mercoledì 22 maggio 2013

Addio all’Internazionale socialista, nasce la nuova casa dei progressisti


C’è chi l’ha già preventivamente salutata come “una buona notizia per Guglielmo Epifani e per noi tutti” (Pierluigi Castagnetti su Europa). Ma la chiusura di fatto dell’Internazionale socialista non contiene ancora al proprio interno le risposte (moderne) alle nuove sfide della politica europea e mondiale. Anche se potrebbe contenerle, ma a patto che si cambi copione e attori. Tra pochi giorni, il 23 maggio, muoverà i primi passi l’Alleanza dei progressisti, una sorta di Internazionale 2.0. nata dalla volontà di cinquanta partiti fra progressisti, democratici, socialdemocratici, socialisti e laburisti e su iniziativa della Spd.

Il nuovo contenitore avrà il compito di modernizzare quella “casa comune” guidata per tre lustri da Willy Brandt. A cui hanno già manifestato l’adesione i socialisti francesi e anche il Pd italiano (anche se in un silenzio incomprensibile). La sensazione è che a mollare la vecchia Internazionale sia stata direttamente la Germania, complice il centocinquantesimo anniversario della Spd che cadrà il 23 maggio. E quale occasione migliore per un restyling nei contenuti e nelle forme?Ma l’accelerazione è dovuta, non solo al fatto che i tedeschi ne sono i maggiori azionisti, bensì perché forse proprio da Berlino e dai rigurgiti anti sistema che lì stanno prendendo forma, sta progressivamente maturando la consapevolezza che non sarà inforcando lenti del novecento che si potranno offrire risposte a problemi diversi rispetto al secolo breve. Dove il capitolo, ad esempio, dei diritti è intrecciato magmaticamente a quello della libera impresa, su cui “veglia” il sistema bancario complessivo di un continente. Sul quale occorre ragionare questa volta sì con una visione globalizzata, pesando le conseguenze mondiali – e non solo dei singoli continenti – di provvedimenti e decisioni, così come l’anno appena iniziato è stato foriero (si veda la primizia del prelievo forzoso dai conti correnti a Cipro). 

Immaginare una nuova piattaforma dei progressisti che siano aperti a innovazioni e cambi di passo nel merito di decisioni utili e non comode all’ideologia o alla prossima elezione, dovrebbe essere la direttrice di marcia della nuova realtà.Anche per scacciare le ingombranti ombre di personaggi scomodi che nell’Internazionale socialista hanno gravitato nel corso degli ultimi anni, come il nicaraguense Daniel Ortega, il partito di Moubarak, o l’ivoriano Laurent Gbagbo quest’ultimo accusato niente meno che dalla Corte penale internazionale. Ma il dado, se giocato bene e in una combinazione vincente, potrebbe in un colpo solo produrre due vantaggi strategici: democratizzare politiche evidentemente sbilanciate a sinistra, tali in quanto figlie di tipicità geopolitiche; gettare le basi per un dialogo permanente con l’altra metà della “mela” politica del pianeta.Iniziando ad arare un terreno comune nel quale far germogliare un dialogo serio e ragionato sulle grandi questioni di pubblico interesse. Le stesse che in questi dodici mesi sono state inserite nel paniere dell’eurocrisi di cui la troika si è occupata con tanto zelo. Ma senza purtroppo l’ausilio costante di una visione globale dei pro e dei contro.

