domenica 28 marzo 2010

Quei vuoti urbani che rinascono musei


Da Ffwebmagazine del 28/03/10

Spazi riportati in vita, luoghi del passato - recente o più lontano - accarezzati dall’intenzione di innovazione e di sperimentazione. Sia come occasione che veicoli idee e arte, sia come spunto per “riciclare” in chiave moderna e funzionale un pezzo delle città, che è rimasto intrappolato nel vuoto degli arcipelaghi urbanistici. Ambiti che per una serie di dinamiche legate al mancato utilizzo ed al conseguente svuotamento di elaborazioni e contenuti, sono stati accantonati in alcuni casi, e recuperati in altri. È la storia dei grandi contenitori lasciati vuoti, per intenderci di quelli che ospitavano i vecchi mercati generali, o i gasometri, o palazzi nobiliari in disuso, o ancor più frequentemente le manifatture. Luoghi che nel resto del mondo vengono professionalmente musealizzati, anche con sinergie tra pubblico e privato. E che oggi incarnano l’occasione per riallacciare i rapporti con il mondo dei giovani, spesso lontani da musei e dai luoghi di cultura.Uno degli esempi italiani nel quale risalta la volontà di riempire nuovamente prestigiosi spazi che l’incuria ha dimenticato, è il Reale Albergo dei Poveri di Napoli, per il quale gli ultimi lavori dovrebbero concludersi entro il 2010. Si tratta del maggior edificio monumentale napoletano, una delle più grandi costruzioni settecentesche d’Europa, estesa per circa centomila metri quadrati. È situato nella zona più antica di Napoli città, dove in passato trovavano un punto di incontro due arterie storiche, la via di Foria con l’antica via del Campo. In passato ospitò donne e bambini caratterizzati da gravi disagi socio-economici, al fine di offrire loro un’occasione di qualificazione professionale. La scelta del suo riutilizzo è stata concentrata sulla realizzazione al suo interno della “Città dei Giovani”, un’iniziativa per i
mplementare la libera espressione dei talenti giovanili, sul piano socio-culturale. In un unico luogo si intende così rendere disponibili servizi, opportunità, vetrine, metri cubi per eventi e manifestazioni. Altro esempio italiano in Emilia Romagna. Quasi diecimila metri quadrati di sperimentazione e ricerca sono dedicati al MAMbo di Bologna, situato all’interno del distretto culturale della manifattura delle Arti, e collocato esattamente al centro di un’area dedicata all’innovazione, che comprende la cineteca di Bologna, il dipartimento universitario dei Dms e la Facoltà di Scienze della Comunicazione. La sua prima sede vide la luce nel 1915, progettata come panificio comunale. Dal ’70 in poi affronta varie destinazioni d’uso, fino a diventare deposito comunale. Ma nel 1995 si scommette sulla modernità, ed ecco che si offre spazio alla volontà di investire in quei contenitori. Prima la demolizione, il recupero e il consolidamento strutturale. In seguito la nuova edificazione di ambienti interni, con la costante accortezza di non snaturare il percorso architettonico presente. Ex forno del pane, oggi ospita un dipartimento educativo, una sala conferenze, ambiti per mostre temporanee, una biblioteca-emeroteca di arte contemporanea. Mentre all’esterno il giardino del Cavaticcio collega il MAMbo al complesso della manifattura delle Arti.

Due regioni più a nordovest, in Liguria: prima scuola, poi tribunale e infine museo. È il curriculum del CAMEC di La Spezia, costruito ad inizio ‘900 come scuola elementare, per poi diventare sede della procura civile e penale negli anni ’20. Raso al suolo durante la seconda guerra mondiale, fu ricostruito due lustri dopo, per poi recentemente essere ritrasformato in centro di arte moderna e contemporanea, con un ascensore panoramico esterno ed un’ avvincente scala elicoidale.Volgendo lo sguardo oltre i confini nazionali, uno degli esempi maggiori di ridefinizione culturale di una sede in chiave artistica, è senza dubbio il museo d’Orsay di Parigi. Interamente dedicato all’impressionismo con capolavori di Monet, Van Gogh, Cezanne, e in questi mesi al centro di una fase di intenso restauro che terminerà nel 2011, è ospitato all’interno di una stazione ferroviaria. Costruita in occasione dell’esposizione universale del 1900, venne inaugurata il 14 luglio di assieme ad un grande hotel. Sino al ’39 la stazione di Orsay fu punto di riferimento per il traffico da e per la Francia sud-occidentale, ma quell’anno segnò anche l’evidenza del suo limite: era in grado di assicurare i collegamenti con le aree periferiche, ma non con le tratte di percorrenza che progressivamente si stavano elettrificando. Fu in seguito adibita a centro di accoglienza per prigionieri, centro di spedizione pacchi, sede di una compagnia teatrale ed anche casa d’aste nel 1974. Fino alla decisione dell’allora presidente della Repubblica Giscard d’Estaing di inserirla tra i monumenti storici: vide la luce come museo nel 1986.

