martedì 11 maggio 2010

Quella parata per la libertà che sa tanto di regime


Da Ffwebmagazine del 11/05/10

Trecento morti negli ultimi dieci anni. Trenta all’anno. Circa tre al mese. È il bilancio dei giornalisti uccisi in Russia in due lustri, un paese che è al penultimo posto nella classifica per la libertà di stampa della Freedom House, al secondo – dietro l’Iraq - per il numero complessivo di cronisti ammazzati. Pare che per assoldare un killer a Mosca siano sufficienti duemila euro. In Russia, come in Cina, Iran e Venezuela, dai dati del “Freedom of the press 2010: A global survey of media indipendence”, risulta che la censura su Internet limita sensibilmente l’accesso alle informazioni. E parallelamente cresce il numero delle voci stroncate. Da un lato, giornalisti e giudici freddati, dall’altro, l’imponente parata militare del 9 maggio nella piazza Rossa in occasione dei 65 anni dalla vittoria sul nazismo, con sfoggio di armi e di missili intercontinentali. Una scena che, se si togliessero i colori agli schermi, potrebbe essere riportata indietro di mezzo secolo, immortalando immagini in bianco e nero figlie di un tempo lontano. Con leader e condizioni geopolitiche del passato. E, invece, sono del 2010, anno della disfatta dei diritti civili in quel territorio sterminato, dai morti in Cecenia alle spinte democratiche inibite, dalle inchieste scomode ai tentativi di tirannizzazione dei media.

Purtroppo, non c’è solo Anna Politkovskaja a evidenziare la vergogna di un paese che non protegge a sufficienza i propri giornalisti. Che dire di Antonio Russo, di Radio Radicale, ucciso in Georgia con lo schiacciamento del torace, tipica tecnica adottata dai servizi sovietici. O l’esperto di Caucaso Ilyas Shurdayen, strangolato con una cintura. Oppure il proprietario di Ingushetiya.ru Magomed Yevloyev, a cui hanno sparato mentre era a bordo di un’auto della Polizia. O come Yuri Shchekochikhin, viceredattore di Novaya Gazeta, morto per una grave reazione allergica poco prima del suo viaggio negli Usa per confrontarsi con l’Fbi circa una sua inchiesta di corruzione. O come la studentessa di giornalismo 25enne Anastasia Baburova: stuprata e uccisa con un colpo di pistola al volto mentre inseguiva l’assassino di Stanislav Markelov, avvocato della Politkovskaja. Ne sa qualcosa Oleg Panfilov, direttore del Centro di Giornalismo in Situazioni Estreme di Mosca (Cjes), premiato lo scorso anno con il riconoscimento Internazionale per la Libertà di Informazione Isf-Città di Siena.

Perché non ricordare allora le vittime della mancanza di libertà in quel territorio? Perché limitarsi a parate celebrative che sanno di regime? Consapevole, forse, che tanta esposizione di forza non sarà sufficiente a chiudere bocca ed orecchie a chi fa ancora un mestiere scomodo da quelle parti. A cosa serve pavoneggiarsi e far sfilare muscolosi carri armati, quando poi ci si scopre privi della libertà basilare? L’unica libertà che è direttamente proporzionale alle altre. Senza della quale non vi è Stato, né società, né partecipazione, né diritti, né doveri. «La voce della verità - sosteneva Robert Musil - si accompagna a un rumore accessorio sospetto, ma gli interessati non vogliono sentirlo». E in questo contesto non si può non pensare a quelle che potrebbero essere definite “le nuove non-libertà” nel mondo, dai dissidenti cubani, alle drammatiche vicende birmane di Aung San Suu Kyi, dall’onda verde dei ragazzi iraniani alle limitazioni di internet in Corea.

Il presidente Medvedev ha annunciato invece che solo insieme si potranno affrontare le minacce odierne. Ma Vladimir Putin evidentemente non la pensa allo stesso modo, se a stretto giro ha aggiunto che ritiene la politica estera americana paragonabile a quella del terzo Reich. Schermaglie dialettiche poco affini a una giornata di festa. Ammesso che di festa si possa parlare. Tra l’altro, sulla celebre piazza moscovita sono sfilati anche i nuovi missili a lunga gittata Topol-M, forse per ricordare al mondo intero che la Russia è ancora una potenza nucleare. Ma anche che ha ancora dinanzi a sé molta strada da percorrere per diventare, non una potenza, ma quantomeno una normale espressione di democrazia ed emancipazione.

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