giovedì 26 aprile 2012

La vera liberazione? Ogni giorno. Per uomini senza gabbie e identità



Libertà. Parola magica, usata e abusata da più parti e su più fronti. Perché tremendamente affascinante, preda e cacciatrice allo stesso tempo. Svolta, antropologica e sociale, politica e personale. Che segna il distacco da un bozzolo opprimente, quello che chiude le bombole di ossigeno e cassa le punte che non vogliono uniformarsi. Ha scritto Alberto Savinio in Sorte dell’Europa che il liberalismo «non è un partito politico, né una formula: è un che di mero mutevole, di più profondo e fermo. É l’uomo dal cuore al cervello, dei sentimenti e dei pensieri, l’uomo che vive per sé e un tempo per gli altri, la fantasia del dovere, un cristianesimo laico, chi vede nella donna una creatura umana e una compagna, non uno strumento di piacere o soltanto la madre dei propri figli. Liberalismo è la vita senza pregiudizi, né restrizioni mentali, l’arte senza generi, pensiero senza sistemi, la vita senza fede cieca, senza credo unico, senza assiomi o dogmi, la soppressione di ogni padrone tanto in terra quanto in cielo: è il momento più alto di ogni civiltà».

Perché intimamente racchiusa già nella sua etichetta. Libertà, liberalismo. Allontanarsi da un qualcosa che impedisce quel volo pindarico, quell’esplosione viva e pura. Che boccia un’iniziativa autonoma, che tenta di imbrigliare, di uniformare, di far confluire in un dove predefinito. Ovvero tutto ciò che non sostiene la naturale esplicazione di un pensiero, di un’idea, di una condotta. Sotto forma di arte, di scienza, di scritti, di mosse sociali, come una linea politica o l’urlo di rivolta di un popolo. Il modo migliore per ricordare quel 25 aprile, dunque, potrebbe essere una nuova forma di distacco. Intima, forte e determinata, certamente rispettosa di fatti e avvenimenti, ma coraggiosa e insolente nel proporre una svolta liberatrice. Che scacci una volta per tutte le pericolose dipendenze dell’epoca moderna. Per liberarci dallo spread, insomma, dai luoghi comuni polverosi, dai nostalgismi.

E non solo in quanto tali, ma finanche perché producono quella cementificazione a cui l’uomo deve rinunciare con tutte le proprie energie. Ciò non significa diventare a un certo momento completamente
insensibili a elementi che comunque permangono nella quotidianità. Solo non eleggerli a metro unico di valutazione, da cui far dipendere le sorti del mondo. Quindi sì ad un’attenzione ai conti pubblici, alle borse e agli indici, ma no ad un uomo del terzo millennio che abbandoni insensibilmente il suo essere zoon politikon per tramutarsi in un ragioniere tout court. Che pensa e agisce come un registratore di cassa e nulla più, che si autoimpicca sull’altare di una globalizzazione coatta e acefala.
Dal momento che proprio in quel frangente smarrirebbe il suo dna, la sua unicità rispetto a macchine meccaniche che non hanno spinte emotive e slanci vivaci. E ancora, sì a un’attenzione se vogliamo accademica e sociale per la storia, per eventi e atteggiamenti del passato che hanno contribuito nel bene e nel male a comporre il quadro attuale (politico e sociale) di un paese. 

Ma serve esplicarlo in chiave di analisi mutevole di stati e popoli, e non come dogmi da portare in giro, quasi che fossimo tutti dei cani San Bernardo con appeso al collo il barilotto di identità da cui non staccarsi mai.


Fonte: il futurista quotidiano del 25/04/12
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lunedì 23 aprile 2012

Politica e calcio, sogni italici distrutti (da riprendersi)


Che cos'è la passione? Quel fuoco che arde in un animo, che lo spinge a gesti clamorosi, che infiamma verba e pensieri, in nome di un interesse tanto diffuso quanto bello. Due delle più avvincenti passioni italiche si chiamano politica e calcio. Perché da sempre sinonimo di guance arrossate, di emozioni intense. Si prenda la "cavalcata" di una campagna elettorale, momento unico per chiamava e ama carpire la goccia di sudore che spunta sulla tempia di un candidato, o la veemenza con cui smonta la tesi dell'avversario, o le sacche di ansia racchiuse nei secondi che precedono il responso elettorale.

E ancora, i fiumi di inchiostro versati sui quotidiani, quando al centro della scena c'è il dibattito (anche aspro, ma proprio per questo vivo e vegeto), quando un tema è scartavetrato con insistenza per giungere all'idea, che sboccia da uno scontro dialettico e valoriale. Che in comune con quel pallone che rotola ha molto, moltissimo. L'irruenza, il panegirico per una vittoria, un record da infrangere: ma soprattutto la vitalità di un fiume umano, quello che applaude dai seggiolini di uno stadio, quello che "conta" sul programma del proprio candidato.

"Il" gioco italiano per antonomasia, quello che fa muovere occhi e sguardi all'impazzata e la passione civile più rilevante nello stivale,quella che ha ispirato serie televisive e romanzi, Peppone e Don Camillo, o alcune delle ironiche pellicole di Totò. Per dire che rappresentano, per un contenitore culturale prismatico come l'Italia, due fuochi accesi. La cui fiammella però qualcuno negli ultimi tempi ha inteso mettere in pericolo. I casi Lusi e Belsito da un lato, che hanno "giocato" con i sentimenti (e gli iban bancari) dei propri elettori, e i casi vergognosi della compravendita di gare del campionato di serie A, sono la spia di un malessere doloso. Dove "criminali ammazzapassioni" hanno tentato di infrangere due sogni italiani, la politica e il calcio. Due infinite passioni, diverse,che ci animano. E lo hanno fatto con due condotte, volgari e corrotte, che mettono a rischio la partecipazione popolare che,invece, andrebbe preservata a tutti i costi, perché tratto somatico delle latitudini in cui si trova il nostro paese e che hanno rappresentato la sua forza. Perché crocevia di popoli e culture,perché al centro di quel grande lago salato dove la civiltà è nata, perché avvezzi alla contaminazione e alla ricerca di un'identità comune.