Tremila chilometri più a est del Museo d’Orsay, si trova il MMOMA di Mosca, all’interno di un palazzo del diciottesimo secolo appartenuto al venditore Gubin. Situato nel centro della capitale russa e restaurato nel 1999 dall’architetto neoclassico Matvej Kazakov, è protagonista tra l’altro di un interessante programma di educazione denominato “Free studios”, per avvicinare e formare giovani artisti contemporanei.Sorpresa, invece, desta la sede della Galleria d’arte moderna di Glasgow, per cui è stato scelto dal 1996 un elegante edificio neoclassico in Exchange Square. Costruito nel 1775 come residenza di campagna di un facoltoso commerciante di tabacco, nemmeno il più fantasioso visitatore potrebbe mai immaginare che all’interno di una cornice così imperiosa e ingessata, possa trovare riparo un contenitore per le sperimentazioni artistiche: altro elemento sul quale varrebbe la pena riflettere non poco.

Oltre alle esposizioni contemporanee di opere scozzesi ed internazionali, il museo di Glasgow si è attrezzato con numerose mostre temporanee, che hanno consentito ad esempio di scovare giovani talenti come Barbara Krugere, esponente dell’arte femminista americana.Ma se poi, anziché cercare un luogo fisico, si volesse sperimentare la possibilità di interagire con opere esposte, modificandole virtualmente? Ecco che il contenitore perfetto sarebbe il MOWA, ovvero il Museo virtuale della web art. Un po’ il nipote post moderno del MOMA, un museo on line che raggruppa alcune opere di artisti della Rete. Luogo per esporre, ma soprattutto per raffrontare esperienze e sensazioni. Nella sua galleria virtuale sono rappresentati ben sette paesi, Cina, Giappone, Germania, Danimarca, Olanda, Gran Bretagna e Stati Uniti.
«La tecnologia si basa sulla tecnica, e la tecnica è il risultato della tecnologia» scrive nella presentazione il fondatore Amy Stone. La sua sede non è un contenitore del passato in cerca di recupero, né una nuova alcova supermoderna con strati di titanio e giochi di luce. Più semplicemente è ospitata all’interno di un server, che si estende per ben quattro gallerie virtuali, oltre ad una quinta dedicata ai più piccoli. Distinte in altrettante tematiche: cose che funzionano, cose che si muovono, cose che cambiano, cose statiche. E forse sono proprio queste ultime, visto il flusso della storia, a essere (e non solo in questo campo) roba da museo.

venerdì 19 marzo 2010

MA PER GIRARE PAGINA, LA TURCHIA CHIEDA SCUSA AGLI ARMENI

Da Ffwebmagazine del 19/03/10

«Non bisogna cercare di ritornare all’origine, perché non si può tornare indietro- diceva Alain de Benoist- Non bisogna fare un ritorno, ma un ricorso all’origine». Per imparare dai propri errori, progettando un’azione politica che faccia meglio di quella di ieri, insegnando ai propri cittadini che la democrazia passa da una ferrea condanna della violenza e del fanatismo, di qualunque specie essi siano. Politico, religioso, ideologico, sportivo. E poi per liberarsi da un peso, per scrollarsi di dosso le scorie di ieri, al fine di proseguire più lucidamente il proprio cammino. Senza strascichi, senza veti postumi, liberi da ingombri di coscienza. E senza ghettizzare le minoranze, quei gruppi numericamente inferiori ma che proprio in virtù di tale peculiarità, possono offrire un valido contributo e meritano, per questo, più rispetto.

Non solo all’indomani della risoluzione della Commissione esteri della Camera statunitense (“il genocidio armeno venne concepito e attuato dall’Impero Ottomano dal 1915 al 1923”), appare una nota stonata il richiamo dell’ambasciatore dagli Stati Uniti da parte del governo turco, ma destano sorpresa anche le gravi parole del premier Erdogan. Interrogato dalla Bbc ha dapprima imputato ad Usa e Svezia di fomentare gli armeni, per poi lasciarsi andare ad una minaccia: «Se sarà necessario dirò loro di tornarsene a casa, non sono obbligato a tenerli nel mio paese». Ma come, proprio in una fase caratterizzata dal riavvicinamento diplomatico fra turchi ed armeni, quando si pensava che una ventata di europeismo e di buon senso potesse essere la medicina ideale per sanare ferite del passato, ecco che il primo ministro scivola così maldestramente.

