mercoledì 16 aprile 2014

Cipro: le europee come ramoscello di ulivo?

Creazione di due Stati per formalizzare la riunificazione di Cipro in "quadro europeo" e la possibilità per i turco-ciprioti di votare già alle prossime elezioni europee di maggio: sono i due elementi in base ai quali potrebbe finalmente partire una nuova era sul problema cipriota, irrisolto sin da quando nel 1974 in risposta a un tentativo di colpo di Stato ellenico, 50mila militari turchi invasero il 47% dell'isola. Rimanendovi fino a oggi.

Il Gruppo di crisi internazionale (International Crisis Group) propone una soluzione tecnica: l'idea è di creare due Stati ma con precisi rilievi nella parte greco-cipriota circa le proprietà che dal '74 sono state occupate dai turchi, senza dimenticare la delicatissima questione delle risorse naturali, presenti nel sottosuolo e già oggetto di un accordo tra Nicosia e Tel Aviv osteggiato platealmente da Ankara.
Secondo la bozza dell 'International Crisis Group (ICG) ogni accordo dovrà essere consensuale e supportato volontariamente da greco-ciprioti. Per ottenere l'accordo dei greco-ciprioti in uno Stato turco-cipriota indipendente, sia la Turchia sia i turco-ciprioti dovrebbero accettare di ritirare del tutto o quasi le truppe turche e abbandonare quindi il Trattato di Garanzia siglato nel 1960, per compensare i greco-ciprioti di oltre 2/3 della tenuta del Nord di loro appartenenza. Ciò si intreccia inevitabilmente con la strategica partita degli idrocarburi e tutto fa credere che alla base di una nuova forma di accordo ci potrebbe essere una sorta di do ut des, in base al quale mentre da un lato i greco-ciprioti ereditano la loro parte di costa sfruttabile (sottrattagli dai militari turchi nel 1974), dall'altro in cambio sosterranno l'ingresso dello Stato turco-cipriota nell'Ue.

Si tratta di un passaggio, quest'ultimo, sul quale non solo andranno approfondite le questioni burocratiche secondo i dettami di Bruxelles, ma sul quale si concentrano anche le maggior critiche alla bozza, dal momento che l'ingresso nella famiglia europea dello Stato turco-cipriota potrebbe essere visto come l'anticamera per quello della Turchia (anche se la stessa Ankara ha raffreddato la pista Ue), che ancora non sarebbe pronta a diventare europea, così come hanno dimostrato le recenti prese di posizione del premier Erdogan, tra l'uso della forza con cui ha reagito alle proteste di Gezi Park e la sua crociata contro i social network.
Intenzione primaria della bozza dell'ICG è quella di evitare un fallimento così come avvenne nel 2004 in occasione del Piano Annan, quando l'allora numero uno delle Nazioni Unite approntò una forma di accordo che venne poi bocciata dai greco-ciprioti con un referendum, in quanto palesemente favorevole alla parte turca, senza dimenticare l'ombra di un coinvolgimento personale del figlio di Annan, su cui ci furono dei sospetti diffusi da alcuni media circa la disponibilità di un'intera isola al largo della Turchia. Ragion per cui, al fine di evitare un altro stop and go, la comunità internazionale dovrebbe ripartire da alcune certezze.

