mercoledì 22 ottobre 2014

Quanto servono gli aiuti della Cia ai ribelli in Siria?


Uno dei numerosi report sull’operato della Cia nella guerra civile siriana,rivela che molti passati tentativi da parte dell’agenzia di armare le forze straniere hanno celato un impatto minimo sui risultati a lungo termine di un conflitto. E sono stati ancora meno efficaci, secondo la relazione, quando le milizie hanno combattuto senza alcun sostegno diretto americano sul terreno.

REPORT
I risultati dello studio, diffuso in queste settimane da funzionari governativi americani attuali e passati, sono stati presentati alla Casa Bianca nella Situation Room e hanno portato ad un profondo scetticismo tra alcuni alti funzionari dell’amministrazione Obama sull’opportunità di inserimento tra le opposizioni siriane. Lo sforzo della Cia per addestrare i ribelli siriani è solo l’ultimo esempio di una condotta, osserva il New York Times, che ha permesso ai presidenti americani di utilizzare l’agenzia di spionaggio per armare segretamente gruppi ribelli.

2013
Nell’aprile dello scorso anno il presidente Obama ha autorizzato la Cia ad avviare un programma per armare i ribelli in una base in Giordania, e più recentemente l’amministrazione ha deciso di ampliare la missione di addestramento con un più ampio programma parallelo del Pentagono in Arabia Saudita per la formazione di ribelli “controllati” al fine di combattere lo Stato Islamico: obiettivo, giungere alla formazione di circa 5.000 truppe ribelli all’anno. Una degli aspetti cheObama voleva approfondire era quale vantaggio derivasse da tali operazioni, certifica un ex alto funzionario dell’amministrazione al New York Times.

DIBATTITO
Il dibattito sul fatto se Obama abbia agito troppo lentamente per sostenere la rivolta siriana è stato rinnovato dopo che l’ex Segretario di Stato Hillary Clinton e l’ex segretario alla DifesaLeon E. Panetta hanno recentemente sostenuto di aver presentato un piano nell’estate del 2012, con protagonista David H. Petraeus, per armare e addestrare piccoli gruppi di ribelli in Giordania. Obama ha respinto tale progetto, ma nei mesi che seguirono, i funzionari dell’amministrazione Obama hanno continuato a dibattere sulla questione. In seguito il piano originale di Petraeus è stato rielaborato finché Obama ha firmato un ordine segreto che autorizzava la missione di addestramento (top secret) dopo che le agenzie di intelligence avevano confermato l’utilizzo di armi chimiche contro le opposizioni civili da parte del presidenteBashar al-Assad.

CONCLUSIONI
Secondo diversi ex funzionari americani che hanno familiarità con l’argomento, gli aiuti dell’agenzia alle insurrezioni è generalmente fallito quando nessun americano ha contemporaneamente operato sul campo con le forze straniere nelle zone di conflitto, come attualmente previsto dal piano per la formazione dei ribelli siriani. Unica eccezione, rivelata dal report, quando la Cia aiutò ad armare e addestrare i ribelli mujaheddin che combattevano le truppe sovietiche in Afghanistan nel 1980: un’operazione che lentamente dissanguò lo sforzo bellico sovietico e ha portò a un ritiro militare completo nel 1989. Quella guerra segreta ebbe successo senza la presenza ufficiale della Cia in Afghanistan, osserva la relazione, in gran parte perché vi erano ufficiali dei servizi segreti pakistani che lavoravano con i ribelli in Afghanistan.

MONITO
Ma la guerra afgano-sovietica, osservano alcuni analisti, è stata anche vista come un ammonimento. Alcuni dei combattenti mujahidin più agguerriti in seguito formarono il nucleo di Al Qaeda in Afghanistan e furono utilizzati come base per pianificare gli attacchi dell’11 settembre 2001. E’la ragione per cui in molti sono fermi nel sostenere che sia imprescindibile evitare un simile tipo di sottovalutazione.

De Margerie, tutte le stranezze della morte del presidente di Total

De Margerie, tutte le stranezze della morte del presidente di Total
Come mai un mezzo di servizio è riuscito a impattare, inosservato, contro il Falcon del Ceo di Total, Christophe de Margerie? Il conducente era realmente oltre i limiti consentiti di alcol, o hanno ragione i suoi familiari che parlano di un cardiopatico impossibilitato a ubriacarsi? Perché è stato incaricato di coordinare le indagini lo stesso generale che ha analizzato l’incidente al presidente polacco Lech Kaczynski? Gli interrogativi si addensano senza trovare al momento risposte certe.
RICOSTRUZIONE
Il Falcon-50EX era diretto a Parigi, con tre persone a bordo di equipaggio ed un solo passeggero. Poco prima di mezzanotte, l’aereo ha ricevuto il permesso dal direttore della torre di controllo e ha iniziato la manovra di decollo. Le condizioni meteo, anche se non ideali (350 metri di visibilità e nuvola di base a 60 metri), erano comunque favorevoli al volo. Circa 40 secondi dopo l’inizio dell’accelerazione del velivolo, ecco l’ostruzione da parte dello spazzaneve.

