giovedì 30 aprile 2009

FIORELLA M'ANNOIA

da FFwebmagazine del 30/04/09

Dunque, Fiorella Mannoia, di professione cantautrice, ci ha deliziato con un verso non propriamente musicale, ma dall’alto contenuto demagogico, intervenendo a un incontro con il candidato sindaco piddì al Comune di Firenze, Matteo Renzi: «Sotto il sindaco Veltroni Roma respirava un’aria di apertura, di accoglienza – ha detto all’Ansa –. Con Alemanno, invece, si respira violenza, ostilità, e questo succede perché i cittadini tendono sempre ad assomigliare a chi li amministra».

Sarà forse la cornice da campagna elettorale, sarà la primavera che un po’ annebbia idee e concetti, ma, stando al ragionamento proposto a noi comuni mortali, la deriva comportamentale dei cittadini scaturirebbe nientemeno che dalla somiglianza con chi gestisce l’amministrazione? Abbiamo sentito bene? Il sindaco di Roma sprizza da tutti i pori violenza e ostilità?
Se dessimo credito a questa ardita tesi, per esempio, il giallo di Garlasco dipenderebbe dalla vena omicida del suo sindaco? Oppure gli scontri nelle banlieue parigine sarebbero direttamente proporzionali alla folle caratura del presidente Sarkozy? O forse l’omicidio di Meredith sarebbe imputabile alla cattiveria del governatore dell’Umbria? E la febbra suina forse colpa della tendenza virale del presidente messicano Felipe Calderon Hinijosa? Panzane, solo panzane.

E ancora: «Oggi a Roma c’è un odio che prima non c’era – ha aggiunto la Mannoia –. L’ amministrazione, che pubblicamente dice di non approvare manifestazioni razziste, sotto sotto poi le incoraggia. Quartieri periferici tornati sotto la gestione di Walter Veltroni allo splendore, con tante iniziative, oggi sono diventati posti dove si ha paura». Paura abbiamo noi quando c’è gente simile che va in giro a dire cose senza senso. I conti non tornano, nemmeno approssimandoli per eccesso.
«Vivo canto e vivo – recitava una sua canzone di qualche anno fa – mi perdo e mi ritrovo». Beh, in effetti il ragionamento demagogico della cantante pare il frutto di un perdersi senza però ritrovarsi, quasi fossimo in un labirinto dove la favella e il ragionamento lasciano il posto a note quanto mai stonate.

L’odio non è generato, come la Mannoia sconsideratamente accusa, dall’amministrazione Alemanno che incoraggia le manifestazioni razziste: eh no, non è bello professare a vanvera, sparando nel mucchio senza rendersi conto delle parole. Altro che macigni, sono proprio uscite come queste che non stemperano gli episodi di violenza che accadono in tutte le città, non soltanto nella Capitale, ma ne amplificano gli echi. Odio genera odio.

Certo, se poi le dichiarazioni della rossa già plurivincitrice del premio Tenco miravano a una sua eventuale prossima candidatura da qualche altra parte sotto ovviamente le bandiere del Pd (ma non è esclusa al momento l’Idv, più consona a certi insulti), bastava dirlo prima.
È chiaro, inoltre, che da un’affermata cantautrice, peraltro nominata Ufficiale nel 2005 dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, ci saremmo aspettati qualcosa di meglio che un paio di frasi buttate là con deferenza e senza il benché minimo rispetto per il destinatario di tali sciagurate considerazioni. Ma tant’è.

La chiusa spetta di diritto a un’altra canzone della Mannoia, «tutti cercano qualcosa magari per vie infinite, magari per vie difficili e misteriose. A volte con arroganza e a volte senza pudore».
Ecco, a volte almeno un pizzico di pudore non sarebbe sconveniente che venisse mescolato con sapienza e, perché no, senza parsimonia, nel pentolone delle dichiarazioni-fiume alle quali non è dato purtroppo sottrarsi.

Sì AL REFERENDUM, VERSO LA NUOVA ITALIA

da FFwebmagazine del 29/04/09

Arriva da Varsavia la conferma del premier sul voto al referendum del 21 giugno, che vorrebbe modificare in chiave riformista la seconda parte della Costituzione: Silvio Berlusconi barrerà la casella del “sì”. Il coro di supporto alla consultazione aveva già raccolto il consenso di molti esponenti del Pdl. Da sempre in prima linea sul fronte referendario anche la Fondazione Farefuturo, con il suo presidente Gianfranco Fini (firmatario della prima ora) e il segretario generale Adolfo Urso.

Come ha dichiarato Giovanni Guzzetta, che del referendum è il promotore assieme a Mario Segni, «il referendum avvantaggia chi ha più capacità di aggregare consenso: oggi l’uno, domani l’altro. È la regola della democrazia dell’alternanza: sono gli elettori a decidere. Chi corre corre per vincere, e chi vince crea un governo stabile. Chi sbaglia o non convince la volta successiva va a casa. E oggi anche l’Italia questo tipo di democrazia se la può permettere».

La scelta del presidente del Consiglio si è articolata sulla considerazione che il quesito concede il premio di maggioranza al partito più forte. Tre i quesiti che gli elettori si troveranno di fronte nella cabina elettorale. Il primo e il secondo quesito sanciscono il no alle coalizioni. Nello specifico si vorrebbe abrogare per Camera e Senato la disciplina che consente il collegamento fra liste. In caso di vittoria del sì, il premio di maggioranza si attribuirebbe solo alla singola lista che ha ottenuto il maggior numero di seggi, e non alla coalizione di liste. Il terzo quesito prevede l’impossibilità delle candidature multiple, ovvero si prevede di eliminare la possibile candidatura in più circoscrizioni, sia Camera che Senato. Un doppio risultato che, come ha più volte ribadito anche Adolfo Urso, serve a salvaguardare il bipolarismo nel nostro paese, contribuendo a una spinta innovativa e modernizzatrice che non potrà che avere benefici in Italia.

