giovedì 26 novembre 2009

Il viaggio del poeta e le città complici

Da Ffwebmagazine del 26/11/09

Il poeta è in esilio? Ama le numerose città che visita, Retimno, Roma, Napoli, Sidney, Catania, Palermo, Mosca, Venezia. Ma in fondo non amandone nessuna in particolare perché tutte si fondono in un unico grande agglomerato. Circumnaviga tessuti urbani e strati trasparenti di persone ed emozioni, spazia lungo latitudini che in seguito si uniranno grazie a puntini invisibili, trasfigura città su nomi di donne tutti stranieri, cerca nascondigli e chiede protezione. E poi il buio che dice più del bianco, rassicura perché non è fonte di minaccia, come accade anche nella pittura.

Michalis Pieris, poeta e letterato cipriota, affronta un viaggio lungo, circolare, intenso, anche grazie alle sue poesie e, in questo, intende superare Ulisse. Perché non ha nostalgia della sua Itaca, che sarebbe incarnata in Eftagonia, il piccolo paesino dell’isola di Cipro che gli ha dato i natali, e che in italiano sta per sette angoli. No, qui Pieris viaggia di continuo e senza nostalgia in un grande mare aperto, perché tutte le città che tocca e nelle quali si insinua diventano un unico luogo dove ritrova l'essenza stessa della vita. Abbracciando idealmente strade, case, parchi, fiumi e laghi. Perché abitare uno spazio, vuol dire chiedergli rappresentanza. Una, dieci, mille rappresentanze. E poi affogarle nella gaiezza del luogo diverso, nella novità estemporanea che, in virtuù della sua peculiarità, compone il nuovo e arricchisce il nocciolo di partenza.

«Voglio una città che mi nasconda, che sia accogliente», − recitano i versi di Una città inseriti nell’affascinante raccolta intitolata Metamorfosi di città − dove pone l’accento sui pezzi ideali, urbani e mentali che vorrebbe staccare da ogni dove. «Una città più adatta a una vita segreta − prosegue − che complotti, che esploda e si lasci trascinare, che si apra e copra misfatti con il suo bell’aspetto». Ed ecco la bellezza che, come un sole frenetico nelle prime giornate di primavera, trionfa sulla scena in modo preponderante. È il binomio viaggio e bellezza. Non solo assenza di reticenza nel chiedere amore, protezione, familiarità, complicità alla città o forse alle città. O forse a nessuna in particolare. Ma bellezza, meraviglia, entusiasmo, affiancando le città, e quindi il mondo, a visi angelici di donne, ai loro sguardi intriganti rivestititi di passione e sensualità.

La città cretese di Retimno, splendido esempio di influenza veneziana testimoniata da castelli e fortezze, è stato il suo primo approdo. Vi avvia la carriera universitaria ed è lì, tra incroci storico-culturali variopinti e profumi intensi di cui Creta è portatrice sana, che incuba il suo viaggio. I sonetti dedicati alle città assumono quindi le vesti di progetti ambivalenti: la città è donna, e la donna è città. Un’emozione che diventa presto allucinazione, anche grazie al fatto che le poesie cipriote sono scritte in dialetto, ma non quello popolare bensì quello colto, così come nell’Italia del ’500. Pieris nelle sue opere non cita letterature, ma semplici esperienze di vita, si spoglia della veste accademica per farsi uomo. Una notte trascorsa nelle viuzze di Palermo, tra gli odori di fritti, e tra le mille contraddizioni di Napoli con le sue donne-apparizioni, la sua sporcizia, le sue parole in greco, pronunciate a Spaccanapoli, nelle cui viscere si trova un treatro greco, a significare la storia più profonda di ognuna di queste città. Oppure ore intere trascorse a leggere le pagine di un grande autore con il quale dialoga idealmente.

Improvvisamente i singoli luoghi diventano uno, formando un paesaggio mitico, che culmina nella ricerca della nostra volontà, un’Itaca nuova per certi versi, diversa. È il dramma interiore dell’uomo contemporaneo, con l’improbabile esistenza di una sola Itaca. I versi di Una città continuano implorando «firme sconociute, bei posti da visitare ogni sera. Una città che riscaldi, si commuova, consoli e sia tepore della mia mente». La confidenza con cui si rivolge alle singole città emerge da precise scelte di vita. Infatti ha abitato dentro molte città, mettendo mano all’interno degli strati urbani, negli impasti di storia. Pieris riprende spesso altri grandi poeti ellenici, Kavafis, Sinopoulos, e in passato ha portato in scena anche Mahiaras con trasposizioni teatrali. Il nome del suo paesino, Eftagonia, è stato anche il suo pseudonimo nei primi scritti, a testimoniare un legame non solo con il luogo d’origine ma con il nome assolutamente peculiare. Eftà gonia, sette angoli, quindi non uno. Sette vite, sette anime, sette sogni, sette aspirazioni. Un punto di partenza che è già poliedricità, multiforme e plurianime. Sta tuttta qui l’essenza e l’ampiezza di questo poeta mansueto e docile, per nulla intimorito dagli eventi storici che nel passato e nel presente hanno interessato Cipro. E forse per questo già pronto a proiettarsi nel domani, nel nuovo viaggio che verrà. In altre città a cui chiedere confidenza e protezione, con cui bisticciare e poi riappacificarsi. In altri tessuti urbani dove rintanarsi e dove insinuarsi, in una sorta di limbo di intima quotidianità. In un mare aperto.

lunedì 23 novembre 2009

Fini e Aznar: «Per l'Europa è arrivato il tempo delle idee»

Da Ffwebmagazine del 19/11/09

«È arrivato il momento delle nostre idee». Così ha detto Josè Maria Aznar, presentando a Roma il Rapporto di ricerca "Europa: proposte di libertà", uno studio sull’Unione europea promosso dalla sua fondazione Faes (Fundaciòn para el analisis y los estudios sociales), e di cui la fondazione Farefuturo ha curato l’edizione italiana. All’incontro hanno preso parte oltre all’ex primo ministro spagnolo, il presidente della Camera Gianfranco Fini, i ministri Andrea Ronchi e Adolfo Urso, i responsabili esteri delle due fondazioni, Federico Eichberg e Alberto Carnero, oltre al professor Vittorio Emanuele Parsi e al direttore di Aspenia Marta Dassù.

«Le idee hanno precise conseguenze - ha proseguito Aznar - quindi qualsiasi progetto politico senza idee non è altro che un contenitore vuoto». Da qui la rilevanza degli approfondimenti che seguono le idee, cardine di iniziative come la ricerca presentata. Tre le fondamenta dell’Unione Europea: l’attualità della democrazia liberale, concetto che trova esplicazione in tutti i principi che si incentrano sulla tutela della dignità della persona; la pace, che manca se non vi è il rispetto dei diritti; l’economia di mercato, con cui le nuove generazioni potranno sviluppare la propria creatività. Ma la preoccupazione più impellente, secondo l’ex primo ministro spagnolo, riguarda il futuro.

Spazio quindi a politiche lungimiranti, che non siano dettate dalla contingente emergenza, ma che si sforzino di dialogare con la quotidianità in proiezione futura, strutturandosi come iniziative di ampio respiro, che investano risorse ed idee per la progettualità dell’Europa di domani. Elemento che è stato ripreso, e non da oggi, dal presidente della Camera Gianfranco Fini, il quale ha sostenuto che «sarebbe miope non constatare che, malgrado la strada compiuta, l’Europa degli ultimi anni ha il fiato corto». Urge quindi un’azione concertata allo sopo di rafforzare l’europeismo nei cittadini, per impedire episodi di disaffezione come quelli in occasione del referendum irlandese, olandese e francese. Ecco che in soccorso di un senso europeo che sia radicato e metabolizzato può intervenire la cultura, attraverso un’azione mirata verso i più giovani per stimolarli a riconoscersi in un’identità europea, pur nel rispetto delle singole peculiarità nazionali.

