domenica 27 febbraio 2011

TRAVERSARE IL DESERTO

Dal Secolo d'Italia del 27/02/11

Il deserto come metafora geosociale. Dove popoli valorosi e determinati hanno abbracciato cambiamenti epocali grazie a traversate storiche. Come un bivio di un’era geologica che è definitivamente lasciata alle spalle. Dove i coraggiosi, quelli che osano e che alzano lo sguardo, puntano non solo alla prossima oasi, ma al traguardo finale, alla posta in palio più alta. Alla terra (politica) promessa, alla nuova frontiera anche di quell’immaginario a cui in tanti anelano. Dove giungere faticosamente ma soddisfatti, dove nidificare per poi ripartire, dove contano i chilometri percorsi, i tornanti della storia affrontati. E non le stazioni intermedie, le oasi fasulle figlie delle allucinazioni di sguardi svogliati e comodamente rassegnati allo status quo. Il deserto sempre amato da Antoine De Saint-Exupery, che scrisse “ci si siede su una duna di sabbia. Non si vede nulla. Non si sente nulla. E tuttavia qualche cosa risplende in silenzio.”

Il deserto come selezione naturale darwiniana delle forze in campo. Perché solo i forti, i determinati, gli interpreti con la schiena dritta e con lo sguardo che va oltre, hanno le carte in regola per concludere quella traversata. In quanto dotati degli anticorpi imprescindibili per non affogare nelle sabbie mobili, per non girarsi indietro ed essere colti da deleteri ripensamenti, per non farsi ammaliare dagli argenti e dagli ori dei venditori del nulla giunti, dopo l’ennesima duna, in cerca di affari facili e con il megafono in mano. Il popolo che attraversa il deserto è compatto, unito: si è liberato finalmente delle zavorre, dei falsi compagni di avventura, dei pesi morti che non camminano ma si trascinano stancamente. In attesa non di cambiare legittimamente meta, bensì di fare inversione al solo fine di aggregarsi più comodamente a quella corte illusoria che offre certo ristoro, che bighellona in eterno, senza fremiti emozionali, senza spunti, senza programmi, se non quello di una dorata ma abulica sopravvivenza e nulla più.

Il popolo viandante in quel solco che lo distanzia da una uova vita, è gioioso della fatica che sta per compiere. Orgoglioso delle eccellenze che albergano in quella carovana, da valorizzare, da sfruttare, strutturare internamente come architrave sociale dove far scorrere l’entusiasmo del viaggio, dell’impresa, dell’evento. Perché di macro-evento si tratta, e non di gita fuori porta o di comodo tragitto da affrontare in carrozza. Eccola la differenza, quel fiume carsico di idee e di lucida pazzia presente nelle menti e negli occhi di questi eroi. Che rappresenta la scintilla, il fulcro di un’intera esistenza, ancor più rilevante del momento in cui la meta è raggiunta.
Ma chi sono i protagonisti storici di quella cavalcate? Mosè che aiuta il popolo ebraico a sganciarsi dalla schiavitù del Faraone, in una vicenda storica dove si intrecciano luci e promesse, con la traversata sino alla terra promessa. E ancora, simbolo da sempre della più grande distesa di sabbia del pianeta, il Sahara, sono i Tuareg, popolo che per millenni è stato identificato come sinonimo di vita a quelle latitudini. Da secoli percorrono le piste sul dorso di resistenti dromedari. Chiamati anche “uomini blu” in virtù del velo che indossano per difendersi dalla sabbia e dal caldo. Ma per quattromila anni un altro popolo ha percorso in lungo e in largo quella distesa. Valorosi e senza timore, si chiamano Beja, definiti anche “Fuzzy-Wuzzies”, a causa dei loro capelli crespi. Nella loro storia hanno resistito alle avanzate di Greci, Egiziani, Romani, riuscendo addirittura ad avere anche la meglio sugli inglesi in una storica battaglia del XIX secolo. Un’impresa.

Ma quali sono gli “altri” deserti dell’umanità? Luoghi dove popoli e speranze si sono avventurati, per scoprire, per ricercare, per solcare, o inserirsi tra le aspirazioni del nuovo. Ecco l’ambiente dello spazio, dove nuovi pianeti si scoprono solo esplorando, cominciando un viaggio ed attrezzandosi al meglio. Il pensiero corre alla Luna, a quella prima affascinante osservazione da parte della sonda sovietica Luna 3 dell’ottobre 1959, quando venne messa in orbita attorno alla cosiddetta “faccia opposta alla terra”. Ancor di più alla prima passeggiata lunare di Neil Armstrong, comandante dell’Apollo 11 il 20 luglio del 1969. Timori? Tentennamenti? Ripensamenti? Forse un minuto prima di partire per quel viaggio, ma subito dopo azzerati dalla voglia di avventura, dal tentativo di andare a vedere cosa c’è dietro l’orizzonte, che scenari si nascondono, quali opportunità si aprono, quanti interstizi esistono.

O per restare alla terra, semplice ma spartanamente chiarificatrice, si prenda la transumanza, quella migrazione stagionale delle greggi dalle zone più collinari e montuose, a quelle litorali maggiormente pianeggianti. Effettuata sui famosi tratturi, vecchi sentieri che guidavano sottotraccia questo vero e proprio viaggio, che durava molti giorni, con soste in siti prefissati, denominati “stazioni di posta”. Una pratica, quella dello spostamento come necessità imprescindibile, che è stata oggetto anche di ispirazione letteraria, come la poesia “I pastori” di Gabriele d’Annunzio, quando scrive “Settembre, andiamo. E’ tempo di migrare. Ora in terra d'Abruzzi i miei pastori lascian gli stazzi e vanno verso il mare”. Per poi descrivere intimamente la provenienza del conforto di quel viaggio, quando delinea che “Han bevuto profondamente ai fonti alpestri, che sapor d'acqua natía rimanga ne' cuori esuli a conforto, che lungo illuda la lor sete in via.” Dove ormai non si può tornare indietro.
Come indietro non tornarono i reduci della guerra di Troia, in una plastica raffigurazione di deserto offerta dal mare aperto. Inteso come nuove e vantaggiose terre, raggiunte tramite la lunga e difficile navigazione, coraggiosa e controvento in nuove acque. Pochi furono i sopravvissuti dopo il sacco della città, pare infatti che gli dei fossero adirati per la distruzione dei loro templi e a causa dei sacrilegi nei loro confronti perpetrati dagli Achei. Nauplio, ad esempio, padre di Palamede, architettò delle false luci guida sul capo Capareo, ingannando in tal modo la rotta di moltissime imbarcazioni che finirono per naufragare.

Il caso più noto di neoricostruzione post peregrinazione è quello di Enea, che fuggì dalla Troia in fiamme assieme al figlio Ascanio, al padre Anchise, al trombettiere Miseno ed allo scudiero Acate. Ma non con sua moglie Creusa, perita durante le ultime battute del sacco. Prima progettarono di dirigersi a Creta, ma lì una feroce pestilenza li deviò verso le colonie di Andromaca ed Eleno. Sette anni dopo eccoli sbarcare a Cartagine, dove Enea si legò alla regina Didone che tempo dopo, appreso il fatto che Enea dovesse proseguire il viaggio, colta da disperazione si suicidò. In Italia Enea fondò la città di Albalonga, ma prima chiese in sposa Lavinia, figlia del re locale Latino. Ciò scatenò una guerra civile, che vide Enea fronteggiare Turno, altro pretendente di Lavinia, che però ebbe la peggio. Proprio da Ascanio e Silvio, figlio avuto con Lavinia, discesero Romolo e Remo.
Non solo Enea, ma si pensi a Teucro, figlio di Talamone e fratello di Aiace il grande: fu mandato in esilio dal padre e non gli fu consentito di tornare nella sua Salamina. Fu anche condannato per non aver riportato in Patria il corpo e le armi del fratello eroe. E allora virò a sud verso Cipro, dove fondò una città e le diede il nome di Salamina, in onore alle sue origini.

Ancora Italia, questa volta nei pertugi delle vicissitudini di Filottete, che esiliato anch’egli dalla propria terra (triste evento comune a chi osa), si diresse a ovest verso la Calabria, dove fondò alcune città fra cui Crotone. Ed erigendo un tempio dedicato ad Apollo Vagabondo nell’attuale Basilicata, che i greci e i cittadini locali ancora oggi chiamano con l’originale nome di Lucania. Lo stesso Agapenore fondò Pafos a Cipro, Guneo di Orcomeno governò la Libia, Idomeneo lasciò Creta e si stabilì nell’odierna penisola Salentina. Mentre Diomede, altro nome che si interseca con il mezzogiorno d’Italia, fondò Brindisi e Benevento.
Personaggi, animi nobili: tutti accomunati da una criticità iniziale, che li porta ad affrontare l’ignoto per giungere al di là. Perché in fondo come ha scritto John Steinbeck “le persone non fanno i viaggi, sono i viaggi che fanno le persone.” I metri di ansia percorsi, le cadute, le sbucciature sulle ginocchia, i granelli di polvere che riempiono, copiosi, i vestiti. Il cammino, come inteso nelle righe di una canzone di Ruben Blades, quando dice che “Camminando si apprende la vita. camminando si conoscono le persone. camminando si sanano le ferite del giorno prima. Cammina, guardando una stella. ascoltando una voce, seguendo le orme di altri passi. Cammina, cercano la vita, curando le ferite lasciate dai dolori. Niente può cancellare il ricordo del cammino percorso.”

Neanche nell’ipotesi in cui risultasse affannoso, difficile, impervio, arduo. Anzi, sarebbe proprio quella summa di avversità a farlo epico e stoico. E allora ecco tornare il deserto come humus dove far germogliare un frutto: “Se canti la bellezza, saresti ascoltato anche se ti trovassi nel cuore del deserto”, disse Khalil Gibran. Puntando sullo scopo, sullo strumento con il quale giungere alla tanto agognata meta.
Ma l’incontro subliminale tra deserto ed elemento acqua, come per magia, non può che ritrovarsi in un memorabile dialogo firmato da Jules Verne ne Ventimila leghe sotto i mar: “Prof. Arronaux: Voi amate il mare, capitano? Nemo: Sì! L'amo! Il mare è tutto. Copre i sette decimi del globo terrestre. Il suo respiro è puro e sano. È l’immenso deserto dove l'uomo non è mai solo, poiché sente fremere la vita accanto a sé. Il mare non è altro che il veicolo di un’esistenza soprannaturale e prodigiosa; non è che movimento e amore, è l’infinito vivente, come ha detto uno dei vostri poeti. Infatti, professore, la natura vi si manifesta con i suoi tre regni: minerale, vegetale, animale”.

Perché il percorso di avvicinamento a quella terra, le vesti incottate dai raggi di sole del deserto che bruciano le pelli, gli ettolitri di sali minerali lasciati lì sulla sabbia in gocce, sono l’essenza stessa di quel trionfo. E’il tragitto intermedio che forgia i viandanti, sono le condizioni straordinariamente avverse che elevano spiriti ed intenzioni, è il digiuno da luccichii e da scintillanti orizzonti che innesca la voglia di riscatto. Come prescriveva quel proverbio tibetano, “quando c’è una meta, anche il deserto diventa strada.” Ecco l’immagine prismica dell’obiettivo, ecco che la raffigurazione mentale di una meta, della nuova politica dalla dimensione europeistica, meravigliosamente moderna ed affabile, che viaggia sui social network e tramite loro ascolta le pulsioni della gente. Il racconto di quella rappresentazione, così bella, di una politica finalmente empatica, ecco che si staglia in fondo all’orizzonte della meta da raggiungere.