A cosa serve negare, stizziti, incrinando rapporti che invece potrebbero portare benefici? E per cosa poi? Per alzare le mani, ignorando colposamente il proprio passato? È di pochi giorni fa l’arresto in Turchia di alcuni alti gerarchi militari pronti ad un colpo di stato. Un altro segnale di malessere, preciso, che si insinua come un macigno nello stagno euromediterraneo, già falcidiato dalla crisi economica della Grecia e dalle assurde provocazioni tedesche («Atene venda il Partenone o le isole Cicladi per risanare i bilanci»). «Nel destino del Mediterraneo- diceva Giorgio La Pira- la tenda della pace».

L’intelligenza europeista del governo di Ankara dovrebbe farsi avanti proprio in questi frangenti, anziché spargere veleno. Per stimolare chi ha l’obiettivo di avvicinarsi all’Europa a fare un passo indietro, così come fatto dalla Germania in occasione dell’Olocausto. Professare delle sincere scuse per fatti storici incontrovertibili, dando in questo modo una sterzata decisiva verso il processo di democratizzazione costituzionale, imprescindibile per modernizzare il paese. Quest’ultimo, risentito, avrebbe dovuto cogliere l’occasione per fare i conti con il proprio passato e chiudere definitivamente una pagina – triste – della storia nazionale, così come altre ne sono state scritte da altri paesi di tutto il mondo. Ed evitare inutili isterismi, sintomo del profondo scontro interno tra laicismo ed islamismo.

Un irrigidimento che non fa bene e che riguarda fatti ormai appurati: in occasione del primo conflitto mondiale, infatti, circa un milione e mezzo di armeni vennero massacrati dal soldati dell’Impero Ottomano. Mentre i turchi sostengono che si sia trattato di 300mila morti per una guerra civile, il popolo armeno parla apertamente di genocidio, sostenuto da testimonianze dirette. Oggi, in prossimità dell’anniversario di quel sangue versato, il passo di un’ammissione reale del genocidio, termine peraltro vietato da una legge turca, sarebbe un punto segnato a favore della Turchia. E non l’inizio dell’ennesimo braccio di ferro, che rischia di complicare tutto.

Certo, la serie di sforzi istituzionali posti in essere della Turchia in questi anni hanno visto la luce solo in parte. Frenati proprio da una sorta di zavorra pesantissima, quei militari che ad Ankara hanno ancora un peso specifico non da poco. Accanto alla mancata ammissione del genocidio armeno vi sono però altre emergenze strutturali. Si pensi, in prima battuta, al mancato rispetto delle minoranze religiose, che non offre il sufficiente spazio di manovra a credi numericamente minori. Altra nota dolente l’assenza di rappresentatività parlamentare per il partito curdo, con traversie non indifferenti, senza dimenticare i diritti civili delle donne non ancora focalizzati anche sotto l’aspetto legislativo.

Oltre ad una precaria indipendenza di alcuni mezzi di informazione, troppo spesso appiattiti su posizioni piuttosto aggressive. Un quadro che invece meriterebbe rapporti internazionali più fluidi e soprattutto atteggiamenti distensivi. Quando il ministro degli esteri turco fa dire al suo portavoce che «ci saranno conseguenze, gli americani sanno benissimo cosa rischiano», sembra quasi sventolare la bandiera del conflitto in Iraq come separè ad un fatto storico accaduto e, quindi, incontrovertibile. Ma che si vuole ancora ignorare o cancellare. Se da un lato questo appare come un atteggiamento sopra le righe, del quale al momento non si sente il bisogno, dall’altro non sarebbe neanche saggio rammentare in eterno ad Ankara i suoi errori.

Senza dimenticare che le minoranze rappresentano una ricchezza, in quanto sono proprio i personaggi minoritari che, trovandosi in minoranza, si sforzano di proporre alternative all’attuale. Chissà che il premier turco non possa trovare giovamento nel leggere le pagine del volume di Goffredo Fofi La vocazione minoritaria, dove il critico italiano illustra, tra l’altro, che scopo delle minoranze è di mettere «zucchero negli ingranaggi, sperimentando modelli più sani, ed evitando che siano conquistati dall’autoconsolazione».