Nei giorni scorsi lo stesso Guzzetta era intervenuto pubblicamente per dissipare i dubbi di costituzionalità (bollati come «sciocchezze da bocciatura all’esame di Diritto costituzionale. Non lo dico solo io ma cinque diversi presidenti emeriti della Corte costituzionale») e, soprattutto in merito alla consultazione, sostenendo che «questo è un referendum abrogativo, noi non inventiamo nulla. Non siamo stati noi ad abrogare il maggioritario voluto e votato dagli italiani. Il premio di maggioranza c’è già nel porcellum. L’effetto maggiore del referendum sarebbe colpire il potere di ricatto dei piccoli partiti. E poi soprattutto rimediare allo scandalo del parlamento di nominati, abrogando le candidature multiple».

Questo referendum è un tema quanto mai determinante per la futura composizione delle istituzioni governative del paese. Perché, parafrasando un altro passaggio del discorso del presidente Fini alla nuova Fiera di Roma «non può esserci contraddizione, né in termini culturali, né in termini istituzionali, tra democrazia intesa come diritto del popolo di far sentire la propria voce attraverso i propri rappresentanti e una democrazia capace di governare, non soltanto di discutere, non soltanto di analizzare, ma capace di decidere». E dal referendum del 21 giugno quella stessa democrazia governante potrebbe trarre indubbio giovamento.

IL SULTANATO D'ITALIA?

da FFwebmagazine del 24/04/09

I dittatori di ieri abrogavano la Costituzione, «oggi si infiltrano gradualmente e senza troppo parere nelle istituzioni democratiche preesistenti e le svuotano dall’interno»: la diagnosi è del politologo Giovanni Sartori, editorialista del Corriere della Sera, professore alla Columbia University, e costituisce la prefazione al volume Il Sultanato, che ripercorre gli ultimi tre anni della vita politica italiana con una penna schietta e puntuale, senza scadere né in demagogia né in facili moralismi risolutori.

Dal Governo Prodi, tenuto in vita artificialmente dai voti dei senatori a vita, alla gestazione del Partito democratico, sino all’avvento di Veltroni e alla sua sconfitta elettorale dello scorso anno, passando dai grandi temi di interesse collettivo: riforma costituzionale, conflitto di interessi, crisi economica.
Come cambiano i sistemi politici di inizio millennio? Come mai l’Italia, nonostante la Prima e la Seconda Repubblica fatica e staccarsi dall’immagine pachidermia di uno stato che non risolve i propri problemi? Il libro, e soprattutto la prefazione, parte dalla definizione di dittatura: «regime di potere assoluto e concentrato in una sola persona nel quale il diritto è sottomesso alla forza. L’esatto contrario dei sistemi democratico-costituzionali, nei quali è la forza che è sottomessa al diritto». Il punto dal quale iniziare a ragionare è il concetto di garanzia e di buonsenso. Un sistema amministrativo e politico che mortifica le istituzioni, secondo Sartori, entra in una strategia che cassa irrimediabilmente le strutture garantistiche. Di pari passo medita sul fatto che la scomparsa del buonsenso prefigura un mondo sempre più popolato da stupidi: «Il buonsenso è tale perché incorpora saggezza». Due concetti che si ergono ad assolute colonne portanti di una società moderna e funzionale, ma che sovente in Italia vengono in quale misura delegittimate.

La rivisitazione degli ultimi trentasei mesi della politica di casa nostra porta l’autore ad individuare due scure sotto le quali il paese affonda: gli imbroglioni di turno che ispirano fiducia, e la sottomissione cronica nei confronti di tre «palle al piede per l’Italia», ovvero la mafia («il Governo non ne parla affatto»), il lassismo amministrativo («nei ministeri si lavora poco») e il diritto disatteso («sciopero endemico nei servizi pubblici»).

Molteplici gli esempi che Sartori evidenzia nelle centosettanta pagine del libro, accomunate da una maggiore esigenza di puro rispetto per le istituzioni e per le regole, ovvero per la Costituzione. Proprio sulle regole sottolinea che se esse sono malfatte non funzionano e creano un paese che non funziona. Se limitano poco e male il potere sono regole che portano all’abuso di potere. Chiaro il riferimento al bilanciamento dei poteri, in ottica di una riforma costituzionale, sulla quale l’autore nonostante abbia una posizione precisa di conservatorismo della Carta, si mostra disponibile al superamento del bicameralismo perfetto garantendo pesi e contrappesi. Ma è su chi deve lavorare per la modifica che si concentra la sua azione di rottura: nel modificare la Costituzione i parlamentari secondo Sartori sono parte in causa e quindi in conflitto di interessi, «perché difendono strenuamente il sistema elettorale che favorisce la loro parte e le strutture di potere che danno loro potere». Quindi propone che la Carta venga riformata da costituzionalisti, così come il codice penale è riformato da penalisti e quello civile da privatisti.

Punto fermo è il non-colore delle costituzioni, dal momento che esse non sono né di destra né di sinistra, «o sono ben fatte o sono malfatte», sottintendendo che verranno giudicate sulla base di criteri di funzionalità. Spazio anche ai timori che nutre, soprattutto riferiti a una «democrazia che uccide la democrazia, la democrazia che si suicida», e ai risvolti economici, «siamo una democrazia in decrescita, caduta nel vortice di uno sviluppo non sostenibile, che distribuisce più di quel che produce». Ce n’è anche per l’attuale legge elettorale, con precise stilettate al suo estensore, «Calderoli ha ragione- dice Sartori- quando definisce la sua legge una porcata, una legge che fa male al paese solo per far male a un concorrente elettorale», e per le mille peripezie del Partito democratico, con il passaggio di consegne Prodi-Veltroni.