E allora se la traversata nel deserto che la nuova politica di Fli ha orgogliosamente iniziato, con i rischi che ne conseguono, con le delegittimazioni, con gli scippi, con i bastoni fra le ruote del viaggio, con gli attacchi, vili, beceri, alle spalle. Se quella navigazione verso il mare aperto è stata avviata da ormeggi mollati e da porti sicuri ormai alle spalle, non ci resta che guardare avanti, ben oltre le prossime dune. Con fiducia, certi che della carovana faranno parte da oggi solo i “consapevoli”: coloro che, come i Trecento spartiati agli ordini di Leonida, in un fazzoletto di terra alle porte di fuoco delle Termopili, non temevano di andare incontro a testa alta ad un’impresa.
Mentre i “disponibili”, essendo andati altrove, non potranno per loro sfortuna vedere e toccare quella terra promessa.

sabato 26 febbraio 2011

Italia e Germania: statisti di ieri e imbarazzi di oggi

Da Ffwebmagazine del 26/02/11

«Cadere non è pericoloso né disonorevole - ha detto Adenauer -. Ma non rialzarsi è tutte e due le cose». Italia e Germania, teatro in questi giorni della visita ufficiale del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, riportano alla mente un dualismo di leader determinati e coriacei. Esponenti di una politica coraggiosa e dignitosa, che doveva confrontarsi con tornanti della storia decisivi. Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi non hanno solo scritto pagine importanti di vicende dei rispettivi Paesi, ma sono stati accomunati da un humus unitario, proprio di una categoria di statisti che al primo posto metteva il bene comune e il senso di appartenenza continentale. Quella coppia di leader fu colta da una vera e propria forza centrifuga in chiave europeista.

Primo cancelliere della Repubblica Federale di Germania, Adenauer a soli 20 anni era già sindaco di Colonia. Dal ’45 al ’49 fu uno dei più rilevanti artefici dell’unificazione dei diversi gruppi conservatori e cristiano-democratici che gravitavano nella Germania occidentale. Da quegli sforzi nacque la Cdu (Unione cristiano democratica), il più grande partito di centrodestra tedesco. All’interno del quale, da presidente, spinse per far prevalere il concetto di individuo sulle ideologie, che definiva “visioni materialistiche”, agli antipodi del concetto di dignità della singola persona. In politica interna intese rafforzare l’istituzione democratica sia rilanciando l’economia di un Paese, nei fatti, distrutto dalla guerra, sia disegnando un modello di welfare basato su un capitalismo che fosse armonizzato proprio dalle esigenze sociali. In politica estera perseguì la riconciliazione con la Francia e il compimento del percorso democratico in chiave europeista.

Assieme ad Adenauer, al francese Schuman e all’italiano Spinelli, un altro italiano è considerato tra i padri nobili dell’Unione Europea. Quel De Gasperi cronologicamente omologo del cancelliere. A capo del primo governo dell’Italia repubblicana, in occasione del quale guidò un governo di unità nazionale, fu protagonista della celebre missione negli Usa per ottenere sostegni finanziari a un’Italia in ginocchio. Nel ’48, pur avendo ottenuto il 48% per la Dc alle elezioni e quindi potendo governare da solo, preferì coinvolgere socialdemocratici, liberali e repubblicani. Riuscendo nell’impresa di affrontare con dignità e responsabilità anni difficilissimi, nei quali la ricostruzione fu portata avanti con sacrifici e determinazione.
Ieri, dunque, un doppio modello di rigore e di condotta politica. Oggi la coppia "estranea" Merkel-Berlusconi. Con la prima, (fortemente imbarazzata al pari degli altri leader europei dalla condotta del secondo), che tenta di uscire dalla crisi con sforzi programmatici, con interventi solidi, con vertici che inglobano Sarkozy e Cameron. Mentre il Cavaliere deve occuparsi dei suoi processi, è indaffarato con il pallottoliere per gestire i “disponibili”, con noie giudiziarie anche per i suoi compagni di partito, ultimo in ordine di tempo il deputato Berruti, condannato a due anni e dieci mesi di reclusione per riciclaggio nel processo milanese d’appello sui presunti fondi neri Mediaset. Ecco il quadro che si staglia oggi nel panorama dei rapporti italo-tedeschi.

Con il vantaggio di poter avere salva la rappresentanza italiana solo grazie alla figura alta incarnata dal capo dello Stato, che Barack Obama in occasione del G8 in Abruzzo del 2009 definì un vero leader morale che rappresenta al meglio il Paese, ammirato «da tutto il popolo italiano, non solo per la sua carriera politica, ma anche per la sua integrità e gentilezza». Due riferimenti in verità non del tutto casuali fatti dall’inquilino della Casa Bianca. Quel punto di riferimento del Paese, anch’egli europeista, spinellianamente, garante dei pilastri democratici, custode di una Carta Costituzionale che in tanti stanno picconando sottotraccia. E per questo, ultimo baluardo dell’immagine italiana in un mondo che ci osserva con molti, anzi troppi, interrogativi.

venerdì 25 febbraio 2011

Fini sospende la seduta: il premier non rispetta le istituzioni


Da Ffwebmagazine del 25/02/11

«La situazione istituzionale si è fatta insostenibile a causa dei continui attacchi di Silvio Berlusconi ad altre istituzioni, come la Consulta». Spiega così il presidente della Camera Gianfranco Fini la sua replica alle parole di Fabrizio Cicchitto. Il capogruppo Pdl, infatti, in occasione della votazione sul decreto Milleproroghe aveva parlato di situazione insostenibile per il contrasto di Fini «tra il suo ruolo di presidente della Camera e quello di leader politico». Provocando la risposta della Terza Carica dello Stato che aveva detto «concordo con lei».
In precedenza, durante un incontro con le deputate del Pdl proprio il premier aveva ripetuto il triste ritornello di sempre, scagliandosi ancora una volta contro giudici e Corte costituzionale che «ci impediscono di lavorare e provano a ostacolarmi in ogni modo». Aggiungendo che non è sufficiente fare leggi, perché «tanto la Corte costituzionale puntualmente le boccia: la situazione è insostenibile». Per poi dire: «credo che nessuno possa governare meglio di me».
In Aula, intanto, si erano appena verificati attimi di tensione, con i cosiddetti responsabili (o come qualcuno li chiama, i disponibili) che accusavano Fini di tutelare solo chi «condivide il suo progetto di distruggere Berlusconi»; e' stata poi la volta dell’intervento del deputato Pd Bucchino, eletto all’estero - che ieri aveva denunciato il tentativo di compravendita da parte della maggioranza di governo – seguito dalle frasi di Cicchitto. In occasione delle dichiarazioni di voto finali gli animi si surriscaldano: appena Di Pietro prende la parola, il ministro Brunetta si allontana e a quel punto Fini, regolamento alla mano, non può che fermare il leader dell’Idv, sospendendo la seduta sino a che non avesse fatto ritorno in Aula un rappresentante del governo.

Ripresi i lavori, con la sottosegretaria Ravetto rientrata da una riunione del comitato per le politiche comunitarie, ma impegnata al cellulare, il presidente della Camera l’ha richiamata: «La prego di non telefonare, lei rappresenta il governo, se non c’è lei la seduta non può iniziare». Per poi aggiungere: «Una situazione mai vista. La prego di riferire al ministro dei Rapporti con il Parlamento che è senza precedenti quello che sta accadendo oggi». Fini, rispettando proprio quel ruolo di super partes che i berlusconiani contestano, ha anche “difeso” il premier, intervenendo su Di Pietro secondo cui quello italiano «è come il governo di Gheddafi e noi abbiamo il dovere di liberarcene dato che è del tutto simile al governo libico»: «Non si possono fare paragoni di questo tipo – ha replicato Fini -. Questo non è il governo di una feroce dittatura”.
Il Milleproroghe è stato quindi approvato con 300 voti favorevoli e 277 contrari. In mattinata la Camera si era espressa sulla fiducia al maxiemendamento al dl con 309 sì e 287 no. All’interno del provvedimento vi si trovano numerosi provvedimenti: si va dall’aumento di un euro dei biglietti del cinema, al foglio rosa per i motorini, dallo slittamento delle multe per le quote latte ai fondi per il cinque per mille. Dai fondi per alluvioni al ripristino del taglio all’editoria. Passando per la cancellazione del divieto di incroci stampa-tv. Ora tornerà in Senato in terza lettura per essere esaminato dalla commissioni Affari costituzionali e Bilancio, in una vera e propria corsa contro il tempo per ottenere il via libera da Palazzo Madama.

Tra l’altro proprio la decisione di porre la fiducia aveva fatto sì che il ministro della difesa La Russa rinunciasse al delicatissimo vertice Nato di Budapest sull’emergenza libica («Era riunione informale - si è giustificato - avevo già deciso di non partecipare per la concomitanza col milleproroghe. Poi, ahimé, è diventata importante»). La maggioranza richiesta era di 299, sui 596 votanti. I 309 sì alla fiducia risultano però inferiori alla metà più uno dei 630 deputati, ovvero la cosiddetta soglia minima per la maggioranza. Dimostrando come chi, se all’esterno continua a vantare numeri abbondanti, poi nei casi specifici si trova ancora in affanno.

Se Ferrara diventa il clone di Mora


Da Ffwebmagazine del 25/02/11

Si scaglia contro chi non sa come è fatta l’Italia, contro i suoi amici del New York Times e dell’Economist e contro chiunque ignori come siano «disposti sullo scacchiere della nostra altissima spiritualità politica i vari elisir d’amore, le danze allegre e ruffiane, i dialoghi da commedia dell’arte». Prova vergogna per «mentori azionisti, neopuritani, giacubbini, impiccioni, ficcanaso».

No, Giuliano Ferrara - che ieri dalle colonne del suo giornale chiedeva le dimissioni di Fini impugnando beffardamente lo slogan "se non quando ora" - sta andando oltre una semplice ma pur pretestuosa e dannosa battaglia ideologica. Oltre un’appartenenza forzosa al padrone che ordina e che dispone, con la conseguenza che il sottoposto esegue. Oltre una pur ammirevole ricerca affannosa di mille e più arzigogolate giustificazioni utili, forse, a riempire un teatro tra militanti scalcianti e cervelli a cui parlare in serie. In un articolo sul Foglio, ha fatto di più, o in base al giudizio che poi un lettore ne offre, forse molto (qualitativamente) meno. Ha svilito se stesso, dispiacendosi di non essere stato lì, nell’arena del capo con Mora.
In una conversazione con il corrispondente della Sueddentsche Zeitung, confida di aver (ovviamente) difeso Berlusconi, dicendo di lui che «ci ha giocosamente cambiati. I suoi nemici assoluti sono orrore puro». Ha ragione sul fatto che aver cambiato, ma aggiungiamo per fortuna non tutta l’Italia, di cui resta orgogliosa una bella fetta di indignati e di gente che si vergogna di ciò che accade.

Prova (lui) vergogna per «mentori, azionisti, neopuritani, giacubbini, impiccioni e ficcanaso», anziché per chi vuole male ad una Nazione che non guida più, perché sfinito da altro. Dice di aver cambiato ottica (e fin qui nulla di male), ma lo ha fatto non per ponderate maturazioni intellettuali, o per verifiche su ciò che riteneva fino a ieri. Bensì di fronte «alla più canagliesca e torbida inquisizione, all’incapacità di capire cose stanno le cose di quei giornali che sono letti alla luce dei lampioni che cercano il sole».

Ecco la metamorfosi giullaresca di un bravo cantastorie che oggi non le racconta più e soprattutto non fa più né ridere né piangere. Non si chieda perché non era con Mora, ma si chieda come ne è diventato fedele clone, assieme all’assurda voglia di chiudere un occhio, di sghignazzare su vizi privati e mancate pubbliche virtù. E contribuendo a scrivere quel libro della comoda menzogna, dove al Paese e alla vita di tutti si sostituisce un limbo melmoso di cerapongo, nel quale le singole scenografie si assemblano grazie ai soldatini-giornalisti. Che, anziché scrivere della luce, dipingono un buio che un momento dopo è anche meriggio o fino a essere ombroso ma anche luminoso.
Quando ha scritto, peccato, «perché non son io con Mora?», lo ha fatto non solo per far passare l’ennesimo messaggio subliminale (travestito da fine intellettuale) pro-peccatore Silvio, in verità tanto semplice quanto dequalificante, e non per un penstore ma anche per un semplice cittadino. Soprattutto ha utilizzato la falsa arma del contro giacobinismo, della pseudo clava intellettuale da brandire contro chi si scandalizza, contro chi eccepisce. Ancora una volta spostando i termini della questione, cambiando i parametri alle analisi, e appiccicandoli, con quel metodo limaccioso più volte utilizzato nell’ultimo biennio dal resto della squadra delle pink-pen, all’occorrenza contingente del capo.