E allora potrebbe essere utile ricordare quelle parole di Churchill, «è un peccato non fare niente col pretesto che non possiamo fare tutto». È ovvio che i dissidi della Turchia con gli armeni, i greci, i ciprioti, i curdi non potranno essere sanati in un batter di ciglia, ma è altrettanto vero che una volta tanto un buon punto di partenza potrebbe essere rappresentato da un attimo di silenzio. Giusto il tempo di fare ammenda dei propri errori, prima di ricominciare. Basta poco.

Made in Italy: meno male che qualcuno sceglie il verde...


Da Ffwebmagazine del 19/03/10

C’è qualcuno che si è dimenticato del fallimento del vertice di Copenhagen, cioè la stragrande maggioranza dei paesi partecipanti. E c’è chi invece, in Italia, ha messo mano alle idee, e al portafoglio, progettando il futuro elettrico a quattro ruote privato, e uno solare nel servizio pubblico. No, non è la solita invenzione estemporanea che, dopo un paio di giorni di titoloni sui giornali, torna nell’anonimato. Si tratta di due segnali rigorosamente made in Italy, che si ripromettono di essere da guida a un comparto che dalla fase embrionale, dovrebbe passare al più presto a essere una vera e propria multirisorsa. Autonoma, strutturata professionalmente: l’industria verde italiana potrebbe non solo investire nella sopravvivenza dell’ambiente, ma ottenere un riscontro economico non da poco. E sono due gli spunti da cui iniziare.

Da rossa a verde il prodotto non cambia, anzi forse sì, perché cambia pelle nella veste e nelle intenzioni, conservando tutto il suo splendore, e perseguendo la salvaguardia dell’ambiente. Abbinando tecnologia da Formula 1 ad un motore di quaranta chili per metà elettrico, sfrutta nelle auto gran turismo il cosiddetto sistema kers, quel dispositivo progettato lo scorso anno dagli ingegneri del reparto corse capace di incamerare l’energia prodotta dalle frenate per poi usarla come spinta. È così che la nuova Ferrari 599 ibrida può viaggiare per brevi tratti grazie all’elettromotore con emissioni ridotte a zero. Ma quando si desidera la prestazione pura, è sufficiente pigiare il pedale dell’acceleratore così da impiegare simultaneamente i due propulsori.

Una rivoluzione, se si pensa che arriva da un settore, quello delle auto super lusso veloci da competizione, fino a oggi restio a uno stravolgimento simile. Ma che proprio a causa della tecnologia implementata per la F1, è riuscita a non sprecare tale bagaglio di conoscenze e di esperienze, impiegandolo per affrontare la sfida delle green cars. Si stima che entro quattro anni la tecnologia sviluppata per questo modello potrà essere applicata da appannaggio di altre vetture, con un peso specifico industriale non indifferente. Ma ancor di più testimonia la volontà di una grande fabbrica di idee e di uomini italiani che, dopo titoli mondiali e vittorie in pista, sta dedicando tempo ed energie a una sfida ben più complessa rispetto a quelle con cui era solita confrontarsi, come una pole position o un rapido pit stop: l’utilizzo di energie future.

Altro esempio di virtuosismo: a 188 chilometri a nord-ovest di Maranello, precisamente nel capoluogo lombardo dove si è pensato bene di progettare e attuare la prima linea di metropolitana d’Europa alimentata, anche se in parte, da energia solare. In virtù di una progettazione lungimirante sull’efficienza energetica, la Linea 1 meneghina potrà così ridurre le emissioni di settantamila chilogrammi di CO2 grazie a pannelli fotovoltaici installati sul tetto del deposito Atm di Precotto, un impianto di 23mila metri quadrati capace di produrre quasi un milione e mezzo di kilowattora annui.

Si tratta di due esempi di eccellenza tecnologica che dovrebbero rappresentare un punto di partenza e non di arrivo, coinvolgendo anche ambiti diversificati. Dal momento che ad oggi il mondo verde registra ancora progressi a intermittenza. Basti pensare al semplice fatto che il panorama delle energie rinnovabili è presente massicciamente nel quotidiano: vento, sole, acqua non mancano di certo nel nostro paese. Ma di pari passo sarebbe il caso di seminare una cultura eco-dinamica a trecentosessanta gradi. Che parta da reti cittadine di bus elettrici e di tram, con edifici di nuova costruzione già progettati in proiezione di ecosostenibilità, con navi e traghetti di nuova concezione, con stadi moderni. Con nuovi taxi elettrici, che possano fare rifornimento da centraline poste sui marciapiedi e contando sul sostegno di politiche industriali più verdi, che stimolino la salvaguardia dell’ambiente e la crescita di un settore industriale completamente dedicato al green.