Innanzitutto quella che secondo alcuni critici ha nella separazione dei due popoli, che di fatto hanno diversità in lingua, infrastrutture e parametri economici, un deterrente: in molti temono che una nuova amministrazione unificata possa essere una minaccia al tranquillo status quo. La parte invasa è di fatto sottosviluppata e può contare solo su nuovi resort che stanno sorgendo sulla costa settentrionale (la più bella morfologicamente). Secondo l'ICG un nuovo approccio realistico potrebbe essere il modo migliore per approfittare di nuova volontà politica delle due parti a una soluzione condivisa.
Ma la maggioranza greco-cipriota rimane del tutto contraria a una partizione formale, dal momento che nel 1974 è andata in scena una vera e propria invasione, con i 50mila militari turchi (ancora presenti in loco) che in questi quarant'anni hanno provveduto alla distruzione colposa di tutti i simboli che non appartenessero alla religione islamica, con perfino un cimitero maronita devastato dai carri armati così come dimostrato dal volume di Haralambos Chotzakoglou, docente di Byzantine Art and Archaeology all’Hellenic Open University di Atene e al Museum of Kykkos Monastery di Cipro, Monumenti religiosi nella parte di Cipro occupata dalla Turchia – Fatti e testimonianze di una continua distruzione, tradotto anche in italiano.

Al momento, secondo fonti dei funzionari coinvolti nel tour di colloqui su una possibile riunificazione andati in scena il mese scorso, emerge una volontà comune di immaginare una federazione, anche se non mancano i punti di domanda come quelli relativi ai tempi e alla reale volontà delle parti, dal momento che solo i colloqui circa la dichiarazione di apertura dei negoziati si è trascinata per cinque mesi. Lo scetticismo è alto anche in riferimento allo sfruttamento degli idrocarburi, su cui Nicosia ha da tempo trovato un accordo di collaborazione comune con Tel Aviv che non è stato digerito da Ankara.
Il tutto mentre la Camera dei rappresentanti di Cipro ha deciso che alle prossime elezioni per il Parlamento europeo potranno partecipare i turco-ciprioti iscritti nell’anagrafe della Repubblica. In tutto 95mila cittadini di lingua turca e religione musulmana con diritto di voto. Se il buongiorno si vede dal mattino, potremmo essere vicini a una nuova era dopo i fatti del 1974.

twitter@FDepalo
Fonte: Rivista Il Mulino del 3/4/14

martedì 15 aprile 2014

Come arriva il generale Sisi all’appuntamento elettorale in Egitto

Firme, liste, programmi e fuori programmi. Non sarà semplice per il generale al Sisi accostarsi ad un appuntamento elettorale ufficialmente con il vento in poppa, ma minato da una serie di variabili che di fatto potranno condizionare la vita politica egiziana. Quel che è certo è che sino al prossimo 26 maggio l’ex capo delle forze armate avrà da risolvere una serie di nodi che ancora lo frappongono dalla carica più ambita del Paese.

CANDIDATI
Da pochi giorni è stata sciolta anche l’ultima riserva di natura burocratica. Il generale Sisi è candidato ufficialmente alle elezioni egiziane, avendo espletato la formalità relativa alla presentazione delle firme necessarie. La legge ne prevede 25mila, Sisi ne ha portate 200mila. Il generale che ha detronizzato Mohammed Morsi dopo che nel 2012 aveva vinto regolari elezioni all’indomani della caduta di Hosni Mubarak, risulta ad oggi l’unico candidato alle presidenziali ma due sono i nomi dei potenziali competitor: il primo è stato già in corsa nel 2012 raggiungendo il 20% dei consensi, si chiama Hamdeen Sabahi, ed è espressione delle istanze avanzate dal mondo del movimentismo giovanile. Il 59enne leader della Corrente Popolare Egiziana, è giornalista e poeta, e guida anche il Fronte di Salvezza Nazionale. Si tratta di un vero e proprio attivista che ha nel suo curriculum il primato di 17 carcerazioni subite con l’accusa di dissidenza politica. Dopo aver sostenuto i moti di piazza Tahir, nel 2012 ha conquistato il 21,5% dei voti. Terzo nome quello di Mortada Mansour, presidente della squadra di calcio del Zamalek Sporting Club, a cui due anni fa non era riuscita la candidatura. Classe 1952, Mortada Mansour è un avvocato e alla guida del suo club ha ottenuto molti successi sportivi, come il premio trofeo di Africa, il campionato CAF Champions nel 2003, anno in cui si è aggiudicato anche il campionato di Premier egiziano. Particolare che potrebbe valergli il voto dei numerosissimi tifosi sportivi.