Con due drammatiche conseguenze: non dire tutto, evitando di citare, ad esempio, le ripercussioni politiche, giudiziarie, sociali di quei fatti sul tessuto produttivo Paese, sulla nazione, sulle istituzioni, sull’immagine becera che dell’Italia si offre all’estero. E poi prendendosi gioco dell’intelligenza altrui, assolvendo a una funzione pedagogica erronea, come quel genitore che invoglia il figlio a drogarsi o a picchiare chi ha parcheggiato prima di lui, tanto lo fanno tutti e non c’è nulla di cui vergognarsi.
E le regole della civile convivenza? E il rispetto dell’altro? Ancor più gravemente latitante da chi si dice liberale, assetato di quella voglia scompaginatrice del “primo Berlusconi”, per intenderci quello che prometteva un milione di posti di lavoro, meno tasse per tutti, un Pese migliore, solo forse, nel cartone animato di Alice nel casino delle meraviglie? È questa l’analisi frutto di anni di studio e di riflessioni a cui si dovrebbe credere? Tutto qui?

giovedì 24 febbraio 2011

Dov'è finito il tempo del sostegno in piazza ai magistrati?


Da Ffwebmagazine del 24/02/11

Lontani i primi anni Novanta, quando alcuni esponenti della politica biancorossaeverde erano dalla parte della giustizia, dei valori che ieri si definivano a ragione, (mentre oggi si definiscono a casaccio), di destra. Il rispetto della legge, la pari condizione di imputato dinanzi al giudizio, l’accettazione di una sentenza, il silenzio dinanzi a indagini legittime da parte degli inquirenti, la voglia o semplicemente il richiamo al dovere di onorare codici e carte vergate dai legislatori. E che fanno grande un Paese, lo migliorano, lo aiutano a crescere e ad assolvere, perché no, una funzione pedagogica nei confronti dei cittadini. Disse Anatole France che «la legge, nella sua maestosa equità, proibisce ai ricchi così come ai poveri di dormire sotto i ponti, mendicare per le strade e rubare il pane». Perché le leggi sono la base della democrazia, per questo non ne devono svilire il significato più intimo.

Questa foto del 1992, scattata a Milano durante una manifestazione del Msi a favore di Mani Pulite, ritrae Gianfranco Fini, Pinuccio Tatarella, Ignazio La Russa e Filippo Berselli. Quest’ultimo è oggi presidente della Commissione Giustizia del Senato. Tifoso di provvedimenti che, con il concetto di regole valide per tutti e di ossequio ai poteri giudiziari, hanno poco a che vedere. Perché non basta pensare una legge, occorre anche che essa sia giusta.
E chi in quella foto di diciannove anni fa predicava il rispetto per i giudici che facevano osservare la legge, oggi ha deciso di tramutare quel rispetto in insulto. Il pensiero corre alla macchina dei provvedimenti ad personam per il premier, come i vari lodi, del passato e del presente. Ad esempio, in un “parere condizionato” della commissione Giustizia, vergato proprio dal suo presidente Filippo Berselli, si chiedeva che il cosiddetto ombrello anti-processi previsto dal lodo Alfano avesse maglie più larghe. Al fine di evitare sia per il premier sia per i membri dell’esecutivo i procedimenti antecedenti alla nomina. Una sorta di superscudo, all’interno del quale la commissione proponeva di estenderlo alle alte cariche dello Stato, premier e ministri compresi. Dettaglio che lo stesso Berselli si affrettò a sminuire, dal momento che secondo il suo parere non si trattava di un’estensione vera e propria, bensì della «correzione di una dimenticanza». In quanto quel salvacondotto per reati passati, era semplicemente previsto anche dal vecchio testo del Lodo Alfano. Per intenderci, quello che la Corte Costituzionale aveva bocciato. Lecito chiedersi, allora, come mai quel salvacondotto non fosse transitato anche nel nuovo testo.
Berselli ci tenne a far sapere che «ci si è dimenticati di riprodurlo». Una giustificazione che rientra ormai in quel canovaccio comunicativo sbertucciato che ha avuto il massimo apice nella paradossale affermazione che una minorenne fermata in Questura a Milano, dovesse essere rilasciata perché la nipote del premier egiziano.

Ma Berselli sull’argomento è stato prodigo di argomentazioni: come quando, circa la necessità di assicurare a chi ha incarichi governativi il sereno svolgimento delle proprie funzioni, ribadì che si trattava di un dato che prescindeva «completamente dalla circostanza che i fatti che hanno originato un processo siano antecedenti o meno all'assunzione delle funzioni». Nel senso che il medesimo scudo andava esteso anche al passato, e soprattutto suggeriva che se qualcuno avesse inteso affrontare subito il giudizio, sarebbe stato libero di farlo, con l’opzione di rinunciare all’immunità. Chissà in quanti avrebbero poi “approfittato” della possibilità di farsi giudicare, rinunciando allo scudo: i misteri del Parlamento italiano.
Ma Berselli più volte ha tentato di allontanare sospetti buonisti, solo per proteggere uno, rilevando: «Che cosa c’entra l’amnistia mascherata»? Si tratta di garantire per tutti un processo con tempi certi e ragionevoli anche se, in effetti, dal Senato è uscito un testo che prevede tempi davvero lunghissimi. La norma transitoria si è resa necessaria per impedire una irragionevole disparità di trattamento, discutibile anche dal punto di vista costituzionale”.

Disparità di trattamento è proprio il termine esatto che viene in mente quando si ragiona non solo di giustizia, ma finanche di correttezza istituzionale o di opportunità politica. Che fare dunque? Interrogarsi, andare a rivedere qualche scatto d’annata e ripensare a quei valori storici di cui oggi in molti abusano. Magari soffermandosi sul pericolo paventato da quel proverbio anonimo che ammoniva: «Dove finiscono le leggi, comincia la tirannia».

martedì 22 febbraio 2011

Un gong per uscire dall’arena in cui il Paese è stato confinato


Da Ffwebmagazine del 22/02/11

C’è chi lo percepisce come una marmellata appiccicosa e unta che scivola dalle mani di tutti. O una deriva qualunquista degradante e approssimativa. O quel vento che spira deciso verso animi estremamente disponibili e sensibili a richiami più beceri. Il berlusconismo, però, è altro. Non è solo il macroscopico buco nero che si erge nel Paese e che lo sta addentando voracemente, visibile a tutti i commentatori stranieri. Con i suoi conflitti, con mezzi di legittimazione del potere oggettivamente enormi, con la mancanza di riguardo verso le istituzioni, le regole del gioco e finanche per il gioco stesso. Non è solo il macigno pachidermico e ingombrante che si scaglia contro le infrastrutture dell’Italia, verso chi non aspira a intercettare le graziosità del Capo per realizzare i propri sogni, spuntando le armi degli avversari, senza rispetto per il fair play.

Ma è quel sottile fiume carsico che si è insinuato nella quotidianità, quel libro delle scorciatoie dove il percorso più breve è stato scelto anche per spiegare, con meno fatica, fatti e opinioni. È la contrapposizione degna di un’arena, come accade nei pollai televisivi, dove manca solo il toro al centro della scena con lame sanguinanti conficcate nel suo dorso.
Hanno accusato la giovane cantante Emma – che ha detto di aver partecipato alla manifestazione delle donne “Se non ora quando”? – di essere perbenista, ipocrita e simpatizzante comunista… con tanti saluti alle idee, alle percezioni del singolo, al modello a cui quella ragazza si è ispirata nel corso della sua vita. Con i centinaia di pendolini sui quali è salita per portare i provini a Milano, con i sacrifici fatti dalla sua famiglia, con il rifiuto orgoglioso di quelle famose scorciatoie che stanno emergendo, volgari e diffuse, da questi mesi di cronaca. Che saranno andati agli annali certamente come non proprio qualificanti, il modo peggiore per chi, avendo in mano il timone del Paese, dovrebbe ricordare con più dignità i centocinquant’anni dell’Unità.

Berlusconismo è non tenere conto di decine di piazze italiane, riducendole semplicemente a gente fatta arrivare appositamente con pullman, come qualcun altro in passato ha diligentemente fatto. È sminuire la voce di chi vede in grave pericolo non solo il proprio domani, ma anche lo stesso oggi. È voler sfondare la porta di casa di ciascun cittadino per spiegare un complotto ordito ai danni di chi non sa governare un Paese. È voler evitare di biasimare se stesso, alludendo agli errori degli altri. È giustificarsi per giustificare il non dover pagare pegno.

Berlusconismo è fame di ring, quel tipo di habitat che ormai imperversa dappertutto e non solo negli schermi televisivi, perché si riverbera nelle case dei cittadini (non di tutti per fortuna), nelle agorà di un tessuto sociale che si trova dinanzi a un bivio: proseguire in questa assurda contrapposizione applicata con scientifico metodo a tutti gli argomenti, persino alla dissertazione su pandoro o panettone. O maturare la consapevolezza che è arrivato il momento di invertire la tendenza, di stracciare un immaginario fasullo e controproducente, che incattivisce, che dequalifica, che illude migliaia di cittadini. Che dovrebbero essere stimolati a un risveglio brusco e perché no traumatico.

Berlusconismo non è la macchia di sugo sulla camicia bianca, ma il granello invisibile di polvere sotto le unghie, una lama sottilissima che divide tutto e tutti come un mela. Buoni di qua e cattivi di la, in una perenne divisione conseguente a un’idea: “Se dici quello, beh allora è evidente che…”. Come si percepisce in numerosi dibattiti, analisi, persino in scelte culinarie. Un incubo per il Paese della scienza, dell’arte, della letteratura. Il Paese di Leonardo, di Vico, di Galileo, di Mameli, di Giordano Bruno, arso perché orgoglioso delle sue idee. Lo ha ribadito anche Roberto Benigni su un palco dove l’atteggiamento bipartisan è venuto a noia, anche a chi ha dovuto osservarlo. “Svegliatevi”, ha detto a un popolo. Perché assopirsi è pericoloso. Smussa la capacità critica, arrotonda le punte dei neuroni attivi, smorza velleità, abbassa la guardia.
Non è più una questione solo politica, fatta di numeri, di poltrone, di rimpasti e di prebende. Qui c’è in gioco più di uno scranno, di un cda, di qualche candidatura che sarà utile a riempire il curriculum dell’ennesimo yes-man. Qui si sta delineando il prossimo ventennio dell’Italia, delle sue aspirazioni sociali, delle sue ambizioni europee, delle nuove sfide occupazionali, dei sogni più intimi di tutti i cittadini.