Applicando magari all’energia il modello internet, ovvero una vera e propria rivoluzione dal basso. Come proposto dall’economista americano Jeremy Rifkin, nel suo ultimo libro La civiltà dell’empatia, che inquadra in una terza rivoluzione industriale l’ancora di salvezza. Con piccoli gesti legati alle abitudini di ciascuno che, in tempo reale, possono diventare dei mini manuali di sopravvivenza per il nostro ambiente. All’interno di quella cassa di risonanza mondiale che è la rete. Una sorta di unico contenitore con sette miliardi di cittadini, che insieme raggiungono la consapevolezza che ormai il tempo sta scadendo. E se si vorrà lasciare alle future generazioni città, campagne, mari e monti ancora vivibili, sarà il caso di stoppare la condotta di vita adottata sino ad oggi.

E allora che si proceda, che si sperimenti, che si innovi, e perché no, che si dia ascolto a quei versi di Samuel Beckett: «Ho sempre tentato. Ho sempre fallito, non discutere. Prova ancora. Fallisci ancora, fallisci meglio».

domenica 14 marzo 2010

E se ogni tanto spegnessimo la Tv e accendessimo la Rete?


da Ffwebmagazine del 14/03/10

Basta tv, adesso tutti sulla Rete. Non bastavano reality, piazze mediatiche, schiamazzi diurni sugli schermi televisivi nazionali. E passi per quel format di derivazione europea, passi per lo sfogo di Tizio contro Caio, passi per la storia di tradimenti giudicata dall’ennesimo televoto. Ma ascoltare un Sempronio, che di mestiere fa altro, duettare di banda della Magliana e Ior Vaticano, oppure di indici di Pil e derivati finanziari con addetti ai lavori e professionisti del settore, lascia quantomeno attoniti. E in seguito preoccupati. Non per una ipersensibilità alla feccia, sentimento che ormai di questi tempi chi lo incarna, se lo sente rinfacciare, tacciato di snobismo. Ma proprio per un senso del pudore celebrale, niente di più.

Tra le tante deficienze strutturali oggettive e acclarate, la televisione biancarossaeverde si auto squalifica con un’altra mossa fuori logica: riempire di nulla i salotti dell’informazione, quelle strisce dove si dibatte dei temi del giorno, ma che riescono a saltare con un’imbarazzante leggerezza dai misteri d’Italia al successivo amore estivo da gossip, dal numero dei licenziati in una grande azienda alla nuova ricetta per una Pasqua più dolce, con la giustificazione di voler alleggerire le tematiche. Alla faccia della leggerezza. Una sorta di limbo ebete, dove la liquidità delle parole e delle persone in simbiotica gaiezza perde di vista qualsiasi punto di partenza, di arrivo e, di conseguenza, anche di incontro. È come uno stormo di uccelli in volo perenne, noncurante di tratte aeree e perturbazioni, che dal cielo passa in terra e poi si sposta nel mare. Insomma un caos, o sarebbe meglio dire una bolgia. «Mi piace la televisione - disse una volta Robert Mitchum - soprattutto perché la si spegne facilmente».

Buffo che, mentre in questa assurda campagna elettorale si tacciono gli approfondimenti politici, al contempo di riempiano i palinsesti di finestre ripiene di cotanta pochezza. Con i protagonisti per nulla imbarazzati dal proprio non-sapere. Tutti uniti nel trionfo dell’accostamento allucinante, con soubrette che offrono il proprio punto di vista su temi abbastanza complicati. In un’overdose di tuttologia promiscua. È questa la risposta mediatica alle nuove sfide comunicative del terzo millennio? È su queste basi che si progettano le piattaforme informative per scavare dentro cause ed effetti di ciò che accade? Ma nessuno scandalo, da questa tivvù, almeno per il momento, è lecito attendersi di tutto. Proprio da certa televisione che mortifica le sperimentazioni, che emargina le idee innovative, che ridimensiona i dibattiti civili sostituendoli con la sagra dell’insulto permanente.

