe essere diversamente a queste latitudini. Dove il processo di ricostruzione epidermico di un Paese e dei propri individui, passa inevitabilmente però anche da altri versanti. Non solo economico, ma sociale, culturale, umano. È da salutare senza dubbio come un dato incoraggiante il fatto che per le strade della capitale circolino nuovamente cittadini sino a tarda ora, con negozi ancora aperti e una vita che lentamente tenta di ritornare a ritmi normali. Dove i docenti universitari, che sino a ieri guadagnavano quattro dollari al mese, oggi ne prendono mille volte di più. Mentre i poliziotti hanno un salario da ottocento dollari. Testimoniando un’oggettiva mutazione degli standard qualitativi di vita. Accanto alla quale non mancano pulsioni nervose, come il risentimento che ancora esiste nella popolazione sunnita, o come il fatto che ancora oggi la gran parte dei cittadini (anche gli indigenti) sia costretta a pagare mensilmente cinquanta dollari per l’attacco ad un generatore energetico privato, in quanto l’elettricità pubblica in Iraq non funziona. Non si spiega, inoltre, come mai dopo l’occupazione americana settennale molte centrali elettriche non siano ancora state ripristinate: elementi niente affatto marginali che hanno un forte impatto sulla popolazione.

Dallo scorso 11 novembre in Iraq esiste un premier, un presidente, un capo del Parlamento: impegnati proprio in questi giorni nella formazione dell’esecutivo. Impresa non semplice, anche in considerazione delle contingenze che lo attendono: l’approvazione della legge sugli idrocarburi, la costruzione di nuove infrastrutture in un Paese provato da guerre ed embarghi, il referendum sull’annessione di una nuova provincia ricchissima di petrolio, il pericolo di nuovi conflitti interconfessionali. Oggi questo Paese da sempre solcato da presenze multietniche e multireligiose è chiamato a recuperare una sorta di bilanciamento tra le varie componenti. Bazani fa riferimento alla nuova Costituzione irachena, che affida ai cittadini la propria quota di rappresentanza all’interno del nuovo Parlamento. Ma occorre ancora del tempo, per assicurare il corretto bilanciamento tra le varie singolarità, compiendo uno sforzo corposo in direzione dei diritti umani, dell’armonizzazione di esistenze. Le differenze che vi sono tra i partiti iracheni, sostiene Bazani, si riferiscono a quelle delle due maggiori comunità etniche presenti nel Paese, arabi e curdi, tra liberali e islamisti. Con background ideologici certamente diversi, ma che nella complessità incarnano tutto lo spettro della globalità irachena. Non vi è quindi uno Stato (come accade in occidente) nazionale, unitario e monolingua, ma con alla base una precisa varietà etnico-culturale, dove i singoli partiti incarnano le tendenze etniche del proprio elettorato di riferimento. Quattro etnie, catalizzate dalla lingua: curda, araba (maggioranza), assiro-caldea e turkmena.

Ecco lo sforzo della Costituzione irachena, dunque, di realizzare una sporta di bilanciamento giuridico e sociale tra le suddette comunità, con le singole peculiarità, esigenze, direttive. Una scommessa senza dubbio complessa, rischiosa e che per essere vinta necessita del concorso di molteplici fattori, anche e soprattutto esterni al Paese. Il riferimento è alle influenze iraniane, secondo alcuni decisamente marcate nell’ultimo periodo, con le inevitabili ripercussioni sullo scenario internazionale. Che però l’ambasciatore ritiene solo «ipotesi naïf, dal momento che sarà proprio costruendo un Iraq democratico e indipendente che si potrà esportare quella democrazia e quell’indipendenza agli Stati limitrofi».

martedì 7 dicembre 2010

La smania del verdetto, che mortifica fatti e persone


Da Ffwebmagazine del 07/12/10

«Noto in Italia - scriveva a inizio secolo Benedetto Croce a un giovanissimo Giovanni Laterza - una sorta di ebetudine, bisogna avere fiducia nell’avvenire e coraggio nel presente. Passerà». Sembrano parole attuali anche cento anni dopo, rivolte all’oggi, a quel torpore che sta investendo non solo un Paese nelle grandi vicende più o meno note, ma soprattutto nelle sue membra, nelle viscere più interne, più profonde, nella quotidianità. Dove sembra che un abbraccio soporifero ma disordinato voglia inglobare tutto e tutti. Con una marcata approssimazione, con strafalcioni sempre più frequenti, con incroci di ruoli, con posizioni indefinite e caotiche. Dove tutti si affannano a giungere per primi a un verdetto, per la smania di dichiarare, di ottenere un colpevole, per poi scagionarlo, ma un minuto dopo ributtarlo in galera. Senza un ordine, senza senso, senza logica.

La resa dei conti immediata, la confusione completa di sentimenti ed emozioni: è la patologia nostrana del terzo millennio, strabordata in quel di Avetrana e che ora rischia di fare nuovamente capolino nell’episodio che ha coinvolto la giovane Yara nel bergamasco. Con un indiziato immigrato che, a causa di un banale errore di traduzione, è passato in poche ore dallo status di mostro a soggetto che non può più essere trattenuto, quindi prossimo al rilascio. Con striscioni xenofobi e carichi di odio issati a vessillo identitario un momento fa, e con le immancabili dosi di retorica che, da oggi, verranno probabilmente pompate nel circuito mediatico. In uno scenario dove manca la misura, il raziocinio. Sarebbe utile comprendere come, allorquando i dati e i riscontri fossero più chiari ai fini probatori, la si smettesse una volta per tutte di appiccicare targhette di riconoscimento o patenti di vita. Se il cittadino marocchino dovesse in una seconda fase risultare coinvolto nella vicenda, non si confonda un caso singolo con il risentimento verso una comunità. Se fosse confermata la sua estraneità ai fatti, la si smetta di cercare un colpevole lì dove magari non c’è.