La presentazione del rapporto ha preceduto la sigla di un accordo quadro tra le due fondazioni, al fine di intensificare la cooperazione bilaterale. La visione comune dell’Europa, dunque, è elemento imprescindibile per offrire un futuro alla nostra Unione, ha detto il segretario generale di Farefuturo Adolfo Urso, dal momento che si tratta di un modus operandi che già emerge da precedenti partenariati con la fondazione tedesca Konrad Adenauer Stiftung e con la stessa Faes: «solo un’Europa forte, unita e consapevole del proprio ruolo può incarnare il terzo soggetto della nuova governance globale, accanto a Stati Uniti e alla Cina», ha aggiunto il viceministro.

Certamente si renderanno necessari anche altri spunti, magari in ambito economico, come proposto da Aznar. Il riferimento è a riforme strutturali imprescindibili, che consentano la crescita e che incitino al dinamismo per fuoriuscire dalle secche della crisi. Come ad esempio un limite all’eccessivo deficit e all’indebitamento fuori misura, accanto a due paradigmi indicativi: meno monopoli e più concorrenza; meno protezionismo e più apertura. Un doppio binario che, secondo il presidente della fondazione Faes, potrà venire in soccorso a un’Europa che già deve soffrire per una demografia in declino e per un certo rafforzamento del G2 Usa- Cina.

Introdurre criteri di mercato per ampliare possibilità di sbocchi occupazionali potrebbe essere un’altra strada da percorrere, nella consapevolezza che, come ha sottolineato il presidente Fini, vi è la marcata inscindibilità del processo di integrazione europea dal consolidamento di un forte legame transatlantico. Ecco il superamento dell’agenda di Lisbona, nel suo decennale: la sfida di una nuova strategia che miri a rafforzare ulteriormente l’Europa per far sì che «diventi finalmente la più competitiva e dinamica economia della conoscenza del XXI secolo».

Pensiero e azione: una fusione पैर il futuro del paese


Da Ffwebmagazine del 22/11/09

Pensare e fare dovrebbero essere fusi in un unicum. Perchè aspettare che una proposta, o un’intuizione, trovi attuazione, significa oggi arrivare fino fino al punto in cui diventa anacronistica. Semplicemente, è questioe di mancanza di tempismo, in assenza del quale si alimenta sempre più quel corto circuito che, poi, fa precipitare il paese in fondo alle classifiche europee e mondiali.

Il tema della velocità dei cambiamenti è stato al centro del Barcamp della Luiss, un esperimento socio-culturale distribuito in otto sessioni specifiche. È stata anche la prima occasione per far interfacciare i think thank del paese: Arel, Farefuturo, Glocus, Fondazione Sussidarietà, Magna Charta, Mezzogiorno Europa, 360°, Italia Futura e Italianieuropei. Una vera e propria vetrina multipartisan e decisamente aperta anche a studenti e a semplici interessati, per un’analisi congiunta sulla velocità dei cambiamenti, sugli spazi d'azione e sui tempi di reazione di partiti e istituzioni.

Collegare, dunque, l’impianto paese alle nuove esigenze. Ma come? Un primo passo è stato compiuto. La voce delle fondazioni culturali, che fanno analisi politica e sostengono con spunti e idee il dibattito politico, non deve fermarsi alla semplice “presenza”, per quanto costante e proficua. Perchè non prevedere un maggiore raccordo con le istituzioni? Perchè non veicolare quelle proposte e quelle valutazioni ai piani alti dello stato, così come fatto ad esempio da Farefuturo e Italianieuropei in occasione del meeting di Asolo sull’immigrazione? Questo potrebbe produrre una velocizzazione maggiore nell’intrecciare, concretamente e in tempo reale, le idee con le effettive necessità. Una sorta di conferenza stato-fondazioni, ma che non si risolva nell’ennesimo tavolo tecnico caratterizzato da prese d’atto e da promesse, seppure in buona fede. Che sia, piuttosto, braccio operativo delle menti. Che sia soggetto attuatore - in tempi rapidi - di ciò che è in agenda, ma anche di ciò che in agenda non è ma che è utile a far ripartire il paese.

Ad esempio: proporre di installare pannelli fotovoltaici su tutti i palazzi pubblici d’Italia (comuni, province, regioni, tribunali). E senza attendere la burocrazia nostrana, che per concedere nulla osta, autorizzazioni e vidimazioni varie, sarebbe capace di far slittare i tempi anche di alcuni anni, rendendo l’idea vecchia e quindi inutilizzabile. O procedere a una revisione della legge sul fine-vita che protegga il diritto alla vita ma anche la libertà dei singoli individui, senza spaccare il paese come sul caso Englaro. O accelerare la modifica per concedere la cittadinanza e il diritto di voto a quegli immigrati che hanno completato un ciclo di studi e che nei fatti sono già perfettamente integrati in Italia, senza attendere che diventino cittadini della terza età.

Se le idee non mancano, e lo certificano, ad esempio, i successi dei ricercatori italiani impegnati all’estero, o le iniziative funzionali che spesso purtroppo non fanno notizia, ciò che latita è la parificazione della politica alla velocità del mondo, dove per velocità è da intendersi una serie di temi specifici.

Le istanze dei singoli individui: si pensi al mondo dei social network, dove tutti, grandi e piccoli, possono esprimere pensieri e bisogni e dove quindi la politica può intercettare – ma non lo fa- il malessere; ma proprio i singoli non hanno modo di dialogare direttamente rendendo palesi le proprie idee. E sarebbe utile farlo dal vivo, quindi non solo in rete, ma guardandosi in faccia, come nell’antica agorà ateniese. Una sorta di forum permanente tra politica e laos, per far sentire la presenza della politica nell’intimità di un cittadino sempre più sfiduciato.

Il mutamento delle tipologie occupazionali: altro che mito del posto fisso, la crisi ha prodotto una selezione naturale del “job”, quindi non è più proponibile un modello lavorativo come quello dell’ultimo trentennio. La politica dovrebbe sostenere i giovani nelle scelte, questo lo si promette da sempre. Ma anche proponendo un monitoraggio del panorama occupazionale, incentivando professioni di cui vi è effettivo bisogno e magari evitando di avere migliaia di laureati in lettere o materie giurisprudenziali, che, a oggi, soffrono più di altri la difficoltà dell’indotto.

Approfondire la velocità dei cambiamenti: deputati e senatori potrebbero dedicarsi non solo a legiferare, ma anche ad analizzare tendenze e possibili criticità. E ciò in virtù dello stato di emergenza assoluta in cui versa il paese, a causa di una politica che di fatto si è sedimentata attorno a circuiti standard, ingessati e poco propensi all’elasticità decisionale.

Intercettare le possibili vie di fuga: nessuno dispone della bacchetta magica, questo è ovvio, ma una politica che non abbia il fiato lungo e che non programmi con lungimiranza esigenze e cambiamenti sociali, è destinata a produrre cattivi frutti. Si pensi alla questione dell’immigrazione e della cittadinanza, materia nella quale l’Italia si trova già in colposo ritardo e per la quale sarebbe utile una corsia preferenziale per legiferare bene e in poco tempo.

Alla luce di tali valutazioni, appare evidente come l’apporto delle fondazioni possa contribuire affichè la politica si velocizzi. Ma questo potrà essere fatto per quanto concerne le idee, la loro strutturazione e gli obiettivi che si vuol perseguire e non circa le procedure, che la politica ha l’obbligo di rivedere autonomamente. Ma potrebbe anche innescare uno stimolo nuovo, così come avviene nel resto d’Europa e negli Stati Uniti. Stimolo perchè la politica italiana si guardi allo specchio, e prenda atto del fatto che viaggia ad una velocità inferiore non solo alle esigenze del paese, ma soprattutto ai cambiamenti mondiali. E, responsabilmente, o si prepari ad evolvere drasticamente adeguandosi a tempi e modi, o più semplicemente, sostituisca gli ingranaggi obsoleti.

domenica 15 novembre 2009

E se lo Stato non può, ci pensa il cittadino


Da Ffwebmagazine del 15/11/09

Dove non può lo Stato, arriva il cittadino, o i carabinieri in borghese. Singolare la sorte del capitano Ultimo, autore il 15 gennaio del 1993 dell’arresto di Totò Riina dopo un trentennio di latitanza indisturbata. Rimasto senza scorta, in pochi giorni ha visto centoventi volontari attivarsi con auto proprie e fuori dall’orario di servizio, per offrire protezione all’uomo che fu condannato a morte dai vertici della mafia all’indomani di quell’arresto storico. Singolare l’intera vicenda, perché si pone a conclusione di una serie di eventi irrituali. Nel 1992 Ultimo, all’anagrafe Sergio De Caprio, dette vita al Crimor, organismo combattente dei Ros che, quattro anni dopo aver messo le manette a Riina, venne soppresso. Fine di quegli uomini che per anni avevano fatto squadra, persone senza volto e senza nome, con nottate intere trascorse impegnati in appostamenti o a studiare movimenti e comportamenti, seguendo tracce e piste di indagini. Tutto finito. Uomini sostituiti, destinati ad altri incarichi.

