martedì 27 luglio 2010

Ma perchè i blog fanno così paura?


Da Ffwebmagazine del 27/07/10

Jorn Barger, commerciante americano appassionato di caccia, decise un bel giorno di dicembre di mettere on line i propri pensieri e le proprie attitudini. Si trattava di una pagina personale allestita per veicolare informazioni e proposte con altre persone che condividessero con lui la passione venatoria. Era il 1997 e quello fu in assoluto il primo blog a vedere la luce. Quattro anni più tardi venne imitato anche in Italia. Ma adesso non si vuole fare una ricostruzione storico-enciclopedica della socio-rete, bensì ragionare sul fatto che se dovesse essere approvata la norma contenuta nel comma 29 del decreto Alfano, quella, per intenderci, che obbliga i blog alla rettifica entro 48 ore, si realizzerebbe qualcosa di profondamente diverso dallo spirito di quel 23 dicembre 1997. Decisamente contrario al principio di una libertà da coniugare orizzontalmente, senza pregiudizi e senza briglie.
In pratica, si vorrebbero mettere sullo stesso piano la stampa professionale, fatta da quotidiani, siti specializzati, testate registrate, e un mondo che si trova esattamente ai suoi antipodi. Il mondo dei blog, di una rete libera e personale di opinioni, percezioni, sensazioni, sentimenti e idee che viene dal basso. Dalla base, dalla strada, dalle case, dalle persone, dal mondo. Quella roba, per intenderci, che Barack Obama ha capito bene come valorizzare e ascoltare. E da cui trarre spunti. Ma che dalle nostre parti si pensa invece a stanare, quasi fosse un pericoloso nemico di vecchi Politburo del passato. E per giunta con una legge dello Stato. Continuando a ingrassare così quella deriva che fa della paura del nuovo il proprio vessillo inconfutabile.
Questo non vuol dire che i blogger dovrebbero pretendere di avere una sorta di “licenza di offendere”, ci mancherebbe. Ma il comma in questione non entra per niente nel merito del problema (se di problema di può parlare), piuttosto lo elimina direttamente.
L’attentato alla libertà dei blog altro non fa se non confermare l’assoluta arretratezza cultural-legislativa del nostro paese, uni dei pochi ancora a non aver metabolizzato gli effetti e le straordinarie opportunità della rete. Ma perché internet fa così paura? Cosa provoca cotanto tremolìo nelle gambe dei nostri governanti? Forse la condivisione, la trasversalità delle opinioni, il confronto, i paragoni, le divergenze, le convergenze? O le domande?
Fa specie che tali preoccupazioni facciano capolino sui media proprio nei giorni in cui viene alla luce il Diario della guerra in Afghanistan, diffuso dal sito americano Wikileaks, con dettagli e notizie sul conflitto ancora in corso. C’è un qualcosa di macabro in tale contemporaneità: è come se il destino si divertisse a mettere a confronto le deficienze strutturali italiane, culturali, politiche, burocratiche, con l’imprevedibilità delle libertà di altri paesi. Buffo come nessun esecutivo democratico si sia sognato di proporre una legge così antidemocratica, almeno escludendo luoghi ancora off limits per la libertà, come Cina, Iran, o Corea.
Scriveva Pablo Neruda in Confesso che ho vissuto, uno che di libertà e di fughe per la libertà se ne intende, che i contadini e i pescatori del suo paese avevano dimenticato da tempo i nomi delle piccole piante, dei piccoli fiori che «adesso non hanno un nome. L’hanno dimenticato a poco a poco e lentamente i fiori han perso il loro orgoglio. Contadini e pescatori, minatori e contrabbandieri - continuava il poeta cileno, Nobel per la letteratura nel 1971 - hanno continuano a dedicarsi alla propria asprezza, alla continua morte e resurrezione dei loro doveri, delle loro sconfitte». Dimenticando di chiamare le piante con i loro nomi. Dimenticando che «accanto al fiore che muore, ecco un altro fiore titanico che nasce».
Ecco, sembra che a volte anche nella democratica Italia, quella per intenderci dove trionfano le emergenze perenni, i bunker per i grandi tavoli di concertazione e le tragiche psicosi, ecco proprio in quel paese sembra che ci si dimentichi di chiamare le piante con il proprio nome.
C’è una pianta, coloratissima, rigogliosa e dal profumo inebriante, che si chiama libertà. Beh, vale la pena di ricordare a chi scrive le leggi, che ogni tanto va innaffiata. Con acqua fresca, pura. E non relegata in una soffitta ad appassire mestamente.

Chi teme una società insofferente a dogmi precostituiti?