È così difficile immaginare un sistema, non solo giudiziario, ma a questo punto sociale, dove i fatti siano valutati per quel che sono? E senza dietrologie, elucubrazioni, secondi fini, ulteriori passaggi fanatici ed allusori? Fatti, numeri, dati. E ancora reati, commessi o no. Favoriti o meno. Questa è la maturità di uno Stato, dei suoi tre poteri, ma a questo punto anche del quarto, che spesso invece non aiuta a fare chiarezza, ma cerca l’effetto, stimola il colpo di scena a tutti i costi. Una deriva che causa anche angoscia nei cittadini, nei genitori che ora si interrogano sulla sicurezza, si preoccupano dei propri figli. Ecco il caos, il disordine di pensieri e di emozioni, dove questo comportamento irresponsabile produce danni a tutti: alla comunità di quel comune, ai cittadini immigrati che lì lavorano, pagano le tasse e tentano una difficile integrazione, a quei datori di lavoro che hanno dato loro fiducia, ai vicini di casa.

Insomma, aveva ragione Croce in quella missiva, dura ma in conclusione fiduciosa, perché chiudeva la sua valutazione con una nuvola di speranza. Ma non fine a se stessa, abulica, ed estemporanea. Bensì confortata da quella consapevolezza senza la quale le risposte rimarrebbero lettere morte, anime svuotate da battiti pulsanti. È quello lo scenario da evitare, perché se così non fosse si proseguirebbe in quel pericoloso sentiero di puro caos. Dove tutti sono colpevoli, e un minuto dopo illibati, e il giorno successivo vittime, per poi incarnare drammaticamente tutti i ruoli in questo vero e proprio teatro dell’assurdo.

Sarajevo, quando la guerra spazzò via la convivenza

Da Ffwebmagazine del 06/12/10

«Il problema, compagno Divjak, è che tu ed io abbiamo perso. Il signor Milosevic, morto in carcere all’Aja, invece ha vinto alla grande». Perché le sue teorie hanno attecchito in un’Europa influenzabile, perché adesso l’Islam è stato messo nel mirino in quanto pericolo. E i luoghi dove i mores convivono, sono visti con sospetto, le patrie si barricano dentro identità ringhiose, in modo particolare in Italia. Dove l’epiteto immigrati, si accosta automaticamente a “criminale”. Sono righe amare quella che Paolo Rumiz dedica all’introduzione di Sarajevo mon amour, in cui Jovan Divjak nell’esercito dall’età di 19 anni, è intervistato da Florence La Bruyère.
Un libro vero, di un uomo che ha vissuto per quarant’anni in Bosnia. A metà strada fra una moschea del XVI secolo ed una chiesa ortodossa, e in linea d’aria con un seminario cattolico. Un’armonia geografica che era insita nel Paese e nei suoi cittadini. Nei gesti di ogni giorno, nelle varie festività, nei riti. Negli occhi di ciascuno, nelle abitazioni, nelle giornate. «Durante la mia infanzia - si legge -, rumeni, croati e ungheresi si mescolavano senza problemi ai serbi sui banchi di scuola. E se c’erano baruffe per delle biglie o su un campo di calcio, si trattava di rivalità tra quartieri, senza alcuna connotazione etnica». Ma un giorno ecco spari e morte, che irrompono come macigni, distruggendo quella convivenza, quella tolleranza, quello stare insieme. E’la guerra, bellezza: le azioni offensive, le difese, le reazioni, i cambiamenti repentini della fazione musulmana, il ruolo ibrido dell’Onu. E poi i nazionalismi, i doppi giochi, i bombardamenti, le angosce.
Perché fare la guerra non significa solo premere un grilletto o azionare con freddezza un pulsante. Vi sono conseguenze ben precise e letali: si chiamano ferite, incubi, dolori, ansie. E ancora vedove, orfani, naufraghi. Individui a cui hanno strappato la bussola, incapaci adesso di aprire nuovamente gli occhi dopo un accadimento drammatico, che brutto sogno non è, ma purtroppo dura realtà. In questo libro intervista, toccante e forte, la protagonista è la città che ha dato i natali a Kusturica e Bregovic. Dove si annida il Narod («infausto concetto genealogico di popolo-nazione, che per oltre un secolo ha frustato i Balcani»), un mostro a sei teste pronto a risvegliarsi anche in altri ambiti e sotto spoglie diverse. In un tessuto sociale nel quale «chi non sta nel branco rischia, e deve sempre giustificarsi». Come dimostra il primo provvedimento di Milosevic, che abolì ogni diritto agli albanesi.
Due, fra gli altri, i momenti topici del libro. Quando Divjal zittisce i suoi interlocutori: è il 1992 ed il generale Gvero, braccio armato del massacratore Ratko Mladic, gli chiede provocatoriamente di convertirsi all’Islam. Lui invece risponde che lo avrebbe fatto, ma solo quando chi glielo chiedeva, fosse sceso dagli alberi e avesse assunto una posizione eretta. L’orgoglio umano, prima che di qualsiasi altra appartenenza geografica o territoriale. E quando realizza che i venti di guerra avrebbero spirato anche su Sarajevo: si stava svolgendo la manifestazione per la pace, una delle più imponenti, con circa centomila partecipanti. Slogan di pace, inni pro Bosnia dinanzi al Parlamento, senza che vi fossero pulsioni antiserbe. In quel momento un pezzo di corteo faceva rotta sul ponte Vrbanja, incontro a milizie serbe per dimostrare le intenzioni pacifiche della manifestazione. Ma dagli estremisti partirono le prime raffiche. Fu l’inizio dell’incubo.
Una Bosnia che negli anni sessanta e settanta aveva standard di tutto rispetto, con tasso di disoccupazione più basso di tutta la Jugoslavia, con mano d’opera nell’industria bellica, con l’apice raggiunto in occasione delle Olimpiadi del 1984 quando Sarajevo seminò ospitalità ed accoglienza.