Sì: hanno tentato di distruggerci un sogno. Giocando (sporco) con i sentimenti della gente, quella gente che ancora è scossa da un battito pulsante, quella che ancora crede al cambiamento, al prossimo successo, da inseguire nel rispetto delle regole ma con il coltello fra i denti. Quella che vede il proprio obiettivo futuro come un viaggio, dove la meta si raggiunge con tenacia e determinazione, non stando seduto nel salotto di casa, immobili e abulici alla storia.

E allora vale la pena di rileggere un pregnante discorso, quello di Aldo Moro al Consiglio nazionale della Dc il 21 novembre 1968, «tutto ciò significa che dovremo essere travolti dagli avvenimenti? Vuol dire che non vi siano binari da apprestare, leggi giuste da offrire, istituzioni capaci di garantire il moto della storia incanalandolo perché non approdi all'anarchia, alla disperazione, alla delusione?Certamente no, dobbiamo governare. Ma dovremo farlo, e questo è il fatto nuovo, con l'animo di chi crede profondamente che una nuova umanità è in cammino». Dove quella nuova umanità è rappresentata dalle coscienze dei singoli uomini, quel passaggio tanto intimo quanto decisivo che trasforma un semplice cittadino in soggetto civilmente e politicamente attivo. Che partecipa alle sorti del proprio paese con un sogno: da realizzare.

Fonte: Formiche di oggi

Cento anni dopo "quella" Pravda


Il 22 aprile del 1912 il primo numero della Pravda vedeva la luce. Cento anni dopo, e a seguito di terremoti storico-sociali noti, quante altre Pravde continuano ad esistere? Il pensiero corre subito, e non potrebbe essere diversamente, ai casi italiani di oggi, dai giornali berlusconiani di regime alle espressioni "al guinzaglio" che ancora persistono in alcuni meandri della televisione di stato; dalla Padania che rutta contro il tricolore ma non si indigna per i diamanti di Rosi Mauro a un'idea solo militante dei media. Mortificandone il senso più intimo, quella missione sacra che nessun capocorrente o alto papavero potranno mai inficiare: fare informazione, farla in modo libero, e montanellianamente parlando. Senza padrini e senza padroni. Terreno fertile per un'informazione acefala e legata a doppia mandata ad un'unica volontà, è la mancanza di conoscenza, senza la quale un popolo non è tale. Ma come pretendere di avere conoscenza di provvedimenti e opinioni, se non si creano i presupposti culturali alla comprensione di quei fatti? 
Nel recente passato italico non sono mancati episodi giornalistici che nei fatti hanno proposto fiumi di stampa e di notizie, ma senza offrire ai lettori gli strumenti per interpretare dichiarazioni, per scorgerne le contraddizioni, per avanzare controdeduzioni, per carpirne i significati più intimi. E non solo per smascherare pifferai e che purtroppo abbondano sulla scena, ma principalmente per essere vivi, cittadini socialmente attivi, in grado di partecipare. Proverbiale il caso della “nipote di Mubarak” a sua insaputa, in un trionfo di volgare mistificazione che principalmente ha mancato di rispetto all'intelligenza di lettori e fruitori di quelle notizie. Un esempio che non è stato solo espressione di Pravda biancarossaeverde dalle parti di due quotidiani del nord, ma che ha inaugurato una nuova e più bassa forma di informare. Perché non solo ha tentato di elevare la propaganda a metro unico e solo di esercizio professionale, ma ha anche investito tempo e risorse nell'opera di “rincitrullimento coatto” di milioni di lettori. Ecco il corto circuito tutto italiano, un secolo dopo “quel” giornale di partito e di regime.

Principale strumento del popolo, come ha scritto il filosofo Giacomo Marramao nel volume Vivere la democrazia, costruire la sfera pubblica, quaderno della scuola per la buona politica della Fondazione Basso, (edizione Ediesse), è quindi la conoscenza, la cultura. Tutt'altro rispetto al megafono dei gazebo, che va tanto di moda nei giornali e nei comizi. Dove una buona dose di responsablità l'ha avuta la cattiva politica, quella che ficca il naso nei menabò di quotidiani e settimanali, quella che cassa l'ospite sgradito in una trasmissione di approfondimento, quella che non dà il via libera a un'inchiesta scomoda, quella che pretende ancora di dettare il palinsesto della Rai.
Ma che poi non profonde il medesimo sforzo per educare gli elettori, per formarli, per allenarli a capire. Perché sarebbe proprio in quell’istante che l’elettore meccanico, quello per intenderci abituato e bere slogan o a firmare diseducativamente appelli contra, che imparerebbe a dissentire creativamente, ad eccepire offrendo un’altra strada da imboccare. Ovvero a essere cittadino attivo e partecipe, per giungere così al culmine materiale della libertà, per averla tra le mani, per utilizzarla fino in fondo, per non sprecarla, per apprezzarla, per farne tesoro. Perché, come ha detto John Kennedy «la libertà senza l’istruzione è sempre in pericolo, e l’istruzione senza la libertà è sempre inutile».


Fonte: il futurista quotidiano del 22/04/12


giovedì 19 aprile 2012

Amelio si "sdoppia" e racconta Camus

Ha scritto Hannah Arendt che «la nostra apprensione della realtà dipende dalla nostra condivisione del mondo con gli altri». Dividere per averlo in comune con un essere diverso da se stesso. Un oggetto, un'emozione, un pezzo di pane. O un'esperienza, una sofferenza, un'amicizia. Ma anche uno Stato, dove nascere, far crescere chi vi giunge speranzoso o accogliere chi sceglie di trasferirsi in nome di una comunione di intenti. E di cui narrare le vicende, le similitudini, le asprezze. Il primo uomo di Camus pubblicato postumo nel 1994 è ora un film (da domani nelle sale italiane) per la regia di Gianni Amelio. Una pellicola definita doppiamente autobiografica, dove le similitudini si intrecciano sin dal principio. L'Algeria per Camus, la Calabria per Amelio. L'indigenza, il distacco dalla figura paterna, il ruolo predominante delle donne chiamate a impugnare un timone rimasto senza capitano. Un sottile filo che ha permesso al regista italiano di comporre la sceneggiatura pescando nella propria memoria personale. “No al terrorismo, sì alla soluzione politica” era lo slogan di Camus sulla questione algerina. Le difficoltà legate alla convivenza di diverse etnie, ieri come oggi, resta un tema cruciale e drammaticamente irrisolto. Si prendano quei conflitti della fine degli anni Cinquanta in Algeria, dove molti intellettuali come Sartre sostenevano che l'Algeria dovesse andare agli Algerini. Pochi anni più tardi e a un paio di fusi orari più a oriente, ecco il conflitto palestinese, la “madre” delle battaglie del secondo dopoguerra per la convivenza di quei popoli affacciati sul Mediterraneo. Singolare che un luogo fisico di estrema comunione come quel grande lago salato, sul quale due continenti e mezzo si affacciano, non sia riuscito a domare isterismi ed egoismi. E nonostante un background invidiabile di civiltà.

