Da Ffwebmagazine del 17/01/10
Di chi è il futuro se non di coloro che avranno la possibilità di vederlo con i propri occhi? E di chi, se non dei bambini che più di altri hanno dinanzi a loro una lunga strada di vita? Non sbagliava Mary Ann Hataway, navigatrice inglese, quando predicava: «Fa sì che ogni giorno si rivesta di speranza, perché le ombre del passato non offuschino la luce del futuro».
Il minore come speranza concreta per quel futuro: è il messaggio della giornata mondiale delle migrazioni 2010, che pone l’accento sul doppio diritto dei più piccoli. Quello di vivere in prima persona il proprio domani e quello di guardare a esso con fiducia e con speranza. Due prerogative che nei paesi democraticamente sviluppati potrebbe sembrare quasi superfluo rammentare, ma che invece sono diventate di primaria importanza, dal momento che non tutti ne possono godere. Anzi.
Numerosi sono stati negli anni i passi in avanti e i riconoscimenti ufficiali, come la convenzione Onu sui Diritti del fanciullo, resa esecutiva in Italia con una legge del 1992. Senza contare il grande lavoro dell’Unicef o delle altre realtà del terzo settore, come Save the children. O il contributo legislativo del testo Unico 286/98 sull’immigrazione, il “Diritto all’Unità Familiare e tutela dei minori”. Ma non è sufficiente. Occorre fare di più, per garantire diritti e per estirpare pregiudizi e sguardi sospetti. Per far integrare chi arriva in cerca di un sorriso, e per ufficializzare chi in questo paese si sente a casa, avendo magari completato qui un ciclo di studi, in virtù di quello ius soli già felicemente applicato in altre realtà europee come Germania e Gran Bretagna.
I numeri registrati nell’ultimo biennio sono assolutamente indicativi e meritano di essere analizzati per quello che sono, senza sottovalutazioni figlie di svarioni socio-culturali. I minori stranieri in Italia sono in progressivo aumento: nel 2008 si è superata la quota centomila, di cui il 40% giunti qui in virtù del ricongiungimento familiare; 72mila nati in Italia da genitori stranieri. Il dato generale schizza sino a più di 800mila unità se sommato ai figli di coppie miste e ai richiedenti asilo, agli adottivi, ai minori non accompagnati. Si tratta di una sorta di “esercito” di piccoli stranieri che potrebbero rappresentare una ricchezza demografica, sempre che la società e la politica ne facilitino intelligentemente l’inserimento. Per un paese, il nostro, come ha riflettuto il direttore generale di Caritas-Migrantes, monsignor Piergiorgio Saviola, che registra un rapido e verticale processo di invecchiamento, contribuendo all’abbassamento dell’età media degli stranieri, a oggi di 31 anni. Inoltre nell’anno scolastico 2008/2009 gli alunni stranieri hanno superato quota 600mila: si tratta del 7% della popolazione scolastica totale, altro elemento molto indicativo.
«Questi ragazzi - ha proseguito Saviola - non solo si trovano a raffrontarsi con le difficoltà tipiche dell’età adolescenziale, ma anche con quelle legate al loro status di migranti o rifugiati». Problematiche che hanno un nome e un cognome, ovvero: scarna socializzazione di alcuni di loro e anche delle famiglie di appartenenza; ristrette opportunità economiche per cultura, sport e svaghi; eventuale immissione precoce nel mondo lavorativo, a volte anche sommerso; incertezza dell’evoluzione migratoria del nucleo familiare; eventuale clima ostile nei riguardi dell’immigrato.
Quando si delinea l’equazione “minori = ricchezza” si intende esattamente questo: essi possono diventare veri e propri mediatori culturali per le proprie famiglie di appartenenza, data la loro età. E con il loro atteggiamento sostenere non poco quella logica di condivisione, che ha il suo avvio nello smussare pregiudizi e diffidenze. Tale doppia appartenenza, culturale e linguistica, può tramutarsi in una vera occasione di inserimento, contribuendo a rafforzare quella società dell’accoglienza e dell’integrazione che si deve, per forza di cose, autoalimentare nel tempo e nelle menti, al fine di nutrire i propri ingranaggi con gli ingredienti del buon senso e della solidarietà.
E allora vale la pena di ricordare le parole pronunciate da Haile Selassie I, sovrano etiope, in un discorso alle Nazioni Unite nel 1963: «Finchè il colore della pelle di un uomo non avrà più valore del colore dei suoi occhi; finchè i diritti umani fondamentali non saranno egualmente garantiti a tutti; fino a quel giorno il sogno di una pace duratura, la cittadinanza del mondo e le regole della morale internazionale resteranno solo una fuggevole illusione, perseguita e mai conseguita».
Nessun commento:
Posta un commento