Quella stessa accoglienza che si denota passeggiando per le sue strade, assaporando i vicoli più intimi di quei quartiere. Dove il militare Divjak si sente coccolato, avvolto in una coperta protettiva: una grande casa, la definisce, che la guerra non ha cambiato. Numerose le occasioni in cui gli è stato chiesto il perché di una permanenza in un luogo ormai assediato: «Perché amo i suoi abitanti - rispose -, cui Kemal Monteno rende omaggio in una bella canzone, Sarajevo, mon amour. La loro cortesia e il loro amabile stile di vita non li ho mai incontrati altrove».

Pompei: scrolliamo le spalle e tutto tornerà come nuovo?

Da Ffwebmagazine del 02/12/10

Ma se i crolli di Pompei si fossero verificati ai castelli della Loira o ai piedi del Partenone, cosa sarebbe accaduto? Due siti, diversi fra loro e lontani anni luce, anche per contingenze socio-economiche. La Francia, che investe nella cultura venti volte più dell’Italia, con un’organizzazione capillare da far impallidire certi nostri amministratori locali, più intenti a tagliare nastri che a programmare con lungimiranza. La Grecia che, pur devastata da disgrazie economiche e gestioni politiche a dir poco fallimentari (che sia destra o socialismo al governo, non conta), quando si è trattato di chiedere all’Inghilterra la restituzione di alcuni fregi del Partenone, si è cementata graniticamente: con giornalisti, artisti, cantanti, attori, cittadini che insieme e compatti, hanno lottato per un obiettivo comune. Uniti da un sentimento comune, dalla difesa di un qualcosa che è insito nell’animo dei singoli, e che appartiene a quelli che saranno i cittadini futuri.

In Italia, invece, no. Se il primo crollo non era poi così grave, il secondo non è colpa mia, ha bofonchiato il ministro della Cultura Sandro Bondi. Ovvio che non sia stato lui materialmente a provocarlo, ma davvero non c’era altro da dire o da fare, o da pensare? Davvero non vi sarebbe stato spazio per il dispiacere, per il rammarico, per un sussulto di orgoglio nazionale di un ministro che rappresenta il Paese al mondo con la più alta densità di siti culturali? Buoni, forse, soltanto quando si lanciano campagne pubblicitarie ed opuscoletti pagati con i soldi pubblici. In un altro qualsiasi Paese del mondo civile, dopo un secondo episodio così grave, un ministro della cultura di media cilindrata, si sarebbe fatto in quattro. Organizzando maratone televisive, raccolte di fondi, chiamando a rapporto in nome del bene del Paese e della sua storia artisti, cantanti, scrittori da tutto il mondo, per concentrare la massima attenzione attorno al sito unico nel suo genere. Bondi invece , nulla, drammaticamente nulla.

E per accendere un raggio di luce in un tunnel che niente altro è, che quello del Paese, di una classe dirigente miope, che utilizza la contingenza del quotidiano per spicciole dichiarazioni di plastica. Come dimostrato dal capogruppo del fu Pdl, Fabrizio Cicchitto, in un impeto di, come la si potrebbe definire? Irragionevolezza? Sciatteria di contenuti? Frivolezza dei commenti? «Esprimiamo - ha detto l’ex lombardiano iscritto un tempo alla P2 - la nostra piena solidarietà al ministro Sandro Bondi, fatto segno di un attacco che rientra nel disegno di destabilizzare in tutti i modi l’equilibrio politico uscito dalle elezioni del 2008». Ma cosa hanno a che vedere questioni legate ai beni culturali, alla manutenzione di un patrimonio unico al mondo, con fantasmi, disegni, intrighi terzisti? Perché voler cocciutamente accostare questioni di merito, (come i rilievi che legittimamente si stanno avanzando sui crolli), con assurdi complotti e con il ritornello ormai scarico delle urne e della legittimazione popolare del voto? Forse perché, ma è solo un’ipotesi, non si è in grado di dare risposte, di offrire vedute d’insieme del problema, di proporre soluzioni o alternative. Insomma, forse è mancata la capacità di risolvere la questione, ed è per questo che si cerca di sviare l’attenzione dall’oggetto del contendere.

E non è tutto, Cicchitto riserva il meglio nella seconda parte della dichiarazione, quando dice che «Bondi è sottoposto a questi attacchi proprio perchè egli è una delle personalità politiche che più si è esposto a sostegno del presidente Berlusconi». Il nulla, l’anacronistico, il distante anni luce dal reale. Vabbè, mettiamola così: diamo la colpa dei crolli pompeiani a Wikileaks e invitiamo Bondi a una conferenza stampa di fine mandato. È chiedere troppo?