Atene, Roma, Costantinopoli hanno riversato nel Mediterraneo il loro bagaglio di azioni e progressi, spunti e innovazioni socio-civili epocali. Duemila anni dopo le etnie e i conflitti ancora al centro di tentativi di convivenza e pacificazione democratica. L'ultimo, in ordine di tempo, quello dei paesi nordafricani, “vicini di casa” dell'Algeria di Camus, ribellatisi a un sistema di potere e di sopraffazione. Solo quindici mesi fa dalle piazze di Tunisi, Bengasi, Cairo si sollevava l'urlo disperato di chi chiedeva solo ciò che un popolo dovrebbe avere per diritto: la libertà. Il film di Amelio, che ha vinto a Toronto il premio Fipresci, racchiude al suo interno il tesoro della ri-scoperta: valoriale, intestina, amorevole. Che si specchia magicamente nell'intimità di chi dirige la pellicola. Un film nel film. E si basa sul testo ritrovato nel 1960 tra i rottami dell'auto dove Camus perse la vita, che grazie allo sforzo di sua figlia Catherine, ha visto la luce trentaquattro anni dopo.

Il protagonista, Jacques Cormery, fa ritorno nel suo paese di origine, appunto l'Algeria, perché convinto che nonostante la fine del colonialismo, francesi e musulmani possano convivere in armonia e senza guerreggiare. Una sorta di viaggio a ritroso nella memoria, indietro nei ricordi più nascosti del personaggio e anche del regista italiano, per affrescare un panorama che è sì indietro nei ricordi. Ma assolutamente avanti nel pensiero e nelle emozioni.

Fonte: il futurista quotidiano del 10/04/12
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martedì 17 aprile 2012

Lotta dura alla corruzione: no al “mercato delle vacche”


I passi indietro? Apprezzabili ma non sufficienti ad estirpare la zizzania della corruzione. Per combattere la quale serve un'azione decisa, lontana dai baruffe fazionistiche, commi ed emendamenti. E con l'obiettivo di pene severe, come una prescrizione lunga e l'interdizione dai pubblici uffici. La lotta alla corruzione passa per l'imperativo di tempi rapidi e di misure efficaci, per due ragioni. Non solo di merito, per scrostare dall'immagine del paese quella patina (che patina non è, ma purtroppo corazza spessa due dita) di inaffidabilità del paese, delle sue infrastrutture amministrative precarie e quindi facilmente “attaccabili” da condotte criminali. Quanto per impedire che un sistema di potere si identifichi con una sola persona, con il rischio elevato di condizionamenti, conflitti, e mitili accettati in dono con troppa leggerezza. E soprattutto senza rivoltare la sabbia per impedire di fare chiarezza. Lo ha ribadito Antonio Polito sul Corriere della Sera a proposito del doppio caso dei governatore di Lombardia e Puglia Formigoni e Vendola: l'ostinazione a minimizzare autorizza il sospetto che il “Celeste” abbia esaurito la propria spinta propulsiva e punti ormai solo a sopravvivere.

Un passaggio che è visibile nell'emendamento depositato dal ministro della giustizia Severino al ddl anticorruzione che per sua stessa ammissione tiene conto del confronto di idee svoltosi nel corso degli incontri bilaterali con le forze politiche e in attesa che il dibattito parlamentare entri nel vivo. Aumenta a cinque anni la pena massima del reato di corruzione per l'esercizio della funzione: ecco un primo passo significativo. La scelta alla base della proposta, ha tenuto a precisare il Guardasigilli è quella di costruire attraverso «il dialogo l'ossatura portante dei tre interventi normativi, in modo da delineare una struttura dotata di coerenza e logica interna anche sotto il profilo della misura delle pene». E conferma: sul ddl anti-corruzione «abbiamo rispettato la tempistica su cui c'eravamo impegnati con i presidente delle commissioni parlamentari». Ha anche apprezzato il grande senso di responsabilità di tutte le parti: «Su tutti i tre temi sono state individuate soluzioni caratterizzate da una logica intrinseca ed equilibrata su cui si concentrerà il dibattito parlamentare, di contribuire alla stesura definitiva dei provvedimenti», ha spiegato. Aggiungendo che «la contestualità nella discussione dei tre temi non è stata intesa da alcuna delle rappresentanze politiche presenti al tavolo come contemporaneità dell'iter parlamentare, che non dipende dal governo, ma dalle decisioni inerenti la calendarizzazione, su cui spetta alle forze politiche accordarsi». anche se al momento resterebbe aperta rimarrebbe la questione delle pene da associare ad ogni specifico reato.

Bene questo primo step, dunque, anche se serve proseguire con rigidità sull'altro versante della questione, quello della cultura della legalità, da seminare diffusamente. Una possibile idea? “Liberalizzare” le amministrazioni, puntando su cabine di regia a cui possano accedere una molteplicità di individui, non solo la pletora di feudatari che fanno riferimento al ras di turno, per aprire di fatto il mercato della cosa pubblica. E punendo chi sbaglia.