Ma è all’interno delle valutazioni sulla tipologia delle dittature moderne che Sartori punzecchia il Governo quando afferma che Berlusconi non è ovviamente un dittatore perché non viola la Costituzione, per poi immediatamente dopo chiedersi: potrebbe diventarlo? «Sì - afferma il politologo insignito tra l’altro del Premio Principe de Asturias, il Nobel delle scienze sociali - le riforme che caldeggia mirano a depotenziare e fagocitare i contropoteri che lo incalzano». Da qui il titolo Il sultanato, riferito a un grande harem, estensore di un potere dispotico, nel quale ovviamente non mancano belle fanciulle, del quale Sartori ha paura al pari del livello di soggezione e di degrado intellettuale manifestato da una maggioranza dei nostri onorevoli: «Altro che bipartitismo compiuto, qui siamo al sultanato, alla peggiore delle corti».

venerdì 24 aprile 2009

ELIO QUERCIOLI E QUEL RIFORMISMO UNITARIO

Da FFwebmagazine del 24/04/09

Non solo un antifascista, ma portatore sano di una laicità vera, e anche un antigolpista, come dimostra l’inserimento del suo nome nella lista dei 700 “enucleandi” da parte dei seguaci del generale De Lorenzo. Elio Quercioli, comunista, riformista e personalità molto incline al dialogo, iniziò l’attività politica poco più che quattordicenne, quando con alcuni compagni di scuola del liceo “Manzoni” iniziò a maneggiare i primi volantini in difesa della pace. Giornalista, sposò Mimma Paulesu nipote di Antonio Gramsci, fu direttore de La Voce Comunista e de L’Unità, si caratterizzò non solo per la spiccata propensione verso i temi dell’informazione e dei media, come dimostrato dall’apporto in sede parlamentare, ma soprattutto per la fitta rete di contatti di amicizie che riuscì a tessere, dagli avversari politici fino a mondi ideologicamente ai suoi antipodi, come banchieri e borghesia milanese.

È grazie alla sua figura che nel capoluogo lombardo venne costruito un legame tra Pci e Psi, utile per governare in Giunte dove si realizzò nei fatti l’unità delle sinistre. L’ex sindaco di Milano Tognoli, del quale fu vice dal 1980 al 1985, lo definì un esponente dell’incontro tra comunisti, socialisti e socialdemocratici, fautore «di un riformismo attento al nuovo ed all’evoluzione in atto, moderno e moderato, gradito al mondo del lavoro e ai ceti medi».

Nacque a Milano il 14 settembre del ’27, in via Solari, nel quartiere operaio dell’Umanitaria, da lui stesso definito «quartiere operaio modello con 230 famiglie, asili collettivi, biblioteca, cooperativa, teatro». Nel ’43 si iscrisse al Pci e a soli 17 anni si ritrovò al comando di un distaccamento Sap della 113a Brigata Garibaldi a Milano, soffrendo anche il carcere a san Vittore per due mesi. Dopo la liberazione si dedicò in toto all’attività politica, sacrificando per questo anche gli studi in medicina. Nella sua carriera ricoprì vari incarichi dirigenziali del Pci, da segretario regionale in Lombardia, all’inizio del ‘60 e dal 1970 al 1976, a membro della Direzione nazionale fino al 1980. In seguito in diversi organismi, fino all'ultimo nella federazione milanese Ds, ovvero presidente del collegio dei garanti.

Una delle sue passioni fu la comunicazione, alla quale dedicò non poche energie, non soltanto come giornalista (fu capocronista del L’Unità a Milano tra il ’60 e il ’70) ma anche come deputato (per quattro legislature), sedendo sulla poltrona di vicepresidente della Commissione parlamentare di vigilanza del sistema radiotelevisivo, risultando promotore di una serie di iniziative a tutela della qualità dell'informazione nel servizio pubblico, e della regolamentazione dell'intero sistema informativo italiano, pubblico e privato. Fu proprio in quegli anni, occupandosi di riforma dell’editoria, che venne individuato come obiettivo dal terrorismo, assieme al compianto Walter Tobagi.

Quercioli fu definito “uomo delle istituzioni”, per questo gli furono affidati prestigiosi incarichi nel campo della cultura e dell'informazione, della presidenza del Consiglio, e come questore della Camera sotto la presidenza Iotti. Inoltre fu membro dell'Anpi, presidente dell'Istituto di storia della Liberazione, consigliere comunale di Milano dal 1960, e vicesindaco dal 1980 al 1985. Riteneva il dialogo e il rispetto nei modi di fare la stella polare dell’azione politica: è così che si spiegano numerosi rapporti di lavoro che si sono in seguito evoluti in amicizia e stima, con personaggi del calibro di Strehler, Abbado, Rizzoli, Sechi.
Nel dicembre del 2008 gli è stata intitolata una fondazione (http://www.fondazioneelioquercioli.net/), che ha l’obiettivo di ergersi a punto di riferimento delle istanze riformiste all’interno di quel grande contenitore che è la sinistra-socialista europea.