Da quel momento iniziarono le anomalie: il trasferimento al nucleo operativo ecologico di Roma, l’indagine a suo carico per non aver effettuato la perquisizione del covo di Riina –assolto in seguito perché il fatto non costituisce reato – e tanti, troppi silenzi. Ultimo teme per la propria incolumità, e anche per quella dei familiari a lui vicini. Nonostante avesse inoltrato precisa richiesta ai suoi superiori di due auto veloci e di quattro agenti appartenenti al suo nucleo storico, ovvero le identiche modalità con le quali aveva lavorato – e con successo – sin da prima di quel giorno di inizio 1993. Ma niente, nessuna risposta positiva, anzi.

Qualcuno ha scelto di non considerare Ultimo un soggetto a rischio, anche se come raccontato da alcuni pentiti di mafia, fra cui Totò Cancemi, furono proprio i capi della cupola in prima persona – Provenzano, Bagarella, Ganci – sedici anni fa a firmare ufficialmente la sua condanna a morte senza appello. E non una semplice esecuzione. I particolari forniti dal collaboratore di giustizia illustrano anche le modalità con le quali sarebbe stata tolta la vita al capitano Ultimo: prima sequestrato e condotto in un luogo usato dalla mafia come prigione, poi torturato e infine ucciso, dandone notizia all’intero paese.

E la gravità del rito è da ritrovarsi in quel gesto che Ultimo compì, ovvero mettere faccia a terra Riina durante l’arresto. Un dettaglio che avrebbe aggravato la sua posizione agli occhi della mafia. Ma nonostante la testimonianza di alcuni pentiti e le oggettive ripercussioni sull’uomo che è entrato di diritto nella storia della guerra fra Stato e mafia, nessuno ha ritenuto opportuno garantire la sicurezza di quel carabiniere.

Cosa succede quando chi deve provvedere all’incolumità degli uomini dello Stato, non lo fa? Ecco che la molla civile, il senso dello Stato, finalmente gridano la propria presenza. Perché dove c’è bisogno di solidarietà, la fiammella della speranza non si spegne. È in quel momento che qualcosa si muove, il singolo fa la sua parte e ciascuno recita il proprio copione.

«Questi gesti uniscono, soprattutto in un momento particolare per l’Arma». Così il Cocer, sindacato dei carabinieri, ha preso posizione. Netta e chiara. Ultimo va protetto e se non lo si può fare in via ufficiale, con modi e tempi stabiliti da qualche superiore, nessun problema. Ci penseranno centoventi militari del nucleo scorte di Palermo. Ci penseranno quei militari, una volta chiuse le uniformi negli armadietti e depositata in garage l’auto di servizio. Ci penseranno i militari che ogni giorno ed in prima persona rischiano la vita. Propria e di mogli e figli. A volte con le volanti senza carburante, sacrificando feste e domeniche in famiglia. Confrontandosi con la dura realtà criminale della strada. Ci penseranno i militari che quel giorno del gennaio 1993 trionfavano suonando il clacson dell’auto che conduceva il capo dei capi in caserma. Sarà loro compito proteggere quello che era stato il “loro” capo e quello che quei clacson contribuì a farli suonare per le strade di Palermo. Con centinaia di persone che ai bordi della strada applaudivano.

giovedì 12 novembre 2009

Speriamo che l'italiano non diventi archeologia

Da Ffwebmagazine del 12/11/09

Il dialetto ha la faccia scura è il titolo di un interessante libretto scritto da Giovanni Ruffino, linguista dell’università di Palermo, che prende spunto da una frase pronunciata da una bambina veneta di dieci anni. E vuol significare molto di più di una semplice battuta, magari dettata dall’ingenuità infantile. Ha precise implicazioni perché rappresenta il termometro di quel corto circuito, sintomo di pregiudizi, che si è pericolosamente innescato anche nel mondo della scuola. Un pregiudizio linguistico in chiave etnica.

Gli esempi e le espressioni presenti nel volume, che spaziano dalla Valtellina a Lampedusa, in modo leggero ma esemplificativo, pongono sullo stesso piano lingua ed etnia. Un campanello d’allarme per gli addetti ai lavori in primo luogo perché i dialetti in Italia sono circa diecimila - si pensi che nel resto del mondo l’Unesco ne riconosce in totale settemila - e poi perché essi sono prezioso punto di riferimento di identità storiche e culturali, ma proprio per questo non debbono in alcun caso minare il valore primario dell’unità nazionale linguistica e culturale che hanno contribuito ciascuno a comporre.

Concetto che sarebbe così semplice, non solo da apprendere ma anche da metabolizzare all’interno di un ragionamento, se solo fosse condotto con il metro della logica, spogliata di quel populismo localistico che tre mesi fa ha innescato uno stucchevole dibattito su proposte fuori luogo intorno alle bandiere regionali, a diversi inni nazionali e - ultima non per importanza, ma prima per demenzialità- quella dell’insegnamento dei dialetti nelle scuole. Il tema, se chi vi si approccia si premurasse di osservare dati e numeri, scivolerebbe in una elementare conseguenza: ovvero, che è improponibile. Quei dati e quei numeri dicono che innanzitutto la nostra lingua si è impoverita. Grazie all’uso di un vocabolario ristretto, a un analfabetismo di ritorno, alla prevalenza della lingua parlata rispetto a quella scritta e, soprattutto, all’impeto del linguaggio pubblicitario.

«Poniamo un freno a questo imbarbarimento», riflette Umberto Croppi, assessore alla Cultura del Comune di Roma, dal momento che in Italia abbiamo avuto una nostra letteratura in lingua ben prima di una strutturazione politica dello Stato. In secondo luogo, quella proposta andrebbe derubricata a semplice idea strampalata perché il dialetto va incontro a una fortissima variabilità: si pensi che in Friuli ci sono venti differenti modi per chiamare l’arcobaleno. Quale dovrebbe essere preferito allora in un ipotetico sussidiario dei dialetti da adottare come testo scolastico? E con quali criteri preferire l’uno all’altro senza suscitare risentimenti in una provincia o in un comune? Sarebbe evidentemente il caos.

È ovvio che, a voler leggere la questione con un minimo di cognizione storica e letteraria, non sarebbe complesso passare oltre per concentrare riflessioni e proposte, invece, su come coniugare la risorsa delle identità culturali italiane all’interno dello spirito nazionale e unitario, che sta alla base delle celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. Tema sul quale si è soffermato un seminario promosso dalla Società Dante Alighieri, dal titolo “Lingua e dialetti: l’italiano tra federalismo e Unità d’Italia”. Proprio centocinquant’anni fa Carlo Cattaneo sosteneva che le nostre città «sono il centro delle comunicazioni ed il cuore del sistema». Mentre, da un decreto siciliano del 1951, si evinceva che «i valori della tradizione regionale fini a se stessi sarebbero inutili e diseducativi. Una scuola deve essere regionale e nazionale». Due citazioni che affrontano a chiare lettere il significato dei dialetti e il loro riflesso opportuno all’interno di una visione di insieme.