E allora sarà proprio l’analisi antropologica del berlusconismo che andrà attuata in un regime di pacificazione, come saggiamente ricordato dal capo dello Stato su Repubblica, quando ha invitato a valorizzare «quel che ci unisce come Nazione e ci impegna come Stato unitario di fronte ai problemi e alle sfide che ci attendono».
Espellendo dalle menti di ognuno i germi di fazione, suonando il gong all’anima dell’Italia. Per uscire finalmente da quell’arena sguaiata dove qualcuno da tre lustri ha cercato di ingabbiare un Paese. Ma le cui sbarre si stanno piegando, come le nuove piazze “risorgimentali” hanno ampiamente dimostrato.

lunedì 21 febbraio 2011

Un sogno visionario per uscire dalla melassa


Dal Secolo d'Italia del 20/02/11

Una «marmellata appiccicosa», una politica «autoreferenziale che non si guarda intorno e resta isolata». Nei propri convincimenti e nei propri privilegi, con i propri egoismi e basta. Lontano anni luce da un «grande popolo che purtroppo appare rimbambito da martellanti messaggi di falsità, e che non sembra in grado di reagire». Così Valerio Massimo Manfredi, archeologo, scrittore e conduttore televisivo, analizza l'ostinata volontà del Premier di rinchiudersi nel suo palazzo e solo lì.
Secondo gli antichi greci "nessuna disgrazia può accadere ad un Paese più grave, di essere governato da un tiranno vecchio". E, si aggiunga, chiuso forzatamente in un bunker.
Pur non parlando di tirannia, dal momento che le cariche istituzionali hanno avuto regolare attuazione, c'è un uomo anziano che governa da molto tempo con metodi non ortodossi da molti punti di vista. Con maggioranze che si allargano dalla notte al giorno grazie a responsabili pronti a "sacrificarsi" perché la Patria possa continuare a tirare avanti. Assistiamo a una situazione deplorevole, in virtù di un uomo che si comporta in modo inqualificabile, dimenticando che toglie onore ad un'intera Nazione che non merita tale deriva. Si dirà, lo hanno eletto: ma anche Hitler fu eletto. Non voglio fare paragoni, ma l'elezione non comporta automaticamente un simile atteggiamento.
Chi può entrare, dunque, in quel palazzo all'interno del quale si è asserragliato? Per veicolare il malessere del Paese, anche di chi lo ha votato. E che oggi non si sente rappresentato.
Avrebbero potuto farlo i giovani, che però sono demoralizzati dal fatto che con il precariato è stata tolta loro ogni speranza. A loro si è rivolto proponendo un altro modello, fasullo: che, per ottenere risultati, non serve fare notte sui libri o curvare la schiena sul proprio lavoro, perché è sufficiente essere carini con chi di dovere, ed il gioco è fatto. Un mondo dove tutto luccica perché è d'orato, dove la finzione prende il posto della realtà. Avrebbero inoltre potuto farlo coloro che lo circondano, i cosiddetti quadri medi, intermedi e bassi. Dove ognuno in qualche modo si sente giustificato dal fatto di essere un professionista. "Mi viene chiesto questo", si difendono, e non di uccidere qualcuno. Ma solo di elaborare un progetto, ne ho conosciuti tanti. Tutte persone rispettabilissime, ma ognuno di loro non sa, o forse non vuole sapere, che fa parte della macchina. E nessuno pensa minimamente di mettere a rischio i propri benefit, le scuole internazionali per i propri figli, il residence in un quartiere di lusso: ecco il dramma vero.
Quale immagine fuoriesce dunque da quel palazzo, così lontano dalla gente, dai fatti e dalle opinioni?
Purtroppo dobbiamo fare i conti con questa marmellata appiccicosa e con una politica autoreferenziale che non si guarda intorno e resta isolata. Non consente una ribellione vera perché, tutto sommato, è un qualcosa di mellifluo, di nebbioso. Una poltiglia, che certamente non è come i ceppi, nobili catene da spezzare. Questa melassa scivola, unge, e non si spezza. Va detto anche che molti veterani della politica non possiedono più il sogno visionario, quel fuoco della passione che parla alla gente e soprattutto ai più giovani. Che andrebbero formati, magari sottotraccia, ma scommettendo intimamente sulle loro qualità.
A cosa dobbiamo nel dibattito in corso, il proliferare di epiteti come blasfemi o infedeli, rivolti verso chi alza un dito per eccepire, perché non si mostra allineato al libro del pensiero unico? Altro esempio reale di una concezione e un leader asserragliati in quel famoso bunker?
Chi disponeva e dispone di mezzi e di denaro così ingenti per occupare spazi, semplicemente ha avuto buon gioco. Quando è sceso in campo per la prima volta non avevo pregiudiziali. Perché no, pensavo, magari riuscisse a tirare fuori il meglio del Paese con una squadra di professionisti. Poi, giorno dopo giorno, ho assistito alla proliferazione di cloni, non solo donne ma anche uomini disposti a vendersi. E questo grande popolo del passato, che purtroppo appare rimbambito da martellanti messaggi di falsità, e che non sembra al momento in grado di reagire.
E allora come si scardina quel bunker?
Con un granello di pazzia. Magari utile per scrollarsi di dosso questa melassa, con un entusiasmo nuovo che riaccenda i sogni e le passioni di quei giovani, e ne incontro tanti, che attendono solo un cenno per essere ravvivati. C'è di sicuro un italiano, a cui magari Obama avrebbe potuto ispirarsi, che potrebbe incarnare quel sogno. Va ricercato il seme visionario di un'età diversa, sfidando anche l'impopolarità. Qualcuno che parli finalmente a quei giovani e che non sia solo un vecchio vegliardo.

Bocchino: «Serve uno shock contro la cloroformizzazione politica»


Da Ffwebmagazine del 20/02/11

«Il reincanto della politica? Per farlo occorre uno shock socio-culturale al Paese, solo così si potrà azzerare quella cloroformizzazione della politica che ha imperato nel recente passato». Italo Bocchino sveste per un attimo i panni di neo-vicepresidente di un partito e si addentra in una conversazione che, prima di essere politica, ha tratti spiccatamente sociali. E per allontanare quell’“accanimento terapeutico” verso un periodo storico di cui, ormai, scorrono inesorabilmente i titoli di coda.
«Decidetevi a non servire - scrisse Etienne de la Boetie - e sarete liberi»: crede che il seme della partecipazione e del dissenso costruttivo, lanciato più volte da chi sta impegnandosi per un nuovo immaginario politico, possa diventare un arbusto rigoglioso? E per far mangiare ai cittadini di domani quei preziosi frutti di libertà?
Per ottenere un arbusto rigoglioso non è sufficiente né il seme né il seminatore, serve un terreno fertile e arato. Oggi esso non è in buone condizioni, perché dal ’94 si è costruita una seconda Repubblica claudicante, dove è venuto meno il pilastro principale, ovvero il sistema delle regole. Che va scritto proprio all’inizio di una transizione. Il grave errore di aver fallito alcuni tentativi, tra cui la bicamerale D’Alema, ha fatto sì che quel terreno oggi sia oggettivamente arido. Con il rischio che un buon seminatore e un buon seme non siano sufficienti. Per questo riteniamo di avere il seme, ma sappiamo anche di dover prima preparare il terreno, rendendolo pronto ad accogliere quel seme.
Come strutturare un cambio di passo, anche in chiave europeistica, magari sganciandosi da quella politica con lo specchietto retrovisore, che non programma con lungimiranza e che fa di tutto per non procedere ad ampio respiro?
Dovremmo generare un sistema che esca dal contingente. Per farlo servono due grandi sforzi: il primo, interno ai partiti, un profondo ricambio generazionale, nuove energie per una politica meno sclerotizzata. Che badi agli scopi prima che alle ideologie, più concreta e meno rissosa. In secondo luogo, occorre un’infrastruttura capace di valorizzare i progetti, rendendoli tangibili. Oggi abbiamo un panorama ingessato in primis dal fatto di essere vecchio, e la via di uscita potrebbe essere in una grande riforma. Siamo chiamati a rafforzare il potere di chi è chiamato a governare, ma anche quel contrappeso che fa da imprescindibile controllo: solo così otterremo un sistema adeguato al cambiamento. Ma i primi a dover cambiare sono proprio i partiti, che dovrebbero aprirsi alle intellighenzie, e non limitatamente alla società civile. In quanto non sarebbe saggio condannare i politici di professione, dal momento che nessuno di noi si farebbe operare alla milza da un elettrauto, né farebbe rimettere a posto la propria auto da un gastroenterologo. A questo proposito, va rafforzata la meritocrazia nella politica, inserendola come un qualcosa che purtroppo negli ultimi anni è stata mortificato. Per intenderci, la politica si uccide da sola quando la Minetti viene preferita ad altri. La selezione politica o avviene sul merito o sul consenso: un’altra via porta al caos.
Per certa destra sarebbe forse utile rileggere Dag Hammarskjold, secondo cui «merita il potere solo chi ogni giorno lo rende giusto». Come ovviare a quella concezione che, nei fatti, ha svilito quel potere, in una visione quasi medievale?
Il potere va esercitato dal momento che i corpi sociali del Paese necessitano di un timone che amministri il potere, ma deve essere attuato da chi merita di farlo, in virtù di capacità, competenze, excursus. E che possa essere sotto osservazione, come non lo sono quegli interpreti che non sono scelti dai cittadini. Il grande vantaggio di alcuni sistemi pienamente funzionanti, come il presidenzialismo americano, o il semipresidenzialismo francese, o quello regionale di casa nostra, è di essere legittimato temporalmente dal voto ricevuto. Solo così si genera il meccanismo del ricambio automatico. Esiste una criticità sistematica, con il rischio che il potere vada solo a chi l’ha saputo gestire nella consorteria.
Destra in passato ha fatto rima con franchezza. Oggi dovrebbe essere ancora di più sinonimo di rigore, attenzione sociale verso le aspirazioni giovanili: come costruire modelli comportamentali liberi ma dignitosi, per quella fetta di italiani che in questi anni si sta formando e che vede smarriti punti di riferimenti alti a cui ispirarsi?
Li individuerei in quei principi messi a rischio da ciò che è accaduto negli ultimi dieci anni. Al primo posto, la nazione: siamo in un Paese dove si sbeffeggia una festa nazionale, l’onore che si deve alla propria storia. Sarebbero dovuti essere proprio gli ex An a presentare una mozione di sfiducia contro i ministri Bossi e Calderoli, ma solo se avessero dimostrato identità politico-culturale di destra. Quando Roberto Benigni ha spiegato chi era Mameli, con quali compagni aveva fatto ciò che ha fatto, declamandone l’inno e le gesta, ha servito l’idea di nazione. Ai più giovani direi che nazione non è un costume patriottico, ma un’unità di destini, un grande futuro a cui puntare con il rispetto verso il grande passato. Destra inoltre deve significare legalità: penso a un guscio che contenga una molteplicità. Un’idea estremista, come quella rappresentata oggi da Pdl e Lega, ha voluto far credere agli italiani che legalità fosse sinonimo di sicurezza e basta. Ne è risultato un tentativo di far leva sulla paura dei cittadini. Noi, da destra, dovremo spiegare la legalità facendo leva invece sul coraggio: da un lato, chiedendo alla politica una nuova etica pubblica, dall’altro, a tutti gli italiani il rispetto dell’altro, della cosa pubblica. Un concetto che la finta destra al governo non intende veicolare, non potendo nei fatti parlare di etica pubblica, di interpretazione della sicurezza e anche di etica privata. Dal momento che essa vuol dire far capire ai cittadini che non devono sentirsi legittimati a evadere il canone, o le tasse, a condonare tutto e tutti. In terzo luogo, una grande risposta culturale ai mali del Sessantotto, dove c’è stata una forte rivendicazione dei diritti, trascurando i doveri. Noi, da destra, mentre rispolveriamo con i giovani una stagione di meritocrazia, dobbiamo riprendere in mano il libro dei doveri.
L’ascolto è uno strumento che sino a oggi certa politica ha relegato a fastidioso contorno: una destra alta e matura, come può aiutare le pulsioni sociali a tramutarsi da proteste in proposte?
Riscoprendo quel collateralismo che nei decenni passati la politica aveva (e che ha) abbandonato. Un po’ per la crisi di alcuni mondi, penso alla sinistra e al sindacato, alle cooperative, all’universo dell’associazionismo. Un legame naufragato, con il sindacato che ha iniziato a fare rivendicazionismo, le cooperative come nuove Holding, le associazioni inquadrate come lobby. Penso che da destra debba nascere un collateralismo con la società e le associazioni, perché canali di ascolto principali per la politica. Oltre alla rete, interfaccia principe per parlare con i giovani. Qualcuno sta teorizzando che sia eccessiva una politica che passi dal web, invece, credo che le idee e i valori della politica possano essere trasferiti anche con i nuovi mezzi tecnologici comunicativi.
Ritiene che la nuova destra del mare aperto riuscirà a mettere da parte scenografie mediatiche della felicità fondata su falsi miti? Quelle stesse inscenate da contenitori che allontanano il reincanto della politica.
La felicità è uno stato che va raggiunto con impegno e sacrificio e non è né stabile né perenne. Dovremmo evitare una deriva completamente ilare in cui “Tutto va ben Madama e la Marchesa”. Né, di contro, essere pericolosamente pessimisti, ma lavorare per far capire che livelli migliori sono raggiungibili con dedizione e all’insegna di uno sforzo collettivo. Non con le scorciatoie.
Ha scritto Benjamin Constant, in un’analisi quanto mai attuale, che il rischio della moderna libertà è che rinunciamo «con troppa facilità al nostro diritto di partecipazione al potere politico». Tale rinuncia è prima ideologica o politica? E come ribaltare il piano di azione? Magari facendo scoccare il gong anche per quei contributi culturali che dovrebbero recitare un ruolo più attivo?
Il tema è quello della partecipazione. Abbiamo assistito negli ultimi anni a una cloroformizzazione dell’opinione pubblica, per cui il messaggio del ghe pensi mi è stato deleterio. Se chi deve modulare i pensieri dei cittadini utilizza il canone della falsa rappresentazione del racconto, ecco che si affievolisce la capacità critica della gente. In Italia, abbiamo registrato la teoria scientifica della rana che in una pentola di acqua bollente schizza fuori e si salva. Mentre se fosse in una pentola di acqua fredda e si accendesse pian piano il fuoco, la rana nuoterebbe sino a quando la temperatura dell’acqua, calda, le facesse mancare le forze per reagire e la conducesse a morte certa. E allora al Paese occorre uno shock, come i fatti recenti che nell’opinione pubblica stanno causando alcune reazioni. Sono evidenti le difficoltà finanche di etica, di rappresentanza, di immagine al di fuori.
Tramontate le ideologie con la caduta del muro, abbiamo dinanzi a noi la sfida della globalizzazione: perché certa politica ritarda quel racconto-mondo? Per limiti strutturali o per paura di doversi confrontare con un universo sconosciuto, che quindi le farebbe sorgere dubbi e interrogativi?
Il superamento delle ideologie è da considerarsi un fatto positivo, in quanto quella morte può far nascere le idee. Vere. Anche condivise, perché no. La contrapposizione forzata di due tifoserie ha prodotto danni enormi, invece dovremmo andare alla ricerca della contaminazione di pensieri che poi si tramutano in fatti. Senza timori, degli altri e di noi stessi.
Pinuccio Tatarella, teorico dell’andare oltre, riteneva che i tempi in politica fossero tutto: quindi iniziare una traversata nel deserto proprio oggi, con difficoltà macroscopiche che allontanano, come una selezione naturale, i deboli e gli influenzabili, non potrebbe rappresentare il vero punto di forza di Fli?
Un’epoca si chiude, attendiamo solo che vengano mandati in onda i titoli di coda. O tra due giorni per disavventure giudiziarie, o tra due mesi per rottura con la Lega, o tra due anni per la fine della legislatura. Ma conta poco. Perché siamo in una fase di accanimento terapeutico verso il governo, che porta a una sterile serenità di coscienze ma che poi non si traduce in risultati per il Paese. Noi invece offriamo un progetto alternativo che, nel post berlusconismo, incontrerà inevitabilmente i favori dell’elettorato. E il fatto di aver scelto coraggiosamente l’oggi, è certamente difficile e altamente impegnativo. Ma è una scelta che allontana dagli equivoci: in ciò risiede la sua bontà.