È scomparso a Milano il 4 febbraio del 2001, curiosamente nello stesso giorno in cui si è spento un altro antifascista, Iannis Xenakis, compositore, architetto, ingegnere greco naturalizzato francese, che prese parte alla Resistenza durante il secondo conflitto mondiale, prima di trasferirsi a Parigi e iniziare a collaborare con il grande Le Corbusier.

giovedì 23 aprile 2009

SE IL KEBAB E LA PIADINA DISTURBANO LA QUIETE NOTTURNA



da FFwebmagazine del 23/04/09

Ha un senso oggi perseguire l’ordine delle caserme, imposto contro la libertà dei singoli? O forse sarebbe meglio ragionare su un ordine diverso, più intimo, quello racchiuso nell’anima di una società coesa? I principi vanno imposti o fatti valutare e in seguito liberamente acquisire?

Tre giorni fa il consiglio regionale lombardo su input della Lega ha approvato una legge che impone ai locali take-away (kebaberie, pizzerie, gelateria e piadinerie) di chiudere un’ora dopo la mezzanotte, punendo con una multa chi consumerà suddetti cibi sui marciapiedi all’esterno. Il provvedimento, nelle intenzioni, vorrebbe tutelare la quiete pubblica e il rispetto dell’intera cittadinanza. Un’altra legge, nel paese delle infinite leggi, per ricordarci che è nostro dovere non fare baccano di notte stringendo un kebab in mano? La questione è quantomeno singolare: già l’art. 659 del codice penale punisce “il disturbo del riposo e della occupazione delle persone”, con riferimento a rumori provocati nell’espletamento della propria attività. Beh, forse questo articolo del codice penale sarà sembrato a qualcuno incompleto, o meritevole di un ulteriore provvedimento così restrittivo contro una seria minaccia alla quiete pubblica delle città lombarde: la fame notturna.

Lungi da noi voler filosofeggiare su kebab e affini, ma fa sorridere vedere un’assise regionale di queste proporzioni, tra mille problemi legati alla crisi economica, ai provvedimenti sugli ammortizzatori sociali tanto per citare due esempi, impegnata in una questione di gusti e di libertà alimentari. A chi non è mai capitato di avvertire un languorino a tarda sera, magari dopo un bel film al cinema o dopo uno spettacolo teatrale? A chi questi luoghi e questi sapori, tanto semplici quanto speziati, non rammentano piacevoli e indimenticate vacanze mediterranee? Niente di tutto questo, pare dire la nuova legge regionale: ai cittadini lombardi toccherà consumare determinati cibi entro determinati orari, come si faceva durante il servizio di leva. E che nessuno provi a fiatare.

È un brutto sogno? O ci stiamo trasformando in uno di quei paesi a basso quoziente democratico dove i cittadini sono rappresentati come birilli perfettamente in ordine e vestiti tutti allo stesso modo, pronti a recitare “signorsì”? Viene in mente una canzone di Edoardo Bennato: «In fila per tre, marciate tutti con me e ricordatevi i libri di storia, noi siamo i buoni e perciò abbiamo sempre ragione, andiamo dritti verso la gloria», dove sprovveduti bambini “bravi e che non piangono mai” sono issati a esempio civile per altri che forse manifestano piccole perplessità. Ma che bel modo di educare i cittadini. Che edificante spirito di gruppo proprio da paese civile e moderno, come amiamo definirci in occasione dei grandi appuntamenti pubblici.

Parafrasando don Chisciotte della Mancia verrebbe da dire che «la libertà è il bene più grande che i cieli abbiano donato agli uomini», mentre Bettino Craxi più recentemente disse: «La mia libertà equivale alla mia vita». Ma non sarebbe il caso di scomodare illustri nomi se non si avvertisse nell’aria una sorta di richiamo all’ordine, concretizzato in un fischietto o in un corno da caccia che vuol chiamare a raccolta la gente per dare direttive e impartire comandi. Curioso che la legge in questione sia stata promulgata a pochi giorni dalla festa della Liberazione del 25 aprile, ma forse tanto curioso non è, se si riflette sulla mano che l’ha scritta e firmata. Ma tant’è.

Insomma, gente lombarda, adolescenti, universitari, impiegati, semplici cittadini: se per caso a fine serata foste colti da un raptus improvviso di fame notturna (pericolosa patologia, al momento all’esame di un pool di ricercatori padani) e decideste di lasciarvi andare a una delle consumazioni di quelle citate sopra, rammentate che “quei” deliziosi cibi potrebbero costarvi caro, magari quanto un tartufo bianco da un chilo.
La soluzione? Bennato nella coda della sua canzone dice: «E se proprio non trovi niente da fare, non fare la vittima se ti devi sacrificare, perché in nome del progresso della nazione, in fondo in fondo puoi sempre emigrare». Siete pronti a varcare i confini regionali per dare sollievo ai vostri stomaci?