Non esiste un unico binario tra locale e nazionale, semplicemente perché, nel rispetto delle singole identità storico-culturali, non è proponibile una conseguente mortificazione dell’ambito nazionale, presente da Bolzano a Lampedusa in egual misura. Sarebbe poco saggio porre sul medesimo piano regione e nazione, dal momento che appartengono a due livelli diversi. E come tali vanno considerati. Il fatto di avere sul territorio nazionale quasi duecento città, ritenute complessivamente molto rilevanti e non due o tre come accade in altri paesi del mondo, non deve innescare la logica campanilistica della mia lingua, o della mia storia o delle gesta del mio eroe regionale. Piuttosto dovrebbe essere visto come un prezioso elemento che favorisce l’integrazione all’interno di un tessuto più ampio, che non si limiti di fatto a pochi agglomerati urbani. E un altro errore macroscopico potrebbe essere riscontrabile nell’insegnare la lingua dialettale senza la cultura dialettale, che è espressione di quella lingua. «Faremmo solo dell’imperialismo», secondo Ugo Vignuzzi, linguista dell'università La Sapienza di Roma.

E, allora, ci si dovrebbe interrogare, più che su dialetti, bandierine o inni regionalizzati, su cosa significhi utilizzare la lingua italiana, su come implementarne la promozione socio-culturale, al fine di incrementare la parificazione degli individui. Quarant’anni fa mai avremmo pensato che oggi uno dei più grandi motori di ricerca del mondo sarebbe arrivato a scannerizzare le biblioteche italiane, «offrendo sì un servizio globale, ma anche conducendo in California le nostre proprietà intellettuali», come ha sottolineato Paolo Peluffo, vicepresidente della Società Dante Alighieri.

L’auspicio è che, non solo si proceda alla strutturazione di una multicittadinanza europea riflettendo sulle lingue mondiali - e quindi osservando la questione in modo arioso - ma soprattutto che si eviti l’impoverimento della cifra nazionale a causa di assurdi centralismi regionali. Perché non pensare a che ne sarà della lingua italiana nel 2061, quando si celebrerà il bicentenario dell’Unità d’Italia? Speriamo non sarà ridotta ad archeologia linguistica.

mercoledì 11 novembre 2009

Abdel Aal: «Forse non lo vedete, ma l'Islam sta cambiando»



Da Ffwebmagazine dell'11/11/09

Una fiction sulle reti egiziane tra due mesi, un ciclo di conferenze e presentazioni in giro per il mondo subito dopo. Ghada Abdel Aal, di professione farmacista, è per la prima volta in Italia. A trent’anni e senza averne il minimo sentore, è diventata la scrittrice più famosa d’Egitto. Il diritti del suo primo romanzo, Che il velo sia da sposa, sono stati venduti in Stati Uniti, Germania, Olanda, Polonia e Inghilterra, al Cairo si è già alla settima ristampa di un simpatico libro, nato per caso dalle riflessioni matrimoniali sul suo blog “Voglio sposarmi”. E sì, perchè in Egitto capita spesso che, non appena una ragazza termini gli studi universitari, suo padre si adoperi per cercarle l’uomo da sposare, invitando il prescelto in casa propria. La protagonista del romanzo, Bride, continua a ricevere in casa improbabili pretendenti e le sue sensazioni e perplessità, in chiave ironica e sarcastica, sono il passepartout dell’autrice per scoperchiare una società che sta cercando di migliorarsi, ma che come riflette sinceramente, «in occidente dovremmo imparare a conoscere meglio».

D. Da blog a romanzo, il passo è stato breve.
R. Ho iniziato a pubblicare alcune riflessioni sul mio blog, che è stato visitato da numerosissime persone. Dar Shahrukh, la più grande casa editrice egiziana, ha notato la straordinaria attenzione da parte dei giovani e ha colto questa occasione per collegare i frequentatori dei blog con il mondo delle pubblicazioni cartacee. Così mi hanno proposto di dare un riscontro alle mie emozioni e ai racconti di episodi reali. Ed è nato questo libro.

D. Può uno stile ironico e leggero favorire la comprensione di temi come l’emancipazione femminile?
R. Il diversivo del blog è stato un modo per non rendere il libro troppo drammatico, così da far fluire in modo più semplice e rapido a tutti le mie idee e l’argomento del matrimonio. In un anno e mezzo siamo dovuti ricorrere a sette ristampe, che per l’Egitto sono numeri rilevantissimi.

D. Come è visto il matrimonio dalle sue coetanee? Sogno da inseguire o evento da prendere con più tranquillità?
R. Nel mio paese la donna si sposa perchè è l’unico modo per avere dei figli.

D. Come immagina il suo matrimonio? Ammesso che ci pensi.
R. Lo immagino come preludio ad una vita che sarà molto comica.

D. Nel libro, a un certo punto, sceglie il matrimonio adducendo quindici ragioni legate alle piccole vicissitudini quotidiane: un tentativo di spogliare l’evento da quella pesantezza e da quelle ingombranti aspettative che in alcune società non mancano?
R. Ho voluto soltanto far trasparire che in Egitto le ragazze non chiedono assurdità o non inseguono utopie irraggiungibili, ma le loro aspirazioni sono legate in fondo a cose semplici, che fanno parte della quotidiana convivenza. Non tutte cercano per forza una casa lussuosissima o il principe azzurro.

D. Dopo un appuntamento, la protagonista del libro si chiede: “Come ho potuto rifiutare un buon partito?” Quale la risposta dell’autrice in carne ed ossa?
R. Molte volte la gente si domanda perchè una ragazza dica di no, nonostante magari l’uomo in questione abbia una buona posizione, o svolga una professione interessante e dalle prospettive invitanti. Io dico che questi aspetti, seppure importanti, non sono sufficienti. Non si può affrontare una scelta così importante senza valutare anche altri fattori non materiali.

D. Quanto conta questa libertà di scelta per affermarsi come individualità?
R. In Egitto la libertà per le ragazze di scegliere un uomo non è a lungo termine, anzi, si tratta di una libertà che potremmo definire quasi a tempo determinato, oltre il quale non si può andare. Perchè esattamente un momento dopo il compimento del trentesimo anno di età, la ragazza in questione che non ha trovato marito, è considerata come una fallita.

D. E scegliere, ad esempio, di non scegliere?
R. No, semplicemente perchè ogni donna egiziana ha il sogno di diventare madre.

D. In Egitto dite che il matrimonio è come un’anguria, o rossa e gustosa, o bianca e sciapa. Come immagina il suo?
R. Non lo immagino. So solo che se fosse un’anguria rossa andrebbe bene, ma se fosse bianca, beh, allora sarebbe impossibile da far diventare rossa.

D. Perché solitamente ai bimbi si chiede quale lavoro intendono fare da grandi, mentre alle bambine si finisce per chiedere con chi vorrebbero sposarsi?
R. Ma per il fatto che il matrimonio incarna il fine ultimo della società, e se una ragazza non riuscisse a realizzarlo, diventerebbe agli occhi di tutti una donna a metà. Basti pensare che in Egitto una donna, anche se fosse ricchissima e svolgesse una professione di grande prestigio, anche se fosse primo ministro, sarebbe comunque considerata fallita in assenza di una famiglia, di un marito e dei figli. E la gente la guarderebbe con estremo dispiacere.

D. Perché non iniziare a ignorare tali giudizi della gente?
R. Ci provo, infatti non vorrei mai sentire dentro me stessa l’impeto o l’impulso di sposarmi solo per soddisfare un certo modo di vita impostomi dall’opinione pubblica. In ragione di ciò ho scritto queste pagine, per gridare a tutti che l’unico legame è con la soddisfazione personale. Il matrimonio è per se stessi e non per gli altri.

D. Come far sì che la donna non venga confinata solo nel ruolo di sposa e basta?
R. Un punto di partenza nuovo e dalle molteplici possibilità è proprio il blog. Dopo il mio, se ne sono aggiunti molti altri sulla stessa lunghezza d’onda. Parola dopo parola, commenti postati dopo commenti postati, la gente leggerà ciò che scriviamo, che pensiamo e che vorremmo fare, e quindi inizierà a porsi delle domande. Solo in quel momento sarà possibile comprendere il reale stato delle cose, delle emozioni, dei sogni. Certo, sarà necessario del tempo per incunearsi nelle menti delle persone, ma il difficile è iniziare. In occidente avete un’idea della nostra società vecchia di un decennio. Stiamo cambiando, pian piano, ma credo che gli alcuni di voi non siano interessati a vedere i nostri reali progressi.