venerdì 18 febbraio 2011

Se almeno le dichiarazioni di Rosso fossero una candid camera...

Da Ffwebmagazine del 18/02/11

C’è chi se ne va perché si sente troppo poco di destra, chi perché ha timore di derive a sinistra. E poi ci stanno quelli che non vogliono tradire gli elettori, chi vorrebbe anelare a una grande casa-caserma dei moderati, o di quel che ne rimane (forse per essere rieletti, riferiscono i soliti malpensanti). La prossima candid camera in scena nel Parlamento italiano, però, l’ha magistralmente inscenata il deputato piemontese Roberto Rosso, che, magari non pago dello sforzo dei suoi collaboratori di ricercare motivazioni valide da offrire in pasto alla stampa o alle agenzie, ha scelto di fare da solo. E si è avventurato in una sciagurata dissertazione sulla destra e sulla sinistra, di cui il suo Capo, che di mestiere fa il comunicatore, non sarebbe molto orgoglioso.

È sufficiente riprendere le dichiarazioni di Rosso, rientrato a braccia aperte da papi Silvio, per avere un quadro più chiaro: «Io sono liberale e davvero al congresso di Milano ho avvertito una virata a destra. Sentivo che gli amici di Fli avevano bisogno di ritornare alla propria identità missina». Identità missina? Troppa destra? E allora quegli altri esponenti Fli che accusano chi detiene il timone di marcare troppo a sinistra, cosa intendono dire? Non sarà per caso che nella fretta di cambiare posizione qualcuno abbia deciso di imitare il buon Pinocchio, quando il burattino nelle sue performance riusciva a fare intendere tutto e, un attimo dopo, il contrario di tutto? Sicuri che Rosso, anziché piemontese ferreo e rigido, non sia nipote (vista la moda) di Collodi?

Lecito chiedersi: c’è per caso qualcuno a cui crescerà il naso nelle prossime 24 ore? Oppure siamo in presenza di burloni alla Giuliano Ferrara? Per intenderci, quello che è passato da una lista elettorale pro-life alla condanna preventiva e astiosa contro chi rileva l’impresentabilità morale del Premier.
Intervistato da Repubblica, Rosso potrebbe candidarsi di diritto alla nuova conduzione de Le Iene, in quanto sfodera un repertorio di tutto rispetto. Infatti aggiunge di aver preso una colossale sbandata aderendo al progetto finiano, che lo ha indotto a tornare, udite udite, nel “più moderato Pdl”. Dove le analisi political-xenofobe di Borghezio o le invettive secessioniste di un ministro della Repubblica come Calderoli, (che dovrebbe semplificare e invece pare ritiri solo lo stipendio dallo Stato italiano) dovrebbero essere iscritte nell’enciclopedia dell’antimoderatismo ideologico. Con le adesioni di altri “illustri” moderati come quelli de La Destra di Storace, passati dalle accuse di conflitti di interesse al Premier (molto pedagogici i video di una Santanchè versione 2008 più antiberlusconiana che mai) a una contiguità che tocca anche importanti risvolti editoriali.
Ma Rosso, che certamente non avrà assunto quel colore sul viso neanche per una vergogna (che in verità sarebbe stata ampiamente giustificata), offre il meglio, o il peggio, di sé, quando si eleva a interlocutore principe nientepopodimeno che dell’Oltretevere. E sciorinando una sequela di improbabili giustificazioni in salsa cattolica: «Si sa - ha detto - che Berlusconi è un salesiano fervente e San Giovanni Bosco è mio prozio». Accipicchia, chissà se il sacerdote degli oratori, mente che per prima pensò e attuò quei luoghi educativi e così utili alla collettività, non abbia accusato un sussulto nell’udire cotanta vicinanza a un signore anziano, drago malato (copyright Veronica Lario) che più che un oratorio con bambini preferisce altre frequentazioni, ma pur sempre di gruppo.

E allora la palma della comunicazione politica 2011, con annesso super bonus alla Direzione regionale piemontese del fu Pdl, va assegnata senza dubbio a Rosso, con la seguente motivazione della Giuria di qualità: «Per aver mostrato un’acutezza senza pari nel descrivere piroette e giravolte pseudo ideologiche. Che lo hanno ricondotto, (si spera) una volta per sempre alla casa del padre-padrone».

Quei battaglioni (camuffati da politici) che assediano la Carta


Da Ffwebmagazine del 18/02/11

Nell’inverno del 1947 in Italia «l’unità prevalse sulla divisione». E Pietro Calamadrei ebbe a scrivere che la Carta Costituzionale appena nata, scaturì dal confronto «tra i partiti a un libertino di mezza età, cui un amante giovane abbia strappato via tutti i capelli bianchi per ringiovanirlo, mentre l’anziana moglie gli abbia tolto quelli neri per renderlo più vecchio». Mentre Croce la epitetò come un «concedere ed ottenere». Ecco la misura che oggi manca al Paese, la ricerca affannosa della condivisione di esigenze e necessità, consapevoli che la posta in palio non è la rendita di posizione per questa o quella fazione, ma la sopravvivenza di un intero sistema.

Un sistema che non sarebbe saggio appiattire, uniformare alla volontà mentale di un solo neurone, anche perché nemmeno i costituenti «suonavano tutti il medesimo spartito, se è per questo non cantava all’unisono nemmeno il popolo italiano». Ma ciò che il costituzionalista Michele Ainis nel suo L’Assedio - la Costituzione ed i suoi nemici intende rilevare, è che oggi quel tentativo così storicamente pregnante e determinante, è al centro di un vero e proprio attacco concentrico. Portato avanti da chi ne dovrebbe garantire l’osservanza e la custodia. L’illegalità attecchisce e si riproduce in virtù di quel “rapporto truffaldino” che esiste tra la politica italiana e la Carta Costituzionale. Ainis si chiede, dunque, come si possa prendere sul serio le leggi in vigore, «quando la legge più alta viene costantemente vilipesa?». E ancora, «dove ritrovare le energie per contrastare questo andazzo, se il cattivo esempio viene dalle nostre classi dirigenti»? Da coloro che, per missione, dovrebbero avanzare un giusto modello da inseguire e da far osservare.

Un gioco al ribasso lo inquadra Ainis, con un campo di battaglia surreale che vede la Costituzione accerchiata da vari soggetti che la pressano, la stressano, ne sviliscono dolosamente la rilevanza socio-infrastrutturale per il Paese. «Truppe ben armate - le definisce l’autore - e senza alcuna vergogna di sé e delle proprie proposte». Proposte istituzionalmente indecenti come l’attuale legge elettorale, che causano quel corto circuito socio-culturale con il tessuto della Nazione. Dove accade che, essendo il potere concentrato nelle segreterie dei partiti e solo lì, si inneschi un perverso sistema di genuflessione «dinanzi ai mandarini», anelandone favori, auspicandone cenni con la testa che rappresentino un pollice non verso.

O dove accade che a essere circondato sia lo stesso Parlamento (abitato da nominati, che schiacciano meccanicamente un pulsante; con un uso della fiducia straripante; con produzione legislativa dei deputati ridotta ai minimi termini), o la magistratura (insultata e perseguitata a seconda di chi indaga; privata delle risorse essenziali, finanche per il carburante o la cancelleria), o i valori stessi scritti in quella Costituzione, o diritti costituzionali forse troppo deboli, e altri magicamente rafforzati da pratiche ormai abituali. Ma che continuano ad essere incongruenti, come il concetto stesso di concorrenza, o di egualità dinanzi alla legge, o di concentrazione smisurata di poteri nelle mani di chi quei poteri può disporre anche - e soprattutto - nei confronti dello Stato che rappresenta.
Ecco che il volgere lo sguardo indietro al dicembre del 1947 non è esercizio stucchevole o ingannevole, come qualche penna superficiale si ostina a vergare, ma è utile per ripercorrere momenti in cui «una generazione attraversò un tornante della storia, uno di quei frangenti eccezionali nella vita di popoli da cui dipende la loro libertà». Ainis si chiede a questo punto se sia il caso di augurare al Paese un’altra guerra, al fine di recuperare “la nostra identità perduta”. Ovviamente no, ma ricorda un momento di quel 22 dicembre, quando Meuccio Ruini, a capo della Commissione dei 75, consegnò la Carta nella mani di Umberto Terracini, e in quell’istante si alzò l’inno di Mameli dalle tribune occupate dai reduci garibaldini. Quell’unione, tra morti e vivi, vincitori e vinti, presenti e pensanti, rappresentò un esempio di alta condivisione nazionale e risorgimentale.

È quello il dialogo che oggi latita, di cui si sente drammaticamente la mancanza. Quella predisposizione ad ascoltare le ragioni dell’altro, «senza sopraffarle gonfiando tendini e bicipiti», consapevoli che si tratta di valutazioni che richiedono la ricerca di un compromesso, un punto in comune, per poi ricominciare a marciare. Ovvero decisioni che attengono il Paese di tutti, e non di una sola parte. Che rischierebbe di stravincere questa guerra assurda e controproducente, e rimanere unica forza sul campo. Ma un campo di macerie.



Michele Ainis
L’assedio, la Costituzione e i suoi nemici
Longanesi
pp. 263, euro 15

mercoledì 16 febbraio 2011

Qual è il posto delle minoranze nell'Europa unificata?

Da Ffwebmagazine del 16/02/11

Ha scritto Roger Scruton che le «ideologie totalitarie sgorgano da una sola fonte: il rancore». Quel vento del male sul quale spirano i cigni neri della storia, che sovente si affaccia nelle vite e nelle anime dei cittadini, con folate aspre e danni perpetrati a popoli e civiltà.