giovedì 16 aprile 2009

PER AIUTARE I TERREMOTATI NIENTE TAGLI AL VOLONTARIATO

Da FFwebmagazine del 15/04/09

Si discute ancora sulla destinazione del cinque per mille delle associazioni di volontariato a sostegno delle vittime del terremoto in Abruzzo. Mentre il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, dichiara che «non si toglie nulla al volontariato» ma «si dà in più, una causale in più e soldi in più: quindi non soldi in meno al volontariato, ma soldi in più per il terremoto» e sottolinea che quel contributo non è un «fatto quantitativo ma simbolico», perché questo non è lo «strumento per aiutare a ricostruire», il mondo politico intanto si è mobilitato esprimendo un dissenso bipartisan sulle voci di un possibile utilizzo del cinque per mille per la ricostruzione in Abruzzo. Da destra a sinistra è arrivata, infatti, una nota congiunta di Maurizio Lupi, Ugo Sposetti, Vannino Chiti e Maurizio Gasparri, primi quattro firmatari della proposta di legge sul 5 per mille alla Camera e al Senato. E il dissenso, naturalmente, arriva dai diretti interessati, gli operatori dell’associazionismo, una realtà che non sempre ha vita facile dal punto di vista dei fondi. Il cinque per mille, infatti, aiuta le organizzazioni di volontariato e le onlus a sopravvivere e a sostenere le proprie attività. Privarle di quei soldi sarebbe come fare una guerra tra poveri. Per il Coordinamento dei Centri di volontariato non si può far pagare la ricostruzione ai poveri, e lo stesso Andrea Olivero, portavoce del Forum del Terzo Settore, in questo modo si eliminerebbe anche il principio di sussidiarietà in base al quale spetta al cittadino, e solo a questi, stabilire quale organizzazione della società civile sostenere. D’altronde, le associazioni del Terzo Settore, dalle quali si vorrebbe decurtare il cinque per mille a loro riservato ad appannaggio dei terremotati d’Abruzzo, sono le stesse che in questi dieci giorni di emergenza umanitaria hanno prestato efficacemente la propria opera in quelle zone: in base a quale criterio creare un corto circuito di queste dimensioni, anziché prevedere soluzioni alternative? Con quale utilità innescare un inutile meccanismo, non tanto di risentimento quanto di sorpresa, per dare vita a un provvedimento che potrebbe non contribuire alla soluzione del problema ma, se possibile, determinarne un altro?Forse non saranno molti quei 360 milioni di euro, del fondo globale del cinque per mille iscritto a bilancio, a fronte dei dodici miliardi paventati dal Viminale per la ricostruzione, ma si tratta pur sempre di risorse con le quali le numerosissime associazioni di volontariato garantiscono un sostegno vero a una serie sterminata di realtà del territorio che necessitano costantemente di aiuto.Al momento le istanze di aiuto vertono sul contributo in danaro della Cei, sulle uova di Pasqua papali, sui viveri della Caritas, sulle collette nelle parrocchie, sulle migliaia di donazioni effettuate via sms o tramite i conti correnti predisposti da diversi soggetti, come squadre di calcio e singoli individui. Tutte lodevoli, ma ovviamente tutte migliorabili dal punto di vista sostanziale, certo non attingendo da chi proprio non è in condizione di fare di più.Per non parlare dei dubbi sull’efficacia del provvedimento, se si pensa che il terzo settore attende ancora oggi i contributi relativi al 2007. Procedere al prelievo del cinque per mille per il terremoto sarebbe significato, secondo Olivero, che le risorse destinate in queste ore sarebbero giunte nelle zone del terremoto dopo due anni, portando con sé l’interrogativo su quale senso potrebbe avere un simile modus operandi in chiave di politiche ricostruttive.

Più consona, in termini di logica attuativa e di benefici reali, l’iniziativa del presidente del Senato Schifani, grazie alla quale ogni senatore devolverà mille euro, attingendoli direttamente dalle singole indennità: un modus operandi che, perché no, si potrebbe applicare da subito anche ad altre figure, come ai sindaci dei grandi comuni d’Italia coinvolgendo l’Anci, ai consiglieri e governatori regionali, agli alti magistrati e presidenti di corte dei Conti, di Cassazione, Csm.

Un esempio certamente edificante e di notevole spessore istituzionale e umanitario, in virtù del fatto che sono proprio le alte rappresentanze di un paese che hanno l’obbligo morale di scendere in prima linea, per offrirsi come “scudo dinanzi al fuoco nemico”, per usare un eufemismo vecchio nel tempo, sostenendo in questo modo, grazie al proprio status di privilegiati, chi versa in difficoltà e non richiedere un ulteriore sacrificio a chi, già ogni giorno, quella prima linea l’ha fatta propria, senza soste pasquali, natalizie, o estive.

Oriente e Occidente, un dialogo sulle onde del Mediterraneo

Da FFwebmagazine del 14/04/09

Un’impresa vecchia 922 anni, quando un manipolo di marinai attraversò il mar Ionio e l’Egeo, fino ad arrivare in Turchia, a Myra, e trafugò le reliquie di un Santo, divenuto poi patrono della città. Il viaggio dei sessantadue marinai baresi, (prima tappa l’isola di Zante fino a Myra) per 1700 miglia, viene riproposto oggi con una goletta, e non si tratta di una semplice scampagnata. Non solo rivisitazione storica del “passaggio” di San Nicola nel capoluogo pugliese, non solo una traversata che durerà un mese con risvolti religiosi e istituzionali, ma un’occasione interessante per riflettere a mente lucida sul Mediterraneo e sull’integrazione culturale dei paesi che si affacciano sulle coste del mare nostrum, condividendone aspirazioni, peculiarità, paure e, perché no, sogni.

Se oggi l’attualità impone un focus sull’apertura del presidente Obama all’ingresso della Turchia nell’Ue, al dibattito non potranno certamente nuocere considerazioni e iniziative figlie di una volontà ferma di integrazione e condivisione. Il rapporto dell’Italia, e in modo particolare delle regioni meridionali, con l’Oriente è lontano nel tempo: greci, saraceni e turchi hanno toccato i nostri porti in più occasioni (spesso anche costruendone di nuovi, a volte distruggendoli), producendo nei secoli una miscellanea di suoni, sapori, pagine di libri, colori.

Quella Puglia, porta ad Oriente, incrocio di culture, ha in questo senso rappresentato una frontiera non soltanto geografica, ma anche artistica, sociale, religiosa. La presenza contemporanea nel capoluogo pugliese di un luogo di culto unico nel suo genere che al suo interno racchiude e unisce in preghiera cristiani e ortodossi, la Basilica di San Nicola, non può che essere letto come indice di armonizzazione fra credi e società differenti. A ciò si aggiunga il dato che poco più di un mese fa il Governo italiano ha inteso restituire a quello di Mosca la Chiesa Russa di Bari, gioiello di fede ortodossa, realizzando in questo modo un evento di portata storica.