Fonte: il futurista quotidiano del 18/04/12
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In Grecia si muore letteralmente di fame


Atene. L’agnello sacrificale? Gli undici milioni di cittadini greci, chiamati a rattoppare una voragine democratica senza precedenti. Critici, ha scritto Jean Starobinksi, sono quei giorni in cui una patologia evolve verso la guarigione o la degenerazione. Non solo dalla settimana santa della Pasqua ortodossa, appena trascorsa, ma usciamo da quella che segna plasticamente la passione di un popolo e di una nazione in croce. Perennemente al fronte, con morti e feriti che si alternano con una ritmica macabra. Una sorta di via crucis percorsa da una Grecia dilaniata dalla normalità di essere per forza europea. Che sta pagando a caro prezzo politici corrotti, funzionari dell’Ue strabici e l’illusione di essere tutti Onassis. Sensazioni da fine regime, proprio nei giorni in cui ad altre latitudini una voce libera se n’è andata, Fang Lizhi, ispiratore di Tienanmen e uno dei protagonisti di quella rivolta studentesca. E mentre da questa parte dell’Adriatico la vergogna per una classe dirigente ingorda e volgare dovrebbe trasformarsi in sdegno vero e in azioni concrete contro i rutti padani, al centro dell’Egeo scorrono i titoli di coda di un film il cui seguito non è stato ancora scritto. Ma la cui sceneggiatura si sta arricchendo di altre tristi pagine.
Come le centinaia di persone che hanno preso parte ad Atene ai funerali di Dimitris Chrisoulas, il farmacista in pensione suicidatosi dinanzi al parlamento in piazza Syntagma per protestare contro la politica di austerità varata dal governo. Sua figlia l’ha epitetato “un atto profondamente politico”, mentre nelle poche righe ritrovate dopo la sua morte, Dimitris scriveva: “Non trovo alcuna altra soluzione per una fine degna, prima di dover cercare il cibo nei bidoni della spazzatura”. Quel termine scelto dal poveretto, fine degna, racchiude al suo interno molto più di un gesto forte o della disperazione per non poter garantire la sopravvivenza materiale ai proprio cari. È la sirena ancestrale di un’anima in pena, l’urlo di dolore della “psichì”, la spina dorsale e sociale di un blocco di carni e ossa che semplicemente non hanno più un grammo di energia. E che chiedono soccorso. Lo dimostrano, qualora ve ne fosse ancora il bisogno, i numeri dell’Unicef, secondo cui nel paese il 23% dei bambini è povero rispetto alla media europea (20,5%); i minorenni che vivono al di sotto della soglia di povertà ammontano a 439.000; le famiglie indigenti toccano il  20,1%; il 33,4% delle famiglie povere è formata da un unico genitore. In Grecia si riscontra per giunta la più alta percentuale di bambini sottopeso dei paesi Ocse. Dati che mettono i brividi e che si vanno ad incrociare con i sondaggi diffusi in questi giorni, a poche settimane dalle elezioni politiche. Che segnano un elevatissimo tasso di astensionismo, indicativo in un paese i cui cittadini sono sempre stati propensi ad esercitare il proprio diritto di voto.
E ancora, i progressi delle ali estreme, i comunisti del Kke e del Syriza e i nazionalisti del Laos, senza dimenticare i Verdi. Passando per una nuova aggregazione, Patto sociale, nata dall’idea di due ex ministri del governo socialista di Giorgos Papandreou, Lucia Katseli, Ministro dell’Economia e Haris Kastanidis, Ministro della Giustizia. E con la costante dei due maggiori partiti, i socialisti del Pasok e i conservatori di Nea Democratia, entrambi “azzoppati” nell’immaginario collettivo e caduti al minimo storico di gradimento. Politica e società ancora una volta abbracciati, mortalmente, in un trionfo di contraddizioni e sperequazioni che si raddoppiano ogni giorno. Perché, se da un lato l’auspicio dell’Europa è che dalle consultazioni fuoriesca un esecutivo stabile e duraturo, quindi nel solco di chi ha dato il via libera al piano di austerità della troika, dall’altro i cittadini non se la sentono di affidare le chiavi del paese alle medesime forze che hanno causato il default, che li stanno costringendo a  sacrifici enormi e che non hanno investito un solo euro per la sopravvivenza della Grecia. E a poco possono servire “briciole” come la partecipazione di un’attrice greca, Tonia Sotiropulos, Bond girl al prossimo 007 o i pur encomiabili appelli per invitare tutti gli europei a trascorrere nell’Ellade le prossime vacanze. Qui servirebbe un Leonida che, indifferente a tecnocrati, economisti e dilettanti promossi ai posti di comando dell’Ue, avesse il coraggio e l’ardire di combattere come alle Termopili contro lo spread, il default e la cattiva politica.
Ha scritto Dolores Ibarruri che è meglio morire in piedi che vivere in ginocchio. Oggi nella culla della civiltà, la risposta anche se incerta è comunque “alitòs”. Ma con il pensiero drammaticamente proiettato a un domani che non ha certezze, se non quella di un esercito di Efialte (ancora impuniti) che hanno prodotto tutto questo.
Fonte: Gli Altri settimanale del 13/04/12

La primavera di Praga e quel fuoco di disperazione mai spento

Diciassette aprile 1969, il presidente del Partito Comunista Cecoslovacco, Alexander Dubcek, viene deposto. Il fuoco di ieri (Jan Palach), i fuochi di oggi (i suicidi della crisi in Italia e in Grecia). Cosa resta di quella Primavera? Il fuoco come elemento catartico. Che purifica, che disinfetta una ferita. Da cui partire per battezzare un nuovo inizio. Un po'come iniziare un altro (lungo) viaggio, durante il quale arricchirsi di nuove esperienze. La fiamma come plastica raffigurazione di un attraversamento, per lasciarsi dietro un passato dove non si intende ritornare, da cui allontanarsi perché incarna il vecchio. Perché il viaggio moderno, volendo usare il paradigma di Chatwin, altro non è che un "riflesso di difesa dell'individuo, un gesto antisociale, il viaggiatore è un insubordinato, si viaggia per esistere, per sopravvivere, per uscire dalla fissità". Viaggio e fuoco, in un giorno dal valore storico intenso, si scoprono abbracciati e proiettati in una nuova fase sociale. Ieri quella fiamma era sinonimo di rivoluzione, di contrarietà a un sistema oppressivo e antidemocratico che cassava le personalità, che intendeva uniformare società e individui. Era il grido di dolore di un popolo intero che cercava una fessura dove incanalare tutto il proprio dissenso. E il gesto di Palach rappresentò quella punta di protesta. E oggi? Il fuoco che si scorge al di qua come al di là dell'Adriatico, muove da un altro disagio. Forte, significativo, ma ovviamente diverso. Che però ha prodotto sangue e disperazione. Fiamme e piombo, quindi, come marchio sociale a cui tentare di dare una risposta solidale. 