URNE
Per la sesta volta in tre anni il Paese è chiamato nuovamente alle urne, ed ecco che il nome di Sisi nelle ultime settimane è accreditato di un consenso crescente, dal momento che in molti strati sociali della popolazione aumenta la voglia di stabilità e di ritorno all’ordine. Dopo gli slanci rivoluzionari delle manifestazioni di piazza Tahir infatti poco o nulla è cambiato nel Paese, se non una persistente voglia di rinnovamento che però si è scontrata con l’abbattimento dell’unico leader democraticamente eletto nel post Mubarak: Mohammed Morsi. Ma cosa è cambiato rispetto a quando un plebiscito aveva sostenuto la cacciata di Mubarak? Dopo la deposizione di Morsi ecco che in Egitto è riaffiorata lentamente una nuova consapevolezza, quella relativa alla repressione contro i Fratelli Musulmani che non è più limitata alla semplice dialettica politica, piuttosto si assiste al bavaglio verso le manifestazioni, a leggi contro le proteste non organizzate preventivamente, senza dimenticare le oltre 500 condanne a morte, e la propaganda contro quelle tv considerate nemiche come al Jazeera.

STRATEGIA
Come riportato da Markus Bickel sulla Frankfurther Allgemeigne Zeitung la tensione giudiziaria è alle stelle nel Paese. E’ iniziato il processo ai giornalisti qatarioti di Al Jazeera al Cairo, accusati di aver manomesso alcune prove circa la cooperazione con i Fratelli Musulmani. I giornalisti sono stati arrestati lo scorso dicembre in un albergo al Cairo. Al Jazeera respinge le accuse, e rimanda il tutto ad una serie di organizzazioni per i diritti umani e all’Unione europea.

MOBILITAZIONE
Ecco che a turbare i sonni di Sisi ci pensa l’Alleanza nazionale per il sostegno della Legittimità pro-Morsi che ha lanciato sulla sua pagina Facebook un appello a partecipare mercoledì 16 aprile ad una grande mobilitazione. L’occasione è il terzo anniversario dello scioglimento del partito dell’ex presidente Hosni Mubarak. In rete viene epitetata come una “giornata rivoluzionaria e di rivolta contro la minoranza golpista criminale che tortura gli egiziani”. In questo senso va anche letta la bomba esplosa a Giza. Sisi è avvisato. 

Fonte: Formiche del 15/4/14
twitter@FDepalo

Johnson, il Renzi britannico che vuole rottamare Cameron

Chi è il Renzi del Regno Unito che fa le scarpe al premier inglese? L’eclettico sindaco di Londra, Boris Johnson, scalda i motori in vista delle elezioni del 2015 quando vorrà sostituire alla testa del partito e soprattutto al numero 10 di Downing Street, un sempre più incerto David Cameron, oggi sorpassato nei sondaggi anche dagli euroscettici dell’Ukip.

ROTTAMAZIONE BRITISH
In comune con Matteo Renzi (che due settimane fa li ha incontrati entrambi) ha la bicicletta, l’esperienza da primo cittadino, il fatto di non essere deputato e una voglia di bruciare le tappe in un mondo un po’ troppo conservatore. Il sindaco Johnson non è solo noto per uno stile tutto suo (che in un’era socio geologica di immagine ha il suo appeal), per il chiodo fisso della green economy (ha promesso di trasformare il centro di Londra in un’immensa pista ciclabile), quanto per l’intenzione di dare una sterzata, politica e personale, ad una nave che sta imbarcando acqua da più fronti. Suo padre Stanley ha dichiarato al Telegraph che Boris “dovrebbe diventare presto leader del partito conservatore, anche se non è stato eletto deputato”. Le attuali regole in vigore nel partito, però, non glielo consentirebbero, un po’come è accaduto nel Pd quando si voleva distinguere la figura del segretario da quella di candidato premier. Ma il signor Stanley ha raddoppiato la dose, aggiungendo che quelle regole sarebbero da cambiare, anche in ragione di un precedente del 1963, quello riguardante Alex Douglas.