Fonte: Formiche del 21/5/13
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Effetto Troika su Atene, al via investimenti cinesi con lo sconto sul costo del lavoro


Ferrovie cinesi già al lavoro per strutturare le nuove reti di trasposto locali, multinazionali interessate agli scali aeroportuali regionali in un’ottica di trasporti aerei rapidi ed economici come negli Usa, l’idea di realizzare in Grecia una nuova vetrina informatica “europea” delle dimensioni della Hewlett Packard e la presenza della cinese Cosco nei cinque nuovissimi moli container nel porto di Pireo, oltre a cento battelli di ultima generazione che Atene acquisterà da Pechino. Sono i primi risultati del viaggio di affari intrapreso in oriente dal premier ellenico Antonis Samaras. Nella settimana dedicata a Pechino e a Baku a caccia di investitori, i numeri spiegano meglio di analisi e di commenti cosa ci guadagna la Grecia da una colonizzazione cinese e quanto i cittadini. Il Die Welt, dopo la Bild, si è addirittura spinto a definire Samaras l’uomo che ha condotto la Grecia del “Grexit” dall’euro a una permanenza più tranquilla. Ma a quale prezzo?

Il primo ministro ha assicurato che la Cina investirà oltre 250 miliardi di euro in Grecia, per via di un’economia finalmente estroversa e tarata su un programma di 28 privatizzazioni. “Il nostro mondo sta cambiando – ha detto lasciando Pechino e atterrando a Baku per la seconda tappa di questo tour commerciale – la Cina esporta in tutto il mondo, la Grecia è un membro dell’Ue e può diventare la porta d’ingresso per promuovere i prodotti cinesi in Europa”. Aggiungendo che la Grecia è la prima potenza marittima del mondo, tra l’altro proprio più di 100 navi sono greche attualmente in costruzione nei cantieri navali della Cina a costi non ancora quantificati. Ma al di là delle affinità tra Socrate e Confucio (“vissero all’incirca nello stesso tempo” ha detto Samaras presentandosi al meeting di sviluppo elleno-cinese, promosso dal governo di Pechino), incoraggiano i 400 milioni di turisti cinesi nel mondo di cui il 5% è previsto che farà tappa in Grecia. Su questa consapevolezza il governo di Atene ha studiato delle misure ad hoc, come una app per gli i-pad in lingua cinese disponibile per crocieristi e per i visitatori orientali, oltre a facilitazioni per quanto concerne i visti.

Ma il piatto forte degli accordi siglati si ritrovano nel campo delle infrastrutture e dell’informatica. Pechino si inserirà con prepotenza nel sistema ferroviario e aeroportuale greco. In prima battuta parteciperà, con l’intenzione di vincere, alle gare per l’aggiudicazione della privatizzazione delle ferrovie greche, in secondo luogo, come una sorta di operazione a tenaglia, investirà sugli aeroporti. Ma non solo su quello internazionale di Atene, il cui 33% è stato appena ceduto alla multinazionale canadese Hochtief, bensì rilevando i tredici scali regionali presenti su tutto il territorio greco e utilizzandoli (almeno queste sarebbero le intenzioni secondo fondi ministeriali) come gli scali statunitensi, con costi bassi e rapidità di spostamento e in un’ottica tarata sull’attrattività turistica destagionalizzata. Il punto di domanda è quanta percentuale di questo benessere ricadrà sui cittadini, dal momento che le nuove leggi sul costo del lavoro previste dal memorandum della troika hanno abbassato salari e welfare: di fatto un incentivo solo per chi investe.

Si aggiunga che la cinese Cosco ha già in mano i cinque nuovissimi moli containers che saranno sviluppati nell’imponente porto del Pireo, utilizzandolo come l’hub cinese verso il mercato europeo. Capitolo informatica: la Huawei e la ZTE sono due delle maggiori realtà high-tech del pianeta e sono cinesi. La prima ha un giro di affari di 35 miliardi di dollari e che in tre anni lieviterà fino a 70. Entrambe punterebbero a creare in Grecia un centro logistico come la Hewlett Packard. Rilevante il margine esistente nel settore marittimo, con opportunità che si aprono al 60% nel campo petrolifero e al 50% delle importazioni cinesi gestite da navi di proprietà greca. In parallelo, ben 146 sono le navi greche costruite in questo momento nei cantieri cinesi. Sotto l’Acropoli e nelle isole Cicladi quest’anno sono attesi migliaia di cinesi, ma non saranno solo turisti in cerca di souvenirs o di spiagge mozzafiato. Molti i magnati cinesi che ormai guardano all’Egeo come piattaforma di investimenti e di logistica verso l’Europa.