Fiamme a Salonicco lo scorso settembre, quando un uomo fu salvato dopo aver tentato di darsi fuoco davanti a una banca perché senza più un euro urlando: "Sono sommerso dai debiti che non potrò più onorare". Quarantadue anni fa Jan Palach scelse la medesima strada, ma purtroppo non sopravvisse. Ieri un gesto di rivolta, per attirare l´attenzione verso una sofferenza interiore, di anime schiacciate da regimi e mancanze di libertà. Oggi la disperazione di chi non sa più cosa fare e dove andare. Piombo è stato quello di Dimitris Chrisoulas, il farmacista in pensione suicidatosi una settimana fa dinanzi al parlamento greco in piazza Syntagma per protestare contro la politica di austerità varata dal governo. In una lettera ritrovata dopo la sua morte, Dimitris scriveva: "Non trovo alcuna altra soluzione per una fine degna, prima di dover cercare il cibo nei bidoni della spazzatura". Non può essere sufficiente quindi indignarsi per tutto questo, né invocare una commozione tanto di circostanza quanto sterile. Occorre altro, azione, proposte, una risposta che prenda le mosse da un deciso interventismo. Che non costringa il cittadino a simili reazioni, che contribuisca alla maturazione socio-economica di un grande paese, l'Europa, che pare smarrito di fronte alla crisi. Che ri-costruisca un humus comune con dinanzi agli occhi la meta degli Stati Uniti d'Europa. Che abbiano alla base l'elemento umano, non solo calcolatrici, indici di borsa o diagrammi numerici. 

Proprio in questa direzione dovrebbe concentrarsi allora la proposta culturale di un paese, che si affianchi con decisione alle direttive della politica. Per non spezzare di nuovo quel sottile ma intenso filo che unisce i due capi, per rafforzare un canale di comunicazione di importanza vitale, dove un megafono ha senso se intercetta il momento adatto per diffondere il corretto messaggio. Quello che Michael Focault ha definito l'intellettuale "distruttore delle evidenze e delle universalità, colui che individua e indica nelle inerzie e nelle costrizioni del presente i punti di debolezza, le aperture, le linee di forza. Colui che senza tregua si sposta, senza che si sappia di preciso dove sarà, cosa penserà domani".  

Fonte: Formiche di oggi 

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venerdì 6 aprile 2012

Cassa del Mezzogiorno? Nessun rimpianto


Una buona terapia industriale giova anche al sud, ha scritto pochi giorni fa sul Corriere del Mezzogiorno lo storico Giuseppe Galasso: «Non va dimenticato che l’industrializzazione del meridione avviata agli inizi degli anni Sessanta è stata una grande pagina di storia nazionale». Offuscata dai primi provvedimenti di cassa integrazione di chi aveva ricevuto aiuti statali per aprire nuovi stabilimenti, che poi ha chiuso. Galasso definisce inaccettabile la cosiddetta «dannazione pressoché totale degli sforzi di industrializzazione del Mezzogiorno, che la classe politica italiana e accanto ad essa una dirigenza tecnica, manageriale finanziaria di prim’ordine, distribuita nei grandi enti di Stato condussero con convinzione e con passione». Sostiene che non è vero che di quella politica non siano rimaste che macerie, dal momento che «il declino di alcune industrie del sud è dovuto a ragioni generali impostesi ovunque, anche nel mondo più avanzato». Se il suo ragionamento può essere parzialmente condiviso per tre quarti, quest’ultimo passaggio presenta delle incongruenze. In quanto l’Iri e la grande stagione delle partecipazioni statali, altrimenti detta dei boiardi di stato, se da un lato ha avviato una primordiale forma industriale a quelle latitudini, dall’altro, proprio con la nascita della Cassa del Mezzogiorno ha creato il primo “buco nero” finanziario d’Italia. Di cui si avvertono ancora oggi, chiari e limpidi, i riverberi. 

E non solo dal punto i vista meramente economico, con fiumi di denari che spesso hanno preso vie secondarie, ma anche con ricadute di stampo sociale. La grande questione del sud assistenzialista inizia proprio allorquando la Cassa, da piano Marshall di natura straordinaria, assume le vesti di vacca da mungere all’infinito. Con una doppia conseguenza: incrementare a dismisura il debito pubblico di oggi, che ricordiamolo, in parte è anche figlio delle politiche miopi di quegli anni; e non stimolare culturalmente a sufficienza le spinte imprenditoriali partorite dal singolo ingegno, senza ricorrere alla tasca di mamma Italia. Da lì parte una delle zavorre che il Mezzogiorno si porta ancora stampato addosso come un marchio scomodo. Quell’assistenzialismo oggi non è scomparso. Si pensi a una città metropolitana come Bari che, nonostante quello status specifico, si permette ancora il lusso di avere undici municipi, con presidenti, consiglieri e gettoni. O un teatro di respiro nazionale come il Petruzzelli che, dopo l’odisseica ricostruzione, si trova sul groppone un buco da otto milioni di euro, con cinquecento e più contratti stipulati e tempi per le prove di ben 58 giorni, rispetto alla media di 5/9 di altri teatri e con conseguenti costi maggiorati. O si pensi alla regione Sicilia, con il record dei dipendenti assunti, senza contare le migliaia di consulenze esterne che gli enti pubblici hanno la (cattiva) abitudine di attuare, mortificando in questo modo anche le professionalità interne. 

Ciò non significa che il Meridione vada per forza di cose visto come una zavorra, si veda l’invito di Marina Valensise nel sul ultimo pamplet Il sole sorge a sud (Marsilio). Ma non si possono più ammettere in tempi di tagli e sacrifici, che sussistano ancora pratiche ancestrali e sprechi diffusi. 

