giovedì 7 gennaio 2010

E`IL MOMENTO DI UNA POLITICA DI SERIE A

Da Ffwebmagazine del 04/01/10


Quale partito ragionevole e democratico sarebbe manifestamente contrario a fine del bicameralismo perfetto, riduzione del numero di deputati e senatori, rafforzamento parallelo dei poteri del premier e dell’assise parlamentare? Riflessioni obbligatorie che dovrebbero stimolare analisi e mea culpa per iniziare il nuovo anno con la giusta lena.

«Le riforme non possono essere bloccate dagli opposti pregiudizi. Dalla crisi può uscire un’Italia più giusta. Andiamo avanti con fiducia». Così il capo dello Stato in uno dei passaggi maggiormente significativi del messaggio di fine anno. Perché fossilizzare il dibattito riformista? Attorno a quale modello di società impegnarsi a costruire? Se socialista, liberale, aperta, chiusa, plebiscitaria o rappresentativa. A cosa servirebbero sigle e cap alla vigilia di dodici mesi carichi di difficoltà ma anche di opportunità? E ancora: non sarebbe più utile rimboccarsi le maniche seriamente e dare avvio ai lavori, con all’ordine del giorno la parola concretezza e senza perdersi dietro paraventi etimologici che non offrono nessun plus, ma possibilmente rallentano ulteriormente i passi da fare?

Gli ultimi giorni del 2009 sono stati caratterizzati da alcune analisi che hanno diagnosticato lo status quo, azzardando anche qualche pronostico. «La rivoluzione liberale si è risolta in un grande inganno. Non c’è stata perché in Italia non esistono masse liberali. Ci eravamo illusi che ci fossero». Sono le parole, amare, di Piero Melograni affidate al Corriere della Sera. Piero Ostellino invece ha sostenuto la netta distinzione fra liberalismo e assenza di regole, in quanto «lo stato sociale nelle democrazie del nord Europa è un servizio reso a uomini liberi e responsabili, come corrispettivo delle tasse che si pagano», sottolineando la doppia valenza delle libertà in quanto tali. Di contro può bastare, come ha riflettuto ottimisticamente Giuliano Urbani, aver tolto il bavaglio a quella che definisce «maggioranza silenziosa», per parlare di autentico rivolgimento storico? Evidentemente no.

Altra direzione ha imboccato Paolo Del Debbio, che ha intrecciato indissolubilmente il varo della riforma fiscale tremontiana alla rivoluzione liberale. Nessuno vieterebbe, però, di iniziare ad avviarla indipendentemente delle mosse del ministero di via XX Settembre, in virtù di un certo interventismo più marcato. Certo, la vera rivoluzione secondo Del Debbio sarebbe abbassare le tasse, che non sono state tagliate a causa del debito pubblico troppo alto. Ma quest’ultimo potrebbe essere snellito anche da una condotta più virtuosa della politica.

Visioni multilivello, che hanno affrontato il grande tema da angoli diversi, ma che se valutate intimamente e con un occhio ampio, prestano il fianco a una intuizione. Se, dopo aver stappato spumanti e scartato panettoni, le forze politiche faranno il possibile, assieme, per dare seguito a nobili intenzioni riformiste, magari partendo da una base condivisa, forse si metteranno finalmente in pratica le raccomandazioni quirinalizie. Giorgio Napolitano ha messo l’accento sullo spirito riformista, ovvero nella direzione dell’interesse generale, da cui dipende il funzionamento dello Stato. E con l’ausilio di regole certe per maggioranza e opposizione, che sostengano quell’Italia, che non è poi così divisa come appare dallo scontro politico.

Nel messaggio di fine anno il capo dello Stato ha ancora una volta rammentato che esiste un rapporto di diretta proporzionalità fra riforme economico/sociali e adeguamenti di tipo istituzionale. La seconda parte della Costituzione può essere ammodernata, ha detto, con due stelle polari: la misura e l’intesa. E poi recuperando tre valori troppo spesso ignorati : rispetto per la comunità, sobrietà nello stile di vita, rifiuto della violenza. Quel che è certo, è che da gennaio si riprenderà dalla cosiddetta bozza Violante, con un calendario ipotizzabile che parta a giorni già in commissione Affari costituzionali e che prosegua a cavallo delle consultazioni regionali.

Inutile e dannoso sostenere, come hanno fatto alcuni, la distinzione tra la condivisione sulla natura e sulla sostanza di riforme istituzionali, e la condivisione sulla necessità delle stesse. E allora vale la pena di caldeggiare la proposta del “doppio binario”, valutata senza foga ma con raziocinio, ovvero avviando le riforme condivise in un ramo del Parlamento, al fine di approvarle entro un anno con una maggioranza superiore ai due terzi. E lasciando all’altro ramo l’avvio di ciò che non è condiviso, come ad esempio le norme costituzionali sulla giustizia.

Se il 2010 sarà effettivamente l’anno delle riforme, dipenderà anche dalla risolutezza con cui la politica, quella di serie A, che non convive con il fiato corto, deciderà di procedere. Anche per far sì, usando le parole di Piero Ostellino in un editoriale di fine anno, che una volta per tutte si recuperi un minimo di cultura liberale che faccia «cadere definitivamente anche da noi il muro del ritardo culturale e politico».
Che si proceda, dunque, con solerzia e fiducia, sforzandosi di andare avanti scacciando sterili contrapposizioni perché, come diceva Diogene, «magari potessi farmi passare la fame solo grattandomi la pancia».

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