Fonte: Il Fatto Quotidiano del 21/5/13
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mercoledì 15 maggio 2013

Grecia, la crisi migliora secondo Fitch ma crescono dubbi e “macerie” sociali


E’ come la tela di Penelope, tessuta di giorno e disfatta di notte. Mentre da un lato sulla crisi greca si registrano due tiepide aperture, Fitch rivede al rialzo il rating di Atene portandolo da ‘CCC’ (ad alto rischio) a ‘B-’ (altamente speculativo) e il Paese vede ribassato il tasso di interesse che deve pagare per ottenere dagli investitori i soldi necessari, dall’altro sul campo restano solo “macerie”: sociali e finanziarie. Come la disoccupazione giovanile che sfiora il 60%, le tasse non pagate e gli episodi, sempre in aumento, di cittadini che non pagano la spesa. Con il rischio “carcere” in agguato.

In dettaglio, l’agenzia di rating, nel giorno dell’Eurogruppo ha riscontrato “chiari progressi nell’eliminare il doppio deficit, fiscale e corrente”, mentre “la svalutazione interna ha iniziato a prendere piede”. Evita però di certificare che, fisiologicamente, la prima conseguenza è una mannaia che si abbatte sul ceto medio e medio-basso, con una sforbiciata di un quarto a pensioni, stipendi, indennità. Come dire che sono stati i cittadini a pagare per il risultato del 2013, quando da gennaio a marzo c’è stato un primo avanzo primario, la ricapitalizzazione delle banche è stata conclusa, due privatizzazioni come Opap e aeroporto di Atene sono andate in porto (tra dubbi di presunti favori e oligarghi onnipresenti) e da Bruxelles è arrivato il nulla osta alle due tranche di prestiti da 7,5 miliardi complessivi che saranno versati entro giugno. Inoltre il Paese vede ribassato il tasso di interesse che deve pagare per ottenere dagli investitori i soldi necessari. Secondo l’agenzia di gestione del debito 1,7 miliardi dollari sono i crediti ceduti a un tasso di interesse del 4,02 per cento: si tratta del tasso più basso dal mese di aprile 2011 e il secondo più basso in 28 aste equivalenti dall’inizio dell’anno.

Ma al di là di cifre, indicatori e gradimenti da parte dei creditori internazionali, il vero terreno di scontro è lì, dove il default sociale c’è già. Numerosissimi sono i cittadini ellenici che non hanno pagato la famigerata tassa sulla casa, i karadtzi. Per cui lo Stato ha pensato bene di inserirla nella bolletta elettrica, così che ai morosi è stata tagliata perfino la luce nel proprio appartamento. Ma non è tutto, perché un disegno di legge al vaglio del Parlamento prevede di punire con il carcere i cittadini che hanno maturato debiti con l’erario. E non ad esempio i grandi evasori della Lista Lagarde, su cui ancora troppe nubi si addensano, con uno dei presenti in quell’elenco, Stavros Papastavrou, che affianca ancora il premier Samaras (in partenza per Cina e Azerbaijan in cerca di investitori) come principale consulente economico. Ma i cittadini normali che, per un debito quantificato tra i mille e i cinquemila euro, rischiano il carcere. E per debiti superiori a 200mila euro il carcere da misura temporanea si potrebbe tramutare in provvedimento definitivo, che nemmeno la restituzione del non pagato potrebbe azzerare.