Fonte: il futurista quotidiano del 6/4/12. 
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martedì 3 aprile 2012

Budapest 1956: la disinformazione contro la libertà

Janos Kadar e Karl Kisse erano due esponenti del nuovo governo ungherese “normalizzato”, intervistati dal primo numero del 1957 di Rinascita. Dove Luigi Longo ricostruì i “fatti” di Budapest con quell’intervista in cui si asseriva che Imre Nagy altro non fosse se non un politico disonesto. Molti intellettuali avallarono le calunnie del Pci: lo sostiene un interessante pamplet di Alessandro Frigerio che riapre la ferita storica del 1956, quando i “fatti” ungheresi provocarono la scossa sismica a sinistra, non solo all’interno del partito di Togliatti, ma anche nelle coscienze di chi, poi, intese prendere un’altra via proprio alla luce di quegli atteggiamenti. In Budapest 1956 la macchina del fango, la stampa del Pci e la rivoluzione ungherese: un caso esemplare di disinformazione, l’autore mette l’accento su un senso di “deviazione” informativa che ha fatto scuola. Con tesi sostenute da fatti non veri, argomentazioni fasulle e al solo scopo di deviare l’attenzione semplicemente dalla storia che si stava compiendo. Sotto gli occhi di un mondo che ancora non riusciva a vedere al di là del proprio uscio.

 Il libro evidenzia come l’invasione dei carri armati venne difesa con evidenza grazie alla «volontaria complicità della maggior parte del mondo culturale che gravitava attorno al Pci». Una posizione morbida tenuta anche nel preciso istante in cui l’esercito sovietico stava di fatto sopprimendo i vagiti di libertà di chi intendeva ribellarsi, sull’onda emotiva che portò Jan Palach ad immolarsi. Respinta e combattuta da Mosca, la rivolta fu al centro di un’opera di bieca disinformazione da parte della stampa italiana di sinistra che avviò una precisa e chirurgica campagna contro lo stesso Nagy, con le bocche di fuoco che si aprivano anche dal bunker di Botteghe Oscure. Fatta eccezione per un pugno di indignati che si schierarono con la verità dei fatti e contro la violenza dei carri armati. In quell’intervista pubblicata da Rinascita, ricorda Frigerio, Kadar e Kiss asserivano che Nagy fosse perfettamente d’accordo anche con il primo aiuto sovietico, e in questo senso egli ha votato nell’ufficio politico del partito, sostenendo che ormai «non vi poteva essere nessuna altra alternativa». Anche l’Unità poco dopo si “impegnò” nel diffondere retroscena poi valutati perfettamente falsi. Come quando scrisse che Nagy avrebbe negoziato con la Jugoslavia già quel 2 novembre, promuovendo «spedizioni punitive controrivoluzionarie».

 Altra menzogna, dal momento che Nagy aveva sì aperto a trattative e a nuovi rapporti, ma al solo scopo di non essere poi costretto a subire l’abbraccio mortale di Mosca. Non solo Rinascita o Unità. Anche Vie Nuove, Nuovi argomenti, Ragionamenti, Realtà sovietica e Mondo Operaio si prestarono a quell’opera di disinformazione, che come una pellicola restaurata, viene dall’autore riproposta nel volume, sottolineandone evidenziando non solo gli strumenti concettuali che la indurirono fino a renderla così efficiente. Ma soprattutto il costante alimento fornito dal conformismo dottrinale di direttori, giornalisti e intellettuali di partito. Che nei fatti posero l’ideologia al volgare servizio della delegittimazione della rivoluzione. 

 Fonte: il futurista quotidiano del 4/4/12

lunedì 2 aprile 2012

Addio a Ghirelli, cantore del calcio e di un'altra Italia

Il racconto del calcio mai asettico, impreziosito da dettagli e retroscena, voglia di prospettive ariose e tentativi di sparigliare modelli vecchi di un’Italia passata. Non c’è stato solo il Quirinale nella lunga carriera di Antonio Ghirelli, scomparso a Roma a quasi 90 anni. Perché quel biennio sul Colle come portavoce di Sandro Pertini ha sì impreziosito una carriera ad alti livelli, ma ha seguito cronologicamente i suoi passi “storici” mossi prima come partigiano, poi iscritto al Pci fino al ’56, socialista e collaboratore di Bettino Craxi. Ma soprattutto grande giornalista e scrittore, appassionato di sport. Che in uno degli ultimi seminari pubblici a cui aveva partecipato alla biblioteca Minerva del Senato ammetteva, con quel suo sorriso sornione, che «di numeri dieci nella politica italiana non se ne vedono e invece ve ne sarebbe un gran bisogno». Un paragone calcistico “obbligato”, per via di quel suo legame forte e orizzontale col pallone. L’Unità, Milano Sera, Paese Sera, Gazzetta dello Sport, Corriere dello Sport, Tuttosport, tg2, l’Avanti! le case dell’informazione dove aveva lavorato. Nella consapevolezza che un modo di esercitare questa professione franca e passionale non solo è possibile ma, per alcuni, è ancora un obbligo. Fonte: il futurista.it del 3/4/12