È alla luce di iniziative come quella della rivisitazione dell’impresa dei marinai baresi che acquista ancor più rilevanza una spinta modernizzatrice della democrazia turca, passaggio fondamentale ai fini dell’ingresso nella famiglia europea, che l’esecutivo ha l’obbligo, a questo punto morale, di attuare concretamente e in tempi rapidi.

L’apertura del presidente Obama, non condivisa tra gli altri da Sarkozy e Merkel, è un gesto significativo che dovrà necessariamente essere seguito da precise prese di coscienza da parte di Ankara, pena l’annullamento dei crediti fin qui elargiti. Il riferimento è a rispetto delle minoranze religiose, alla ferma condanna per l'uccisione di don Santoro, a maggiori controlli civili sui militari, al maggior rispetto della libertà d'espressione, passando poi alle note dolenti, ovvero gli impegni circa la smilitarizzazione di Cipro, l’ammissione di fronte alla comunità internazionale dei genocidi curdi ed armeni, elementi ribaditi dal Parlamento europeo nella risoluzione dell’ottobre 2007, con la quale elargiva al Governo di Abdullah Gul “consigli” utili, ma fino a oggi purtroppo inascoltati.

Che l’integrazione, prima ancora che sulla carta, sia nelle menti e di conseguenza nelle iniziative: questo deve essere il filo conduttore di una politica ampia e matura. Urgono confronti, anche intensi, ma senza dubbio produttivi e risolutivi; e poi dibattiti, forum, incroci di idee ed esperienze. Una nuova frontiera della condivisione euromediterranea, ma nel solco del rispetto imprescindibile per il diritto e per la storia.

NON CI SONO PIU'ATTENUANTI. DI NESSUN GENERE

Da FFwebmagazine del 10/04/09

No, questa volta non sarà sufficiente condividere semplicemente le parole del Capo dello Stato, farle proprie, inserirle nell’elenco delle cose da tenere a mente. Eh sì, perché dopo il lutto, dopo la tragedia, dopo la commozione nazionale, il passo successivo non può che essere la presa d’atto che qualcosa vada cambiato. E alla svelta.

La responsabilità civile e politica che si è creata attorno al dramma, con toni pacati, ragionevoli e quasi surreali per la politica di casa nostra, è meritevole certamente di attenzione e di apprezzamento. Abbiamo visto leader che, su fronti opposti, mantenevano toni sommessi, cordiali, funzionali alla risoluzione del problema, sforzandosi, ognuno per la sua parte, di dare un contributo oggettivamente valido.
Ma da domani questo modus operandi sia la strada da seguire, la cartina di tornasole nella quale identificarsi, e non un evento comportamentale sporadico ed estemporaneo. Il perché è presto detto.
Le parole di Giorgio Napolitano, «nessuno è senza colpa. Deve esserci un esame di coscienza senza discriminanti né coloriture politiche, non per battersi il petto ma per capire cosa è indispensabile e urgente fare per evitare che questi fatti si ripetano», dovranno essere scolpite a caratteri cubitali nelle agende degli esponenti politici italiani, anche in considerazione del fatto che, oggi, per mille ragioni, non vi sono più scusanti. Le regole, quelle che ci sono, andranno rispettate e fatte rispettare. Quelle che non ci sono, andranno scritte.

La Prima Repubblica è il passato che non ritornerà, al pari delle circostanze di estrema ingovernabilità che l’Italia ha patito negli ultimi quarant’anni. Grazie a una maggioranza evidente, il rischio di instabilità parlamentare è scongiurato una volta per tutte. Tale rischio è quello che non ha consentito risposte concrete, soluzioni alle richieste di un paese stanco e acciaccato, proposte alternative, spinte dettate dall’entusiasmo e dalla voglia di migliorare. Per tutte queste ragioni, chi non vorrà proseguire sulla strada del dialogo, del reperimento di soluzioni non partitiche ma spartanamente utili, del confronto solidale su problemi veri (e non su polemiche sterili buone esclusivamente per i salotti televisivi), sarà cerchiato di rosso e messo alla berlina. Perché non è più il tempo della battaglie ideologiche, del muro contro muro, delle contrapposizioni infinite delle quali i cittadini hanno piene le scatole. Il Paese chiede altro e gioisce quando avverte che le istituzioni lavorano fianco e fianco per dare risposte e sanare problemi.

Che belle le immagini dei ragazzi della Protezione civile e dei Vigili del fuoco intenti a compiere il proprio dovere, o del premier presente in Abruzzo tutti i giorni, o del presidente della Camera quando consumerà lì il pranzo pasquale. Ecco la risposta di uno Stato vero, ecco perché da domani sulle istituzioni deve calare un clima nuovo, responsabile e maturo. Insomma, una ventata di civiltà politica, semplicemente perché adesso non vi sono più attenuanti. Di nessun genere.

martedì 7 aprile 2009

Sicurezza, se lo Stato si delegittima da solo





Da FFwebmagazine del 08/04/2009

Quale sicurezza è lecito attendersi da uno Stato moderno? Chi provvede all’incolumità dei cittadini? Uno stato di diritto è quello che prevede la preminenza del concetto di diritto: ovvero, l’azione dello Stato è sempre attuata sulla base delle leggi vigenti. Lo Stato garantisce incolumità e sicurezza attraverso le forze dell’ordine. Ma affidare ad altri soggetti la sicurezza dei cittadini, riducendo ad esempio i fondi alla Polizia di Stato, non provocherebbe una situazione antistatale? Non si compierebbe in questo modo una delegittimazione dello Stato, incitando ad una sorta di rispetto fai da te?