E che, insistendo cocciutamente su questa direttrice, perde di vista Le travi portanti dell’accesso alle notizie. Non che la si voglia caricare di eccessive responsabilità sociali, ma se circa il 65% degli italiani si forma un’opinione solo guardando la televisione, ecco che il suo ruolo irrimediabilmente cambia. E se l’opinione successivamente formata non è corroborata da sufficienti analisi specifiche e valutazioni complessive, diventa una convinzione a metà. Perché produce idee monche, conclusioni anomale, megafoni erronei. «La più grande minaccia alla libertà - diceva Louis D. Brandeis - è un popolo inerte». E, si potrebbe aggiungere, male informato.

È come se un atleta affetto da un’infiammazione al tendine, anziché rivolgersi a un ortopedico, si rivolgesse per la cura a un avvocato, o a un barista, o a un poeta. Tre professionisti certamente adeguati, ma agli ambiti in questione e non a quello richiesto inizialmente. Quale sarebbe la conseguenza? E allora forse sarebbe il caso di riflettere bene prima di offrire il microfono a chi forse è concentrato su altro. A torto o a ragione.

Niente drammi, però. La sofferenza di molti per un contenitore quadrato che spesso produce una specie di frullato di farneticazioni, può trasformarsi in un’occasione unica. La si spenga dunque quella scatola, quella cattiva maestra affetta da un esaurimento nervoso e di idee. Se non si riesce a cambiarla, a migliorarla, a depurarla della miriade di elucubrazioni strampalate pronunciate dalla svampita di turno, che la si chiuda, almeno per un po’, concedendole un periodo di vacanza. Trasferendo quello che ancora è rimasto alla preistoria della comunicazione direttamente nella Rete. Così come fatto in questi giorni di par condicio da Enrico Mentana. Vengono in mente quelle parole pronunciate da Indro Montanelli al cardinal Martini alcuni anni fa: «Ma non si può scomunicare la televisione, non si possono mandare al rogo un po’di quelli che la fanno?». Un modo ci sarebbe e, aggiungiamo, al posto del rogo si potrebbe inserire la parole “Rete”. Senza dubbio il risultato sarebbe migliore.

sabato 6 marzo 2010

QUANDO IL SILENZIO CONTA PIU'DI MILLE PAROLE


DA MONDOGRECO DEL 06/03/10

Diceva John Selden: “La cosa più saggia che si possa fare oggi è tacere”. Parole che forse tornerebbero molto utili a chi, ricoprendo un ruolo abbastanza rilevante nel governo tedesco, è arrivato in questi giorni a liquidare la crisi economica greca come un affare che potrebbe essere risolto vendendo il Partendone o le isole Cicladi. Si provi ad immaginare Mykonos, Santorini e Paxos in mano a qualche miliardario cinese, che al posto del ghiropita e dell’ouzo imporrebbero sulle tavole delle taverne riso e sachè. Una pernacchia, direbbe Totò.

Troppo facile replicare che, in occasione di una crisi futura dell’economia tedesca o del maggiore produttore automobilistico che peraltro ha già operato sostanziosi licenziamenti, loro potrebbero mettere su E-bay la Foresta Nera o Marienplaz a Monaco di Baviera. O ancor più facile, ma di una semplicità risibile, sostenere con una punta di elaborato orgoglio, che nessun paese al mondo, tranne l’Italia, possiede nel dna del proprio bagaglio storico ed artistico un bene come il Partenone. Per questo nessuna delle prossime righe intimeranno provocazioni in risposta alle provocazioni tedesche piovute in questa settimana. Ma cercheranno di suggerire alcune riflessioni che, almeno a freddo, appaiono indispensabili per ovviare ad un clima appesantito. Tralasciando il merito della soluzione contemplata da Berlino, resta non solo l’amaro in bocca per un’uscita indiscutibilmente fuori tempo e fuori luogo, ma la sensazione più generale di un sentimento di superiorità, dettato esclusivamente dal primato industriale europeo. Che rimane un dato incontrovertibile, ma stonato in questi anni difficili e complessi che avrebbero bisogno di unità e solidarietà.

Una supponenza che non giustifica la spinta a volersi distinguere a tutti i costi, a volte anche ignorando lo spirito europeistico in più occasioni perseguito da quell’Altiero Spinelli, non a caso citato come uno dei padri fondatori dell’Unione europea a causa della sua acclarata influenza sull’integrazione europea post-conflitti mondiali. Che cosa dovrebbero replicare i greci, allora? Richiedere indennizzi per le tante distruzioni operate all’indomani dell’armistizio? Riavvolgere indietro la pellicola della storia, facendo scorrere immagini raccapriccianti di morte e di ingiustizie? O forse potrebbero donare ai rappresentanti del Bundestag una copia del bellissimo film sul massacro di Cefalonia con Nicolas Cage “Il mandolino del capitano Corelli”, riproposto pochi giorni fa dalla televisione italiana, per soffermarsi ancora su di una strage assolutamente ingiustificata? Sarebbe la soluzione più facile, issando come un vessillo trionfante bandiere che portano ancora vivi i segni di quei drammatici anni. Ma sarebbe anche una mossa speculare, perdente perché aspra. Come la boutade tedesca.