IMPATTO
Il mezzo si trovava sulla pista nel cosiddetto “cross” con un’altra pista. Ad alta velocità il Falcon ha colpito con l’ala sinistra il mezzo per poi impattare al suolo. Il velivolo ha immediatamente preso fuoco e alcune delle sue parti sono state scagliate fino ad una distanza di 200 metri. L’incendio è stato spento abbastanza rapidamente, ma non ci sono stati sopravvissuti. Già un’ora dopo dell’incidente lo scalo ha ripreso la normale attività, solo la seconda pista è rimasta chiusa fino al mattino.

SPAZZANEVE
Al volante c’era Vladimir Martynenko, un 60enne residente nel distretto di Odintsovo vicino a Mosca. Miracolosamente non è stato ferito. E’ stato arrestato e secondo il coordinatore delle indagini Vladimir Markin era ubriaco. Alexander Bastrykin, che ha coordinato la riunione operativa all’interno dell’aeroporto, ha osservato che la causa dell’incidente non è da ritrovare solo in una tragica serie di circostanze, ma “nella connivenza penale dei funzionari”. E non ha escluso nuovi arresti.

DIFESA
Ma il conducente dello spazzaneve, così come sostenuto dopo l’interrogatorio dal suo legale Alexander Karabanov, non riconosce la colpa nell’incidente e nega di aver abusato di alcol. Inoltre ha presentato come prova il fatto che, prima di mettersi alla guida del mezzo, aveva passato la visita medica obbligatoria. Sul punto i suoi familiari hanno confermato alla stampa russa che Vladimir, soffrendo di una malattia cardiaca, beve pochissimo e solo durante le feste. Allo stesso tempo, “si vuol fare di un cittadino normale un capro espiatorio“, ha polemicamente il suo avvocato dopo l’interrogatorio.

MEZZO
Si tratta del trattore-spazzaneve Schmidt TJS630 Mercedes. Lo scorso anno nell’aeroporto di Vnukovo è stato istituito un sistema di controllo e di monitoraggio basato sul “trasporto Glonass“, ma non si sa ancora se esso fosse collegato o meno allo Schmidt in questione la notte dell’incidente.

DUBBI
Secondo alcune ricostruzioni apparse sulla stampa russa, il mezzo avrebbe occupato illegalmente la pista, dal momento che la richiesta di uscire non aveva raggiunto il coordinatore di pista per il nulla osta. In quel momento è stato dato il permesso al decollo perché ufficialmente non risultava nulla che impedisse il decollo stesso. Nello specifico la frase “nulla osta per il decollo” significa che la pista è sgombra.

SINDACATI
Il sindacato russo, l’Unione Federal Trade di Air Traffic Controllers Russia, ha detto che esiste una regola che vieta categoricamente di lasciare mezzi sulla pista senza permesso. Una situazione simile si è verificata nel mese di luglio di quest’anno all’aeroporto di Barcellona con un aereo della compagnia “UTair” che per un soffio non è entrato in collisione con un mezzo dell’aeroporto.

INDAGINI
Le indagini sulle cause della tragedia di Vnukovo hanno preso una piega internazionale. La trascrizione dei registratori di volo sarà condotta con la partecipazione di specialisti di BEA(l’autorità francese per le indagini sugli incidenti) e della società Dassault. L’ufficio del procuratore di Parigi ha aperto anche un’inchiesta penale per “omicidio colposo”.

GUREVICH
Il capo della squadra investigativa è Mikhail Gurevich, che dalla sua ha una lunga esperienza nelle indagini internazionali. E’ stato il generale incaricato a indagare le circostanze dell’incidente al Tu-154, su cui volava il presidente polacco Lech Kaczynski nell’aprile 2010.