Inoltre oggi ad Atene e nelle maggiori città sedi universitarie (Salonicco, Patrasso, Iraklion, Ioannina) sarà una giornata di mobilitazione e scioperi da parte degli insegnanti, preoccupati per tagli agli stipendi, a cui però il governo, vista la concomitanza con gli esami di Stato nel Paese, ha risposto con la precettazione. Insomma, chi sciopererà ugualmente rischierà il carcere. E con il caso di un’aula dei professori dell’isola di Chios, dove alcuni agenti di polizia hanno fatto irruzione ieri proprio perché quei docenti si preparavano alla manifestazione di oggi, per cui ad Atene è prevista una forte mobilitazione da parte delle forze dell’ordine. Indignati i sindacati, secondo cui “questa negazione di diritti consente al governo di procedere alla pura repressione contro la nostra categoria”, recita una nota. E per le strade della capitale torna la rabbia della gente come nei giorni della visita del Cancelliere Angela Merkel.

Fonte: Il Fatto Quotidiano del 15/5/13
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sabato 11 maggio 2013

La grande bufala della fine dell’austherity


“Non devi mai piegarti davanti ad una risposta – diceva il filosofo norvegese Jobtein Gaarder – una risposta è il tratto di strada che ti sei lasciato alle spalle, solo una domanda può puntare oltre”. Per capire, scartavetrare la patina di pressapochismo che, beata, pasce in superficie e impedisce di approfondire direttrici di marcia e scelte. Un qualcosa di perverso e di anomalo sta accadendo nel triangolo Bruxelles-Berlino-XX Settembre (sede del ministero dell’Economia). Come se qualcuno avesse deciso di giocare a rimpiattino senza avere né assi nella manica né un piano B. Quando l’Ue certifica che l’Italia uscirà dalla procedura se effettuerà le riforme, dice un’ovvietà e passa la palla al neopremier Letta. Il cui discorso per la fiducia alle Camere, nonostante sia intriso di un incoraggiante kennedismo e di numerosi buoni propositi, fino ad oggi si è scontrato con un silenzio nel merito delle coperture finanziarie. I segni di ripresa per il belpaese non ci sono, anzi, come molti osservatori finalmente iniziano (solo ora?) a rilevare, la crisi “italiana” è solo all’inizio e potrebbe purtroppo avere riverberi ben più gravi di quelli visti fino ad oggi. Senza per questo essere tacciati di disfattismo o pessimismo tout court: è sufficiente scorrere i dati Istat, scambiare due chiacchiere con commercianti, lavoratori, liberi professionisti per avere un quadro esauriente. 

L’Ocse ci ha ricordato che la priorità per inseguire la ripresa è tagliare le tasse sul lavoro, ma il patto elettorale Pd-Pdl impone al primo posto del programma di Palazzo Chigi il caso Imu. Su cui, al di là delle schermaglie degli ultimi giorni con annesse minacce di far cadere l’esecutivo neonato, esiste un reale nodo rappresentato dai numeri. La svolta rappresentata da una manovra-tampone per scongiurare l’odiata imposta sugli immobili di giugno e l’aumento dell’Iva (due retaggi del governo dei tecnici che alla ripresa non hanno dedicato una sola proposta) puzza di vecchio. Quando, per ovviare a conti che non tornavano e a condutture che perdevano acqua in abbondanza, si faceva ricorso a una manovrina. Con il risultato di aggiungere tasse su tasse.
E non inganni la risposta positiva delle Borse, in quanto è una fisiologica reazione ad una burrasca, data da un paese dell’Ue senza governo da due mesi, temporaneamente interrotta. Il dato è che il macro debito pubblico italiano, come una falda che si scontra con un’altra, si sta accavallando a decenni di non riforme, alla sofferenza di imprese e lavoratori per licenziamenti, Irap e costo del lavoro e alla congiuntura internazionale che si chiama assenza di commesse. Quando due colossi italiani come Feltrinelli e Natuzzi, in due campi diversissimi, ricorrono ai contratti di solidarietà e alla cassa integrazione in quanto mancano le richieste ai rispettivi prodotti finiti, c’è poco da stare allegri. Né può essere sufficiente un decalogo generico di buoni propositi.  Il premier Letta ha iniziato il suo blitz europeo da Berlino. Anche se non è questo il momento più adatto per sollevare polemiche sul fatto che sia andato in udienza prima dalla Cancelliera Merkel e successivamente da Barroso, il dato che colpisce è la conferenza stampa congiunta dei due. Dove ancora una volta non si è entrati nel merito dei provvedimenti.