Interrogativi legittimi, resi ancor più tali dal fatto che in questi giorni alla Camera è in discussione il ddl 2180 “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”, approvato lo scorso 5 febbraio dal Senato, con il tanto contestato provvedimento circa le ronde. «Ogni politica riduttiva è da considerare incompatibile con le esigenze del paese- afferma Cristiano Leggeri, segretario generale Ugl Polizia di Stato- così si crea paura tra i cittadini. Attendiamo di conoscere se il Governo intenda aumentare le risorse destinate alla sicurezza, sia essa pubblica o urbana: certamente non lo si fa diminuendo gli stanziamenti ad appannaggio delle forze dell’ordine. Al di là di comprendere se vi siano o meno i tagli, presumibili o reali, noi diciamo che comunque in prospettiva non si vedono investimenti per il futuro».

Per il momento la legge 133/2008 prevede tagli consistenti alla polizia. La riduzione netta, gli fa eco Giuseppe Tiani del Siap, è di 250 milioni per il 2009, 270 milioni per il 2010 e 480 milioni per il 2011. Se da un lato quest’anno si avranno 7,7 miliardi di euro di dotazione finanziaria, lo scorso anno ne avevano 7,1. Sembrerebbe che ci sia un aumento di 600 milioni, invece questi ultimi sono gli oneri stipendiali derivanti dal nuovo contratto firmato dal governo Prodi nel 2007. Sul versante dell’accoglienza degli immigrati la situazione non è certo migliore: meno 44 milioni nel 2009, meno 51 milioni nel 2010, meno 88 milioni nel 2011. In tutto meno 170 milioni in tre anni solo per la lotta all’immigrazione clandestina ed accoglienza di immigrati.

Il ragionamento verte sul dato che in un momento di profonda crisi economica, caratterizzato già da tagli orizzontali in molteplici ambiti, tra i quali la sicurezza, aggravarne gli echi attraverso un fondo apposito per le ronde, non pare la soluzione migliore per due ragioni, una di merito e una di metodo. Innanzitutto il concetto stesso dell’affiancamento di un privato cittadino a personale delle forze dell’ordine, formato e preparato di professione, appare come una deminutio, dal momento che si pone in antitesi con il ruolo di Stato-Istituzione. Destinare risorse finanziarie a enti e associazioni che garantiscano la sicurezza, distraendole da capitoli di spesa come le missioni, le trasferte, gli straordinari, gli armamenti (solo per citare alcuni casi) delle forze di Polizia, non è la soluzione migliore né quella che rispetta tutte le parti in causa. Si tratta di una scelta che mortifica aspirazioni da un lato, e soprattutto non incentiva, dall’altro, la strutturazione di quel senso delle istituzioni che avrebbe bisogno di un supporto maggiore. Quando si fa presente agli agenti che devono risparmiare sul riscaldamento o sulla pulizia degli uffici, non si tiene in debita considerazione che vi sono tematiche per le quali l’esigenza principale non è il risparmio di fondi, ma il raggiungimento di ben altri obiettivi, in questo caso legati alla prevenzione del crimine ed alla sicurezza della collettività.

Cosa dovremo aspettarci da domani? Volanti che per risparmiare carburante eviteranno di fare un giro di ispezione in più? Pattuglie che per terminare il proprio turno senza un aggravio di costi di straordinario, concluderanno in anticipo un appostamento? Preservare e garantire (dal punto di vista dei servizi e degli strumenti) invece la regolare iniziativa di Polizia e Carabinieri significherebbe legittimare lo Stato nelle sue funzioni naturali, e non procedere al contrario, in una visione a ritroso del problema, cercando soluzioni alternative che alternative non sono, ma deleterie e controproducenti.
Prima le esigenze, poi le emergenze, sloganeggiano dall’Ugl: e come dar loro torto?

Nitti e De Gasperi: quando si pensava al bene comune

Da FFwebmagazine del 07/04/2009

«La competenza vale più della tessera di un partito». Sta in questa massima di Alcide De Gasperi il senso dell’interpretazione sui mali della politica di oggi, secondo Sergio Zoppi che, presentando all’istituto Sturzo il suo ultimo volume Una nuova classe dirigente, non manca di attualizzare la questione in chiave meritocratica.

Punto di partenza è quella spinta propulsiva meridionalista di due pensatori del Novecento, appunto De Gasperi e Francesco Saverio Nitti, autori di una serie di valutazioni sulle difficoltà del Meridione di affrontare evoluzioni e prospettive. Come quando Nitti evidenzia che «la questione meridionale è una questione economica, ma è anche una questione di educazione e di morale», dove per morale si intende una profonda coscienza. Ecco il primo spunto: una coscienza che sia critica propositiva ma soprattutto onesta e non preda di interessi particolari.

Ancora Nitti, in uno dei numerosi passaggi custoditi nel volume, sostiene che «una nazione civile è quella che ha scuole le quali mentre istruiscono, fortificano la intelligenza individuale, moltiplicano l’intelligenza nazionale, formano il carattere, danno la disciplina morale e civile, migliorano tutto l’uomo». Quindi un’istruzione oggettiva che si fonde intimamente con la strutturazione dell’uomo oltre che del professionista, concedendo spazi alla componente caratteriale, imprescindibile per coniugare due elementi.