E la Lega grida "niet" agli infermieri immigrati


Da Ffwebmagazine del 06/12/10

Ma la Lega non era il partito del territorio, degli interessi del nord, dell’appartenenza lombarda ai valori qualitativi dei cittadini lombardi? Forse un tempo o, volendo essere maliziosi, forse solo per alcune grandi problematiche, come le aziende municipalizzate o le cooperative. Perché, quando si scende nel quotidiano, ecco affiorare le prime crepe di un movimento anacronistico, che sacrifica gli interessi degli elettori sull’altare del fanatismo.

Quando si parla di miopia della politica, di derive controproducenti e sterili, di provvedimenti figli dell’ideologia e non della ragione. O quando si alza un dito e si riflette sul fatto che troppo spesso i reali bisogni della gente sono sacrificati a causa delle non-idee, non si fa un mero esercizio mentale, o non lo si teorizza per pruriti intellettuali, ma per oggettivi dati di fatto. Il riferimento è alle assurdità amministrative della Lega proprio nella roccaforte storica del suo potere: un comportamento che semplicemente fa danni a quello stesso territorio del quale si vanta di essere la paladina. Altro che interessi localistici. Si prenda la provincia di Milano, con la più alta concentrazione di nosocomi e ricoveri per anziani, con una richiesta di personale elevatissima.

Dunque, in tutta la regione c’è un fabbisogno di infermieri pari a ottomila unità. E la Lega che fa ? Anziché favorire un interessante progetto di Assolombarda, Aler e Provincia, che attira stranieri nel milanese (dal momento che gli italiani certi mestieri non vogliono più farli), con convenzioni per vitto e alloggio e con un piano lungimirante che coniughi esigenze di tutti gli attori, urla il suo “niet”. E non per rilievi nel merito dell’iniziativa, o per apportare miglioramenti al risultato finale, ma per fanatismo. Perché “noi quelli lì, non li vogliamo”, perché “stiano a casa loro”.

E poi non c’è da meravigliarsi se la gente, quella per bene, quella che lavora e che paga le tasse, dipinge un lenzuolo con scritte xenofobe, con ingiurie professate prima ancora di conoscere reati e pene. Ecco il paese che non ci piace, la politica che non ci piace, i sentimenti che non ci piacciono. Perché fanno male, sono controproducenti, lontani dalla realtà dei fatti, concentrati esclusivamente su guerre di pelle e moti di rivalsa verso chi, invece, contribuisce al Pil italiano, pagando più tasse di quante poi ne vede tornare nelle sue tasche. Verso chi sostiene i nuclei familiari italiani, perché senza le badanti, o i manovali, o gli infermieri, o i braccianti, o gli operai, molte aziende di casa nostra sarebbero in grosse difficoltà nel produrre ciò che producono.

Si tratta di persone che, nei fatti e nei dati, come si legge negli annuali rapporti Caritas- Migrantes, è ormai parte integrante del tessuto socio-culturale del nostro paese. Piaccia o meno alla Lega. Ciò che appare assurdo, oltre alla grettezza di certi amministratori (locali e non), è la manifesta ignoranza di alcuni elementari principi non solo economici e politici, ma anche umani, che declinano il valore della dignità degli individui. Pur essendo consapevoli che “quelli lì” sono ormai indispensabili, allora, si boccia un provvedimento per un puro riscontro elettorale, per indossare ancora la maschera dei poliziotti cattivi, dei guardiani di un castello che non c’è più. Perché al posto del ponte levatoio, delle mille barriere di cartapesta, c’è un mondo nuovo, in cui ci si scambiano le competenze, le professionalità. Un mondo con occasioni di crescita per tutti, per chi arriva e per chi qui c’è da molto più tempo, ma che per proseguire con gli attuali standard di vita ha necessità di nuove figure.

Chissà se in futuro la politica italiana riuscirà a comprendere e gestire il vero significato di un fenomeno millenario che ha interessato tutti i continenti: quell’immigrazione che rappresenta un plus, non una zavorra. Ma solo per chi la riesca ad amministrare senza paraocchi.

venerdì 3 dicembre 2010

Metti Fini, Casini e Pisanu a gridare "viva l'Italia"

Dal Secolo d'Italia del 03/12/10

«L’esercizio di una ledership significa indicazione di priorità e assunzione di responsabilità. Contrariamente non siamo in presenza di una leadership, ma di altro». Così il presidente della Camera Gianfranco Fini, ragionando di patriottismo e nazione con Pierferdinando Casini e Beppe Pisanu, riuniti attorno ad un tavolo per presentare l’ultimo libro di Aldo Cazzullo Viva l’Italia, e chissà anche per le prove generali del cosiddetto terzo polo.

«Non chiamatelo così», invita Casini ma, riprendendo un assunto del libro, dove si fa esplicito riferimento al Partito della Nazione, una «nuova proposta che deve nascere sulla base di quel viva l’Italia». E dove ci si stringa l’un l’altro a causa della gravità della congiuntura economica, delle sfide di politica internazionale che attendono il Paese, dell’emergenza contingente che esiste. Che per questo deve essere affrontata con maggiore spirito di responsabilità, con lungimiranza, con coesione e soprattutto con dignità.