D. E come osservare meglio l’oriente, non circa i suoi progressi di oggi, ma verso quelli del prossimo decennio?
R. Con la cultura, confrontandosi con alcune letture, e non con una sola. Non è sufficiente sfogliare un libro sull’Africa per avere la percezione di cosa il continente nero sia. Valutare più opinioni invece serve a comprendere l’essenza dell’oriente, e anche i possibili passi in avanti che farà.

lunedì 9 novembre 2009

Don Ciotti: «La lotta alle mafie riguarda tutti i buoni cittadini»



Da Ffwebmagazine del 09/11/09

«Incontrare le paure e le fatiche degli altri, così è possibile abbattere pregiudizi, confrontarsi con il diverso e lavorare per mediare i conflitti». La riflessione di don Luigi Ciotti - da anni in prima fila nella lotta alla criminalità con la sua associazione Libera - non vuol essere solo un consiglio o una rimostranza su atteggiamenti sbagliati, ma uno sprone per le coscienze ad aprirsi e a far conoscere le positività che ci sono e che spesso non fanno rumore.

D. «Sono felice di spendere la mia vita per saldare la terra con il cielo» ha detto recentemente: come procede quest'opera di ricongiungimento?
R. Sono un sacerdote chiamato alla testimonianza cristiana e alla responsabilità civile. Credo che la parola di Dio sia utile a tutti anche per rimettersi in gioco costruendo percorsi di legalità, giustizia e libertà. Mi viene in mente il documento della Chiesa italiana Educare alla legalità del 1991, dove si afferma che non è possibile inseguire soltanto i grandi principi o i massimi sistemi, ma serve entrare nella storia portando il proprio contributo.

D. La mafia è cambiata, spara di meno e fa più affari: si è modificata anche la metodologia dello Stato?
R. Nel documentario Malitalia, storie di mafiosi, eroi e cacciatori di Enrico Fierro e Laura Aprati, con testimonianze dirette di magistrati, investigatori e forze dell'ordine di grande valore, si scorgono coraggio, impegno, grande intelligenza. Ma anche una lettura nuova: personaggi forse meno noti che però agiscono con notevole profondità nei singoli contesti. A dimostrazione che, da un lato, si sta facendo tanto, non c'è giorno infatti che non si abbia notizia di risultati pratici con dati interessanti. Dall'altro, vi è una trasformazione rapidissima delle organizzazioni criminali, che utilizzano strumenti differenti per penetrare nella società. Parlo di una generazione nuova che si è strutturata, come emerge da segnali chiari.

D. E le antenne della società civile?
R. Preferirei denominarle della società responsabile, perché il termine società civile oggi è un po' come l'acqua bagnata. Il singolo individuo deve fare la sua parte, ma di concerto e non da solo. Anche il nostro osservatorio Libera, con scuole, università, migliaia di altre realtà territoriali, percepisce che vi è un cambiamento in atto. È vero che non c'è al momento una guerra di mafia, ma è altrettanto vero che ogni giorno c'è comunque qualche morto e abbiamo tanti morti vivi. Mi riferisco a persone che vivono ma sono vittime di tale violenza, come usura, racket, lavoro nero, tratta di esseri umani, ecomafie. E allora è necessario che tale morso sia interfacci con l'accelerazione della risposta, prevedendo ruoli determinanti per la società civile e responsabile, per il mondo della scuola, per le istituzioni e i media.

D. Come crede si sia evoluto nell'ultimo decennio l'approccio al fenomeno mafia da parte dei più giovani, diciamo dalla strage di Capaci in poi?
R. È stata fondamentale la componente educativa della scuola e dell'università. Aveva ragione Nino Caponnetto che considerava Falcone e Borsellino come suoi figli. Era il capo di quella procura e aveva costruito quella squadra e quel pool. Per questo in seguito non esitò a dire che la mafia temeva in realtà più la scuola che la giustizia. L'istruzione infatti indebolirebbe dalle fondamenta la cultura mafiosa. Libera ha portato avanti protocolli di intesa con il 70% degli atenei italiani. Significa che vi è una maggiore presa di coscienza e sete di conoscenza sul fenomeno. Ma i progetti non sono sufficienti, rispetto all'immensità di ciò che andrebbe fatto. In base a quella corresponsabilità che poi alla fine ci chiama in causa, è necessario fare di più, non solo con coerenza ma anche con umiltà. Quella che in Italia troppo spesso è venuta meno è la continuità. Se all'indomani di vicende drammatiche ci sono state risposte di grande valore, in seguito nel tempo tutto si è perso.

D. Da un lato il carcere duro per i mafiosi, dall'altro maggiore dignità per impedire altri casi Cucchi: su quali basi strutturare un nuovo sistema carcerario?
R. Cresce lo Stato penale e diminuisce quello sociale nel nostro paese, in nome della sicurezza e dell'orientamento alla paura da parte di molte persone. Sia chiaro, il diritto alla sicurezza è legittimo, ma si rischiano delle semplificazioni e una demagogia un po' razzista. Il diverso viene visto, infatti, quasi con un rifiuto e cresce anche una certa paura fasulla. Mi rendo conto del pregiudizio: per questo dobbiamo essere capaci di incontrare tali paure, confrontandoci con chi non la pensa come noi, di incrociare la fatica degli altri, lavorando per la mediazione dei conflitti. Ci vorrebbe una mobilitazione che andasse incontro a chiunque, perché ciascuno di noi non può ritenere di aver ragione risolvendo le questioni dall'alto delle proprie sicurezze. Sarebbe utile tenere conto proprio delle insicurezze di tutti, delle fragilità, di ciò che l'altro ha vissuto, ha letto, ha visto, ha percepito. È il nodo della prossimità, che considero la prima dimensione della giustizia. Aveva ragione don Bosco quando ai suoi ragazzi diceva, a metà dell'800, che non bastava essere buoni cristiani, ma serviva essere anche buoni cittadini.

D. In occasione degli stati generali dell'antimafia, ha detto: «Dobbiamo capire se abbiamo rispettato gli impegni presi». Quali sono le novità sull'autorità unica contro il riciclaggio e il testo unico della legislazione antimafia?
R. Due cose che ancora non ci sono, purtroppo, e che chiediamo vengano approntate. Noi siamo una piccola realtà, ma l'articolo 4 della Costituzione, che ci ricorda l'importanza del contributo dei singoli cittadini nella dimensione materiale e spirituale, credo vada preso come un invito a non delegare. Due sono gli atteggiamenti di fondo rilevanti. Prima sconfiggere il peccato del sapere, ovvero la grave mancanza di profondità. Abbiamo necessità di un sapere che scenda nelle viscere, dal momento che oggi tutto è un sentito dire, spesso semplificato, facilmente etichettabile. Serve, invece, conoscenza, approfondimento per mettere la gente in grado di poter contare su strumenti critici per orientarsi e superare le fatiche. E per cercare la verità. In secondo luogo, dovremmo prendere cognizione che tale cambiamento ha bisogno dello sforzo di ciascuno di noi. Non dimentichiamo che viviamo in prima persona questa spina nella carne della presenza criminale. Un sorta di legalità sostenibile perseguita da chi confonde lecito e illecito.

D. Negli ultimi mesi non sono mancate operazioni sul territorio, come arresti e sequestri. Ma accanto alla repressione, cosa in concreto lo Stato dovrebbe fare quanto a prevenzione ed educazione alla legalità?
R. Non usciremo mai da questa impasse se non investiremo nella grande progettualità educativa, nella dimensione della grande sfida culturale. E poi il lavoro e le politiche sociali, un'attenzione vera alle vittime e ai testimoni. Occorre una visione di lungo respiro e di continuità. Ricordiamoci anche delle tante piccole cose positive che vengono fatte, ma che non fanno chiasso e che invece meriterebbero attenzione. Facciamo conoscere questa positività.

