Dal “Corriere del Mezzogiorno” dell’11/10/08
Gli atenei chiedono più occupazione, le imprese rispondono con più formazione e meno sprechi: la parola d’ordine è “disarticolare” e a pronunciarla con veemenza è stato il vicepresidente nazionale degli industriali con delega all’Education, Gianfelice Rocca. Dopo i rilievi nei mesi scorsi del rapporto di Bankitalia, in Puglia si è acceso il dibattito sulla qualità dei servizi offerti da scuole ed università.
Se è vero come è vero che la padronanza totale della lingua inglese, che invero dovrebbe diventare addirittura la prima lingua, accanto ad un’internazionalizzazione più marcata, rappresentano l’indiscussa ricetta per non naufragare nel prossimo decennio, è anche vero che non si può dimenticare che il 70% dei laureati baresi (dati del sondaggio Almalaurea) ripeterebbe il medesimo corso di laurea, o al massimo ne sceglierebbe uno simile, ma sempre all’interno dell’Ateneo di Bari. E’un dato che deve far riflettere, vuol dire che la nostra Università vale ancora qualcosa, al pari di altre, che magari hanno dalla loro una migliore qualità della vita per merito di trasporti e spazi verdi.
Il messaggio è: niente disfattismi. Le difficoltà ci sono e nessuno è così miope da nascondere la testa sotto la terra. Il riferimento è ai parametri di valutazione degli atenei, materia al centro della contesa: se si premia un’Università con finanziamenti corposi in base al numero degli iscritti e a quello dei laureati, si commette un grave errore perché si trascura la qualità dell’insegnamento e si bada solo a fare cassa, mortificando corpo docenti e valenza delle materie. Nulla vieterebbe ad un’università qualsiasi di far laureare un elevato numero di studenti in poco tempo.
Di contro sarebbe utile una riduzione della burocrazia e degli sprechi madornali. Due facce della stessa medaglia al fine di fare chiarezza sulla materia e allo scopo di cercare di interpretare il delicato momento economico- formativo nazionale e locale.
C’è un dato utile con il quale confrontarsi: secondo una delle maggiori banche d’affari mondiali, Goldman Sachs, tra dieci anni il reddito di un cittadino italiano sarà il 50% di uno del Regno Unito e il 30% di uno messicano: numeri da brividi, che fotografano perfettamente il momento critico che in verità dura da quindici anni e che, non bisogna dimenticare, ci vede deficitari sin dal ‘500, quando perdemmo il treno dello sviluppo delle Americhe, al contrario di Francia ed Inghilterra.
Ma come uscire da questa empasse?
Servirebbero meno laureati in scienze della comunicazione e più in materie scientifiche e matematiche, dice qualcuno, ma paradossalmente va osservato anche che molti atenei italiani sono stati costretti ad accendere mutui per pagare gli stipendi. Contabilità e sfruttamento delle risorse sono certamente all’ordine del giorno nell’agenda di governo ed enti locali, ma chi pensa alla forza lavoro?
Una proposta interessante è venuta da Confindustria, che ha dettato una sorta di decalogo: offrire collaborazione fattiva a quei rettori e a quei presidi realmente intenzionati a cambiare, ma con lo sguardo rivolto sempre alla qualità.
Il riferimento non è ai curricula, ma alla capacità di sviluppare un rapporto armonico tra sistema industriale ed il mondo universitario-scolastico, la vera chiave di volta per affrontare le sfide occupazionali di oggi e di domani.
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