Da Ffwebmagazine del 27/07/10

E se fosse la lussuria, non solo semplicisticamente un vizio, ma vera forza dirompente della natura, a farci ritrovare una primavera culturale? E se fosse la lussuria, intesa come intimo desiderio di esplorazione e di apprendimento, quella combinazione ancora ignota per scardinare le casseforti dell’apatia e dell’abulia sociale che caratterizzano il primo decennio del secolo? E poi, può essere attuale la rappresentazione plastica di una figura come il Don Giovanni? Il teorema, tutt’altro che azzardato, è trattato nel volume Lussuria. La passione della conoscenza da Giulio Giorello, docente di Filosofia della Scienza all’università degli Studi di Milano, direttore della collana “Scienze ed idee” ed elzevirista per il Corriere della sera, ma anche sostenitore di un principio tanto elementare quanto poco applicato: quello del coraggio di contrattaccare, anziché solo di ripiegare. Di pensare liberamente, anziché di controllare la direzione del vento. Di preservare le idee, perché spesso hanno più forza delle cose.

Il libro percorre un doppio sentiero: il desiderio di giungere alla conoscenza, al sapere. Ed il raggiungimento interiore di quel traguardo, che poi è base indispensabile per forgiare una comunità aperta. Un viaggio all’indietro nel tempo e in personaggi assolutamente irripetibili, da dove spicca la profondità della lussuria, come emerge dai due punti di vista iniziali, quello della futurista Valentine de Saint-Point, e dell’esponente del primo femminismo liberale Harriet Taylor. Ovvero lussuria che non trascina nella strada del peccato, come apparso in scritti passati e in ragionamenti tragicamente religiocentrici. Bensì lume nella ricerca della ragione, spinta centrifuga che si affaccia sull’essenza delle cose e delle anime, molla che rende libere menti appannate dalla consuetudine.

Giorello cita figure inaspettate in questa sua cavalcata storico-letteraria, come i protagonisti delle epopee di un tempo: dai Sumeri agli Egizi, dai Greci ad Agostino d’Ippona (annoverato fra i padri della Chiesa). E poi Dante, Giordano Bruno, il rigorista Calvino che ha coniato lo stereotipo del libertino; tutti diventano compagni di viaggio di Giorello, accomunati da una vivacità elettrizzante, assieme ad una folta schiera di pittori, disegnatori di fumetti, scultori. L’autore, nel suo ventisettesimo libro, insinua il dubbio che forse il vero Don Giovanni potrebbe essere una donna. Perché ha un’energia unica, perché sprigiona molecole di vita. Noi lo conosciamo soprattutto attraverso la commedia di Molière e l’opera di Mozart, ma si tratta di un personaggio tutt’ora attuale, diventando oggi anche «oggetto di polemica politica». Come riflette l’autore, «egli ha la capacità di coniugare insieme sesso e potenza. È colui che non si stanca mai e viene schiacciato solo dal potere che vuole fermarlo». Don Giovanni è «un grande mito del mondo moderno, nato nella Spagna della post riforma e diventato universale». Un’icona multicolore nel grigiore della post modernità.

Natura, idee, strumenti: la libertà passa anche dagli spunti tecnologici. Quest’anno tra l’altro, ricorre l’anniversario dell’osservazione lunare fatta con il cannocchiale da Galileo. Giorello sostiene che le idee nella scienza sanno incarnarsi in congegni materiali, e diventano ancor più imprescindibili quando l’uomo, così come accade oggi, per comodità cede il proprio cervello ad altri che pensano al posto suo. E cede anche alla mistificazione delle realtà, dal momento che non ne comprende i contorni veritieri. E’ingannato, depistato, fuorviato. Per questo, definito da Giorello un “animale abitudinario”, l’uomo dovrà essere costretto gioco forza a ricominciare a pensare, anche per non farsi ammaliare dalla retorica scientista. Per capire, e perché no, per sopravvivere.

Chi teme la lussuria e la passione di sapere, dunque, teme una società aperta, libertaria, insofferente a dogmi precostituiti? Sì, se capace di discernere tra i mille prodotti preconfezionati che le vengono propinati, tra il tutto pronto e subito che appare nella vita quotidiana come uno spot pubblicitario martellante. Perché difficilmente influenzabile e controllabile, dotata di antenne indipendenti che ragionino con logica e buon senso sui mille scenari che si insinuano come fiumiciattoli carsici nelle esistenze di ognuno. Chi ha paura della libertà e di una conoscenza più diffusa e incoraggiata teme nient’altro che la continuazione di una specie umana diversa da quella animale, perché meno incline all’istinto della bava alla bocca e più vicina a esempi che hanno fatto grande il passato. Perché, come scriveva Pablo Neruda, «la vita è più forte e più testarda dei precetti».