D. Non aiuta, però, il fatto che un Comune del nostro paese abbia deciso di togliere una targa intitolata alla memoria di Peppino Impastato, non crede?
R. Mi è dispiaciuto molto, ma la risposta migliore è venuta dalla congregazione del sacerdote con cui il sindaco avrebbe voluto sostituire la targa di Peppino. Loro hanno detto di no, preferendo il nome che c'era prima. Un atto di grande delicatezza.

sabato 7 novembre 2009

Banda larga addio,l'Italia rinuncia al futuro



Da Ffwebmagazine del 07/11/09

E la banda larga finisce nel congelatore. Quello di casa nostra. La possibilità di dare una scossa alla crisi in atto con un piano di investimenti lungimiranti, fondati sullo sviluppo tecnologico della banda larga, si infrange contro il muro del niet pronunciato dal Cipe. Ben ottocento milioni che sarebbero serviti a dare seguito al miliardo e mezzo di euro, promesso dal vice ministro con delega alle Comunicazioni Paolo Romani per il comparto Ict (Information and comunication technology) avranno altra sorte. E a nulla purtroppo serviranno i commenti ovviamente tranchant di queste ore - “Un danno al paese” dice Confindustria - a meno che non inducano il ministero dell'Economia a una sana retromarcia.

A conti fatti non appare comprensibile, in termini economici e occupazionali, come si possa rinunciare, preventivamente e a cuor leggero, a investire in un comparto che si calcola potrebbe offrire ricavi del 200%. Parliamo di cifre non da poco, ovvero investimenti che potrebbero produrre due euro di guadagno per ogni euro impiegato. Così come intelligentemente fatto da altri governi, non proprio nelle retrovie delle graduatorie mondiali. La Corea del sud è al vertice dei paesi dove la banda larga rappresenta ormai un dato acquisito. E non solo in termini di cittadini raggiunti da internet, quanto al conseguente indotto che ne deriva, e che rappresenta il vero valore aggiunto. Un circolo virtuoso che ha consentito ad altre - purtroppo - realtà di attrezzarsi adeguatamente e, loro sì, con scelte di ampio respiro, per emergere dal pantano della crisi grazie al rimorchio di investimenti che presentano un doppio beneficio: modernizzano il paese strutturando un rinnovamento tecnologico oggettivo e contemporaneamente creano posti di lavoro e circolazione di danaro. Ma, a quanto pare, accade spesso che in Italia tali valutazioni vengano sottovalutate o relegate a temi di secondaria importanza, impegnati e concentrati invece in altre definizioni di priorità, come le prossime elezioni regionali.

In un colpo solo questo provvedimento strozza di netto l'occasione di innovare un paese indubbiamente pigro quanto a modernizzazione e svecchiamento, e di dare un segnale a tutte le componenti, dalle piccole e medie imprese ai lavoratori. Estendere la banda larga alla gran parte del territorio avrebbe rappresentato una svolta epocale, anche in considerazione del fatto che, a oggi, i numeri di casa nostra sono tutt'altro che incoraggianti. Solo una famiglia italiana su due possiede un pc e solo nell'ultimo semestre si è verificato un incremento più insistente della digitalizzazione di numerose procedure, come pagare le bollette o ordinare la spesa online, anche da parte di soggetti anziani e disabili che avrebbero nell'informatica un alleato in più. Inutile allora dissertare di società della conoscenza, di progettualità del terzo millennio, di partenariati comunicativi, quando siamo ancora all'abc. Pare che non si stia dando a internet e al comparto Ict la necessaria rilenanza, concentrandosi troppo sugli schemi obsoleti che ruotano esclusivamente su radio e tv.

Senza innovazioni non si ottiene né progresso - imprescindibile per risultare al passo con i tempi -, né un ritorno economico. Invece, si persegue lo status quo senza farsi spingere da proposte innovative che avrebbero il vantaggio, reale e non liquido, di autoalimentare il paese. Siamo al trentottesimo posto al mondo per qualità della connessione, nel vecchio continente al vertice c'è la Svezia che ha appena attivato un ambizioso progetto: entro due lustri il governo coprirà il 100% della popolazione, ma nei prossimi anni potrebbe perdere la prima posizione in Europa a vantaggio della sorprendente Finlandia, il cui esecutivo ha annunciato che dal prossimo luglio tutti i cittadini avranno libero accesso alla banda larga, potendo contare su una velocità di almeno 1 Mbps, che dopo cinque anni sarà portato a 100 Mbps. Numeri che da queste parti potremo solo invidiare.

Addio, quindi, a internet facile e per tutti, così come il ministro della funzione pubblica Renato Brunetta aveva annunciato solo un mese fa, e che avrebbe favorito il grande progetto della informatizzazione totale. L'economista veneziano, infatti, aveva dato per certe le priorità del governo in materia di telecomunicazioni: banda larga, fibre ottiche, superamento del digital divide. Tutte azioni che avrebbero fornito prezioso carburante per l'ambizioso piano denominato della “cittadinanza digitale”, al fine di assicurare copertura al 95% della popolazione italiana.

Poi la scure del Cipe ci ha fatto tornare con i piedi per terra. Pazienza, anziché scambiarci mail e commenti postati, vorrà dire che torneremo alle vecchie lettere scritte a penna. Peccato però che dall'altro versante dell'oceano ci sia un presidente che è stato eletto anche grazie al contatto informatico diretto con milioni di cittadini. Ma questa è un'altra storia.

giovedì 5 novembre 2009

Giulio Giorello: «La verità? Non potremo mai possederla...»


Da Ffwebmagazine del 05/11/09

Perché temere l'insegnamento di altri credi religiosi? Se lo chiede Giulio Giorello, docente di filosofia della scienza all'Università degli studi di Milano, secondo cui non c'è bisogno di alcuna religione della scienza che «è un'attività critica, che deve guardarsi da rischi come le forme di potere consolidato». Studioso e critico della conoscenza, autore di ventisei volumi, si è concentrato sui legami tra scienza, etica e politica. Già presidente della società italiana di Logica e filosofia della scienza, dirige la collana Scienza e idee ed è elzevirista per il Corriere della Sera.

D. Lessing diceva che «non è il possesso, ma la ricerca della verità che rende l'uomo un uomo di scienza». Come insegue la verità l'uomo di oggi?
R. Essa si cerca senza gabbie ideologiche che piegano i fatti alle proprie idiosincrasie, ottenendo il risultato contrario al binomio coraggio-modestia. Vedo la verità come un'idea limite alla quale tendiamo senza mai possederla. Sarebbe sufficiente in campo scientifico che non ci accontentassimo dei risultati ottenuti fino a oggi, ma cercassimo di andare avanti, e in questo aveva ragione Brecht quando diceva «ciò che scriviamo oggi sulla lavagna, domani lo cancelleremo». Concordo con la teoria del grande matematico italiano Bruno de Finetti , innovatore della concezione della probabilità e uomo molto attento ai mutamenti sociali, quando sosteneva che l'idolo di una scienza assoluta, infranto, non implica la fine della scienza stessa. Vuol dire che è terminata una certa concezione della stessa, ma se ne è aperta un'altra, più duttile, plastica, «compagna delle nostre speranze e delle nostre sofferenze».

D. E le verità esistenziali?
R. Ciascuno dovrà risolverle all'interno della propria sfera intima, l'importante è non imporre nulla agli altri. Un radicale pluralismo da questo punto di vista credo sia oggi ineliminabile in una società democratica matura. Che l'Italia lo sia ho qualche dubbio. Alcune recenti polemiche su una proposta che a me sembrava di puro buon senso, come l'ora di religione di altre confessioni, avanzata dal vice ministro Urso, ha suscitato un vespaio di polemiche che mi fanno dubitare della maturità del nostro paese. Oggi l'Islam, e domani, perché no, anche il voodoo.

D. Ha scritto che le idee hanno talora più forza delle cose, e nella scienza sanno incarnarsi in congegni materiali. Come convive oggi l'uomo con questa moltitudine di congegni? Li teme, non li usa in modo adeguato al proprio benessere...?
R. La tecnologia incarna le idee e offre maggiore libertà all'uomo. Il mondo della tecnica, se utilizzato correttamente, ci libererebbe da numerosi vincoli, consentendo ciò che prima era impensabile. Pensiamo per un attimo all'astronomia galileiana, quest'anno ricorre l'anniversario dell'osservazione lunare fatta con il suo cannocchiale. Senza tale strumento che potrebbe apparirci una cosa da poco, non avremmo oggi i grandi telescopi spaziali orbitanti.