VERSIONI
Nelle prime ore dopo l’incidente il portale news LifeNews.ru aveva riferito un’altra versione dei fatti, ovvero che l’aereo era stato in volo per un breve periodo di tempo, inviando alla torre di controllo segnali di sos e di danni al motore, oltre che fuoco alla fusoliera, prima di schiantarsi sulla pista.

twitter@FDepalo

Perché la Tunisia è la fabbrica dei foreign fighter dell’Isis

Perché la Tunisia è la fabbrica dei foreign fighter dell'Isis
Dalla rivolta dei Gelsomini al foraggiamento delle truppe dell’Isis. La Tunisia si scopre diversa rispetto a quella che i rivoluzionari pionieri delle primavere arabe avevano immaginato e oggi si è ritagliata uno spazio come lo Stato che ha inviato più combattenti stranieri di qualsiasi altro Paese in Irak e Siria per unirsi al gruppo terrorista Isis. I motivi della sterzata sono stati analizzati alla luce del trend socio-politico del Paese alla vigilia di una doppia tornata elettorale.
IL TREND
Quali sono i motivi di tale determinazione? Secondo alcuni analisti anziché minare l’estremismo militante, la nuova libertà giunta con la primavera araba ha permesso ai militanti stessi di predicare e reclutare più apertamente che mai. Allo stesso tempo, molti giovani tunisini sostengono che le nuove libertà e le elezioni hanno fatto poco per migliorare la loro vita quotidiana, creare posti di lavoro o frenare una polizia brutale che molti ancora chiamano “il sovrano”, o tra gli islamisti ultraconservatori , “il tiranno”.
L’ANALISI
“La Tunisia è il Paese delle contraddizioni” spiega a Formiche.net la scrittrice Ilaria Guidantoniautrice di tre pamphlet sull’argomento. E certifica che oggi si vede una svolta compiuta almeno a livello di pensiero, in superficie, mentre la nazione è tornata ad essere “la terra laica che guarda all’Europa, ma il sud affamato e insoddisfatto preme con una buona dose di rabbia“. I profughi libici infatti aumentano non poco la tensione.
ORIZZONTE URNE
Con l’avvicinarsi delle prossime doppie elezioni (politiche il 26 ottobre e presidenziali il 23 novembre) la Tunisia “scommette su una svolta di lungo corso che dia ossigeno economico”. Mentre tutto è ancora incerto e la battaglia si gioca sul filo di “promesse economiche, senza programmi, anche la stabilità punta sul lavoro”. Secondo l’autrice di “Tunisi: chiacchiere, datteri e the” (Albeggi edizioni) il principale sindacato, l’UGTT, da sempre soggetto politico attivo, è in un momento di rottura con i partiti. Per cui sembra scontata un’alleanza di Ennhda (partito religioso di centro destra) con Nida Tunes (partito laico di centro) e un “appoggio esterno” di alcuni partiti di sinistra: “Come dire, c’è posto per tutti ma con le mani legate”.
CAUSE D’INSODDISFAZIONE
Per cui è dall’immobilismo che “partono schegge impazzite, figlie di una generazione senza cultura, che si ritrova oggi senza lavoro e senza i riferimenti corretti di un Islam che non ha mai studiato”. Guidantoni la definisce “una generazione allo sbando che gli stessi genitori ignorano e che subiscono fascinazioni delle quali non conoscono il senso. E’ il rischio delle rivoluzioni 2.0. Ragazzi, i video giochi sono un’altra cosa”.
I NUMERI
In questo contesto hanno trovato terreno fertile le voglie di estremismo verso le truppe Isis.Secondo le stime dei funzionari tunisini fornite al New York Times quasi 2mila e 500 cittadini sono transitati in Siria e in Irak per unirsi al gruppo Isis, e molti altri sono stati bloccati alla frontiera prima di riuscirvi. Anche se solo una minoranza di tunisini ha espresso palese sostegno per i militanti, sembra che tutti gli under 30 conoscano almeno una persona che abbia oltrepassato il confine per combattere in Siria o Irak.
CHI PARTE
Chi parte? Giovani disoccupati e operai, convinti che quella strada possa offrire un più elevato standard di vita rispetto all’attuale, oltre alla possibilità di cancellare i confini arbitrari che hanno diviso il mondo arabo per un secolo. Senza dimenticare l’adempimento di profezie coraniche, come quella secondo cui l’Armageddon inizierà con una battaglia in Siria