Fini cita un passaggio del libro di Cazzullo, dove si riflette sul fatto che tutto sommato, buona parte degli italiani, «a questo Paese ci crede, ed è orgoglioso della propria storia e cultura». Certo, prosegue, non sempre vi è la percezione di questo attaccamento, perché vi è «una difficoltà nel percepire l’identità nazionale». E ciò a causa del fatto che una nazione, ricordando Renan, deve essere un plebiscito che si rinnova ogni giorno. Proprio per questo, secondo Fini, il libro di Cazzullo aiuta a non sprecare l’occasione di riflettere su cosa significhi essere italiani oggi, nel centocinquantesimo anniversario dell’Unità, una circostanza che sia «meno densa di retorica e di pagine ingiallite e riempita, magari, da contenuti di condivisione», di obiettivi comuni e di senso di responsabilità.

Proprio la responsabilità è il termine maggiormente rievocato dai presenti, quasi a voler sottolineare la sottile linea comune che unisce nei frangenti critici, che annaffia quella preziosa libertà, «valore assoluto, e non un bene da mettere in cassaforte», rileva Fini. Che poi dedica un pensiero a Mario Monicelli, «uno degli artisti che hanno meglio raccontato l’Italia di ieri all’Italia di oggi».

Ma che Paese abbiamo oggi, anche in virtù di una politica che ha fatto del populismo e della contrapposizione due armi di lotta quotidiana? Se lo chiede ripetutamente il leader dell’Udc quando analizza i mali che attanagliano il quotidiano. «Una classe politica seria- ha detto- che nota certi reflussi xenofobi e sociali tenta di ammainarli. Il contrario di ciò che fa la politica con la p minuscola, che invece cavalca quei fenomeni per mero guadagno elettorale». E incentivando quei micromovimenti localistici pericolosi. «Sta tutta qui la differenza tra uno statista e un politico che pensa solo alle prossime elezioni», prosegue Casini. Con i primi che pur di apportare benefici al Paese, si rendono protagonisti di scelte decise e anche impopolari.

Dove puntare allora maggiori attenzioni per offrire al Paese risposte certe? Casini invita a riportare l’intero sistema della politica ad una comunità nazionale unitaria, lasciando alle spalle gli eccessi di propaganda che invece certa classe dirigente si è intestardita nel proporre come modello unilaterale. Dove l’avversario politico è visto sistematicamente come un nemico, ha proseguito il presidente della Camera, con un clima da quotidiana guerriglia che non porta a nulla, se non all’ulteriore frammentazione. In un Paese che deve affrontare sfide complesse, come ad esempio, quelle legate agli standard di competitività economici e dove sarebbe auspicabile un «confronto con l’opposizione per individuare proposte costruttive».

Ma non è tutto: il germe della divisione, dello spezzettamento coatto di un tessuto nazionale, secondo il senatore Pisanu deve essere controllato e debellato: «Al di là dello stato nazionale- ha detto- qui è l’unità stessa della nazione ad essere minacciata per la prima volta nella storia repubblicana». Pisanu parte dalle vicissitudini sarde del Risorgimento per arrivare ai giorni nostri, dove «non si può proporre il federalismo come dono politico al nord, e il piano per il mezzogiorno come dono politico al sud». Dal momento che così facendo ci si trova dinanzi ad un’incrinatura dell’unità nazionale, che rischia di aggravarsi senza contromisure.

È dispiaciuto l’ex ministro dell’Interno nel constatare che vi sono consistenti gruppi di italiani risentiti contro altri individui dello stesso Paese. Circostanza che una politica seria dovrebbe attenuare. E allora propone «interventi pubblici omogenei», perché «senza una politica unitaria, più alta e più rigorosa di quella a cui stiamo assistendo» non vi saranno gli effetti positivi necessari. Per una testimonianza di responsabilità e, perché no, anche per recuperare un pizzico di dignità nel centocinquantesimo dell’Unità nazionale: se non ora, quando?

mercoledì 1 dicembre 2010

Chi vuole morto Tareq Aziz? Pannella va a Bagdad


Da Ffwebmagazine del 01/12/10

Kosmos, mondo, universo. Ma anche altro, altri e ancora finestre su ciò che accade a longitudini e latitudini lontane, senza preclusioni per posizioni ed opinioni. Un approfondimento costante e sotto traccia, in collaborazione con L’interprete internazionale, per slacciare quel cordone ombelicale che troppo spesso lega l’informazione alla contingenza locale, impedendole di mettere il naso fuori dalla propria visione. (Per segnalazioni e commenti inviare una mail all’indirizzo: francesco.depalo@libero.it).

«Non faccio passerelle, vado a Bagdad solo se potrò incontrarlo». Marco Pannella è determinato. A non farsi prendere in giro, a far valere il diritto alla vita per l’ex ministro degli esteri iracheno Tareq Aziz, condannato a morte, ma la cui esecuzione è in stand by. Il leader radicale ha da poco interrotto lo sciopero della fame che durava dallo scorso 2 ottobre, giornata mondiale della non violenza, non appena ha ricevuto la telefonata dal ministro degli esteri Frattini che, dopo avergli annunciato il viaggio a Bagdad, gli comunicava la decisione irachena di sospensione della condanna, sino al termine del processo di appello.
Aziz è attualmente detenuto in un carcere iracheno, in pessime condizioni di salute, con problemi di deambulazione e di assunzione di farmaci, come conferma suo figlio Ziad ai microfoni della trasmissione Settimana internazionale.
Pannella ha inoltre chiesto che nell’occasione vengano resi pubblici i documenti ufficiali che rendano giustizia ad un’incredibile verità storica, «nascosta e negata in primo luogo proprio oggi nel e dal mondo libero, occidentale e civile: il 18 marzo 2003 Bush e Blair diedero avvio al conflitto solo perché non scoppiassero in Iraq la libertà e la pace, con l’esilio ormai accettato, di Saddam».