D. Conosciamo il nostro dna, andiamo sulla luna, ma poi?
R. Le considero enormi esperienze di liberazione, però credo che l'uomo abbia anche paura delle conquiste scientifiche in quanto ha paura della propria libertà. Essere liberi non è facile. Più comodo donare il proprio cervello ad altri, non necessariamente a un dittatore, ma a un leader che pensi al posto tuo. Diverso invece assumersi responsabilità, decidere in prima persona ed eventualmente pagarne le conseguenze. Più libertà ci sono, quindi, più l'uomo corre il rischio di sentirsi smarrito, ma di contro le grandi conquiste della civiltà vengono fuori proprio dalla lotta contro tale paura. E ciò vale sin dai tempi in cui Assiri e Babilonesi inventarono le mura e la scrittura.

D. Ma come mai l'uomo non riesce a spogliarsi da questi timori?
R. Perché siamo animali abitudinari. Qualcuno che pensi al nostro posto fa sì che le scelte diventino consuetudini. Attraverso il conflitto con altri esseri umani, contro delle idee, soprattutto quando non è puramente distruttivo, si riesce a raggiungere un livello di consapevolezza nuovo. Ezra Pound diceva «è molto meglio una Ferrari che gli dei del sangue». Mentre questi ultimi richiedono un tributo di sacrifici umani garantendo la stabilità sociale, la Ferrari spazza via tutto questo. E al posto della gloriosa vettura di Maranello potremmo citare anche altro, ad esempio la bomba atomica. Ne Il vero dottor stranamore di Peter Goodchild, si racconta la storia di Teller, il grande guerrafondaio che, già quando si otteneva la bomba A, pensava di progettare la H. Possiamo criticare anche nel merito questo individuo come militarista, ma non possiamo non riconoscergli di aver capito come la scienza era di fatto il veicolo di un gran potere. Da usare per la propria libertà e non per sottomettere gli altri. Detto brutalmente, se non ci fosse stato Teller, io e lei adesso faremmo un'intervista in lingua russa.

D. Ha definito la matematica una «magia che funziona, ma occorre che accanto alla verità propriamente detta, dia spazio all'interesse»: l'uomo oggi ha coscienza di quell'interesse?
R. Sono convinto che la matematica susciti ancora una forte passione legata alla conoscenza, certo oggi abbiamo demandato settori della ricerca ai computer. Ma essi da soli non bastano, il piacere della scoperta matematica è ancora molto intenso. Lo dimostra il fatto che interessanti problemi emergono non solo dalla fisica, ma anche dall`economia. È stato un grande personaggio come John von Neumann che ha mutato radicalmente le carte in tavola, o il matematico John Harsanyi, teorico dell'utilitarismo, premio Nobel. Grandi figure il cui merito è stato di far capire, anche a un pubblico di non specialisti, quanto sia affascinante l'applicazione matematica. Continuo a ritenere che la matematica sia uno dei terreni in cui meglio si realizza la creatività umana, forse è paragonabile alla grande musica o alla grande architettura.

D. Pensa che l'approccio alla scienza da parte dell'uomo sia a volte troppo retorico?
R. Dalla biologia viene una grande lezione che sintetizzo in due parole: coraggio e modestia. Coraggio perché è indispensabile una notevole forza per abbattere la costellazione di pregiudizi stabiliti. Modestia perché dalle scienze spesso abbiamo risposte che abbassano il nostro orgoglio. Pensiamo alla teoria darwiniana sulla genealogia dell'homo sapiens. Forse sarebbe stato meglio illuderci di essere parenti stretti di diavoli e angeli, piuttosto che di scimmioni. Non è un peccato di orgoglio, ma coraggio di fare tali affermazioni da Darwin in poi con molta modestia, visto che in fin dei conti non siamo i signori del creato ma semplicemente scimmioni, spero, abbastanza intelligenti.

D. Quindi teme la retorica scientista, anche quando si insinua in ambiti come le leggi sul fine vita?
R. La scienza non ha bisogno dello scientismo. I grandi teorici ottocenteschi dello scientismo avevano come avversari i matematici dell'école polytechnic. In realtà non c'è bisogno di alcuna religione della scienza, in quanto essa è un'attività critica, che deve guardarsi da rischi come le forme di potere consolidato. Penso alla scienza asservita ad un partito come fece Stalin. Gli scienziati devono vigilare in qualità di cittadini democratici. Ma non ritengo che per salvare la scienza si debba tirare in ballo una sua supremazia assoluta. Bastano il coraggio e la modestia.

D. Nel suo volume Di nessuna Chiesa. La libertà del laico, ammonisce sul fatto che troppo spesso ci si dimentica che il contrario di relativismo è assolutismo. Non crede che oggi si giochi troppo con il confondere contenitori e contenuti, mortificando una più sana indipendenza ideologica?
R. Molto del relativismo contro cui si polemizza anche in discussioni politiche, mi sembra un feticcio inventato intenzionalmente per cucirvi una querelle ideologica, senza alcuna rispondenza con gli sviluppi intellettuali di punti di vista pluralistici. Questi ultimi sì che costituiscono una forma nobile di relativismo, richiamata anche da Leopardi quando nel suo Zibaldone diceva «il mio sistema non è contro l'assoluto, anzi lo pluralizza». Lasciamo che ci siano molti assoluti che si confrontano. Vorrei ad esempio continuare a leggere William Furley anche se tiene per i sudisti americani, o Ezra Pound senza che nessuno mi consideri fascista, o Maiakowskij senza che qualcuno mi dia del comunista.

D. Ha definito la libertà un'aria in cui «respirano tutti, che non può essere sequestrata né da una religione, né da un'ideologia»: ma capita che l'uomo, quando l'ha conquistata, poi non ne faccia un uso corretto sino in fondo...
R. San Paolo e S.Agostino si chiedevano, «perché se sono portato al bene, continuo a fare il male?». Perché vi è una volontà di asservirsi, un desiderio di servitù volontaria. È un grande problema che ritrovo in tutti i maggiori pensatori occidentali, che Machiavelli ha esaminato con non poco coraggio. Giordano Bruno in alcune delle sue pagine più strazianti si ritrova in John Stuart Mill, ovvero il paradosso dello schiavo o volontario. La soluzione? Bisogna resistere, non c'è altro da fare.

martedì 3 novembre 2009

Treccani, Gentile e l'Enciclopedia: quando la cultura non e`impresa



Da Ffwebmagazine del 03/11/09

Quando Giovanni Treccani nel 1898 rientrò in Italia dopo essersi specializzato in Germania all’istituto tessile di Krefeld, aveva ben chiaro in mente non solo quale sarebbe stata la sua occupazione, ovvero fare l`industriale, ma soprattutto quale apporto avrebbe offerto al suo paese. Donare cultura ai posteri, cementare il sapere nelle fondamenta di quell’Italia, sfidare consensi e mugugni. Insomma: dare futuro alle menti che vi si sarebbero abbeverate. Perché, sosteneva, solo chi detiene la ricchezza ha il compito di produrre cultura per gli altri, accollandosi personalmente il rischio di quell’esposizione economica.

Così nacque la più grande impresa culturale italiana del novecento, l’Istituto Giovanni Treccani per la pubblicazione dell’Enciclopedia, dall’incontro tra un facoltoso industriale di Montichiari e il filosofo ministro dell’Istruzione, quel Giovanni Gentile così distante da Treccani per origine e formazione, l’uno settentrionale e votato agli affari, l`altro siciliano e tempio di meditazione e di studi. Ma al contempo accomunati dall'amore per la cultura, per quella cosa emozionante e multiforme che rappresenta un investimento a lungo termine per le nuove generazioni.