Quella strana morte del numero uno di Total manager antisanzioni

Un fermo no alle sanzioni occidentali contro Putin, una visione che lo avrebbe portato ad aumentare la presenza di Total (il quarto soggetto energetico privato del mondo dopo Exxon, Royal Dutch Shell Plc e Chevron) nel settore energetico russo, la concorrenza con Gazprom e soprattutto una spiccata capacità di tessere reti e rapporti personali ad altissimi livelli.
Ci sono tutti gli ingredienti per un giallo di qualità nella morte del Ceo di Total, Christophe de Margerie, avvenuta sulla pista dell'aeroporto moscovita di Vnukovo per «negligenza criminale» dell'autista (ubriaco) di un mezzo spazzaneve che ha investito il Falcon su cui il manager stava decollando.
Amico della Russia, de Margerie ha curato la più grande espansione delle riserve di petrolio del colosso energetico francese per tre lustri. E ha giocato un ruolo significativo nelle crescenti tensioni tra Mosca e l'Europa e nell'incremento di quel sentimento anti-russo alla base delle sanzioni. È stato uno dei pochi a puntare il dito contro gli errori europei nella crisi con Kiev, così come pochi giorni fa aveva ripetuto al quotidiano francese Le Monde rientrando da una visita alla dacia del primo ministro Dimitri Medveedev, sottolineando che «in Russia, Total è una società russa, quando sei in Russia, uno è russo. Dobbiamo rispettare le leggi del paese in cui ci troviamo».
Ma De Margerie non era un semplice dirigente, molto lontano dal ruolo di passacarte di primi ministri o di yes-man bensì pensava in grande. Lo dimostrano le numerose mediazioni nella capitale russa con oligarchi e imprenditori proprio perché voleva aumentare la presenza di Total nel settore energetico russo, soprattutto del gas. Dall'alto di quei due baffi che gli erano valsi il soprannome di «big mustache», amava ripetere che se la Francia avesse voluto ritagliarsi una significativa presenza nel mercato energetico internazionale, la «petrolifera Total avrebbe dovuto essere forte tra le grandi petrolifere del mondo». Era consapevole che senza il gas russo il vecchio continente avrebbe registrato una sofferenza multilivello, con la Bulgaria autonoma per soli 63 giorni, l'Italia per 91 giorni e la Slovacchia (quella messa meglio) per 201.
Le autorità moscovite da ieri parlano di «negligenza criminale»: il portavoce del Comitato investigativo Vladimir Markin l'ha contestata a quei funzionari che non sono riusciti a coordinare le attività dei dipendenti dell'aeroporto in modo da garantire la sicurezza del jet privato. E annuncia che saranno sospesi alcuni alti funzionari all'aeroporto. Il presidente Vladimir Putin ha espresso le sue condoglianze, apprezzandone le qualità imprenditoriali e il suo contributo allo sviluppo delle relazioni tra Francia e Russia.
Proprio circa le relazioni fra i due Paesi, dal 1999 Total produce nel giacimento russo di Kharyaga con riserve di 97 milioni di tonnellate. Nel settembre 2005, assieme ad altre compagnie petrolifere ha partecipato alla gara per la gestione congiunta del sito di Shtokman nel Mare di Barents. Ma risale al marzo 2011 lo «scacco matto» di Total grazie all'alleanza strategica con la russa Novatek, di cui i francesi hanno acquisito il 12% del capitale, con la possibilità di aumentare la quota sino al 19%. Insieme a Novatek e alla cinese CNPC Total è coinvolta anche nello sviluppo del sito Tambeyskoye: un investimento da 27 miliardi dollari. Dopo le sanzioni contro la Russia, imposte dai paesi occidentali nella primavera di quest'anno, il suo rapporto con Mosca non mutò di una virgola. In quei giorni osservò che Total opera in Russia da 20 anni, e «non intende interrompere l'attività». Particolarmente vicino gli era il Vice Direttore Generale della National Energy Institute, Alexander Frolov. Nervose le borse, con Total che a Parigi perde il 2,2% in attesa del successore. Due i candidati: Philippe Boisseau, numero uno della divisione nuove energie e Patrick Pouyanne responsabile della raffinazione.

domenica 19 ottobre 2014

Libia, ecco le richieste dell’Occidente


Libia, ecco le richieste dell'Occidente
Condannano le violenza in Libia e chiedono con forza l’immediata cessazione delle ostilità. Durapresa di posizione sugli scontri in Libia da parte dei governi di Francia, Italia, Germania, Regno Unito, e Usa che in una nota congiunta definiscono il perimetro di azione dell’Occidente dopo le risoluzioni dell‘Onu. Ecco tutti i dettagli.
DICHIARAZIONE
I governi di Francia, Italia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti condannano con forza le violenze in corso in Libia e chiedono l’immediata cessazione delle ostilità. E scrivono: “Noi condanniamo i crimini di Ansar al-Sharia, e le violenze in corso nelle comunità in Libia, tra cui Tripoli e dintorni. La libertà è a rischio se i gruppi terroristici libici e internazionali saranno autorizzati a utilizzare la Libia come un rifugio sicuro”.

QUI BENGASI
Esprimono anche forte preoccupazione per gli attacchi di Khalifa Hifter a Bengasi. E ritengono che le sfide alla sicurezza della Libia e la lotta contro le organizzazioni terroristiche possono essere affrontate solo dalle forze armate regolari sotto il controllo di un’autorità centrale che è “responsabile di un parlamento democratico e inclusivo”.