Si scorge, tra le ipotesi di copertura, un anticipo della Cassa depositi e prestiti. Ma, c’è da chiedersi, è realistico procedere nel buio più pesto ricorrendo ad un altro prestito per percorrere pochi metri? Ciò che occorre realmente è un cambio di passo, come ci si sarebbe aspettato da Letta nell’incontrare frau Angela. Battendo i pugni sulla rinegoziazione dei limiti europei, facendo “rete” con gli altri ammalati gravi Rajoy, Hollande, Cameron (sì, soffre anche il Regno della Regina che non abdica) e non tranquillizzando chi ha scelto per tutti il rigore a tutti i costi senza rendersi conto che il contagio greco è già avvenuto e che senza rischio non c’è futuro. Con buona pace della Bundesbank. In un passaggio (e purtroppo solo in uno) Letta ha scoccato una mini frecciata a Berlino, quando ha sottolineato che l’impasse riguarda tutti. Ma poi avrebbe dovuto aggiungere una postilla al piccolo sasso lanciato nello stagno della Baviera: che è proprio da quelle sabbie mobili che serve marcare le distanze per venirne fuori, dal momento che proseguendo solo su tasse per tutti, mancato accesso al credito per le imprese, visioni dal corto respiro per esodati e cassintegrati, il risultato non sarà certo un paese migliore, con prospettive incoraggianti e con cittadini soddisfatti. E già qualcuno inizia a borbottare sul fatto che al timone dei rapporti con l’Ue sia rimasto il montiano Moavero, quasi a garanzia dei provvedimenti figli dell’ultimo anno.

Le direttrice di marcia illustrata dal neo premier alle Camere “costa” dieci miliardi di euro (come minimo), tra Imu, cassa integrazione in deroga e dossier esodati. Sarebbe un peccato illudere ancora una volta gli italiani, quando invece oltre alla convergenza e alla larghe intese servirebbe una tonnellata di onestà e trasparenza. A anche un pallottoliere grande così. Per evitare che il giorno dopo il ministro delle Finanze, il banchiere d’Italia Saccomanni, sia costretto a correggere il tiro così come ha fatto. Prima ha annunciato dodici miliardi di investimenti, su cui ovviamente non si può che rallegrarsi, ma aggiungendo un elemento che suona come un allarme: su esodati e cig niente improvvisazioni. Ovvero che non c’è spazio di manovra, a fronte di una situazione che lo stesso Tesoro si affretta a definire positiva (“Finanze sane”). Mentono sapendo di mentire, dunque? Che il deficit-Pil al 3% sia un limite invalicabile per non mettersi a braccetto di Spagna, Grecia e Cipro è un dato di fatto talmente evidente che non occorre la sottolineatura di XX Settembre. Troppe medicine, ammoniva Ascleopios, avvelenano anche il miglior paziente. Il malato Italia è in buone mani?

Fonte: Gli Altri settimanale del 10/5/13
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mercoledì 8 maggio 2013

Il Pd e l'eterno vicolo cieco della sinistra italiana


Ripartire dall'idea del Lingotto. No, meglio una segreteria di transizione, anzi, è tutto inutile perché la fusione a freddo Margherita-Ds non è riuscita. Benvenuti alla “maionese impazzita” che sta andando in scena in questi giorni al Nazareno, dove le direttrici di marcia per uscire dalle sabbie mobili del post-Bersani, tentando di far digerire alla base l'alleanza del governassimo, sono molteplici. E diversissime fra loro. Inizialmente, quando il governo Letta emetteva i primi vagiti, si era pensato che con il giovane nipote di Gianni a Palazzo Chigi, alla segreteria del Pd fosse il tempo del rinnovamento nel segno di Matteo Renzi. Troppo forte la tentazione di spazzare via la concorrenza “sinistra” del partito, escludendo dalemiani e sindacalisti vicini alla Cgil. Ma, a pochi giorni dal varo dell'esecutivo e da nuove consapevolezze che, in alternativa ai soliti schemi, stanno maturando nel Paese (e non solo nel partito), i giochi sembrano tutt'altro che fatti. Con la parola d'ordine che si chiama incertezza. 