C’è un popolo, nell’Europa unita e ultramoderna, che ha rischiato di scomparire dalla cartina geosociale del continente. Circa trecentocinquantamila elleni del Ponto sono stati massacrati tra il 1916 ed il 1923: per lo più donne e bambini trucidati dal kemalismo, scrivendo una delle pagine più tristi di quel libro leggero e quasi trasparente che non si trova su scaffali color indaco in librerie o sui siti specializzati. Perché è come se non fosse mai stato scritto. E’il libro delle minoranze, di cui in pochi si appassionano, di cui pochi si occupano, approfondiscono, travolti dal moto globalizzante di un’Unione che spesso lo è meramente solo sulla carta.

Che non si sforza a sufficienza di essere unita nelle diversità, di abbracciare le peculiari anime che hanno convissuto pacificamente, sino a quando la barbarie della violenza ha deciso di agire. Nemico senza colore e con l’unica bandiera del sangue, che tutto abbatte come una furia cieca.Dettagli scandagliati nel volume La questione pontiaca come questione europea ed internazionale, da Michalis Charalambidis, intellettuale greco, tra i fondatori a soli ventitre anni del partito socialista Pasok, diventandone tra l’altro una delle coscienze più critiche, in quanto libero pensatore fuori dagli schemi. Dove ripercorre la battaglia per il riconoscimento di quell’aggressione, partendo da un articolo scritto nel 1986 per un quotidiano ateniese all’indomani di un viaggio in Russia, che lo condusse a verificare i diritti del popolo Tuva, dell’Asia centrale. Charalambidis affresca due scenari: un piano culturale e pedagogico, e uno istituzionale. All’interno del primo gravitano le nozioni storiche, con la vicende del Ponto che si intrecciano con quelle dei padri spirituali dell’Europa, come il geografo Strabone, o Diogene di Sinopi, che coniò il termine “cosmopolita”. Passando per Bessarione, tra l’altro oggetto di un volume edito dall’International League for the Right and Liberation of Peoples di Ginevra. Si tratta di alcune tessere di stampo culturale che dovrebbero essere rimesse nella giusta collocazione della storia, al fine di armonizzare quella fase di allargamento a est dell’Europa che da qualche anno si sta con lungimiranza attuando. Ma prima che aprire frontiere materiali e spostare dogane sulle mappe, sarà utile pacificare le ferite del passato, le anime di chi quell’Unione ha secoli prima contribuito ad impostare. Ed ecco quindi l’impulso istituzionale, con l’Ue chiamata a dare continuità ai singoli slanci pro minoranze, con risoluzioni a favore di Armeni, Curdi, Grecociprioti che meritano sostegno anche in chiave extracontinentale. Gli studi di Chalambidis risultano preziosi per comprendere quante pagine di storia siano negli anni state dimenticate. Per questo nel 1983 fondò la sezione ellenica della Lega Internazionale per “I Diritti e La Liberazione dei Popoli (Lidlip)”, organizzazione non governativa di grande prestigio, riconosciuta dall’Onu e fondata dall’intellettuale e politico italiano Lelio Basso. La Lidlip rappresentò una delle componenti del cosiddetto «sistema Basso» assieme al "Tribunale Permanente Internazionale dei Popoli" e alla "Fondazione Basso", raccogliendo nel corso degli anni la parte più vivace della compagine intellettuale ed accademica mondiale. Ma lo sforzo di Charalambidis è stato anche quello di cercare sponde istituzionali, come quando in qualità di membro del comitato esecutivo del Consiglio internazionale della Lidlip, ha presentato e difeso dinanzi alla Commissione per i Diritti Umani di Ginevra, le rivendicazioni e le giuste motivazioni avanzate da molte minoranze etniche di tutti i continenti.Più recentemente la Libera Università di Berlino, Studi Orientali, ha pubblicato gli atti di una conferenza sui genocidi dei cristiani nell’Impero ottomano che ha avuto come uno dei relatori principali Michalis Charalambidis; atti che hanno visto la luce con il titoloVerfolgung, Vertreibung und Vernichtung der Christen im Osmanischen Reich 1912 – 1922, Tessa Hofmann (Hg), Studien zur orientalischen Kirchen – geschichte – LIT.

Nel marzo 2008, in occasione del sessantesimo anniversario della Dichiarazione dei Diritti Umani, i Comuni della Provincia di Trento hanno pubblicato in italiano il libro Aspetti della Nuova Questione Orientale, già edito dall’intellettuale greco (che si è laureato alla Sapienza di Roma), in lingua inglese nel 1998 con il titolo Aspects of the New Eastern Question, frutto, tra l’altro, dell’ammirazione dell’autore per il cardinale Bessarione e la comune provenienza dalla città di Trebisonda nel Ponto.Uno spunto, quello letterario offerto da Charalambidis, (impegnato in un ciclo di conferenze in alcune città italiane), che potrebbe essere utile per stimolare i vertici europei a valutare con attenzione e con il rispetto che meritano, le minoranze armene, curde, cipriote e pontiache che nell’ultimo secolo hanno sofferto persecuzioni e violenze ingiustificate. In un’ottica di serietà con cui valutare fatti e accadimenti, sui quali finalmente chiudere i conti. E da cui ricominciare per dare intimamente riscontro al grande continente che circonda quel mega lago salato che è il Mediterraneo.

Magari ricordando quel sogno che Pablo Neruda affidò a poche righe nella summa «Confesso che ho vissuto», quando si lasciò andare ad un vero e proprio testamento socio-culturale: «Io voglio vivere in un mondo senza scomunicati. Voglio che si possa entrare in tutte le Chiese e in tutte le tipografie».

martedì 15 febbraio 2011

Masi telefona all'Isola: è la televisione del basso impero


Da Ffwebmagazine del 15/02/11

Quando sulla scena politica cilena arrivò un personaggio di nome Videla, quella straordinaria penna che risponde al nome di Pablo Neruda, scrisse con molta eleganza che «in un Paese in cui in genere i politici sono o sembrano essere troppo seri, alla gente piacque l’arrivo della frivolezza». Una frivolezza, però, pericolosa, in quanto mascherata proprio dalla leggerezza dell’aria, e che al suo interno nascondeva il germe del possesso privatistico, di tutto e di tutti. Un possesso che nella televisione di Stato italiana ha ormai sfondato gli argini, non solo della decenza e del buon gusto, ma a questo punto anche dei basilari canoni della professionalità.
C’è un direttore generale della televisione pubblica che si complimenta in diretta in una trasmissione in cui, per puro caso, si parla e si discute di starlette e personaggi del giro di Lele Mora.

Il tutto in un calderone schizofrenico dove, tra palinsesti che ormai sembrano assemblati a Cologno Monzese e televoti di varia natura, tutto c’è fuorché lucida e regolare tivvù. Mauro Masi, che non è Ettore Bernabei, ha ritenuto di dover chiamare in diretta Simona Ventura, impegnata per l’ottavo anno di fila a traghettare i naufraghi, (famosi, non famosi, ex qualcosa, o parenti di, poco conta), sull’ennesima isola dove, tra parolacce (si spera quest’anno di no), urla, isterismi, rutti e analisi sul sesso degli angeli, si cimenteranno nell’arduo compito di sopravvivere.

«Tu sì che rispetti le regole a differenza di altri», ha decantato il dg. «La chiamo non per dissociarmi dal suo programma, che a differenza di altri rispetta le regole aziendali anzi, oltre a non dissociarmi faccio veramente gli auguri e un grandissimo in bocca al lupo a Lei, alle persone che sono presenti in studio e a quelle che sono in Honduras. Sono certo che darete tutti quanti il massimo per questo programma, che ha uno dei maggiori ascolti di quest’azienda e Le siamo tutti vicini». Sarebbe bastato un telegramma, o una circolare come quelle che Masi periodicamente invia a Michele Santoro, e invece no.

Innanzitutto gli ascolti di Annozero sono ben oltre quelli dell’Isola, che nella prima serata ha registrato un misero 12%, con 3,1 milioni di telespettatori, battuta anche dal Grande Fratello: ma è un dettaglio secondario per i piani alti di Viale Mazzini. Se si parla di rispetto delle regole, sarebbe sufficiente riascoltare dichiarazioni, telefonate, minacce avanzate proprio dal diretto superiore di Masi non solo ad altre trasmissioni di Stato (come Annozero, Ballarò, Report) ma, tanto per dirne una, anche nei confronti di imprenditori che furono invitati dal premier a non fare pubblicità ad un determinato gruppo editoriale. Casualmente concorrente allo stesso Berlusconi.
E ancora, rispetto delle regole, chiediamo al dg Masi, o al ministro delle Comunicazioni Romani, è evitare di incassare circa quattro miliardi di euro per la vendita delle frequenze, così come fatto da altri paesi, come Usa e Germania? Rispetto delle regole, chiediamo questa volta al Presidente dell’Autorità di Vigilanza, è limitarsi a una scrollatina di spalle quando l’intero impianto liberale e democratico della televisione di Stato subisce quotidiani e vili attacchi, nei confronti dei quali nessuna contromossa è posta in essere?

Rispetto delle regole, chiediamo questa volta al direttore generale per la concorrenza dell’Unione Europea, Alexander Italianer, è lo svilimento colposo del telegiornale dell’ammiraglia televisiva di Stato, in virtù di notizie retrocesse a scomodi contorni di colore, o fatti e rilievi fondamentali per la vita di un paese rinchiuse in striscette da pochi minuti, in perfetto stile TGcom?
Nulla contro l’Isola, sia chiaro, solo che (e questa volta sì per rispetto e deontologia professionale), se il metro di Masi fosse applicato anche alle altre trasmissioni, il dg dovrebbe trascorrere la giornata inchiodato agli schermi in bassa frequenza, magari per premiare la coppia Saviano- Fazio per lo straordinario successo di “Vieni via con me”, o le serate con Benigni one-man-show impegnato in quella meravigliosa lettura de La Divina Commedia, o in altri esempi di tv di qualità che, per fortuna, la Rai riesce ancora a mettere in campo, nonostante condizioni spesso difficili.

Ma la moda dell’insulto telefonico, lanciata da Berlusconi in stile cafonal-inquisitorio, non può che registrare un’appendice proprio nei dati dei Tg, da dove si evince che il Tg5 delle 20 (di lunedì sorso), ha superato il Tg1 negli ascolti. Con uno share del 23,37% grazie a sei milioni di telespettatori, mentre quello di Minzolini si è fermato al 22,05% con cinque milioni e 899 mila telespettatori.
E allora, l’auspicio di chi ancora sogna una televisione statale in stile Bbc, è che si possa finalmente impastare un elisir di lunga vita serio e rigido: liberandosi dal modus operandi dettato dal manuale Cencelli, con un approccio occupazionale che sia legato esclusivamente a pubblici concorsi, con possibilità di carriera incentrate effettivamente sui progressi lavorativi del singolo giornalista o del singolo programma, con il ritorno di figure professionali che hanno fatto la storia della Rai, come i programmisti, con l’apertura a partner privati, ma che non siano già in possesso di buona parte del panorama comunicativo nazionale.

E, ovviamente, con una struttura dirigenziale che non si presti a strumentalizzazioni da basso impero.

Bersani corteggia la Lega. Un assist per staccare la spina?

Da Ffwebmagazine del 15/02/11

Nella giornata in cui, a confortare un quadro politico confuso e a un passo dall’isterismo, ci pensa ancora una volta il Capo dello Stato (che consegnando al Quirinale i Premi dell'Accademia nazionale dei Lincei, di Santa Cecilia e di San Luca, ricorda che «nel tanto frastuono e motivi di ansietà che viviamo non dobbiamo perdere di vista l’importanza che ha la cultura»), spicca la prima pagina della Padania. “Questa è la settimana decisiva” è il virgolettato che appare sotto la foto di Umberto Bossi. E accanto, c’è un’intervista a Pierluigi Bersani che - insolitamente sul giornale della Lega, quindi del Governo - offre un ragionamento-proposta agli avversari. Patto a due sul federalismo e nuova fase per uscire dallo stallo in cui si è infilato il Premier.