COOPERAZIONE
Sostengono pienamente il lavoro delle Nazioni Unite e invitano tutte le parti a cooperare con i suoi sforzi. “Dopo gli incontri di Ghadames e Tripoli, i negoziati dovrebbero essere perseguiti con la buona volontà e l’adozione di politiche inclusive, con l’obiettivo di trovare un accordo sulla posizione della Camera dei Rappresentanti eletta lo scorso 25 giugno per porre le basi per un governo di unità nazionale”.

SANZIONI
Capitolo sanzioni, i cinque Paesi si dicono pronti ad impiegare le singole sanzioni in conformità alla risoluzione 2174 dell’Onu contro coloro che minacciano la pace, la stabilità o la sicurezza della Libia o che ostacolino o impediscano il processo politico. “Siamo d’accordo che non esiste una soluzione militare alla crisi libica. Siamo particolarmente costernati che dopo le riunioni aGhadames e Tripoli, le parti non abbiano rispettato chiamate per un cessate il fuoco”, scrivono.

STRATEGIA
E’ questa la ragione per cui puntano ad evidenziare in questa dichiarazione l’importanza del concetto di unità. Ovvero la comunità internazionale deve agire in maniera unitaria sulla Libia, sulla base dei principi e delle intese concordate in occasione delle riunioni recenti, in particolare quelle di New York e Madrid. “Noi incoraggiamo fortemente tutti i partner ad astenersi da azioni che potrebbero aggravare le divisioni attuali per far affrontare la crisi in corso nel quadro dei negoziati ONU“.

SCENARI
Intanto nel Paese il governo rivale ha annunciato le proprie politiche petrolifere, confutando le posizioni del Primo Ministro Abdullah al-Thinni secondo cui i proventi del petrolio dovrebbero continuare ad andare al governo eletto. La Libia è alle prese con due governi in lotta per il controllo del territorio dopo l’Operazione Alba: un ombrello di gruppi armati nella città occidentale di Misurata, dallo scorso agosto costringe il governo di Thinni di ritirarsi verso est.

VIOLENZA
La violenza però non si ferma. Due giorni fa almeno 17 persone sono state uccise a Bengasi, dove le forze filo-governative sostenute dalla gente del posto sono pronte a combattere gli islamisti. Un attentatore suicida ha ucciso tre persone.

martedì 14 ottobre 2014

Io e la Cina. Parla il professor Giulio Tremonti


Io e la Cina. Parla il professor Giulio Tremonti

Il premier cinese è in Italia per dare anche seguito all’ingresso di State Grid of China in Cdp Reti con il 35%. Per ragionare sui grandi flussi di commercio sull’asse euro-asiatico ecco l’opinione dell’ex ministro Giulio Tremonti, che in questa conversazione con Formiche.netricostruisce la ratio dei rapporti europei con l’Asia, pre e post globalizzazione.
Lei era considerato un nemico della Cina? E come mai ieri Repubblica ha fatto il suo nome come precursore dei buoni rapporti tra Roma e Pechino?
Per cominciare, trovo comunque non appropriata la coppia “amico-nemico”. Nel 1994, pochi mesi dopo la stipula del Wto a Marrakesh, impostai un libro con Edward Luttwak. Nell’economia del libro, io avrei visto gli effetti della globalizzazione dal lato dell’Occidente, dell’Europa, lui dal lato dell’Asia. Luttwak intitolò il suo lavoro “Turbocapitalismo” ed io “Il fantasma della povertà”. Premesso che nel 1994 parlare degli effetti della globalizzazione era, come dire, visionario avevamo ragione entrambi. Per l’Asia fu il turbo, per noi il fantasma. La mia posizione non era comunque contro la globalizzazione ma, prevedendo gli squilibri economici, sociali e geopolitici che sarebbero stati causati dalla globalizzazione, pensavo che fossero appropriati tempi più lunghi e metodi più saggi. Tutto fu invece accelerato, e secondo me follemente accelerato, con l’ingresso dell’Asia nel Wto, avvenuto solo 7 anni dopo, nel dicembre del 2001.

L’ipotesi sui dazi quale ragione seguiva?
L’ipotesi politica su dazi europei temporanei e difensivi fu fatta per ridurre l’impatto violento che poi c’è stato. Dazi che tra l’altro ancora oggi vengono regolarmente applicati in Asia e in Usa. I dazi, comunque dazi europei e non nazionali, allora non venivano ipotizzati per bloccare la globalizzazione, ma per gestirla con più prudenza.