Una rivoluzione vista in taxi

Ha scritto Marc Augè che vi sono nella società dei luoghi-non luoghi, definiti in francese non-lieu, all’interno di due concetti complementari ma distinti. Ovvero quegli spazi ideati per uno scopo specifico, in cui si strutturano dei veri e propri rapporti con gli individui che li frequentano. Aeroporti, metropolitane, autostrade, parchi pubblici, centri commerciali, uffici. Contenitori che sono identitari, ma dove il mondo, con le proprie diversità, si incontra, si scontra e si riflette. E tenta di convivere. Uno di questi potrebbe essere anche un altro mezzo di trasporto, meno di massa nel senso che si prende singolarmente, ma dove possono nascere molte risposte alle domande su un determinato luogo. Il taxi come la metafora ideale di un paese, veicolo per osservare e “annusare” le pulsioni e i rigurgiti più intimi di quel preciso sito. Denso di storie e sensazioni, paure e ripartenze, sull’onda emozionale della primavera araba. Soprattutto se quel paese si chiama Tunisia e poco più di un anno fa ha visto sbocciare i gelsomini sulla strada della rivoluzione per la sua libertà. Come nel romanzo Tunisi, taxi di sola andata di Ilaria Guidantoni (edizioni No Reply 2012) che a un anno dalla cacciata del regime di Ben Ali, tenta di dare una lettura, tra narrazione e reportage. Parlando in presa diretta della rivoluzione tunisina, con interviste a protagonisti della rivolta. Un tuffo nelle strade dove quei moti sono sbocciati, proprio come i gelsomini che hanno dato quella connotazione a giorni drammatici ma entusiasmanti. Così Sophie, donna francese protagonista del romanzo, gira per una settimana durante il Ramadam la Tunisia in taxi. E incontra politici come il leader dell’opposizione Moncef Marzouki, artisti e attori come Ahmed Hafiène, che ha lavorato in Italia con Carlo Mazzacurati, o blogger che hanno fatto esplodere la rivoluzione in rete, o semplici cittadini e, naturalmente, tassisti; le sue interviste in presa sono metronomo di un ritmo di un viaggio alla scoperta del ritorno alla vita di una nazione. Una realtà che l’autrice definisce di aver visto «troppo vicina al bersaglio», sentendo, in quel concitato periodo, sempre parlare di rivoluzione. Il popolo tunisino è ondivago, non troppo maturo e i taxi in Tunisia costano pochissimo, per cui li prendono tutti. Così i tassisti assumono un ruolo fondamentale nella società, stando a contatto con persone di qualsiasi livello sociale. Ma cosa resta dopo quella rivoluzione? Significativo il fatto che in quei movimenti di piazza non siano state bruciate bandiere americane o israeliane. Inoltre non bisogna sottovalutare il fatto che la rivoluzione in Tunisia sia stata guidata da giovani e donne, come nuovo simbolo sociale, vivo e vegeto. Ora si apre però la stagione della sfida vera: i partiti che hanno sostituito il regime non devono diventare a loro volta regime. Attenzione andrà riservata soprattutto al fondamentalismo: sarà infatti compito di noi europei far sì che non prenda piede. Il tentativo di una donna occidentale di raccontare quello che è successo, lo ha definito l’inviato di Rai News Salah Methnani, secondo cui adesso bisognerebbe però porsi un interrogativo molto importante: perché, dopo la rivoluzione, arrivano ancora clandestini in Italia? Molto interessanti sono gli aspetti della cultura e del gioco trattati dall’autrice nel libro, come il fatto che la protagonista vada sempre a caccia di librerie, biblioteche. O la ricerca affannosa del gioco come plastica raffigurazione di una voglia di estraniarsi dal contesto difficile di un regime. Come il nipote dello stesso Salah Methnani che per gioco tirava i sassi contro i poliziotti e un suo amico, in seguito, venne sparato. I giovani vivevano questa situazione con un’incoscienza tipica del gioco. Un elemento che ha conferito forza a questi movimenti. Non va dimenticato, però, che non tutto ciò che è successo durante la rivoluzione è stato positivo: ad esempio sono stati liberati i salafiti, che hanno ripreso in mano le armi; e poi il popolo tunisino non è ancora pronto per la Sharia (la legge coranica), ma il nuovo governo deve far applicare ugualmente la legge. Insomma, se dopo il dado tratto c’è ancora molta strada da fare per raggiungere la meta della democrazia, ciò non deve far passare in secondo piano quel rigurgito di libertà e di voglia di cambiamento che la piazza di Tunisi ha urlato al mondo. A qualsiasi prezzo. Fonte: il futurista quotidiano del 3/4/12. Twitter@FDepalo

La primavera pugliese? Ormai autunno

C’era una volta unalito di primavera, che si faceva largo tra la nebbia invernale del Pdl pugliese. Era una ventata di aria fresca piombata in una stanza dove le finestre non si aprivano da anni. Era il 2005 e da quel giorno di cose ne sono successe. Mise piede tra i cittadini-elettori pugliesi un poeta. Raffinato, dalla vulgata forbita, mite ma a testa alta nel difendere i propri diritti. Quando Niki Vendola decise di fare il grande passo nessuno ci avrebbe scommesso un euro. Eppure, vincendo per ben due volte la corsa alle regionali, si è messo in testa di importare in Puglia non un modello alla moda o preso in prestito da un’altra realtà: ma niente altro che un atteggiamento politico con alla base la società civile e la cultura. Ed ecco fiorire la partecipazione popolare dal basso, le fabbriche di Niki, accanto a strumenti all’avangardia, come la Apulia Film Commission, che ha favorito importanti e numerosi set cinematografici dalla Daunia al Salento. Ma sotto il comune denominatore della qualità culturale, su cui costruire politiche. Venne anche l’incontro con un altro individuo che, inosservato, non passa: il sindaco Michele Emiliano. Un passato all’antimafia, con sul groppone inchieste scomode come Missione Arcobaleno. Entrambi amati dalla gente comune e dalle intellighenzie: perché veri e senza una maschera. Ma un bel giorno ecco che qualcosa fa crack: sanitopoli, con i guai dell’ex assessore Tedesco, senatore del Pd. E le escort del vicepresidente Frisullo, fino alle cozze pelose ricevute da Emiliano in dono dalla famiglia Degennaro. Ma soprattutto i progetti futuri di entrambi, Vendola proiettato sul palcoscenico nazionale come leader di Sel ed Emiliano in pole (fino a prima di aprire le cozze) per le prossime regionali. Ecco il punto: al di là delle questioni giudiziarie di cui unico metro è la magistratura, non sarà che la foga di anticipare il domani abbia fatto perdere di vista gli obiettivi di oggi ad entrambi? Non sarà che la voglia di allargare raggio di azione e curricula stia finendo per mortificare quel vagito iniziale? Che vedeva la società civile come unica e vera vincitrice. Fonte: il futurista quotidiano del 30/03/12. Twitter@FDepalo