Accanto ai nomi nuovi di Cuperlo e di Epifani circolati nelle ultime ore, ecco la lista allargarsi a Chiamparino, Chiti, e oggi anche a Finocchiaro e Speranza (il neo capogruppo bersagliano alla Camera). Perseguendo, nei fatti, la stessa direttrice di sempre, ovvero il fazionismo intestino che ha caratterizzato il Pd sin dalla sua nascita. Lo ha ben spiegato ieri dalle colonne di Formiche.net uno che di trattative analitiche se ne intende, Umberto Ranieri, presidente della Fondazione Mezzogiorno-Europa, ma soprattutto dirigente storico di Pci-Ds-Ulivo e ora del Partito democratico. Quando ammonisce che il punto di (ri)partenza non deve essere individuato né nel centrismo, né nel sinistrismo, centra in pieno l'obiettivo futuro del Pd. Ovvero delineare una ripresa di iniziativa politica nel suo complesso senza interrogarsi sulla provenienza dei compagni di viaggio o sul pedigree degli stessi. La consapevolezza che dovrebbe maturare a questo punto della vita dei democratici è che la ferita dei 101 franchi tiratori è aperta, e ancora per molto lo sarà: e su questa linea cogliere l'occasione di quelle bruciature per ridisegnare un contenitore moderno ed europeo. Ma chiarendo dall'inizio mete e percorsi.

In questo pertugio va inserita la dialettica sul modus operandi invocata a gran voce da Matteo Renzi, certi che la modernizzazione di un partito che vuol essere riformista, liberale e innovatore non può passare da elaborazioni indolore o da scelte silenziose. Ma ha l'obbligo morale di potare quei rami che, fisiologicamente, non producono fiori. Qualcuno nelle scorse settimane si è spinto a ipotizzare una scissione nel Pd: con una ridefinizione di forme e massa politica. Da un lato un contenitore democratico e liberale trainato da Renzi (e con alle spalle Passera), dall'altro una cosa di sinistra con Vendola e Barca. La sensazione, però, è che si navighi ancor a vista. Con il rischio, per chi si aspetta chiarezza dall'assemblea del prossimo 11 maggio, di restare ancora una volta deluso.

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martedì 7 maggio 2013

La Grecia privatizza, ma all’asta si presenta solo il miliardario ceco Smejc


In porto la prima privatizzazione greca: è quella relativa al Totocalcio ellenico, l’Opap. Se lo aggiudica per 652 milioni l’unico gruppo che presenta un’offerta, il fondo Emma Delta, capitanato dal miliardario ceco Jiri Smejc e dal magnate greco George Melissanidis (fondatore e proprietario di Aegean Marine Petroleum). In modalità secondaria entrano nell’acquisizione anche la famiglia greca dei Copelouzos e una affiliata dell’italiana Lottomatica. Ma mentre il ministro dell’economia Yannis Stournaras (nella foto) parla di successo finanziario per le casse dello Stato, gli oppositori del Syriza gridano allo scandalo e accusano di svendita. L’Opap ha un fatturato annuo di circa 150 milioni di euro, su questo fanno forza i critici per osservare come il prezzo spuntato sarà ammortizzato in soli quattro anni di esercizio, quindi molto vantaggioso per l’acquirente. Si aggiunga al fatto che oltre a Delta non si è presentato nessun altro acquirente. E alcuni osservatori puntano il dito contro le influenti amicizie dei protagonisti dell’affare. 

