domenica 28 marzo 2010

Quei vuoti urbani che rinascono musei


Da Ffwebmagazine del 28/03/10

Spazi riportati in vita, luoghi del passato - recente o più lontano - accarezzati dall’intenzione di innovazione e di sperimentazione. Sia come occasione che veicoli idee e arte, sia come spunto per “riciclare” in chiave moderna e funzionale un pezzo delle città, che è rimasto intrappolato nel vuoto degli arcipelaghi urbanistici. Ambiti che per una serie di dinamiche legate al mancato utilizzo ed al conseguente svuotamento di elaborazioni e contenuti, sono stati accantonati in alcuni casi, e recuperati in altri. È la storia dei grandi contenitori lasciati vuoti, per intenderci di quelli che ospitavano i vecchi mercati generali, o i gasometri, o palazzi nobiliari in disuso, o ancor più frequentemente le manifatture. Luoghi che nel resto del mondo vengono professionalmente musealizzati, anche con sinergie tra pubblico e privato. E che oggi incarnano l’occasione per riallacciare i rapporti con il mondo dei giovani, spesso lontani da musei e dai luoghi di cultura.Uno degli esempi italiani nel quale risalta la volontà di riempire nuovamente prestigiosi spazi che l’incuria ha dimenticato, è il Reale Albergo dei Poveri di Napoli, per il quale gli ultimi lavori dovrebbero concludersi entro il 2010. Si tratta del maggior edificio monumentale napoletano, una delle più grandi costruzioni settecentesche d’Europa, estesa per circa centomila metri quadrati. È situato nella zona più antica di Napoli città, dove in passato trovavano un punto di incontro due arterie storiche, la via di Foria con l’antica via del Campo. In passato ospitò donne e bambini caratterizzati da gravi disagi socio-economici, al fine di offrire loro un’occasione di qualificazione professionale. La scelta del suo riutilizzo è stata concentrata sulla realizzazione al suo interno della “Città dei Giovani”, un’iniziativa per i
mplementare la libera espressione dei talenti giovanili, sul piano socio-culturale. In un unico luogo si intende così rendere disponibili servizi, opportunità, vetrine, metri cubi per eventi e manifestazioni. Altro esempio italiano in Emilia Romagna. Quasi diecimila metri quadrati di sperimentazione e ricerca sono dedicati al MAMbo di Bologna, situato all’interno del distretto culturale della manifattura delle Arti, e collocato esattamente al centro di un’area dedicata all’innovazione, che comprende la cineteca di Bologna, il dipartimento universitario dei Dms e la Facoltà di Scienze della Comunicazione. La sua prima sede vide la luce nel 1915, progettata come panificio comunale. Dal ’70 in poi affronta varie destinazioni d’uso, fino a diventare deposito comunale. Ma nel 1995 si scommette sulla modernità, ed ecco che si offre spazio alla volontà di investire in quei contenitori. Prima la demolizione, il recupero e il consolidamento strutturale. In seguito la nuova edificazione di ambienti interni, con la costante accortezza di non snaturare il percorso architettonico presente. Ex forno del pane, oggi ospita un dipartimento educativo, una sala conferenze, ambiti per mostre temporanee, una biblioteca-emeroteca di arte contemporanea. Mentre all’esterno il giardino del Cavaticcio collega il MAMbo al complesso della manifattura delle Arti.

Due regioni più a nordovest, in Liguria: prima scuola, poi tribunale e infine museo. È il curriculum del CAMEC di La Spezia, costruito ad inizio ‘900 come scuola elementare, per poi diventare sede della procura civile e penale negli anni ’20. Raso al suolo durante la seconda guerra mondiale, fu ricostruito due lustri dopo, per poi recentemente essere ritrasformato in centro di arte moderna e contemporanea, con un ascensore panoramico esterno ed un’ avvincente scala elicoidale.Volgendo lo sguardo oltre i confini nazionali, uno degli esempi maggiori di ridefinizione culturale di una sede in chiave artistica, è senza dubbio il museo d’Orsay di Parigi. Interamente dedicato all’impressionismo con capolavori di Monet, Van Gogh, Cezanne, e in questi mesi al centro di una fase di intenso restauro che terminerà nel 2011, è ospitato all’interno di una stazione ferroviaria. Costruita in occasione dell’esposizione universale del 1900, venne inaugurata il 14 luglio di assieme ad un grande hotel. Sino al ’39 la stazione di Orsay fu punto di riferimento per il traffico da e per la Francia sud-occidentale, ma quell’anno segnò anche l’evidenza del suo limite: era in grado di assicurare i collegamenti con le aree periferiche, ma non con le tratte di percorrenza che progressivamente si stavano elettrificando. Fu in seguito adibita a centro di accoglienza per prigionieri, centro di spedizione pacchi, sede di una compagnia teatrale ed anche casa d’aste nel 1974. Fino alla decisione dell’allora presidente della Repubblica Giscard d’Estaing di inserirla tra i monumenti storici: vide la luce come museo nel 1986.

Tremila chilometri più a est del Museo d’Orsay, si trova il MMOMA di Mosca, all’interno di un palazzo del diciottesimo secolo appartenuto al venditore Gubin. Situato nel centro della capitale russa e restaurato nel 1999 dall’architetto neoclassico Matvej Kazakov, è protagonista tra l’altro di un interessante programma di educazione denominato “Free studios”, per avvicinare e formare giovani artisti contemporanei.Sorpresa, invece, desta la sede della Galleria d’arte moderna di Glasgow, per cui è stato scelto dal 1996 un elegante edificio neoclassico in Exchange Square. Costruito nel 1775 come residenza di campagna di un facoltoso commerciante di tabacco, nemmeno il più fantasioso visitatore potrebbe mai immaginare che all’interno di una cornice così imperiosa e ingessata, possa trovare riparo un contenitore per le sperimentazioni artistiche: altro elemento sul quale varrebbe la pena riflettere non poco.

Oltre alle esposizioni contemporanee di opere scozzesi ed internazionali, il museo di Glasgow si è attrezzato con numerose mostre temporanee, che hanno consentito ad esempio di scovare giovani talenti come Barbara Krugere, esponente dell’arte femminista americana.Ma se poi, anziché cercare un luogo fisico, si volesse sperimentare la possibilità di interagire con opere esposte, modificandole virtualmente? Ecco che il contenitore perfetto sarebbe il MOWA, ovvero il Museo virtuale della web art. Un po’ il nipote post moderno del MOMA, un museo on line che raggruppa alcune opere di artisti della Rete. Luogo per esporre, ma soprattutto per raffrontare esperienze e sensazioni. Nella sua galleria virtuale sono rappresentati ben sette paesi, Cina, Giappone, Germania, Danimarca, Olanda, Gran Bretagna e Stati Uniti.
«La tecnologia si basa sulla tecnica, e la tecnica è il risultato della tecnologia» scrive nella presentazione il fondatore Amy Stone. La sua sede non è un contenitore del passato in cerca di recupero, né una nuova alcova supermoderna con strati di titanio e giochi di luce. Più semplicemente è ospitata all’interno di un server, che si estende per ben quattro gallerie virtuali, oltre ad una quinta dedicata ai più piccoli. Distinte in altrettante tematiche: cose che funzionano, cose che si muovono, cose che cambiano, cose statiche. E forse sono proprio queste ultime, visto il flusso della storia, a essere (e non solo in questo campo) roba da museo.

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