Varrebbe invece la pena di scomodare il buon Seneca, e non per un mero campanilismo ellenico, che ovviamente, potrebbe contestare qualcuno, non vive un buon momento in questi mesi. Ma per far comprendere come talvolta chi conserva la certezza di possedere il verbo del vero, sempre e subito, farebbe bene a confrontarsi con uno specchio dalle dimensioni maggiori. E vediamo cosa diceva Seneca. “Il comando più difficile è comandare se stessi”. “Molti uomini avrebbero potuto raggiungere la sapienza, se non avessero presunto di esservi già giunti”. “I mali che fuggi sono in te”. Lungi da voler innescare un dibattito filosofico. Ma si tratta di aforismi che non hanno certo bisogno di altri commenti. E sarebbe bello poterli inviare agli amici tedeschi, o magari farli sventolare su uno striscione appeso proprio in cima al Partenone. “Il vero paese- diceva Giorgio Ambrosoli- è quello che ci costruiamo col nostro lavoro”. E la Grecia dal 1945 in poi in parte lo ha fatto. Con coraggio, col sacrificio dei suoi cittadini, con gli errori dei suoi governanti. Ma detto questo non si comprende dove vogliano arrivare gli schizzi di fango provenienti da Berlino.

E’acclarato che una politica di puro assistenzialismo, che nessuno ha chiesto, non potrà che impedire sviluppi concreti per il futuro ellenico, ma sarà necessario strutturare da zero un sistema di welfare, di bilance finanziarie, di contrappesi legislativi, di lotta alla corruzione ed alla speculazione. Questa sarebbe dovuta essere la risposta di uno dei pilastri dell’Unione Europea. Una risposta analitica, ponderata e possibilmente risolutiva. “Se si perde la battaglia delle parole- ammoniva Gorge Bernanos- si perde la battaglia delle idee”. Il tempo per fare marcia indietro, c’è ancora.

venerdì 5 marzo 2010

Il rilancio del Sud è la politica della legalità

Da Ffwebmagazine del 05/03/10

O torna il primato della politica, che si fa eticamente responsabile, o il sud vedrà ridursi le possibilità di rinascita. E non solo, le classi politiche meridionali non devono rifugiarsi dietro all'alibi del Mezzogiorno come "questione nazionale" ma devono assumere piena consapevolezza del loro ruolo. Così Gianfranco Fini, chiudendo a Napoli il convegno bipartisan promosso dalle fondazioni Farefuturo e Mezzogiorno Europa “Per una buona politica nel Mezzogiorno, per un profondo rinnovamento delle classi dirigenti”. Secondo il presidente della Camera sta scadendo il tempo per elaborare proposte e alternative, dal momento che è a rischio la coesione nazionale. Per questo occorre dimostrare che la politica, quella buona, ha interesse per l’intera comunità e solo in questi termini potrà apportare benefici a un sud a cui nessuno verrà in soccorso. Quindi no all’assistenzialismo, sì alla responsabilità di chi la cosa pubblica muove e pensa, all’interno di una nuova questione dai tratti pedagogici. Perché deve dare a se stessa l’ambizione di avere un respiro lungo e di essere intrisa di passione civile.

Il sud Italia attira meno investitori del Bangladesh, ma al contempo registra un interscambio nazionale nel Mediterraneo per più di 40 miliardi di euro. Cosa fare, dunque? Quale discontinuità applicare? Quale revisione dei meccanismi di interesse pubblico? No a un meridionalismo fatto di analisi sterili e progetti sulla carta, figlio di una politica troppo spesso più testimonianza che azione vera. Più incentivi invece a un nuovo slancio per un Mezzogiorno che, alla vigilia del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, superi una lettura eccessivamente economicistica ma guardi alla cultura e alla società. Il monito di un maggior sviluppo per il meridione all’interno di una inscindibile unità, contenuto nel messaggio del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ha rappresentato la stella polare del convegno bipartisan, a cui le due fondazioni hanno presentato un documento comune basato su tre punti: miglioramento della qualità delle istituzioni, contrasto all’illegalità ed al sommerso, sostegno al capitale umano.