Il volume comprende anche commenti e proposte di Giuseppe De Rita, Gianfranco Dioguardi, monsignor Domenico Graziani e Giulio Sapelli. Il professor Dioguardi fa risalire le sventure del meridione a una sostanziale carenza nei processi educativi, che avrebbero invece l’obiettivo di allontanarli «dall’anarchia più degradante, dai comportamenti illeciti, dalla più malintesa furbizia». Maggiormente critica la posizione di De Rita: sostiene che l’opera di Nitti dimostra che una volta chi faceva il meridionalista sapeva guardarsi intorno a 180 gradi, «cosa che non siamo riusciti a fare noi continuatori». Una tacita ammissione di responsabilità?Quale soluzione allora prendere in considerazione? Il professor Dioguardi punta sulla formazione, «riconducendo all’umiltà dell’organizzazione pratica le persone illuminate, le iniziative culturali, in modo da coinvolgerle più che mai in una rete virtuosa che sappia suscitare sinergie sufficienti a provocare un’inversione di tendenza», partendo da una riforma della scuola inferiore parallelamente al sistema delle imprese e della pubblica amministrazione.

L’analisi di due personalità eccezionali come De Gasperi e Nitti, che occupano gran parte del libro, sono utili per tratteggiare un quadro storico del nostro paese, al fine di misurare le vicende attuali, calibrando le scelte che si dovranno affrontare oggi. Un libro che parla del passato pensando al presente, nella consapevolezza che la capacità di creare usando la ricerca applicata rappresenta una chiara visione della competenza tecnica più pura. Merito, competenza e professionalità sono- secondo l’editorialista del Sole 24 Ore Stefano Folli, intervenuto assieme al senatore Rutelli, al professor Tullio Gregory e a Gianfranco Dioguardi - termini che appaiono purtroppo sempre di meno nella società di oggi.

Ma è dal rapporto degli amministratori di un secolo fa con lo Stato che si desume l’essenza di queste pagine: un rapporto quasi materno, dove il politico di turno nutriva rispetto e dedizione nei confronti di un altro concetto, il bene comune, che più volte è stato proprio negli ultimi giorni ripreso come punto di riferimento assoluto. Il fatto che Nitti abbia stimolato una generazione di cervelli – definizione di Folli- è ancor più determinante perché impreziosito da una visione osmotica di virtù civiche da un lato, e classe dirigente dall’altro.

Non è sconveniente riflettere sul fatto che all’inizio del Novecento, complici le scommesse industriali di inizio secolo ed una concezione più umana della res publica, la condotta pubblica viaggiava su binari diversi. Lecito chiedersi: perché l’eredità meridionalista di Nitti e De Gasperi si è smarrita? Perché in questo secolo più volte il senso dello Stato è stato calpestato? Perché l’integrità morale stenta a rientrare nella questione meridionale?

Forse l’ottimismo del professor Dioguardi può rappresentare un elemento di incoraggiamento, quando sostiene che la strada che ha portato il Sud ad essere oggi una presenza concreta nell’area mediterranea e balcanica è da leggere come un fattore positivo: «è stata lunga, ma la meta, la nostra Itaca, sembra vicina».

Franceso De Palo

giovedì 2 aprile 2009

SPERIAMO CHE NON SIA COSI'

Da FFwebmagazine del 01/04/09

Un parto con denuncia? Strana la vita per una clandestina 25enne originaria della Costa d’Avorio, il suo momento di massima gioia di mamma si è trasformato in un giorno di dolore.
I fatti: lo scorso 5 febbraio la donna si presenta all’ospedale “Fatebenefratelli” di Napoli. Sta per dare alla luce un bimbo, ma nello stesso istante dal nosocomio campano qualcuno informa il commissariato di Polizia di Posillipo. Scatta la denuncia, nonostante il decreto sicurezza, che prevedeva inizialmente l’obbligo per i medici di denunciate gli immigrati irregolari, non sia ancora legge. I medici del presidio sanitario però fanno sapere di non aver denunciato nessuno, solo di aver chiesto alla Polizia l’identificazione nel momento della dichiarazione di nascita, dato che la donna non era in possesso di documenti regolari.
Speriamo che non sia così: speriamo che nessun medico si sia lasciato tentare dall’appannare il giuramento di Ippocrate, eludendo l’obbligo di riservatezza del proprio paziente. Speriamo che non sia questo il primo caso, di cui un gruppo di parlamentari qualche tempo fa paventava il rischio. Speriamo che nessun immigrato in futuro debba avere timore nel richiedere cure, e soprattutto nel dare alla luce una nuova vita in questo Paese.
Prima le associazioni sindacali dei medici, poi l’organizzazione internazionale Medici Senza Frontiere, in seguito un gruppo di deputati del Pdl, circa un terzo dell’intera assise: nei giorni scorsi tutti con il dito alzato, avevano chiesto al Governo di fermarsi e riflettere con serenità su quel decreto che concerne non solo la sicurezza, ma anche la dignità degli immigrati stessi. I medici sanano malattie e curano persone, non si occupano di operazioni di spionaggio e segnalazioni. Alterare questo stato di cose non aiuta né la convivenza né la sicurezza stessa di immigrati e cittadini.
Il dato sul quale riflettere è che nel nostro Paese, da questo momento in poi, saranno sempre più numerosi i nuclei familiari composti da cittadini di colore, figli e fratelli di quell’integrazione che è parte integrante non solo della storia delle civiltà, ma soprattutto della nostra storia di italiani emigranti, come ha ricordato il Presidente della Camera nel suo discorso alla Fiera di Roma.
Alla luce di ciò dunque sarebbe saggio concentrarsi su norme che sollecitino la convivenza, non che la impediscano o, fatto ancor meno utile, la rendano pericolosa e spiacevole.
Chissà cosa penserà tra qualche anno il bimbo nato in quell’ospedale campano, l’auspicio è che non debba ricordare con vergogna i suoi primi giorni di vita.