A capo del fondo Emma Delta, istituito appositamente per comprare Opap, c’è il miliardario ceco Smejc, non nuovo ad investimenti in Grecia, visto che è presente in loco dal 2004 con l’acquisto del 34% della TV Nova Group. Nello stesso anno entra a far parte del gruppo PPF, fondato nel 1991 dal suo caro amico Petr Kellner, membro del cda di Generali (fino a poche settimane fa) e uomo più ricco della Repubblica Ceca con un patrimonio stimato da Forbes di 7 miliardi raggiunti a soli 47 anni. Smejc è anche socio della Bank of Piraeus, di cui nel 2011 ha acquisito il 5,7% pagando 1,10 euro ad azione. Ma il giorno successivo il titolo crollò a 0,165 euro ad azione, con il conseguente smottamento finanziario degli istituti bancari ellenici. Inoltre partecipa insieme al GEK Gruppo TERNA al concorso di acquisto del Hellenic Gas Transmission System oltre ad essere, secondo alcune indiscrezioni di stampa, il leader assoluto di nuovi investimenti nel campo della gestione dei rifiuti e delle fonti di energia rinnovabili: in Grecia i negoziati si fanno con lui. 

Ma a destare interesse, più che il legame solido con l’Ellade di Smejc, sono le sue frequentazioni. Petr Kellner, per i non addetti ai lavori, sembrerebbe un nome sconosciuto. Invece è l’ottantanovesimo uomo più ricco del pianeta, è ceco come Smejc e con lui ha condiviso le fortune del fondo PPF, da cui lo scorso 28 marzo Generali ha perfezionato l’acquisto del 25% al prezzo di 1,286 miliardi di euro. E Kellner, numero uno del gruppo ceco, ha formalizzato le dimissioni dal cda del Leone. Contestualmente all’operazione, Gph ha ceduto a PPF le attività assicurative in Russia. Il perfezionamento della seconda tranche dell’acquisizione, pari al restante 24% di Gph, è previsto a fine 2014 .

Con un patrimonio pari a 7,6 miliardi di dollari, ma con solo una foto pubblicata dalla stampa internazionale, Kellner è l’uomo che incide non poco sugli investimenti privati del vecchio continente. Se l’Europa centrale “respira” è anche grazie ai suoi spostamenti finanziari nei settori del credito al consumo, dei servizi bancari e delle assicurazioni, dove opera il fondo. Il Gruppo PPF gestisce fondi superiori ai 10 miliardi dollari e nasce quando nel suo paese si decide di privatizzare. Opera con i suoi sodali quali Milan Vinkler e Petr Joudal, che hanno posto materialmente le basi finanziarie del Gruppo PPF, anche se i media cechi riferiscono oggi che il vero jolly iniziale sia stato nelle relazioni d’affari con la classe politica ceca che ne avrebbe facilitato i piani aziendali. Buoni e proficui i rapporti con Mosca, dove dal 2008 ha il 29,9% nella banca Nomos, mentre il gruppo Generali, proprio grazie a PPF, starebbe preparando una collaborazione con VTB, la seconda banca in Russia. 

La sua “base” in Grecia è una villa-fortezza nell’isola di Paros (progettata dal famoso architetto Pleskott) che raggiunge a bordo del suo Gulfstream 500, di nome Kane. Alcuni analisti finanziari arrivano a spingersi sulle affinità esistenti con il magnate russo Dmitry Evgenevich Rybolovlev. Che un mese fa si è aggiudicato un affare fino ad oggi impossibile, acquistando Skorpios, l’isola di Onassis per quasi 200 milioni di euro grazie all’intermediazione di un grosso studio legale cipriota, dove i russi sarebbero “di casa”. Tra l’altro l’oligarca, proprio come Smejc, aveva perso molto denaro in una banca, in qualità di socio della “bad” Bank of Cyprus con il 10% dell’istituto oltre a consistenti risparmi depositati nell’isola quasi fallita. E come il collega ceco si è rifatto alla prima occasione utile.

Fonte: Il Fatto Quotidiano del 4/5/13
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