E A BOLOGNA IL BASKET SI GIOCA TRA I LIBRI


Da Ffwebmagazine del 26/07/10

Nascondere, criptare, coprire. Quante volte nella storia passata governi e società passive hanno fatto di tutto per impedire conoscenza e idee? Sperando che la gente comune, quella che si incontra per strada, quella che è migliore di quanto si possa credere, non avesse abbastanza voglia di sapere. Di approfondire, di toccare con mano, di paragonare, di scoperchiare vecchi teloni e vedere cosa c’è sotto. E così da rimanere standardizzata e controllabile. Mansueta.

Scriveva Pablo Neruda nelle sue memorie che quando la stampa francese dette notizia della sua presenza a Parigi, il governo cileno si affrettò a bollare la notizia come falsa, si trattava semplicemente di un sosia. Allora Neruda ricordò che in una discussione se Shakespeare avesse scritto o meno le sue opere, Mark Twain aveva ironicamente notato: «Veramente non è stato Shakespeare a scrivere quelle opere ma un altro inglese, nato lo stesso giorno e la stessa ora, morto per giunta alla stessa data e che, per colmo di coincidenze, si chiamava anche lui William Shakespeare».

Lontani, per fortuna, i tempi in cui bisognava guardarsi negli occhi e dire: è un sosia. Lontani dalle nostre parti, perché purtroppo in molte zone del globo permangono ancora sacche di repressione culturale, di paura della rete, e dei giovani, come l’Onda iraniana testimonia. Ma il punto è un altro: davvero conviene continuare a ignorare come la risposta possibile alla domanda di una nuova primavera stia tutta in una cultura nuova? Che sia multilivello, multiforme, che parta dal basso, ma pur sempre cultura? E poi: chi l’ha detto, per scendere nella concretezza del quotidiano, che essa non possa essere predicata orizzontalmente?
Un esempio di come questa esigenza sia avvertita intimamente in più ambiti, viene dalle cronache sportive degli ultimi giorni. Il presidente della squadra di basket Virtus Bologna, Claudio Sabatini, ha deciso di inserire nei contratti dei suoi giocatori la cosiddetta clausola università: saranno preferiti giocatori sì forti, ma che scelgano di non interrompere gli studi, visto che a Bologna l'università è una delle migliori d'Italia. «Chi gioca in Virtus - ha detto - è obbligato a studiare anche perché io preferisco parlare con giovani acculturati». E ancora: «La nostra politica è questa, cominciammo qualche anno fa a premiare con la prima squadra chi andava bene a scuola». La risposta del nuovo acquisto Nicolò Martinoni non si è fatta attendere: «A Varese studiavo economia, ma ho lasciato. Qui a Bologna, dove c'è una storia quasi millenaria e un ateneo di primo livello e con tante possibilità, riprenderò. Ma non ho ancora deciso in quale facoltà. Credo che un giocatore possa giocare fino a 30-35 anni: dopo c'è bisogno di saper fare qualcos'altro».

Alla faccia dello stereotipo che accosta sport a non-conoscenza. Il seme è stato gettato, c’è chi si è precipitato a innaffiarlo. Significa che una volta aperto il pertugio, non tarderanno a spalancarsi altri buchi. Che squarceranno varchi, che vorranno dire la loro. Tutto sta a iniziare, poi il seguito verrà da solo. In questi giorni, per passare al calcio, il difensore della Juve e della Nazionale Giorgio Chiellini si è laureato in Economia. Due volte bravo, perché non è facile studiare e praticare professionalmente uno sport ad altissimi livelli. Ma il suo merito non è stato solo quello di essersi conquistato un titolo accademico, ma di aver compreso come la conoscenza non può essere aprioristicamente preclusa. E non mancano, negli ultimi due lustri, altri sportivi impegnati sui libri. Andrebbero solo stimolati a fare meglio, incoraggiati a non tirarsi indietro e non solo a fare canestro o a segnare gol importanti. Così come fatto dal presidente della Virtus Bologna.

Perché la cultura non è fine a se stessa, non serve solo a forgiare professionisti o ad arricchire curricula e percorsi formativi. Essa aiuta a comprendere, armonizza cittadini e cittadine, sostiene il progresso di una comunità, contribuisce allo sviluppo di interi Paesi. E poi apre le menti, plasma personalità, rafforza idee e prospettive. Insinua dubbi, provoca domande e curiosità. Come non ricordare le parole del filosofo norvegese Jobtein Gaarder: «Non devi mai piegarti davanti ad una risposta - ammoniva -. Una risposta è il tratto di strada che ti sei lasciato alle spalle. Solo una domanda può puntare oltre». Fare domande, e ancora altre, senza fermarsi. Anche a questo serve una cultura trasversale, senza lucchetti che la rendano irraggiungibile. Ma a patto di volerla veramente.