«Propongo un patto tra forze popolari - dice il leader del Pd - impegno me e il mio partito a portare avanti il processo federalista dialogando con la Lega». Nella settimana in cui tra gli onorevoli-soldatini pronti a difendere sempre e comunque il capo non si sono iscritti né Giulio Tremonti né la pattuglia leghista, l’approccio di Bersani nei confronti del Carroccio più che un’uscita per scompaginare, appare come un assist per accompagnare un atteggiamento che, da giorni, o da mesi, pare effettivamente caratterizzare i vertici di via Bellerio.

Quelli che possono decidere di interrompere questo “accanimento terapeutico” sull’esecutivo. Se Bossi decide di staccare la spina a Berlusconi, non ci sono “responsabili” che tengano: un dato che è ampiamente alla portata di tutti gli attori in campo, e che a Palazzo Grazioli temono particolarmente, come dimostrano le frizioni, mascherate da spunti dialettici, tra lo stesso ministro dell’Economia e il nuovo ma vecchio speaker berlusconiano Giuliano Ferrara. E come rivelano i dati sondaggistici di Atlante diffusi ieri, che segnano un crollo di gradimento per Berlusconi.
Dunque Bersani appura che l’obiettivo della Lega è unicamente quello di vedere approvato il federalismo. È altresì vero, continua l’ex ministro delle Attività produttive, che «in queste condizioni rischieremmo di fare una cattiva riforma». Per questo risulta imprescindibile «guardare oltre Berlusconi e allo stesso tempo preservare la prospettiva autonomista». E in virtù di un assioma che lo stesso Bersani esplica sulle pagine della Padania, quando rileva che «non si può sacrificare tutto, ossia la riforma chiave, in nome di Ruby”. Ma il tutto, però, potrebbe anche condurre a un Governo che resti nell’area del centrodestra, prosegue Bersani nella sua offerta, a cui «noi assicureremmo in quella circostanza un’opposizione propositiva”. E garantisce che il processo federalista andrà avanti sino al suo naturale compimento.
«Noi siamo per un federalismo che unisce – spiega - e abbiamo un nostro progetto. Però la Lega si accontenta della bandierina facendo approvare norme che con il federalismo non hanno niente a che fare». Mentre a Berlusconi interessa solo «tener agganciata la propria maggioranza e il processo breve». E minaccia: «Il federalismo così va a carte quarantotto». E circa l’interpretazione della Costituzione da parte del Premier, secondo cui per sciogliere le Camere il presidente della Repubblica avrebbe bisogno anche della controfirma aggiunge ironicamente: il Premier, «si sa è un fine costituzionalista. Penso che un po’ di studio in più non gli guasterebbe».

Ma il segretario del Pd non si limita ad annusare possibili scenari futuri, e fa un passo in più, rispetto ad un gioco delle parti che sulla carta sarebbe scontato, perché rispolvera un filo intrecciato inizialmente da Massimo D’Alema, che definì la Lega una “costola della sinistra”. Infatti offre una sponda proprio sui fatti di cronaca degli sbarchi degli ultimi giorni, e dice rivolto al ministro Maroni di condividere la sua richiesta di un maggiore raccordo con le altre cancellerie europee, per un problema che non è solo di pertinenza italiana. Una doppia carezza che, indipendentemente dalla valenza del suo merito, si incunea in un pertugio di disagio certificato, dove la Lega soffre la condotta di Berlusconi. È utile ricordare che fu Umberto Bossi, all’indomani dei primi scampoli di notizie del Ruby-gate a prescrivere a Berlusconi un periodo di riposo, facendo intendere di non gradire comunque l’immobilismo dell’esecutivo, reato o non reato poco conta.

Fu sempre Bossi il primo a vedere in pericolo la sopravvivenza dell’esecutivo in assenza dell’obiettivo (per la Lega) principe, ovvero il federalismo.
Per cui, le parole di Bersani più che un invito o una proposta appaiono come la naturale continuazione di una linea, ferma e decisa, che il Carroccio mantiene da tempo. E che si esplica, in altre ramificazioni, magari lungo la contrapposizione Tremonti-Ferrara. Tanto per dirne una.

lunedì 14 febbraio 2011

E il gradimento per B. va sotto il 30 per cento


Da Ffwebmagazine del 14/02/11

Si comincia a delineare il perché dal fu Pdl rifiutino ormai la parola elezioni, dopo averla caldeggiata con insistenza sino a poche settimane fa. Per garantire stabilità al Paese, che deve piazzare i titoli di Stato (copyright Umberto Bossi)? Per mettere finalmente in moto, al terzo anno di legislatura, le tanto annunciate riforme? Per avviare la modernizzazione infrastrutturale del Mezzogiorno? Per caldeggiare una politica green, che spinga le imprese a intrecciarsi con le mutevoli esigenze della natura e dei cittadini? Nulla di tutto questo, semplicemente perché in via dell’Umiltà non sono più sicuri dei numeri.
Altro che maggioranze bulgare e milioni di cittadini in piazza a sostegno di una monarchia sul viale del tramonto: la fiducia degli italiani per Silvio Berlusconi è ai minimi storici, come testimonia il sondaggio Atlante Politico di Demos. È tornata ai parametri di sei anni fa, con la credibilità verso l’esecutivo in picchiata, con la metà degli italiani che ritiene affidabile il lavoro dei pubblici ministeri che indagano sul presunto giro di prostituzione a carico del premier. Solo il 30% degli italiani gli conferisce ancora fiducia, la metà pensa che le accuse rivoltegli dovrebbero indurlo a un passo indietro. E solo un cittadino su quattro valuta come effettivamente mantenute le sue promesse elettorali.

Un po’ poco per sbandierare, in comunicati stampa e presenze televisive dei soldatini-onorevoli, un consenso forte e certificato del Paese. Dati che contribuiscono a innervosire la famosa squadra delle pink-pen allestita a Palazzo Grazioli, per controbattere notizie e voci che inchiodano, se non ancora penalmente ma fino a ora certamente moralmente, una condotta che tutto è fuorché da persona che dignitosamente rappresenta le istituzioni.
E vediamoli, dunque, questi numeri, con il Capo dello Stato sempre più punto di riferimento non solo istituzionale ma anche morale dell’80% degli italiani, stimato non solo dalla stragrande maggioranza degli elettori del Pd, ma anche dai due terzi dei leghisti e dall’80% di chi vota Pdl. Invece, Berlusconi in due mesi ha perso ben cinque punti percentuali, che raffrontandoli con lo scorso semestre si quadruplicano, per arrivare a sedici rispetto a dodici mesi fa. Una débâcle, da qualsiasi latitudine la si voglia osservare, e con il consueto schermo di giustificazioni che da domani si innescheranno che però questa volta potranno ben poco, in confronto ai numeri reali. Nella speciale classifica di gradimento dei singoli leader politici, tutti migliorano la propria immagine nelle case dei cittadini, tranne il premier, con Tremonti che svetta nella maggioranza, e il duo Casini-Fini in testa nel Terzo Polo. Mentre a sinistra è Vendola il nome nuovo che infiamma i simpatizzanti, senza dimenticare i passi avanti di Emma Bonino, nonostante non possa contare su una struttura partitica forte come le altre.
Ma sono le intenzioni di voto a tracciare una cartina di tornasole significativa dello stato delle cose, con Pd (24%) e Pdl (27%) ben al di sotto della soglia del 30%, diagnosticando la crisi oggettiva del sistema bipolare, dal momento che alle politiche del 2008 il loro raggio d’azione, assieme, sfiorava il 70%. Un crollo verticale del 40%, tra indecisi e delusi che hanno contribuito a frammentare la portata dei singoli voti. Ma soprattutto determinata dalla sfiducia verso chi ha la barra di comando, di chi, forte questa volta sì di numeri impensabili, come la maggioranza pidiellina uscita dalle scorse urne faceva presagire, avrebbe dovuto e potuto governare e portare a compimento le intenzioni programmatiche.
Ma cosa accadrebbe se si andasse a votare domattina? Il sondaggio Atlante Politico stima che l’attuale maggioranza, con il sostegno della Destra di Storace, uscirebbe sconfitta per 57% a 43% contro una grande coalizione, composta da Terzo Polo, Pd, Sel e Idv. Riscontrando un risultato poco incoraggiante anche se gli attori in campo fossero più naturalmente solo tre. Dove il Terzo Polo appare in crescita, puntando anche su quel 33% di cittadini di fatto iscritti al partito del non voto.

Fermo restando che i numeri vanno interpretati con ovvia prudenza e circospezione, ed inquadrati successivamente in un più ampio ventaglio di intenzioni e di scelte concrete, ciò che appare chiaro è che si intravede più di una crepa nei bagni di folla, nelle simpatie a tutto campo, nella fiducia che Berlusconi si vantava, anche in imbarazzanti consessi internazionali, di avere all’interno del Paese. Anche per gli atteggiamenti sprezzanti che, ad esempio, qualche ministro come la Gelmini ha voluto avere nei confronti della manifestazione sul corpo delle donne andata in scena in molteplici piazze italiane e internazionali.
No, non erano solo poche signore radical-chic a protestare e a rivendicare dignità nella piazza della propria città. Così come non erano “quattro studenti comunisti” a sfilare in corteo lo scorso dicembre contro la riforma dell’Università. È proprio questa drammatica sottovalutazione del reale e del quotidiano a rappresentare la spia, prima ancora che di una fine certificata da firme, controfirme o bolli, di una politica che semplicemente non è più tale. E che sta morendo.

Fini: «Ma l'etica pubblica non è "moralismo"...»

Da Ffwebmagazine del 13/02/11

C’è qualcuno che vuol far passare un messaggio pericoloso: che discutere di pedagogia civile equivalga a fare del becero moralismo da puritani. C’è qualcuno a cui, pare, fa comodo evitare giudizi di colpevolezza, perché “tutti in fondo hanno qualcosa da farsi perdonare”. C’è qualcuno che sta dolosamente facendo coincidere il rispetto per le regole della civile convivenza con un certo bacchettonismo antilibertario. A questo qualcuno, gioverebbe ricordare che non è cosa buona e giusta confondere idee e parole, in questa fase che altro non offre se non una chiara crisi del racconto. Imbrogliando nomi e termini, concetti e rilievi, per il gusto di difendere la barricata dove si annida l’errore.

E allora si vuol fare passare per moralismo quello che invece è un normale scambio di principi educativi, che attengono niente altro se non alla pedagogia civile. Indispensabile per educare ed educarsi. A tutto questo ha fatto riferimento Gianfranco Fini in un passaggio del suo discorso di chiusura dell’Assemblea costituente di Fli, quando ha rilevato che «non è moralismo, retorica, demagogia, dire che ai nostri figli non possiamo soltanto insegnare che conta quanto guadagni, se riesci a farla franca, se qualcuno ti aiuta a non pagare dazio». Perché sono ben altri i valori a cui tutti, e non solo la politica, devono ispirarsi. «Non è moralismo dire che non tutto è denaro ma bisogna impegnarsi con il lavoro, con il sacrificio, senza scorciatoie».

Gli esempi, dunque. Perché è inutile sperare di far chiudere un occhio, o magari tutti e due, così che gli altri interlocutori annuiscano e si crogiuolino in cotanta depravazione socio-culturale. No, non c’è proprio nulla da ridere davanti a concezioni maschiliste medievali, a reclutamenti professionali fatti ad festinum, a scelte di candidature politiche operate in maniera che definire scorretta è poco, mortificando la meritocrazia e le qualità dei singoli, a tentativi di sfuggire al mea culpa e all'assunzione di responsabilità: insomma, c'è poco da ridere davanti alla verità dei fatti e delle cose.

Ecco il modello fuorviante che crea migliaia di fantasie e di aspettative di carta, pronte a crollare sotto il peso non di fantomatici agenti esterni, non di complottisti pronti alla spiata, non di terzisti impegnati spasmodicamente nella battaglia contra: ma semplicemente a causa della realtà, della vita vera che non è fiction, ma drammaticamente reale, dove non si può fuggire all’infinito, nascondendo derive, mistificando fatti, inventando parentele, illudendo su un modello professionale che non ha futuro, perché basato sugli umori del capo e nulla più.