Come sono mutati i flussi di merci e di vie nel secoli e quali strategie hanno condotto al cambiamento a cui oggi assistiamo?
Se guardiamo le antiche carte geografiche, comunque le carte tracciate a partire dalla scoperta dell’America, vediamo che tutte avevano al centro l’Europa, l’America a sinistra e l’Asia a destra. Negli anni ’90 è stato ipotizzato un diverso impianto cartografico, con l’America al centro, l’Europa a destra e l’Asia a sinistra. Ma anche questo era vecchio, vecchio perché, quasi per definizione, la globalizzazione non ha un centro. Tutto è centrale. E comunque per l’Europa l’obiettivo è stare nel sistema, non importa se a destra od a sinistra.

Cosa si cela allora, per ragionare sui movimenti globalizzanti dei giorni nostri, dietro l’icona della via della seta?
Tutto ruota: se nei secoli passati l’asse è girato dal Mediterraneo all’Atlantico, adesso potrebbe iniziare una rotazione contraria, con il Mediterraneo che recupera centralità, come nel mito di Marco Polo.

Quindi vengono prima le merci o i mezzi per trasportarle?
Sul cammino percorso da Marco Polo, avanzando nella modernità, si è pensato e scritto sul “ponte eurasiatico”, sulle grandi ferrovie a lievitazione magnetica dalla Cina all’Occidente, sul “bridge” tra Europa e Asia. Qualcosa di simile si sta concretizzando oggi, dalla Cina alla Russia. E, a riprova della circolarità globale, è questo il pendant, il simmetrico del secondo canale di Panama. Rispetto a questi scenari geopolitici quello sugli investimenti asiatici in Italia è un capitolo oggettivamente minore.

Nel febbraio del 2010, e dopo molti anni (Kissinger, ndr) dall’ultimo invito rivolto al membro di un governo occidentale, lei venne invitato a Pechino a tenere una lezione alla Scuola Centrale del Partito Comunista Cinese: sono veritiere le ricostruzioni di Repubblica sui momenti successivi a quell’incontro?
Io sono tornato nella Scuola del Partito anche dopo, nel 2010. L’articolo è buono, ma i fatti non corrispondono allo stile rigoroso proprio di entrambe le parti!

mercoledì 1 ottobre 2014

Perché la stampa americana critica la sicurezza della Casa Bianca

Bufera negli Usa, dove i membri del Congresso hanno dichiarato di aver perso la fiducia nei Servizi incaricati di proteggere il presidente Barack Obama e la sua famiglia e sollevato seri dubbi che Julia Pierson, il direttore dell’agenzia, sia la persona giusta per affrontare quelli che chiamano “problemi sistemici”. E’ iniziata una rivoluzione prima della scadenza elettorale?
L’ANALISI
“Rimprovero ai Servizi segreti” titola il New York Times, mettendo l’accento sulla mancanza di sicurezza emersa dopo le tre ore di interrogatorio da parte dei membri della commissione (ecco il video) che hanno chiesto in coro un’indagine indipendente dal momento che tale condotta “stava mettendo in pericolo le stesse persone che si è giurato di proteggere”.
IL SOTTOCOMITATO
Jason Chaffetz è a capo di un sottocomitato di Capitol Hill che sovrintende i Servizi segreti, e alWashington Post ha confermato i dettagli di un altro caso scottante che ha visto protagonista un criminale che si è trovato in ascensore con il presidente Obama. “Hai un criminale condannato che ha a portata di mano il presidente e non hai fatto un controllo dei suoi precedenti?”, si è chiesto Chaffetz. “Queste parole – aggiunge – non sono abbastanza forti per l’indignazione che provo per la sicurezza del presidente e della sua famiglia”.
VITA A RISCHIO
“La vita di Obama è a rischio” scrive Politico.com secondo cui “qualcosa di marcio c’è nei Servizi segreti”. Il riferimento secondo l’analisi di Ronald Kessler (ex giornalista investigativo delWashington Post e del Wsj e autore del pamphlet “The Particolare First Family“) è ad una serie di interrogativi ancora senza risposta. Perché, si chiede, un ufficiale in uniforme della Divisione Servizi Segreti, l’unità che gestisce la sicurezza alla Casa Bianca, ha segnalato spari acustici? Perché agenti in uniforme dovrebbero lasciar entrare alla Casa Bianca Michaele e Tareq Salahi in una cena di Stato quando sapevano che non erano sulla lista degli invitati? Perché i funzionari e gli agenti in divisa non riescono a prendere un intruso che ha corso nella Casa Bianca con un coltello e avrebbe potuto essere armato di esplosivo o armi di distruzione di massa?”
MOLTI IMBARAZZI
La reputazione dei Servizi è minata da imbarazzi, osserva la Reuters anche se il blogger Jack Shafer richiama l’attenzione sull’eco che i media daranno ai singoli casi. E punta l’indice sui pasticci burocratici “che dureranno molto a lungo, una volta che gli addetti ai lavori inizieranno l’anonima diffusione di sporcizia alla stampa”.
CHI E’
La signora Pierson, nominata da Obama nel marzo 2013, è un veterano con alle spalle trenta anni di attività all’interno dei Servizi americani ed è stata la prima donna a ricoprire quell’incarico dirigenziale alla Casa Bianca. Ha iniziato a prestare servizio al dipartimento di Polizia di Orlando come uno dei primi ufficiali OPD femminili e nel 1984 è diventata agente speciale nel Field Office di Miami. Ha partecipato alla protezione presidenziale di George Bush senior, Bill Clinton e George W. Bush.
QUATTRO CASI
Quattro i casi più significativi di violazione della Casa Bianca. Lo scorso 19 settembre, armato di un coltello, Omar J. Gonzalez è riuscito a saltare la recinzione con uno sprint di 70 metri degno di un velocista. Penetrato nella porta anteriore ha sopraffatto un agente dei Servizi segreti ed è corso nella sala del cerimoniale East Room dove è stato fermato un attimo prima di entrare nella Green Room. L’11 novembre del 2011 invece alcuni proiettili sono stati sparati contro la residenza, distruggendo una finestra e provocando oltre 100mila dollari di danni. Il 24 novembre del 2009 Michaele e Tareq Salahi, una coppia di sposi che aspiravano a essere presenti in “The Real Housewives of DC,” erano riusciti a superare i punti di controllo dei Servizi segreti per la prima cena di Stato del presidente Obama senza essere sulla lista degli invitati. La coppia è stata fotografata mentre incontrava tranquillamente il presidente e il suo vice.

