mercoledì 20 gennaio 2010

Lo Stato chieda scusa ai morti d'amianto


Da Ffwebmagazine del 20/01/10

«Se ne andavano alla vita come allora si usava di certo, senza alibi e senza paura a lavorare senza un difetto. Se ne andavano alla vita come giovani assonnati al mattino, con due sigarette in bocca da fumare contro il destino». Inizia così la canzone Cooperativa Vapordotti di Marco Chiavistelli, scritta per le vittime dell’amianto in una piccola realtà industriale dell’Alta Val di Cecina, decimata dalle morti invisibili. Scritta per combattere un nemico senza colore né forma che, sotterraneo, si è insinuato nelle vite di migliaia di lavoratori e delle loro famiglie. Inutile abbozzare numeri e dati, purtroppo destinati a moltiplicarsi vertiginosamente, in alcuni casi beffati anche da una giustizia lenta e a volte cieca. Questa è la storia di un popolo di dimenticati, gente che non solo ha trascorso anni interi in ambienti di lavoro difficili e complessi. Ma che non ha ricevuto ciò che, prima di ogni altra cosa, qualsiasi persona merita: il rispetto per l’essere umano.

Ma chi è e come si muove questo killer silenzioso? La prima presa di coscienza in Italia risale agli anni trenta con alcuni studi condotti da Vigliani. Ma il suo utilizzo, a seguito di produzione e lavorazione, venne incentivato al termine del secondo conflitto mondiale. Ricerche epidemiologiche, indagini su patologie aggressive e decessi inspiegabili non furono sufficienti a fermare una macchina che era già stata avviata. E allora operai delle fabbriche, marittimi, personale in navigazione aerea, ferrotranvieri: tutti soggetti a rischio-amianto. Come gli operai della Fibronit di Bari morti negli ultimi trent’anni, assieme a molti familiari e a cittadini la cui unica colpa era di risiedere nei pressi di quella fabbrica. Prima che fosse chiusa e bonificata. O i lavoratori di quella che era definita la Stalingrado d’Italia, gli otto stabilimenti di Sesto San Giovanni, che nel 1994 contavano circa 42mila unità su una popolazione di 90mila abitanti. O come la storia di Calogero, esposto per quindici anni sino al 1999 perché in servizio alla Priolo-Augusta-Melilli di Siracusa, detta anche il triangolo della morte, dove tutto era in fibra di amianto, e nessuno, neanche chi era preposto alla vigilanza ed alla salvaguardia dei diritti dei lavoratori, si era premurato di allertarli. E ancora come gli anni trascorsi da Fabio Berti nella cooperativa di Larderello, a cui quella canzone si è ispirata, sostanzialmente estinta per malattie asbesto correlate, dopo aver realizzato negli anni ’60 e ’70 lavori di coibentazione con amianto per conto di una grande industria elettrochimica.

Esempi che potrebbero essere seguiti da molti altri, per i quali in Italia si è creato un vuoto. Un vero e proprio buco di applicazione della legge. Lecito chiedersi: ma non vale anche per loro il dettato dell’articolo 32 della Costituzione? Quello secondo cui «la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività»? O la prescrizione dell’articolo 41, quando dice che la stessa iniziativa economica privata “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”? O la direttiva dell’articolo 2087 del codice civile quando sostiene che le precauzioni del datore di lavoro «sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro»?

Le procedure per i riconoscimenti sanitari e per gli indennizzi sono state avviate, assieme a numerosi ricorsi alla Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo per una serie di cause con diritti negati, descritti nelle pagine de Lo Stato dimentica l’amianto killer da Ezio Bonanni. Ma al di là degli aspetti puramente burocratici, che non faranno certamente tornare in vita le vittime, urge evitare che altre morti si verifichino, che altri figli restino orfani, che altri lavoratori paghino per colpe non avute, che altre leggi non vengano rispettate. Il tutto nella consapevolezza che in uno stato di diritto che si proclami tale non si può tollerare la disuguaglianza che i lavoratori dell’amianto italiani hanno sino ad oggi patito. Basta poco per fare tanto, sarebbe sufficiente che lo Stato si alzasse e, dall’alto di quel lambone da dove si pontificava e si recitavano passate omelie, chiedesse scusa. Scusa per quei lavoratori che se ne andavano «in cooperativa mentre il fischio risuona lontano, ce ne andiamo senza fatica e ogni ragazzo si tenga per mano». Così le ultime note de La Cooperativa Vapordotti, la canzone dei dimenticati.

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