domenica 1 aprile 2012

Uno stato distratto

Ha scritto Giovanni Falcone che gli uomini «passano, le idee restano, restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini». Perché certi impulsi non possono essere messi da parte solo dal tempo che passa o dalle azioni (violente) che ne vorrebbero allontanare efficacia e dedizione. Ma come impedire che, tra quelle idee e i cittadini, si venga a creare un altro solco, pericoloso, dannoso, fuorviante? Non un altro rigurgito di odio materiale, ma peggio una sorta di gas soporifero che annebbia le menti e narcotizza risposte e proposte. Perché fa passare sotto silenzio colposo fattie derive, relega con un "non fa nulla" atteggiamenti su cui, invece, non si dovrebbe transigere. Mai. Uno Stato distratto? Sì, molto. Che si ritrova nitido in quel sistema caratterizzato da falle emotive imbarazzanti. I volantini delle Brigate Rosse venduti all'asta come se fossero uno di quei quadri di cui fare sfoggio in certe serate cafone. Dove l'obiettivo è duplice: azzannare il buffet ed esternare conquiste materiali. Per carità, legittimo, ma non con quei pezzi di carta, che carta semplice non sono, ma che bruciano ancora e grondano sangue, nelle anime dei parenti delle vittime e di molti italiani che hanno ancora la forza di indignarsi. Uno stato distratto? Sì. Che non ha pensato, magari, tra mille e più celebrazioni, di dedicare uno spazio a chi ha pagato con la vita una lotta senza quartiere e con mille e più nemici, anche tra le fila di chi si professava amico. Che non andrebbero solo incensati nelle ricorrenze temporali, con mazzi di fiori e fiumi di parole, con lapidi e intitolazione distrade o piazze. Ma omaggiati nel più profondo dell'animo, con gestiveri per eroi veri. Uno Stato distratto? Sì, perché il ricordo non deve essere un qualcosa di cui fare a meno, o uno scomodo fardello sulla via della modernità. Ma prezioso bagaglio, semplicemente perché reale e accaduto. Certo, in molte fasi anche di cui vergognarsi, per come uomini e statisti sono stati tramutati in carne da macello, senza poi troppi scrupoli. Sulla spinta violenta dianni e altri uomini violenti. Uno Stato distratto? Sì. Tale quando, ad esempio, in un colpo solo delegittima il lavoro di chi non c'è più per difendersi, o fa di tutta un'erba un fascio. Con tonnellate di qualunquismo e la demagogia a fare da scomoda cornice per un panorama raccapricciante. Uno stato distratto? Sì, per la sciatteria morale di un'infrastruttura sociopolitica che accusa un'evidente crisi del racconto, dove reperti e ricordi fanno paura. Come se si fosse in qualche modo allergici al confronto e alla costruzione di una memoria condivisa. Una volta per tutte. Fonte: Formiche del 30/03/12

Cari musei, uscite…dai musei

Cari musei, uscite…dai musei La cultura, adesso, sia per tutti Venerdì sera spritz? Sì, ma non nel privè bensì al museo. Il Louvre è il primo museo al mondo per visite, quindi non avrebbe bisogno di altri artifizi. Eppure per incrementare il numero degli utenti e anche per “spingere” verso una cultura dal basso, ecco i venerdì dedicati agli under 30. Con il risultato che i visitatori, anche in tempi di crisi, aumentano. Con la cultura si può (e si deve) “mangiare”, anche se qualcuno, tra soloni dell’economia non più tali ed ex ministri distratti, non la pensa proprio così. E allora perché i musei italiani non tentano una volta per tutte di uscire…dai musei? Scrostandosi di dosso quella patina burocratica e ingessata, restituendo ai cittadini, ma forse prima a se stessi, la voglia di cultura. Pura, semplice e per tutti. Senza assurdi veteroideologismi. In questo senso un esperimento in passato è stato fatto al Museo Madre di Napoli, con l’espediente di un cocktail organizzato all’intero della struttura, il cui ticket valeva il giorno dopo come ingresso gratuito al museo. Ecco il pertugio che si apre, invitante, e che andrebbe sostenuto con maggiore convinzione. Perché in fondo alla meta l’obiettivo (succoso) sarebbe duplice: ri-educare i cittadini, giovani e non, alla cultura, che sia museo o auditorium non conta, l’importante è abbeverarsi a quella fonte (si veda l’entusiasmo delle Giornate Fai). E in secondo luogo innescare un meccanismo virtuoso in termini di incassi. Guadagnare con la cultura si può, come lo stesso direttore del Louvre Henry Loyrette confessa a Repubblica. Buone notizie vengono dal governo, che ha stanziato alcuni milioni per rimettere in piedi i Bronzi di Riace e altri musei in affanno. Ma il punto è che sarebbe utile stimolare un dibattito serio e scevro da pregiudizi sull’opportunità di investire in luoghi simbolo della storia, anche guardando a due esempi: Roma e Atene. Nella Capitale il caso Colosseo dovrebbe fare scuola, già da decenni bisognava pensare a far cassa (ristrutturazione compresa) senza metterne a rischio la sicurezza. Mentre da poco si apprende che il Partenone viene affittato a 1600 euro al giorno, visti i tempi di crisi. «No, non è giusto – commenta controcorrente al futurista Angelo Saracini, architetto italiano residente in Grecia ormai da 35 anni - Pochi hanno capito che l'affitto (e la vendita del paese) è stabilito nel memorandum tra Governo, esecutore materiale e la Troika: e tutto contro la Costituzione greca. Proprio questo è il punto, si potrebbe fare fruttare la cultura greca con dei programmi di sviluppo turistico-culturali e in collaborazione con tutta l'area del Mediterraneo, ma in questo momento nessun politico è capace di vedere più lontano del proprio naso, preso dalla paura del fallimento di uno stato». Al di là del caso Grecia, complicato e unico per una miriade di ragioni, la contingenza della ristrettezza economica potrebbe essere l’opportunità per rimettere in moto i neuroni. E studiare progetti alternativi per attrarre nuovi utenti, invogliando perché no le scolaresche ad un più costante approccio ai siti storico-culturali del territorio di appartenenza, senza svilire il meraviglioso patrimonio italiano. Costruendovi su una vera e propria impalcatura professionale come nel libro-saggio La Piramide s’abbassa di Dimitri Coromilas (Armando Siciliano Editore), una sorta di solare ramanzina, a volte forte, a volte sottintesa, che bacchetta tutti coloro che non vogliono comprendere che la salvezza finanziaria dell’Italia si trovi nella sua impareggiabile cultura ed esclusivamente in essa. Avviando finalmente quell’industria culturale che, un assurdo mondiale, stenta a decollare proprio in un paese come il nostro. Fonte: il futurista quotidiano del 30/03/12 Twitter@FDepalo