PARABOLA
Ma da dove nasce il disagio di Cameron? Il trend iniziale non aveva indotto segnali di preoccupazione. Quando Cameron aveva scalato rapidamente posizioni nel suo partito fino a giungere all’ambita poltrona di primo ministro, in pochi avrebbero scommesso che avrebbe pagato fio in modo così evidente, non solo per la crisi economica in sé (che, per dirne una, ha azzoppato definitivamente in Francia il socialista François Hollande) quanto per la gestione del rapporto con l’Europa e con le macro questioni geopolitiche che riguardano l’isola più famosa del vecchio continente. Certo, il suo governo ha riportato la crescita britannica su valori migliori rispetto al 2012, sfilandosi dall’unione bancaria, anche se il Pil è rimasto almeno 3 punti sotto quello del 2008. La spending review ha prodotto un deficit calato a 96 miliardi nei prossimi tre anni da 156. Ma forse tutto ciò non sarà sufficiente.

SONDAGGI
L’ultimo in ordine di tempo rivela che gli “anti euro” sono in testa in Gran Bretagna dove l’Ukip di Nigel Farage è nelle intenzioni il primo partito con il 30% dei consensi, seguito dai Laburisti al 28%, mentre crolla Cameron al 21%. Il primo ministro paga lo scotto di una politica non all’altezza, ma il suo vantaggio cinque mesi fa era ancora significativo, piazzandosi davanti a Ed Miliband (Labour) e Nick Clegg (Lib dem), anche se il suo trend di gradimento ha iniziato un calo costante sin dall’inizio del 2013. Due gli elementi maggiormente significativi: in primis tutti i leader dei partiti maggiori per la prima volta risultano in affanno. La causa è da riscontrare in un tessuto sociale sempre meno schierato ideologicamente e più sensibile alle ricette che nel merito gli interlocutori propongono loro. A ciò si aggiunge che il competitor di Cameron, Ed Miliband, non è sufficientemente carismatico.

TAGLI E RIGORE
Primo capo di accusa nei confronti di Cameron è la politica lacrime e sangue adottata dal suo cancelliere dello Scacchiere George Osborne. Non solo misure di emergenza per affrontare la congiuntura difficile, ma addirittura l’anticamera di una lunga scia di tagli che durerà ben sette anni, così come lo stesso Primo ministro ricordò ai sudditi di Sua Maestà lo scorso ottobre a Manchester in occasione del congresso conservatore. Certamente non va dimenticato che il deficit inglese al momento è uno dei più alti del mondo, ma la sua minaccia/analisi (“se volete sapere quello che accade se non affrontate la crisi del debito chiedetelo ai greci”) non sembra aver riscosso particolare entusiasmo tra i cittadini vessati da nuovi balzelli. Così Johnson è pronto a passare all’incasso.

Fonte: Formiche del 15/4/14
twitter@FDepalo

Ecco la Grecia che troverà la cancelliera Merkel

Ecco la Grecia che troverà la cancelliera Merkel

La Grecia tornai sui mercati e ad attenderla ecco l’insurrezione sociale, con una bomba fatta esplodere nel centro di Atene a due passi dalla sede della Banca di Grecia, dove solitamente si riunisce la troika. Ecco come la capitale ellenica si prepara alla visita della cancelliera tedesca Angela Merkel in un clima surreale di sospetti e con una maggioranza di governo ridotta ormai all’osso.