Una pellicola, prodotta in collaborazione con l'Istituto Luce e per la regia di Andrea Prandstraller, ripercorre la vita di Treccani, sulla falsa riga di un diario che egli tenne in occasione della nascita del suo primo figlio e che il nipote Andrea ha recentemente riletto e da cui e`scaturito un viaggio indietro nel tempo. In un`Italia a cavallo fra le due guerre, eccitata dalle prime grandi aziende industriali, come il Lanificio Rossi di Vicenza, dove Treccani scalò rapidamente posizioni sino a diventare un fedelissimo della proprietà, oppure come il Cotonificio del Ticino che, in grave difficoltà finanziaria, egli riuscì a salvare trasformando i creditori in azionisti. Sino a quella che si potrebbe definire la pietra miliare di questa nobile anima della cultura. Giunto a Roma per dare il via al suo progetto con in tasca alcuni milioni, fu convinto a utilizzare quei soldi per acquistare a Parigi una copia della Bibbia di Borso d’Este, per la quale impiegò cinque milioni di allora e che immediatamente dopo donò all’Italia come testimonianza di rispetto che un privilegiato come lui aveva della sua missione: diffondere la cultura, e che gli valse la reprimenda del suo banchiere francese che, allibito dal gesto, gli disse: «Monsieur, vous etes fol?».

Ma cosa rappresenta oggi la Treccani? L’unico istituto il cui presidente è nominato dal capo dello Stato, a sancire un luogo dove si pensa e si crea cultura grazie a strumenti critici, per un qualcosa che va al di là dell`immediato. L’Istituto, a differenza di una semplice casa editrice, non deve obbedire al mercato o al tracciato delle copie da vendere in base al gradimento del prodotto. Bensì ha come scopo ultimo e solo la cultura, senza fine di lucro e senza altri obiettivi se non quelli di testimoniare significati e concetti. «Compito della Treccani - aggiunge Tullio Gregory, accademico dei lincei da tre decenni nell`isituto – è fare cultura, non impresa», senza quindi trasferire i parametri dell’audience televisivo all’interno di una cultura che invece esige punti fermi. E che può vantare l’intenzione del fondatore.

Come una morsa interiore, che si insinuò nelle membra di Treccani, e che lo prese per mano conducendolo verso la creazione di un pezzetto di storia di questo paese, per raccontare ad altri quella storia, per diffonderla, per irrorare di nozioni i cittadini. Per riempire i vuoti che c’erano allora e che spesso appaiono ancora oggi, per tracciare una linea netta e ben visibile, e dichiarare apertamente il proprio scopo, senza altro fine se non quello del contributo alla società.

Una lezione che proprio negli ultimi giorni è stata, se non travisata, quantomeno lambita dalla proposta di voler procedere attraverso il sistema del call for papers, ovvero in virtù di ristrettezze economiche, avvalersi di contributi volontari tramite la rete per comporre i nuovi filoni dell`Enciclopedia. Una deriva che però si pone agli antipodi di quello spirito che il 18 febbraio del 1925 pervase le scelte di un industriale italiano, figlio non certo di industriali, ma di quel ceto medio che gli consentì quantomeno di formarsi. E grazie al quale Giovanni Treccani, poco avvezzo agli sprechi ed agli sperperi, iniziò un cammino virtuoso che lo condusse ad un successo che non fu fine a se stesso e fonte esclusiva di celebrazioni e trionfi, ma punto di partenza che gli consentì di ridare al paese ciò che il suo lavoro gli aveva donato. Ma rischiando di suo, investendo risorse personali, come quando all’indomani del crollo delle borse nel 1929, impegnò con l`Ina due suoi fabbricati romani ottenendo dieci milioni, utili a completare l`opera enciclopedica prodotta in venticinquemila copie.
Altri tempi, altri uomini, e soprattutto altre idee.

lunedì 2 novembre 2009

Se la televisione non smette di urlare

Da Ffwebmagazine del 02/11/09

È più facile perdere le staffe e replicare a muso duro a provocazioni e insinuazioni, o incassare con stile e ribattere con sobrietà, forti delle proprie ragioni? Ovviamente è preferibile la prima ipotesi, perché è notevolmente più complesso reprimere nervi e slanci polemici. Ma è veramente quella la soluzione migliore che confeziona un buon servizio? I salotti televisivi pullulano ormai di urlatori di professione, di specializzandi nell’interruzione coatta e nel ciondolare la testa in segno di disapprovazione. Tecnica scientifica per annullare l’interlocutore di turno, ma anche pericolosa deriva che svilisce il contenitore televisivo.

Perché non provare a ragionare su dove si spinge un approfondimento che non è più tale, ma si è trasformato solo in un’arena, dove tra leoni e gladiatori, il malcapitato telespettatore non ha la più pallida idea di cosa accada? Dando un’occhiata al prodotto finale, ecco che appare magicamente una fotografia della situazione, con tanto di indice di gradimento da parte dei cittadini, e non solo degli addetti ai lavori.
Succede, ad esempio, che in alcuni talk show domenicali, temi impegnativi e dalla valenza decisamente alta, vengano sviliti da schiamazzi e invettive senza che il moderatore di turno si sogni minimamente di estrarre un cartellino giallo o rosso, per ammonire o per espellere. Si dirà: mica vorrete limitare la libera espressione? Niente affatto, dal momento che come sosteneva Benedetto Croce, «la libertà al singolare esiste soltanto nelle libertà al plurale».

Quindi, ben vengano idee e ragionamenti diversi, ma non per questo inneschino il caos a cui spesso si assiste, con quell’assurdo botta e risposta accigliato, con quegli indici puntati - che fa tanto inquisizione e roghi del passato -, con quegli sguardi più affilati di mille sciabole. Basterebbe, e sarebbe opportuno, regolare forme ed esposizioni, non per un buonismo bacchettone ma per elevare il tasso qualitativo e soprattutto per educare. Sì, educare. Quella parola in disuso, che in pochi ormai rammentano tra coloro che hanno la responsabilità di informare e al tempo stesso di offrire un servizio anche culturale. Non si dimentichi che la televisione, per quanto in questi anni deficitaria e gravemente ammalata, è comunque un vettore di educazione, perché veicola fatti, commenti, analisi, opinioni, tesi e contro tesi, deduzioni e controdeduzioni. E non dovrebbe concentrarsi con tutta questa veemenza sulla mera propaganda. Uno scenario che sarebbe utile fosse metabolizzato a tutti i livelli, dai conduttori agli ospiti che intervengono per accrescere il dibattito, ma che purtroppo finiscono a volte per svolgere un’operazione praticamente opposta.

Rappresenta, certo, una bella prova di resistenza non lasciarsi andare a reazioni isteriche e minacciose, come ad esempio fatto da Giovanni Floris nella scorsa puntata di Ballarò quando, in diretta telefonica con il presidente del Consiglio, il conduttore ha imboccato la strada della placida ironia per smorzare i toni della questione. O come amava fare Enzo Biagi nel suo Il Fatto serale su Raiuno, quando preferiva smussare gli angoli piuttosto che incrementarne le spigolature, o come ha scelto di fare Milena Gabanelli su Report, quando offre la parola a dati, immagini e carte giudiziarie, anziché scendere nel ring delle accuse a priori. Tre richiami che scandiscono un modo di informare e di produrre opinioni che non cozza con il buon gusto, con la deontologia, con un certo stile limpido e corretto, sì corretto. Per quale ragione inseguire allora a tutti i costi quello che si potrebbe definire come il festival del limbo mediatico? Una sorta di zona non grigia, ma al tempo stesso drammaticamente rossa, dove il colore è direttamente proporzionale a un’immagine di aspro conflitto, dove il rosso sta per fuoco appiccato, per acque contaminate, per sfoghi cutanei.

Lo si dichiari, dunque. Se si sceglie questa strada per un mero fine pubblicitario, per finire il giorno dopo su tutti i giornali, che lo si professi apertamente. Ma senza, a questo punto, nascondersi dietro il penoso velo del ruolo informativo, educativo e spirituale, o del servizio pubblico o dell'intento di “un esperimento televisivo”. Recuperino una dimensione educativa, dunque, non solo la televisione ma, più in profondità, quei contenitori di analisi e valutazioni, che contribuiscono non poco alla formazione dell’opinione pubblica. Un’opinione pubblica che, invece, oggi viene pericolosamente contaminata da suoni sinistri di scontri, da spade che si incrociano, da sopracciglia alzate preventivamente. E che invece andrebbe non ammaestrata, ma semplicemente educata al confronto civile, a quella cosa che si chiama informazione corretta e, ovviamente, al diritto di replica.