La grazia a Tareq Aziz, considerato il volto presentabile del regime di Saddam, è giunta dall’attuale presidente iracheno Jalal Talabani. Aziz, condannato all’impiccagione dall’Alta Corte irachena nell’ambito del processo sulla chiusura dei partiti religiosi nel Paese, è anche l’ultimo custode ancora in vita dei segreti che da oltre trent’anni imperversano nel Paese.
Il caso, secondo Pannella, è forse l’aspetto più criminale di questo lembo di Medio Oriente. Quell’Iraq che nel momento più importante della sua ricostruzione, dopo aver sperimentato pur con mille difficoltà e contraddizioni otto mesi fa lo strumento del voto, è oggi minacciato da un altro virus, che potrebbe inficiarne i passi in avanti compiuti. Ovvero quella pena di morte che il governo di Bagdad ha deciso di adoperare contro tre individui: appunto l’ex ministro degli esteri Aziz, Sadun Shaker (ex ministro dell’interno) e Adbel Hamit Amud (ex segretario particolare di Saddam Hussein).
Non solo, quindi, la rassicurazione di una visita a Bagdad, prevista per il prossimo 5 dicembre, ma anche la richiesta da parte di Pannella che venga attivata una commissione di inchiesta italiana che faccia luce sul comportamento del governo durante il conflitto iracheno. Magari ristabilendo per convenzione che a 75 anni, in precarie condizioni di salute, si possa anche immaginare una diversa strutturazione della pena, perché inadatta alle oggettive situazioni fisiche. Aziz infatti non parla più, perché colpito da emorragia celebrale. Più recentemente ha subito un secondo episodio simile nel nuovo carcere dove è detenuto, all’interno del quale non gli possono essere garantite le cure del caso.

Ma quale il significato politico di questa condanna? E in quale contesto geopolitico? Ziad Aziz solleva perplessità sui modi e sui tempi della condanna. Cosa ha a che fare, si chiede, suo padre con la questione dei partiti religiosi? Inoltre la condanna, come ha dimostrato un pronunciamento del gruppo di lavoro sulla detenzione della Corte dei diritti umani nel 2005, è arbitraria, in quanto avviene in violazione degli articoli nove e quattordici della Convenzione Internazionale sui diritti civili e politici, di cui tra l’altro sono firmatari proprio Iraq e Usa. Ziad sostiene che negli ultimi sette anni siano stati gli iraniani a tenere il controllo della situazione politica a Bagdad, in quanto «sono gli stessi personaggi di sempre».
Il figlio di Tareq Aziz, inoltre, conferma che le uniche iniziative a sostegno della causa di suo padre sono venute dall’Italia e dalla Lega Araba. Al di là della condanna alla pena di morte, sembra che l’affaire sia una resa dei conti vera e propria a distanza di anni, tra sciiti e sunniti. Non bisogna dimenticare che si tratta di un Paese rimasto per poco meno di un anno senza governo, e che dovrebbe urgentemente avviare una fase di riconciliazione non solo con l’esterno ma soprattutto con l’interno. Mentre dimostra, purtroppo, di non essere ancora disposto a perdonare ex avversari. In una spirale che, dopo la violenza della guerra, sta concimando altra violenza.

lunedì 29 novembre 2010

Parola di Bauman: senza solidarietà nessuna ripresa

Da Ffwebmagazine del 29/11/10

C’era una volta una società con cittadini responsabili e che, in buona parte, erano consapevoli dei propri limiti. Perché gravati da eventi storici importanti, perché idealmente partecipi alla strutturazione delle istituzioni, al loro rispetto, alla loro valorizzazione come patrimonio comune.

C’è oggi invece un cumulo di consumatori, (in apparenza) soddisfatti di consumare, ma rapiti un minuto dopo dalla logica perversa del consumo. Come se quel pozzo infinito di oggetti materiali, fosse direttamente proporzionale ad un tasso intimo di felicità. Come se da quell’indice commerciale dipendesse, alla fine, la qualità della vita di tutti. Vi sono, di contro, anche sistemi macroeconomici mutati, in brevissimo tempo. C’è il default della Grecia, c’è la difficoltà dell’Irlanda, la sofferenza di altre economie mediterranee. C’è la sperequazione sociale, ci sono flussi migratori che si orientano anch’essi sulla scorta della grave congiuntura economica: c’è insomma, un mondo in movimento. E a tale scenario deve per forza di cose associarsi un atteggiamento sociale diverso.
Come comporre dunque la società del futuro? Non ha dubbi Zygmunt Bauman, conversando con Repubblica sul ruolo della sinistra inglese, sui fratelli Miliband e sulle prospettive di rinascita in chiave europea: «Serve più solidarietà», dice convinto. Ovvero puntando su un riequilibrio dei valori materiali e immateriali sulla scena mondiale. Valori che servono anche come collante inclusivo, dal momento che, sostiene Bauman, se un individuo si vede escluso dal circuito sociale di una collettività, rimarrà sprovvisto di protezione e potrebbe essere proprio in quell’istante facilmente manipolato. In quanto con la guardia bassa, debole, sfibrato dal processo ad escludendum che lo ha interessato. Secondo Neal Lawson, mente di Compass, il pensatoio dei laburisti inglesi, Bauman avrebbe contaminato persino la modalità espressiva di Ed Miliband, quando invita ad una mobilitazione di massa verso chi reputa che nella vita non ci siano solo gli incassi a dettare tempi e umori quotidiani. Ma anche quella che viene definita «energica difesa della collettività, dell’appartenenza e della solidarietà».