BOND
Dopo quattro anni di apnea assoluta, la Grecia fa il suo rientro sui mercati dei titoli di Stato con oltre venti miliardi di euro in bond. Sono stati infatti collocati tre miliardi di titoli a cinque anni ad un tasso del 4,95%. Al momento il rating della Grecia è “B-”, particolare che fa inserire i suoi titoli sovrani all’interno di quelli ad alto rischio ma un passo prima del cosiddetto “non investment grade” comunemente definiti “titoli spazzatura”. Se la grande stampa nazionale giudica positivamente questo passaggio, frutto dell’avanzo primario da un miliardo e mezzo di euro, non pochi sono quelli che considerano la mossa come disperata ed extrema ratio per rastrellare un po’di denaro contante utile al paese per ripagare i suoi debiti.

STRATEGIA
La collocazione dei bond dovrebbe nelle intenzioni essere il primo step per permettere alle casse dello Stato di incamerare almeno cinque miliardi entro il prossimo mese di dicembre con l’obiettivo di correre ai ripari per i mancati incassi per l’erario che dovrebbero ammontare a diverse centinaia di milioni di euro. La decisione del governo greco giunge a pochi giorni dal via libera della troica all’ulteriore tranche di prestiti da 8,5 miliardi di euro e a poche ore dalla visita ad Atene della cancelliera Angela Merkel.

ACCUSE
L’opposizione del Syriza definisce la mossa come puro marketing e maquillage per distrarre i media dai problemi reali del Paese, visto che le tasse non pagate sono elevatissime per via della povertà galoppante, del ceto medio scivolato verso il basso come testimoniano anche le statistiche dell’Ocse e dell’Unicef con il numero dei senzatetto in costante aumento. Ma a picconare il minimo di stabilità che il ritorno del Paese sui mercati aveva stimolato, ecco l’autobomba fatta esplodere nel centro di Atene a pochi passi dalla Banca Centrale, nello stabile dove di solito si riuniscono i rappresentanti dei creditori internazionali quando sono in missione ad Atene.

TENSIONE
Un’auto con 75 chili di esplosivo è stata fatta saltare in aria alle prime ore dell’alba, provocando un rumore paragonato dai testimoni ad un sisma. Nessuna vittima, ma danni al circondario e tanta paura tra chi pensava che ormai il peggio e la destabilizzazione fossero ormai alle spalle. Gli investigatori puntano il dito contro gruppi di anarchici riconducibili alle brigate del “17 novembre” ma anche altre sono le piste battute. Frequenti nel passato sono stati i depistaggi sprattutto nei momenti di maggiore tensione politica. A ciò si aggiunga lo scandalo che ha interessato il governo nell’ultima settimana, con il rapporto diretto e imbarazzante tra il segretario generale dell’esecutivo Takis Baltakos e Ilias Kasidiaris, intercettato al telefono mentre confidava al portavoce del partito xenofobo di Alba Dorata (candidato alle amministrative di Atene) che gli arresti dei vertici del partito erano stati favoriti dal premier Samaras per motivi di consenso interno. Baltakos è stato fatto dimettere, mentre ad oggi la maggioranza di conservatori e socialisti che guidano il governo delle larghe intese può contare su un solo voto in più rispetto all’opposizione, in quanto il premier in persona ha dieci giorni fa espulso due sottosegretari conservatori che avevano votato contro la lenzuolata di liberalizzazioni e riforme imposte dalla troika.

Fonte: Formiche del 10/4/14
twitter@FDepalo

Dopo la Crimea, Donetsk: effetto contagio ucraino?

Cosa sta accadendo in queste ore nelle piazze ucraine di Donetsk dove la situazione precipita, con manifestanti pro Russia che, scesi in strada, hanno proclamato l’indipendenza da Kiev. E’iniziato l’effetto contagio-Crimea? La Repubblica popolare di Donetsk può essere dunque il primo effetto contagio dopo l’annessione alla Russia proclamata dalla Crimea con il referendum? 

