venerdì 29 gennaio 2010

Claudio Magris e il rifiuto dello Stato azienda

Da Ffwebmagazine del 28/01/10


«In ogni cosa - diceva Bertrand Russell - è salutare, di tanto in tanto, mettere un punto interrogativo a ciò che a lungo si era dato per scontato». Ad esempio: come si è giunti al quadro democratico attuale? Sulla base di quali e quanti sforzi ci si proclama società civilizzata e moderna? E ancora: cosa si intende oggi per Stato? Un agglomerato di esperienze e di persone che convivono insieme, per le quali vale la pena sacrificare vite umane? O, come qualcuno ha postulato, un’entità politica accostabile al concetto di azienda, con le relative e conseguenti implicazioni?

Secondo Claudio Magris la crisi globale è figlia di un aziendalismo universale che danneggia l’economia, implicando una riduzione della visione del mondo e comprimendo gli spazi per la programmazione futura. Ma è l’economia, essa stessa causa di una sorta di mercatismo diffuso, che livella una serie infinita di ambiti veicolandoli esclusivamente sul piano finanziario. Poiché, sostiene lo scrittore e germanista triestino, tutto diventa azienda: l’ospedale, l’ateneo. E tutti diventano clienti, gli ammalati e gli studenti con i loro crediti. Lecito interrogarsi: dove conduce tale visione, se non a considerare la vita un elemento opzionale?
Certo, viviamo in un’epoca nella quale gli indicatori economici hanno riflessi notevoli e innegabili in una miriade di applicazioni e di concretizzazioni. Ma sarebbe quantomeno riduttivo insistere in una sorta di economicismo dell’universo a priori, dal momento che si finirebbe per ignorare chi quelle leve dell’economia muove, chi quelle fabbriche che generano utili fa produrre a pieno regime.

Insomma quell’elemento vivente e cogitante che viene prima del dato economico, semplicemente perché ne è la diretta causa e, per alcuni versi, anche l’effetto. E perché ad esso sopravviverà: l’uomo. Con i suoi difetti, le sue abitudini, le sue imprevedibili condotte. Il ragionamento “pro stato non azienda” di Magris può rappresentare un’interessante occasione per riflettere a mente libera sul tentativo attuato in questi anni di aziendalizzare lo Stato, anche perché no con lo sguardo rivolto alle celebrazioni dell’anniversario dell’Unità d’Italia. E per smontare concezioni troppo spesso globalistiche che, forse per fretta universalizzante, forse – ed è ben più grave - per certa pigrizia analitica, vengono ottusamente proposte come medicina per ogni più banale mal di testa sociale.

Apparirebbe evidentemente da sciocchi insistere nel proporre una società totalmente e anacronisticamente sganciata da valori economici e da inclinazioni di tipo finanziario, dal momento che a tutti gli effetti il capitalismo è il modello di riferimento delle società moderne. Ma da qui a issarlo come totem da idolatrare quotidianamente e come termine di paragone per moltissimi ambiti legati al quotidiano, sarebbe una forzatura non solo fuorviante, ma pericolosamente controproducente. Il risultato, che a tratti purtroppo affiora, è il drammatico regresso del fattore umano. Della mente, dei pensieri, delle idee, delle proposte. L’azienda che Magris avverte nelle università e negli ospedali è realmente un freno? Sì, quando ha la presunzione di ridurre il malato al prossimo numero da analizzare, o quando intende lo studente solo come la successiva matricola a cui affibbiare debiti o assegnare crediti. Tutti legati in una sorta di spirito da caserma che dà la sgradevole sensazione di neuroni congelati, messi lì in un angolo, pronti ad obbedire alla direttiva dell’azienda. Certi che la procedura è stata attentamente vagliata da qualche dirigente ed approvata in via definitiva dal consiglio di amministrazione.

Come in una vecchia puntata di X-Files, dove alcuni esseri umani erano stati “parcheggiati” in agghiaccianti loculi verticali, in attesa della propria sorte. Vale allora la pena provare ad allontanarsi da schemi economicamente ingessati, che tendono a fare dello Stato una sorta di compagnia privata. Dove c’è un piano alto con dirigenti seduti al tavolo del cda e una stuola di operai più in basso a cui impartire fredde direttive di produzione. Non potranno evidentemente combaciare tali logiche aziendalistiche con il concetto di Stato, proprio a causa delle differenti ed evidenti finalità. Se l’una è nata e vive per produrre nient’altro che utili, l’altro invece ha ben altra missione. Garantire diritti, coadiuvare lo sviluppo democratico della società, investire nelle generazioni future. E da qui spalancare le finestre per uno stormo di nuovi pensieri in arrivo, inforcare lenti diverse per leggere testi mai visti prima, mescolare colori difformi per scoprire altre tonalità.

Ovvero educare. Sì, lo Stato deve anche educare, proporre modelli, attualizzarne i contenuti. Fare da padre e da madre. Lo Stato è per i cittadini come un genitore per i propri figli. E a nessun padre verrebbe mai in mente di far pagare al proprio figlio il latte della prima colazione. E poi lo Stato non chiude, non licenzia, non mette in cassa integrazione, non delocalizza, non impone il doppio turno a causa del personale ridotto. Solo intendendo la patria come un’aria avvolgente e coinvolgente, indispensabile alla sopravvivenza, si può scavare nei reali motivi che uniscono un popolo. Ed essere presi dall’emozione di un risultato storico, accorpati dal meraviglioso desiderio di unità, come accaduto centocinquantuno anni fa.

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