mercoledì 21 luglio 2010

Qualcuno ascolti Polanyi senza paura per il nuovo


Da Ffwebmagazine del 21/07/10

In Europa c’è un Paese che ha paura: non solo del terrorismo, della crisi economica, della scarsa natalità infantile, della diversità e delle minoranze. Ma anche del progresso e dei vantaggi derivanti dalle tecnologie. Il passaggio al digitale nel resto del mondo è visto come una straordinaria opportunità di sviluppo e di guadagni, ma in Italia no, perché si rischia addirittura di ottenere un mancato incasso per lo Stato di circa quattro miliardi di euro. Il cosiddetto “switchover” consentirà di liberare spazi nelle frequenze, in virtù del passaggio dall’analogico al digitale. Le porzioni di frequenze che si renderanno disponibili, quindi, verranno messe all’asta, per arricchire l’offerta e per migliorare l’intero sistema delle telecomunicazioni.

Gli Usa si sono mossi per tempo. Già da due anni hanno messo all’asta frequenze pari a venti miliardi di dollari. Pochi mesi fa è stata la volta della Germania, che ha offerto agli operatori telefonici alcune frequenze in precedenza occupate dalle tv, con un incasso complessivo di quattro miliardi e mezzo di euro per le casse dello Stato. Dunque il mercato si è improvvisamente aperto, sta all’intelligenza dei singoli Paesi non farsi sfuggire occasioni irripetibili come questa. Pare che in Italia le aste sulle frequenze non si vogliano fare. Ma come, verrebbe da chiedersi? Nell’anno della recessione e della rigida manovra economica, dove moltissime categorie produttive assistono a sforbiciate orizzontali, proprio in tale frangente l’erario si disinteressa di un guadagno così ingente? Sulla materia si va avanti a colpi di delibere emesse dall’Agcom.

Le reti nazionali ammontano complessivamente a 25, ottenute dalla tecnologia digitale. Di queste, 20 sono state assegnate di diritto a chi già possedeva le frequenze analogiche. Quindi 5 a Rai e Mediaset, 3 a Telecom Italia, e poi Europa7, ReteA e Telecapri. Le restanti 5, che rappresentano il “dividendo digitale interno”, sarebbero da assegnare a operatori televisivi alternativi, così come esplicitamente prescritto dall’Ue. E qui si riscontra l’anomalia tutta italiana, perché esse non verranno messe all’asta, bensì, come dichiarato da Corrado Calabrò, a capo dell’Agcom, saranno soggette a una procedura comparativa.
Una giuria, composta da membri del Governo, sceglierà in base a parametri “autonomamente definiti”.

Sembra che alla fine di questo procedimento, a decidere sarà il ministro per lo sviluppo economico, a oggi - dopo il caso Scajola - ancora nelle mani del presidente del Consiglio, che è praticamente proprietario di uno dei due maggiori poli televisivi nazionali. L’anomalia nostrana sta nel fatto che la procedura in questione non sarà allestita solo per nuovi operatori, ma estesa anche a Rai e Mediaset, che in questo modo potranno arricchire il proprio bagaglio con altre due di quelle cinque reti, ciascuna con la possibilità di diffondere sino a sei canali. E mantenendo così lo status quo antecedente all’ingresso sul mercato delle nuove tecnologie legate al digitale, dal momento che si rafforzerebbe inevitabilmente il vecchio duopolio. Escludendo di fatto nuovi soggetti. Il digitale, anziché essere un volano di novità, si potrebbe tramutare in un’occasione sprecata da tutti, Stato che non incassa e nuovi operatori che non vengono investiti di nuove opportunità. Continuando a ingrassare il ritardo tutto italiano nel cogliere le sfide della modernità, in questo caso tecnologica.

Ma non è tutto: perché sembra che da questa situazione siano stati esclusi gli operatori di telefonia, che avrebbero invece potuto utilizzare la porzione di banda larga resasi disponibile dal digitale, per portare internet mobile veloce lì dove in Italia ancora non c’è. Con lo scenario descritto, quelle regioni non potranno nemmeno migliorare il proprio strumento tecnologico, perché la banda che si è liberata verrà occupata dalle tv. È stato stimato che se in Italia, al netto di commi e di procedure delle varie autorità, si decidesse finalmente di mettere all’asta per gli operatori telefonici alcune porzioni di quel grande agglomerato di frequenze che si è liberato, lo Stato potrebbe incassare circa quattro miliardi di euro.
Ma a oggi sembra che questa prospettiva non entusiasmi i cassieri dello Stato, che in qualsiasi altro Paese del mondo farebbero l’impossibile per non farsi sfuggire una cifra del genere e un’occasione di sviluppo tecnologico simile. Diceva Michael Polanyi, «l’uomo è innovatore ed esploratore per natura»: ma chi lo ascolta da queste parti?