Come ha ricordato il segretario generale di Farefuturo, Adolfo Urso, non bisogna rassegnarsi a un destino negativo per il Mezzogiorno, ma si può impedire quel declino utilizzando al meglio il triennio che ci attende. Quello della legislatura nazionale, del governo centrale e dell’ultima tranche di finanziamenti europei. «Sino a ieri il sud viveva all’interno dei confini nazionali - ha detto -. Con l’allargarsi degli spazi i capitali viaggiano rapidamente dalla Cina agli Usa, ma così si restringe il tempo, quindi la velocità diventa fondamentale». E poi sfruttare le celebrazioni per l’Unità d’Italia, non come un elogio della decadenza del meridione, ma come riconoscimento di coesione della nazione, che più volte è stata minacciata nella sua interezza.

In questo, la prima criticità è rappresentata dalla cosa pubblica che, se ammodernata, potrebbe divenire la chiave di volta delle riforme. Lo ha ribadito Sandro Amorosino, docente di diritto pubblico alla Sapienza di Roma, secondo cui sarebbe necessario ridurre l’intermediazione pubblica senza sottrarsi alla trasparenza e alla tracciabilità. E soprattutto razionalizzare la miriade di conflitti di competenze che si sono instaurati tra Regioni e Stato centrale all’indomani della riforma del titolo V della Costituzione, che di fatto rappresentano un rallentamento della macchina burocratica già di per sé appesantita.

Una burocrazia che non può fare a meno della legalità. Senza di essa non vi sono le premesse per recuperare quel capitale umano vera risorsa aggiuntiva, ha sostenuto Roberto Pasca, docente di economia politica alla Sapienza. Sarebbero sufficienti poche regole, ma certe, che rendano più fluido il rispetto della legalità. Secondo Pasca l’insegnamento civico venga elargito prima dell’etica, impiegando i nuovi mezzi di comunicazione, in quanto sarà la base della vita quotidiana, e non per «essere secchioni, ma per consolidare le fondamenta della società». In secondo luogo, eliminare il doppio coordinamento di comuni e province per l’istruzione secondaria, premiando quegli atenei che offrano un collegamento reale con il mondo delle imprese. Infine, combattendo l’inefficienza, dal momento che al sud due terzi della popolazione non si fida delle proprie istituzioni e al contempo cerca strade alternative, non sempre di primario indirizzo.

Rammentando che il mancato funzionamento della giustizia civile produrrà inevitabilmente l’allontanamento di nuovi investitori. Con un danno inestimabile per i prossimi decenni. Senza contare che un sistema-sud veramente funzionale avrebbe il doppio vantaggio di estendere i benefici al territorio. E non solo per il tempo necessario al finanziamento europeo di turno, ma per fare un passo in più, ha sostenuto Lorenzo Zoppoli, docente di diritto del lavoro all’Università Federico II di Napoli. Si pensi per un attimo a quali scenari si aprirebbero se si smettesse di attendere i fondi europei concependoli come la soluzione unica alle numerosi questioni. Strutturando invece una mente amministrativa complessa, capace di fare tesoro di quegli stanziamenti e non per il contingente, ma piuttosto per investire in programmazione e proposte rivolte al futuro. Chiedendosi perché mentre il Mezzogiorno cresce dello 0,3%, le altre aree sottosviluppate europee del 3%.

Darsi delle regole per le aziende sane, quindi, per rafforzare la legalità, cancellando quella zona grigia che produce concorrenza sleale restringendo il libero mercato. Senza dimenticare un altro fattore, forse fino a oggi sottovalutato: quello della concorrenza. L’asse composto dalle macroregioni del nord Europa vanta infatti un tasso organizzativo ed economico oggettivamente maggiore rispetto al sud che, nonostante l’invidiabile posizione di molo naturale nel Mediterraneo, non ha sfruttato come avrebbe potuto il fattore geopolitico, come denotato da Giancarlo Lanna.

Sono quei soggetti che si muovono nel campo dello sviluppo e dell’internazionalizzazione che hanno il compito gravoso di pensare a più fasi una politica di sistema. Tenendo ben presente le filiere, i nuovi snodi infrastrutturali come il Corridoio VIII e quella voglia di riscatto sociale che deve emergere, ma senza innalzare il Pil come unico parametro del benessere. Il tutto tenuto insieme dalla responsabilità delle classi dirigenti del Mezzogiorno, che poi è - come hanno sottolineato i due direttori Mario Ciampi e Ivano Russo - il punto nodale del documento congiunto prodotto dalle due fondazioni.