lunedì 29 settembre 2014

Sì al velo, no a trucco e tattoo: le regole islamiche di Ankara

C'è un qualcosa di macabro nell'ultima provocazione del governo turco. Non è più solo islamizzazione forzosa o una guerra ideologica ai social network : questa volta Erdogan l'ha fatta grossa, perché ha messo mano alla regole di abbigliamento e di condotta nelle scuole medie e superiori, con divieti e prescrizioni che sanno di privazione palese della libertà.
Un pugno in faccia alla singola determinazione individuale a soli 13 mesi dai massacri di Gezi Park e dalle piazze del Paese che urlavano tutto il proprio dissenso contro uno Stato democratico a parole, ma dittatoriale nei fatti.
Secondo il nuovo codice di abbigliamento pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, il governo di Ankara da un lato ha abolito il divieto per le giovani di indossare il velo islamico tra i banchi delle scuole medie e superiori e dall'altro ha proibito alle studentesse di truccarsi, di farsi tatuaggi o piercing. Nel contestato decalogo pubblicato sul quotidiano Hurriyet si legge che «devono presentarsi a scuola con il volto visibile: non possono usare sciarpe, berretti, cappelli, borse o altri accessori con simboli politici o scritte; non si possono tingere i capelli, non possono avere tatuaggi né sfoggiare il trucco; non possono avere piercing, né baffi né barba». Capitolo velo. Rimane off sino alle scuole elementari, così come annunciato dal vice premier Bulent Arinc, scatenando un vespaio di polemiche, dal momento che tale divieto risale allo stato laico voluto dal fondatore della Turchia moderna, Musfata Kemal Ataturk. Per cui il «turban» era ammesso solo nelle scuole religiose, mentre nelle università il divieto era stato abolito con una riforma costituzionale adottata nel 2008 dal governo islamico dell'allora premier e attuale presidente Recep Tayyip Erdogan. Una condotta abolita da una sentenza della Corte Costituzionale che annullò il provvedimento.
Una deriva illiberale che pare non avere fine: prima della battaglia strumentale contro i social network da parte dell'allora premier Erdogan, anche si dice per nascondere un video hard che ritrarrebbe il premier con la bella ex miss Turchia Defne Samyeli, il governo turco nell'ultimo anno si è distinto per la reazione scomposta e violenta contro i manifestanti a Gezi Park, con una repressione armata che ha provocato morti e feriti. Poi è stata la volta della crociata contro YouTube e Twitter , a seguire l'apertura di un carcere speciale per omosessuali annunciato lo scorso maggio dal ministro della Giustizia Bekir Bozdag. Passando per l'attuale neo-premier, l'ex ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu, su cui sono calate le pesanti ombre di un pamphlet in cui teorizzò il neo-ottomanismo: nel libro Profondità Strategica teorizza una nuova veste per la diplomazia turca, basata sull'Islam e sul passato ottomano della Turchia, al fine di incarnare nuovamente il ruolo di potenza regionale.
E ancora, le minacce alle aziende internazionali che avessero collaborato con Cipro, una visione islamica della politica, senza dimenticare gli scandali che hanno riguardato tutto il governo turco lo scorso inverno e che ha portato ad un maxi rimpasto senza un passaggio parlamentare. Il tutto mentre Ankara mantiene a Cipro ben 50mila militari. Ultimo dato, in ordine di tempo, la timidezza con cui la Turchia, membro della Nato, ha affiancato gli Usa nella guerra all'Isis, in una macro contraddizione politica. E 20 giorni fa in un tweet, il segretario generale della CSU Andreas Scheuer, ha scritto: «La Turchia di Erdogan non ha un posto in Europa». Che abbia ragione?