PIAZZA
Manifestanti filo-russi nella città ucraina orientale di Donetsk hanno proclamato una “nuova repubblica da popolo sovrano” per rendere la città indipendente dal governo centrale di Kiev. Si tratta di una decisione presa dagli attivisti che hanno occupato l’edificio principale dell’amministrazione cittadina, così come ha confermato alla Reuters un portavoce. A seguito della caduta del presidente ucraino Viktor Yanukovich alla fine di febbraio, nella parte orientale del Paese si sono moltiplicate le proteste dei filo-russi. L’ultima in ordine di tempo si è svolta domenica scorsa, quando i manifestanti hanno preso d’assalto gli edifici amministrativi a Donetsk, Kharkov e Lugansk issandovi le bandiere russe.

DONETSK
Circa 2.000 persone hanno preso parte ad una dimostrazione pro-russa prendendo d’assalto un edificio governativo, sfondando la barriera della polizia, fracassando finestre. In risposta, le forze di sicurezza hanno utilizzato gli idranti contro i fautori della secessione di Kiev. Medesimo scenario anche nella città di Lugansk vicino al confine con la Russia con un bilancio di due persone rimaste ferite. Il governo di Kiev teme a questo punto che Mosca possa utilizzare un approccio simile con il pretesto di proteggere i cittadini di origine russa, anche in Ucraina orientale, dopo la Crimea.

YOU TUBE
Dopo l’Assemblea degli attivisti di Donetsk, è stato pubblicato anche un video su YouTube per quei giornalisti a cui era stato negato l’accesso alla sala. Nel video è ritratto un attivista che in piedi e su un podio viene osannato in lingua russa. La Repubblica popolare di Donetsk può essere dunque il primo effetto contagio dopo l’annessione alla Russia proclamata dalla Crimea con il referendum?

QUI KIEV
Il primo ministro ucraino transitorio Arseniy Yatsenyuk ha accusato la Russia di essere dietro i disordini. Questi erano parte di un disegno destabilizzatore per consentire ad un esercito straniero di attraversare il confine e invadere il territorio ucraino, ha detto Yatsenyuk in una riunione di gabinetto. “La sceneggiatura è scritta da parte della Federazione russa, e l’unico obiettivo è lo smembramento dell’Ucraina”. Anche in Crimea la situazione resta tesa con un soldato russo che sarebbe stato ucciso nella tarda notte di domenica.

REAZIONI
Il rappresentante degli Stati Uniti presso l’OSCE, Daniel Baer, ​​ha detto alla Reuters che la Russia ha messo insieme decine di migliaia di soldati nei pressi del confine con l’Ucraina. Ragion per cui ha invitato Mosca a disinnescare la situazione. Da Berlino invece per ora c’è prudenza. L’annuncio del presidente russo Vladimir Putin di ritirare le truppe dal confine ucraino “non era ancora rilevabile”, ha detto il portavoce del governo Steffen Seibert. “Ciò può anche essere una delusione”, ha osservato dalle colonne dello Spiegel. Lo scorso martedì la cancelliera Angela Merkel aveva sottolineato di non aver alcun motivo per dubitare delle misure annunciate dalla Russia circa il ritiro parziale delle truppe al confine con l’Ucraina. Inoltre il ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier ha proseguito sulla medesima linea di prudenza, definendo i disordini nell’Ucraina orientale come un fatto che non equivale “ancora ad un cambiamento completo della situazione”. Anche se durante lo scorso fine settimana, secondo i resoconti dei media, aveva inizialmente avuto l’impressione che si trattasse di una provocazione o anche di tentativi di destabilizzazione.

LAVROV
Intanto il dispiegamento di decine di migliaia di soldati russi al di là del confine orientale potrebbe far immaginare nuovi scenari di tensione. Venerdì scorso il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov aveva chiesto dal paese di mettere la propria indipendenza dall’Occidente alla prova.

Fonte: Formiche del 7/4/14
twitter@FDepalo