mercoledì 3 febbraio 2010

Ma l'Italia sa ancora sognare?


Da Ffwebmagazine del 03/02/10

Che succede al belpaese? Dove sono finiti i sogni della gente, i progetti dei giovani, le mete dei più saggi? O gli errori, i tentativi, i contrasti da cui - diceva Einaudi - nascono le idee? Nella lettera ai Romani, San Paolo scriveva «ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza».

Giorgio Armani in un'intervista al Corriere della Sera di qualche giorno fa ha riflettuto amaramente che «rispetto a Parigi e Londra, sembra che qui non succeda mai niente. Al limite i giovani si riversano sino a tardi in discoteca, non parlano, al massimo si tocchicchiano senza combinare granché. Non abbiamo la cultura del posto di ritrovo europeo». Denunciando una realtà fastidiosa, quasi amebica, fatta di menti che non si uniscono, proiettate solo all’oggi e drammaticamente prive di una qualche proposizione futura. Dove mancano appuntamenti di ampio respiro, che inneschino una sorta di concatenazione di freschezza.

Analogo filo conduttore che si ritrova, con spunti differenti, nelle parole dell’allenatore dell’Inter Josè Mourinho, quando dice che «in Italia è impossibile innovare, si può solo resistere». Riferendosi alla permanenza cronica dello status quo, senza che spinte modernizzatrici trovino sfogo. Anche nel calcio poche sono state le sperimentazioni, le innovazioni o le rivoluzioni: si pensi ad esempio alla volontà di non fermare le partite durante le festività natalizie, come accade in Inghilterra nella Premier League. O dotare le porte di sensori che garantiscano il gol quando la palla ha effettivamente varcato la fatidica linea bianca. Niente. Lo sport è solo uno degli ambiti in cui manca il coraggio di osare. Si pensi all’arte, dove una ventata di innovazione potrebbe essere rappresentata da musei di nuovo conio, concepiti come luoghi globali e aperti al cambiamento, anche per avvicinare altri fruitori. O all’editoria, con la rete che spalanca nuove opportunità.

Novità che non accadono, esperimenti che non si attuano. Un disagio respirato a più livelli, se è vero che Lucio Dalla, discutendo sull’appeal della sua Bologna, è arrivato a definirla «una città depressa, per la consapevolezza di non essere più la città di un tempo. Non si compiace più di quel che rappresenta nell’immaginario italiano: la città grassa, dotta, godereccia. Non è più capitale culturale, produce sempre meno idee e vive un senso quasi di panico». L’elemento sul quale riflettere non è solo il fatto che la città non sia più quella di un tempo, ma che fatica a produrre il nuovo. Dal momento che «non bisogna cercare di tornare all’origine - come predicava Alain de Benoist - perché non si può tornare indietro. Non bisogna fare un ritorno, ma un ricorso all’origine». Ovvero niente rimorsi romantici del tempo che fu, ma concentrare forze ed energie per costruire un’altra immagine, che sia base culturale, artistica, e anche politica, per la società di domani. E poi sforzandosi di abbattere il nuovo nemico del secolo in corso. Quella sensazione di panico che furoreggia dappertutto. Quasi che la paura si potesse combattere rintanandosi semplicemente e ingenuamente nella propria casa, come un cane che intimorito fa mestamente ritorno nella calda cuccia. Niente di più controproducente. Il timore va sconfitto osando. Il grigiore va spezzato colorandolo di mille spruzzi cromatici. Come l’arcobaleno, che troneggia al termine di un cupo temporale.

E in questo senso un apporto rilevante lo potranno dare, perché no, non solo le élites, ma soprattutto quella valanga di spiriti liberi e di neuroni in movimento che sono le idee. Nude e crude. Senza fronzoli, retropensieri, o illazioni di vario genere. Quelle che Lucio Dalla non vede più aggirarsi per le strade della sua città. Quelle che spaventano branchi di uomini e di donne in perenne stand by di fronte a una novità che scompagina. Quelle che Giorgio Armani magari vorrebbe implementare e incentivare, per fare dell’Italia un polo meno ingessato e più brioso e, quindi, definitivamente avanguardistico. Quelle, per intenderci, che hanno consentito ai cervelli di casa nostra di fare le scoperte che hanno fatto nelle università americane. O che hanno raccontato belle storie di modernità. Ma come ottenere nuova linfa se non tranciando quegli sguardi tristi, quelle iniziative forzate, quelle approssimazioni acidule, quei tentativi di spargere paure e sospetti? È da lì che bisognerebbe ri-partire, per reinventare contenitori differenti, non vuoti anche se graziosi e perfetti all’apparenza. Ma capaci di ospitare contenuti veri, in grado di creare un’altra volta emozioni, sogni, speranze.

Concetti che fanno venire alla mente le note di Franco Battiato in Un’altra vita: «Non servono più tranquillanti o terapie, ci vuole un’altra vita. Non servono più eccitanti o ideologie, ci vuole un’altra vita». Quanto dovrà aspettare il paese per aprire una nuova fase?

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