Dunque per il sociologo della società liquida, lo stesso che ha declinato come «nell’oscurità il calore della comunione umana diventi la salvezza», appare come elemento basilare alla sopravvivenza futura un parametro diametralmente opposto a quello issato a vessillo dello spreco e dell’abbondanza: la “resurrezione morale», rileva, potrà arrivare solo con un reddito minimo garantito. In quanto ritiene che la partita non si giochi più sul piano del comunismo, o del consumismo, dal momento che «gli Stati intendono controllare l’opinione pubblica e riprodurre le loro élite». La sua preoccupazione maggiore sta nell’evoluzione distorta che la società ha registrato, passando da un’etica del lavoro a una del consumo.

Mentre nella prima si prediligeva lo status costituzionale del lavoro, come professione, come realizzazione di sogni ed aspettative, nella seconda ecco irrompere il consumo come stadio finale di un percorso di vita. Come se gli sforzi compiuti in campo occupazionale e sociale fossero indirizzati poi al solo obiettivo di acquisire, spendere, consumare. Dove l’interesse personale travalica tutto e tutti, sgretolando l’insieme, la comunità dove il singolo, piaccia o no, vive, cresce, si riproduce. Mortificando il contenitore nel quale l’uomo non può fare a meno di inserirsi.

Per questo appare interessante un approccio valoriale, ma più umano e concreto, al bivio in cui la società del capitalismo si ritrova, indecisa se avvolgersi protezionisticamente su se stessa, ed erigendo mura spesse ma anche immobilizzanti. O sperimentare un’altra strada, meno egoistica, più collegiale: magari riprendendo un’altra riflessione di Bauman di qualche tempo fa, quando disse che «la democrazia non può fondarsi sulla promessa dell’arricchimento. Il suo tratto distintivo è rendere servizio alla libertà di tutti».
Libertà, quindi, anche di vivere dignitosamente, di godere dei diritti che l’essere umano dispone, a volte solo sulla carta. E che a maggior ragione vanno preservati e difesi con tenacia.

domenica 28 novembre 2010

Ma quali traditori, qui sta tornando il fanatismo


Da Ffwebmagazine del 28/11/10

Altro che traditori marchiati a vita. Per ora l’unico marchio è quello che alcuni scalmanati avrebbero voluto timbrare, con calci e pugni, sul viso di una giovane attivista di Futuro e Libertà, impegnata ieri nel gazebo romano di Piazzale Flaminio. E che solo grazie all’intervento di alcuni manifestanti della Cgil (quindi pericolosi comunisti) è riuscita ad evitare il peggio.
I fatti: nella metropolitana di Roma tre ragazzi notano sul bavero del cappotto della giovane, la spilletta di Fli e iniziano ad insultarla e a spintonarla. Lei cerca di ignorarli, ma dopo un paio di provocazioni anche fisiche risponde: «l’aggressività è l’unica forma di ignoranza contro la quale la parola non può nulla». Al che uno dei tre le si fa incontro minacciosamente con intenti niente affatto pacifici, ma fortunatamente alcune persone provenienti dalla manifestazione della Cgil, si frappongono tra gli aggressori e la ragazza, consentendole di scendere alla fermata successiva e di fuggire indenne.

Ecco dove porta la propaganda, l’esasperazione dei toni e delle frasi sbraitate in linguaggio cagnesco. Ecco il partito dell’amore, della solidarietà, dell’accoglienza. Ecco cosa accade se anziché ponti si costruiscono muri. Senza voler scivolare in facile retorica o in plastiche ricostruzioni di ciò che è accaduto e che sarebbe potuto accadere, viene da pensare che fine abbiano fatto i traguardi sociali e culturali raggiunti sino ad ora; o gli insegnamenti di rispetto e condivisione tra diversi, tra opposti. Ma davvero questa gente non ha capito nulla? Davvero stiamo tornando al medioevo della politica, agli anni del tutti contro tutto? E con quale obiettivo, per quale ragione, con quali finalità, con quanti e quali guadagni?

Qui si sta riproponendo un problema vero e tangibile di fanatizzazione degli animi, e la politica, quella con la P maiuscola, quella che ragiona e che non pensa solo alle prossime urne o alla demonizzazione dell’avversario, ha l’obbligo morale di alzare un dito e dire a gran voce: “no, noi non ci stiamo”. Deve distinguersi, perché ha un ruolo educativo, pedagogico, sociale. Non è solo un affare di voti, di promesse e di nomine, anche se negli ultimi quattro lustri non sono mancate criticità e momenti di cui non andare granchè fieri. Certo, è più semplice prendersela col più debole, con una giovane indifesa. O scagliarsi contro qualcun’altro che non siano i propri compagni di squadra, quando le cose non girano per il verso giusto. O scaricare responsabilità a chi sta dall’altro versante della barricata, magari accusandolo di tramare, di tradire, di complottare. In quella logica perversa e sterile che alla fine annebbia le menti e non consente di guardare in faccia alla realtà. Perché distratti da mille ombre che si allungano (o che qualcuno pensa che si allunghino) sul Paese, da infinite ipotesi, da ridicole contro tesi, da tediosi ragionamenti spaccando in quattro un battito di ciglia.