giovedì 25 settembre 2014

L’ombra di Riyadh sulle intese militari tra Egitto e Russia

L'ombra di Riyadh sulle intese militari tra Egitto e Russia
La mano e il portafogli di Riyahd dietro l’ordine miliardario di armi sull’asse Cairo-Mosca? I rapporti tra Egitto e Russia sono diventati sempre più forti a seguito dei recenti accordi tra i due Paesi. L’esitazione degli Stati Uniti per la fornitura di armi all’Egitto e la crescente minaccia terroristica che il Cairo sta affrontando ai suoi confini orientali e occidentali, hanno portato l’Egitto a chiedere armi russe. Ma chi ha pagato il conto? E con quali obiettivi?
L’ACCORDO
E’ di pochi giorni fa la sigla dell’accordo preliminare per la fornitura di armi russe al Cairo del valore di 3,5 miliardi di dollari. Attori protagonisti l’influente capo dell’agenzia russa per gli armamenti e il generale Al Sisi, che ha deciso di strizzare l’occhio a Vladimir Putin: dopo questo passo la cooperazione nelle esportazioni di armi è un fatto compiuto, oltre all’istituzione di un centro logistico a Masri, sulle coste del Mar Nero. Gli Stati Uniti hanno sospeso parte delle forniture di armi alla caduta dell’ex-presidente egiziano Mohamed Morsi, nel luglio 2013. L’Egitto da tempo cerca di diversificare i fornitori di armamenti per non dipendere più dagli Usa, ma ora questa deriva preoccupa Washington e non solo. Il Cairo è un partner strategico in Medio Oriente, soprattutto a fronte dei nuovi sommovimenti jihadisti e del caos libico.
COSA ACCADE
Elicotteri d’attacco Mi-35 e gli elicotteri multiruolo Mi-17 russi: si tratta di mezzi di cui l’Egitto già dispone (circa cento) oltre a vecchi elicotteri Mi-8 sovietici per trasporto truppe, cargo, intelligence elettronica e attacco. Nell’accordo rientrano i caccia MiG-29M/M2, i sistemi SAM anti aerei, i missili antinave, oltre ad armi leggere e munizioni. La lista prende di fatto il posto degli armamenti Usa, ovvero i caccia Lockheed Martin F-16, gli elicotteri d’attacco Boeing AH-64Apache, i carri armati M1A1 e i missili antinave.
IL TREND
L’acquisto giunge dopo numerosi vertici avviati lo scorso febbraio sull’asse Cairo-Mosca. Risale proprio all’inizi del 2014 la prima firma preliminare a seguito dell’incontro in Russia tra il leader militare egiziano Al Sisi e Putin. In precedenza nel mese di novembre era stato il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov a spianare la strada alla firma al Cairo assieme al ministro della Difesa Serghei Shoigu. Secondo una serie di indiscrezioni apparse sulla stampa e riportate anche dal sito Al monitor.com, i contratti sarebbero frutto del finanziamento dell’Arabia Saudita.
LA CONGIUNTURA
E’ chiaro che l’ascesa di Al Sisi da un lato ha evidenziato un momento di stand-by dei rapporti con Washington che ad ottobre aveva cassato gli aiuti militari al Cairo, dall’altro ha accelerato ad una forma di partenariato maggiormente solido con Mosca. E’ la ragione per cui tra l’altro Putin appoggiò ufficialmente la candidatura di Sisi alla presidenza egiziana.
LE MIRE DI RIYADH
La notizia dal Cairo giunge dopo un’altra decisione che risale allo scorso dicembre, quando venne reso noto che gli Emirati arabi uniti avevano fornito liquidità alle Forze Armate libanesi per acquistare armi dalla Francia. Secondo molti analisti la mossa di Riyadh è un preciso segnale di malcontento saudita nei confronti della politica di Washington su questioni regionali come Iran, Siria ed Egitto.