Fini completa il suo ragionamento sostenendo che «non si può prescindere dal dovere di far coincidere con la politica l’etica». Ecco la fantomatica e, per alcuni, fastidiosa parola che sta imperversando nei dibattiti pubblici, e anche privati. Come sottolineato tempo fa dal Capo dello Stato «le istituzioni hanno bisogno del necessario rispetto». In primis da chi le rappresenta, da un’umile ossequio verso quegli scranni, quelle immagini, quelle raffigurazioni che incarnano il biglietto da visita di una classe dirigente e, quindi, di un intero Paese. E perché no, anche di un popolo che da essi è rappresentato.

Per questo il Presidente della Camera, riferendosi alle note vicende del caso Ruby sottolinea che rappresentano «motivo di dolore per tutti gli elettori che si identificano anche all’estero con il centrodestra ed è anche motivo di imbarazzo per molti dirigenti del Pdl visto che siamo diventati lo zimbello del mondo occidentale per comportamenti che nulla hanno a che vedere con le dinamiche politiche».

E allora vale la pena di ricordare un’altra massima, scritta da Joseph Joubert, secondo cui i giovani “hanno più bisogno di esempi che di critiche”. Ecco il ruolo pedagogico della scuola, dell’universo della formazione, dei giornali, delle case editrici, ed anche della politica. Che non può ipocritamente tifare per il rispetto della legge, per l’osservanza dei buoni principi e poi scoprirsi socialmente depravata, incline a quella strizzatina di occhi che, nei fatti, è peggiore di altri ben più efferati reati. Perché è complice, perché sparge il germe del caso, affrescando una terra di nessuno dove tutto è consentito a tutti solo perché lo ha fatto il capo. Dove la rettitudine di grandi nomi della politica italiana che tanto lustro alla Nazione hanno dato, per tutti De Gasperi, Einaudi, non può essere paragonabile ad una sorta di scuola della mistificazione dei costumi. A cui in questi mesi si è assistito.

E che non solo si è resa protagonista di spiacevoli comportamenti in sé, ma che sta cocciutamente cercando di far passare il messaggio che ribellarsi a questo schema è da puritani. È questo il passaggio su cui obiettare, anche per non consentire che la nostra mente, come ha detto Amartya Sen, “sia divisa in due da un orizzonte”.

Ma è tempo di affrontare a testa alta quel panorama che si staglia dinanzi alla strada di ognuno, e di affrontarlo con coraggio e a viso aperto, consapevoli di aver compiuto il proprio dovere. Senza scorciatoie.

In mutande ma vivi? E allora meglio feriti ma dignitosi


Da Ffwebmagazine del 12/11/11

C’è chi si sarebbe aspettato di meglio, chi sapeva benissimo dove sarebbe andato a parare. Ciò che invece fa assumere contorni sbiaditi alla manifestazione milanese voluta da Giuliano Ferrara, è l’ingenua deriva che il suo organizzatore ha voluto imprimerle. Quasi che si beasse della mediocrità di altri spin(k) doctor, quando invece avrebbe dovuto segnare la differenza, in considerazione della propria intelligenza, oggettivamente di altra levatura. E invece l’appuntamento per antipuritani “In mutande ma vivi”, un comizio vecchio stile con dotti rilievi e basta, ha detto niente altro ciò che il capo ha deciso di far dire. Facendo passare il messaggio, abbastanza modesto, del “tutti sbagliano”, quindi nessuno giudichi.

“Un modo indecente di predicare la decenza”, sloganeggia Ferrara, citando anche quella massima kantiana, secondo cui da un legno storto come quello di cui è fatto l’uomo, non si può costruire niente di perfettamente dritto. Ma, sarebbe il caso di aggiungere, nemmeno nulla di drammaticamente così anomalo. Dice che sarebbe il caso di “riconsacrarsi alla libertà personale”, per controbattere quel germe che si è voluto instillare, distinguendo di fatto “cittadini di serie A da cittadini di serie B”.
Un po’poco, in verità, per strutturare un ragionamento che, considerato lo spessore dei convitati, avrebbe potuto essere decisamente diverso. Ma Ferrara, o chi per lui, ha deciso così, e quindi giù insulti ai magistrati (non tutti per fortuna) che usano strumenti e procedure “scandalose” per arrivare a certe conclusioni. Che dovrebbero essere “più leali” verso fatti e circostanze. E ancora: “Chi sono io per giudicare moralmente Berlusconi? Un procuratore della Repubblica?”. Slogan vecchi di tre lustri, come gli attacchi al gruppo Repubblica, colpevole di divulgare voci e frasi, in un focoso calderone di puro sdegno dove si arriva a teorizzare che sia un “peccato mischiare cose private che appartengono a quella fatica di una morale laica, con reati che vengono inventati”.

Intanto è utile ricordare all’Elefantino che solo la giustizia dirà se i reati siano o meno stati inventati, ma il punto non è questo: lascia stupiti l’impianto della mattinata milanese, dove si vuol veicolare il messaggio che nessuno è colpevole e tutti sono innocenti. Un modus niente affatto liberale, dove il senso del rispetto, prima che della legge, viene calpestato in nome di un non meglio precisato antigiacobinismo e anti roberspierrismo che in passato “tante teste hanno tagliato”. Dove sono gli spunti veramente liberali che, ad esempio, comportano il rispetto della libertà altrui, prima che della propria?
Qui nessuno vuol tagliare la testa a chicchessia, ma non per questo si deve sentire investito del potere di giustificare un atteggiamento antieducativo dove lasciare correre tutto a uno solo. E per il gusto di chi ha commesso una mega marachella e vorrebbe farla franca, facendola pagare magari ad altri, o amnistiando tutto e tutti. Ma il meglio, o il peggio di questo abbecedario del permissivismo antisociale andato in scena al Teatro Dal Verme, il direttore del Foglio lo riserva quando traccia un affresco delle giovani donne “offerte al drago” (copyright Veronica Lario).

Arriva per giunta a dire che “il Paese cresce con quelle ragazze”, in quanto ormai fanno parte del sistema televisivo, del circo mediatico delle trasmissioni leggere. Ne ha anche per Lele Mora, l’agente “delle ragazze che vogliono fare la tv e dei ragazzi che vogliono fare i tronisti: che male c’è- si chiede- dovrebbero cambiare mestiere?”. Ecco l’azzardo sconclusionato di chi, poi, produce e si rallegra dei sogni dei teenager di fare i tronisti o le schedine (con tutto il rispetto, s’intende). Ma un momento dopo si getta a capofitto nella, questa volta sì giacobina morale da intellettuali part- time. Prima si illude un Paese sul senso di rinascita, sull’importanza della formazione, della meritocrazia, dello straordinario bagaglio culturale che questo territorio ha nel proprio dna.

E poi, imbeccati dal capo di turno, si scivola sulla buccia di banana di un panorama effimero quando surreale, dove un tessuto sociale arriva addirittura a “crescere” grazie all’illuminato contributo di starlette e pseudo opinioniste in attesa di una candidatura che conta.
No, è stata tutta una farsa, lo dicano magari a quarantott’ore dalla manifestazione, perché no facendo passare un paio di giorni e gridando al Paese: “scusate, abbiamo scherzato, siamo buontemponi che volevano trascorrere un sabato mattina di burle”. Contrariamente, al titolo “In mutande ma vivi”, ci permetteremmo di obiettare, senza etichette o particolari appartenenze, che forse scegliere un’altra strada, ma dignitosa, sarebbe molto, ma molto meglio. Per tutti.

venerdì 11 febbraio 2011

Due leader al tramonto, una zavorra per i loro paesi


Da Ffwebmagazine dell'11/02/11

Nell’antica Grecia si diceva che «nessuna disgrazia può accadere a un Paese, più grave di quella di essere governato da un tiranno vecchio». Come dire, una zavorra dal peso insostenibile, avviluppata come un rampicante di cemento a un’istituzione, dura da estirpare perché insensibile a richiami e a sollecitazioni, incancrenita attorno all’estensione di un potere considerato eterno, un diritto a vita che nessun altro comune mortale avrebbe potuto non solo mettere in discussione, ma anche solo scalfire.

Ecco, lungo le coste di quel grande e affascinante lago salato che è il mar Mediterraneo, spira un peculiare vento di cocciutaggine, che fa dell’insistenza il suo filo rosso. Con due leader stanchi, passati e appassiti che escludono a priori la possibilità di passare la mano, di contribuire a far respirare ai propri Paesi un’aria fresca e nuova. Due leader, (paradossalmente accomunati da quella presunta nipote dell’egiziano, che nipote non è) i quali fingono di non vedere i risvolti che la loro ostinata permanenza sta consolidando nelle piazze e nelle anime dei cittadini.

Così, in una piazza afosa e dai richiami storici affascinanti, Il Cairo, la sollevazione giovanile dal web si è spinta nelle strade, con un popolo sull’orlo della disperazione dopo anni di corruzione e vulnerabile alla crisi finanziaria per mancanza di misure adeguate, con l’Islam moderato dei Fratelli Musulmani, all’interno dei quali scalpita una nuova generazione di 40enni che vorrebbero avanzare proposte e idee lontane dall’ultraconservatorismo degli anziani. Ma il capo, Hosni Mubarak, ancora insiste: «Poteri a Suleiman, resto fino alle elezioni», annunciando orgoglioso di voler rifiutare «diktat da altri Paesi» e soprattutto senza ricorrere alla parola dimissioni. Quasi che fossero un’offesa per governanti ancora rivolti a certe impostazioni medievali.

Duemila chilometri più a nord, in quell’agorà dello ius che ha dato i natali a raffigurazioni storico-artistiche-culturali di rilevanza mondiale, un altro leader stanco che ormai appare privo della necessaria bussola valoriale e mentale, si trascina, al pari del suo collega egiziano, senza prospettive costruttive, ma solo per l’inerzia di una contrapposizione perenne. Mentre nelle piazze si odono le voci inascoltate dei giovani, come dimostrano le manifestazioni studentesche di qualche tempo fa, ed è in corso una guerra tra poteri resa ancor più gravosa dalle parole e dai comportamenti incendiari del premier che, anziché ricercare una pacificazione istituzionale, fa di tutto per replicare alle accuse con attacchi e pericolose delegittimazioni.

Un premier che di sé offre esempi degradanti, come l’insulto alle istituzioni che egli stesso dovrebbe rappresentare e quindi difendere. Innescando un clima surreale, con fogli in edicola che consumano le rotative pur di non far mancare al leader il sostegno continuo per ogni virgola che posa, con doppi paraocchi indossati giorno e notte; svilendo il tessuto sociale di un Paese in affanno e le speranze di chi, per missione, guarda al cambiamento; e tormentando quotidianamente chi ancora crede nello Stato e in quella locuzione magica (sovente abusata) che prende il nome di bene comune.

Entrambi gli anziani leader, senza energie propositive, senza spunti innovativi, stanno portando i rispettivi Paesi qui alla confusione e lì alla deriva. In quanto sono essi stessi causa di ritardi, di immobilismi deleteri, di isterismi, di fazioni in eterna lotta, fino al delinearsi di scontri durissimi di cui non si intravede all’orizzonte la minima speranza di conciliazione. Nonostante il lento logorio di consensi millantati, testimoniato da percentuali che di fatto ne hanno visto in calo il gradimento, il leader di casa nostra da tempo ormai non gode più della fiducia della maggioranza degli italiani, nonostante continui a proclamarsi amato e longevo. Da tempo non riscuote considerazione dalle fasce produttive, da chi il Paese muove in virtù del proprio impegno lavorativo, dai lavoratori delle fabbriche, dai liberi professionisti, dal cosiddetto popolo delle partite Iva, dal Settentrione che produce e che gradirebbe maggiori provvedimenti fiscali per la ripresa, dal Meridione ancora menomato da infrastrutture annunciate e rimaste sulla carta.

Entrambi i leader non hanno compreso come la maggioranza dei due popoli semplicemente non sia più dalla loro parte, perché si è resa conto di un fallimento, di anni di promesse, di migliaia di parole e slogan al vento, ideali forse per ingannare cittadini ingenui e speranzosi. Ma che poi, quando è giunto il momento della traduzione in atti concreti, quelle scintillanti favelle si sono magicamente trasformate in foglie secche. Chi si aspettava illusoriamente alberi rigogliosi, fiori profumati e una flora rigenerante, ha dovuto ricredersi e assistere al dequalificante spettacolo della desertificazione sociale e culturale.