No, non vale proprio la pena tornare indietro nel tempo, ad un tempo di lotta e di visi contro, di agguati e di minacce. Perché le cose sono cambiate, gli steccati non sono più così alti, gli individui (quasi tutti) si parlano, si confrontano, ragionano.Verrebbe proprio da chiedersi, se non fosse il caso che le categorie di traditori prevedessero al loro interno almeno i fondamenti della democrazia. E non sarebbe chiedere troppo.

sabato 27 novembre 2010

A chi fa paura la rivoluzione copernicana della Rete?


Da Ffwebmagazine del 27/11/10

Che succederebbe se alla rete si applicassero norme restrittive, che soffocherebbero di fatto il suo peculiare spirito di libertà? Come favorire l’assunto che più internet equivale a disporre di più democrazia? È chiaro che in questo frangente ci sono dei valori assoluti inconfutabili: avere maggiori informazioni (intese nella pubblica amministrazione e nelle news) nel mondo di oggi rappresenta un’opportunità straordinaria, una rivoluzione copernicana nelle vite dei cittadini che va attuata in positivo. In quanto apre strade sino a ieri non battute, illustra scenari sconosciuti, rompe schemi di un passato che, se ripresi al giorno d’oggi, non porterebbero a nulla. Logicamente se il tutto non venisse metabolizzato come un’occasione di progresso, ma come un rischio e con un approccio dettato dalla paura, ecco che si finirebbe per realizzare quella che Lessig ha definito “guerra contro i nostri figli”. E che porterebbe quel sistema timoroso ad autoescludersi dal circuito internazionale, dalle chanche di sviluppo occupazionale, sociale, culturale, politico.

Di contro lo scoglio maggiore non è rappresentato dal bilanciamento delle opportunità con i rischi del settore, perché sarebbe come voler teorizzare che le automobili sono un mezzo fondamentale di trasporto ma che con esse si possono anche fare degli incidenti. Un modo sterile di affrontare l’evoluzione a cui la società grazie alla rete sta andando incontro, nel solco delle più tradizionali discussioni sui nuovi strumenti tecnologici che da sempre sono state imbastite fra modernisti e ultraconservatori. Per questo appare positivamente di lungo respiro la proposta del deputato Fli Antonio Buonfiglio (riprendendo un’idea del Presidente Fini) di equiparare l’accesso a internet ad un vero e proprio diritto costituzionale. Un’accelerazione da condividere anche con il mondo dell’industria, che potrà sfociare in opportunità interessanti per l’intero sistema Paese. A cui gioverebbe che si sviluppasse una vera e propria industria di Internet.
In quella direzione va, ad esempio, la nuova iniziativa di Google. Che durante l’ultimo Super Bowl ha trasmesso un video, illustrando una storia grazie a ricerche fatte in rete: un punto di partenza per una campagna pubblicitaria (una primizia in Italia), che mesce tv e web. Senza dimenticare altri spunti come Internet for Peace, o quelli rivolti alla libertà di espressione, o gli studi di approfondimento come quello presentato dal centro Nexa. Per chiarire come sia falsa l’idea delle grandi aziende “cattive” che non hanno a cuore l’interesse dell’individuo, semplicemente perchè è vero esattamente il contrario.

Si prendano realtà come Google che prestano i propri servizi in forma gratuita (dal momento che il modello di business è quello della pubblicità), e dispongono di un unico referente che è l’utente. Senza il quale, ad esempio, lo stesso Google non esisterebbe. Ecco il legame con quella campagna pubblicitaria, legata alla ricerca: oggi si cercano le informazioni attraverso molteplici risorse, non più soltanto grazie ai tradizionali motori di ricerca.
Lecito chiedersi: chi brandisce come una clava l’esigenza della segnalazione di contenuti illegali (senza dubbio fondamentale per il sistema), non rischia così di far trasparire ben altri timori e pregiudizi verso la rete? Due le tematiche rilevanti per fare chiarezza: la libertà di espressione, che è un diritto costituzionale decisivo, che si declina anche come diritto di accesso alle informazioni, un diritto di per sé, che incarna un valore qualitativo di cittadino che, se più informato, sarà più in grado di prendere decisioni ed assumere posizioni. In secundis l’assunto che l’informazione aiuta la democrazia, e Internet è un media pluralista. Detto questo il problema sicurezza esiste, ma è completamente staccato da tale contesto, dal momento che non appare utile fare una sorta di bilanciamento fra due realtà così diverse. La sicurezza deve essere garantita attraverso la collaborazione fra le istituzioni, le forze dell’ordine e gli operatori: nel rispetto delle garanzie costituzionali, incluso il diritto alla privacy.

Collaborazione che, a oggi, c’è stata nella repressione del crimine informatico, una costante di qualsiasi internet service provider.
Con la differenza che oggi in Italia si vive un vero e proprio controsenso: mentre da un lato l’Unione Europea nella carta fondamentale dei diritti considera la rete una straordinaria occasione di conoscenza, dall’altro provvedimenti come il decreto Romani rischiano di ingabbiare quella leggerezza e quella libertà del web che ha fatto della Rete la vera rivoluzione copernicana del terzo millennio.