Da Ffwebmagazine del 31/03/10
«All we are saying is give peace a chance. All we are saying is give peace a chance» cantavano John Lennon e Yoko Ono nel giugno del 1969, dopo aver registrato quello che sarebbe diventato l’inno del pacifismo mondiale nella stanza numero 1742 del Queen Elizabeth Hotel di Montreal. Note che si legano indissolubilmente agli anni del conflitto in Vietnam. E che fanno da contraltare a una pellicola storica, come The strawberry statement del 1970, con al centro la rivolta degli studenti di New York per protestare contro la vendita all’esercito di alcuni terreni destinati a servizi per la comunità afroamericana. Occasione per cui quel gran sognatore di Israel Horovitz , poco più che trentenne di belle speranze, firmò una magistrale sceneggiatura. Una miscellanea di ritmi e pensieri, con l’incontro fra le istanze dei diritti civili e la salvaguardia del pacifismo. Il tutto affrescato con un rock che accarezza la proiezione, dandole le sembianze quasi di un lungo e intenso video clip.
Horovitz giunse a quel risultato poco tempo dopo aver fatto il suo esordio italiano in quel di Spoleto nel 1968, al Festival dei Due Mondi, assieme a due emeriti sconosciuti per l’Italia dell’epoca, come Al Pacino e John Cazale. Sul palco della cittadina umbra, alzando un pugno al cielo, pronunciò uno slogan contro la guerra vietnamita, contro l’odio e l’intolleranza razziale, che nessuno comprese. «Non fa nulla - dice oggi Horovitz ricordando quei giorni davanti a decine di studenti romani di arti drammatiche - ma ricordate che se non farete sentire la vostra voce non ci sarà ragione per essere vivi». Un concetto, quello della rappresentanza, molto forte non solo nelle sue parole, ma soprattutto nelle sue sceneggiature teatrali.
Proprio a Spoleto ha fatto ritorno pochi mesi fa in occasione della rassegna internazionale 70/70 Horovitz Project, promossa dalla Barefoot Thatre Company di New York e per festeggiare i suoi settant’anni, con un monito alle nuove generazioni: «Solo sognando si possono realizzare i desideri della vita, senza timidezza e con coraggio». Un appello che si sposa alla perfezione con la sua storia personale, fatta di scommesse e di tenaci tentativi.
Nato a Wakefield, un piccolo paese del Massachussetts, da un padre camionista, Israel nei suoi viaggi e nelle diverse avventure lavorative ha sempre portato dentro di sé il concetto dell’opportunità. Quella cosa tanto grande e a volte inafferrabile che consente ad uno sconosciuto di farsi strada con la sola forza delle proprie idee e, soprattutto, con un temperamento d’altri tempi per inseguire un sogno. E raggiungerlo. Che gli ha consentito, ad esempio, di instaurare una bella amicizia con il drammaturgo Samuel Beckett: avrebbe dovuto incontrarlo in un caffè di Parigi per trenta minuti. Ma poi l’amabile chiacchierata durò più di tre ore.
Sogni, pensieri e ancora sogni. Ma non perduti nel limbo delle utopie, irraggiungibili e contraddittori, bensì fermamente ancorati al domani. E legati alla visione del progresso generazionale, grazie al quale la società americana concede una possibilità di miglioramento. La stessa che, un lustro fa, diede inizio all’avventura politica di un certo Barack Obama, figlio di un keniota, lo stesso ragazzo di ieri che oggi ha scritto la storia degli Stati Uniti con la riforma del sistema sanitario.
Ma che, per fare ciò, ha dovuto attraversare burrasche e posti di blocco. Se dormi con i cani - ammonisce Horovitz - poi al mattino ti svegli con le pulci». Chiaro il riferimento ai rischi concreti che talune scelte professionali comportano. Come altrettanto chiaro il richiamo a contrastare con tutte le forze a disposizione lo status quo. «Non siate lì ad aspettare che squilli il telefono – incalza - ma fate qualcosa».
L’ideale della proposta, della nuova veste di un concetto, della sperimentazione, della consapevolezza di scelte magari impopolari ma che incarnano un progetto, un sentire comune, una voglia, un obiettivo. Dove la chiave di volta per comprendere la valenza di un’intuizione è l’integrità. Nei propositi, nelle intenzioni, nella buona fede. E soprattutto nel coraggio. Lo stesso ideale che gli torna prepotentemente in mente, se dopo quarant’anni quel film viene ancora preso in considerazione da migliaia di persone. Significa che ha toccato certe corde, che ha innescato dibattiti e interrogativi, che ha posto questioni sottaciute sino ad un istante prima.
«All we are saying is give peace a chance. All we are saying is give peace a chance». Ancora le note di Lennon, che accompagnano gli ultimi frame del film Fragole e sangue, in una scena surreale e che offre l’immagine plastica di una trasformazione globale: tutti gli studenti battono mani e piedi sul parquet del campo di basket all’interno dell’ateneo, pochi istanti prima che la Guardia nazionale faccia irruzione con gas lacrimogeno e manganelli. Mentre fuori iniziano pian piano ad accendersi alcune decine di candele, che in seguito diventano centinaia: piccoli lampi di luce in un buio tutto da squarciare. La luce della pace e della testimonianza civile, con il protagonista che urla «Per dare prova che siete vivi!».
«Bagism, Shagism, Dragism, Madism, Ragism, Tagism. This-ism, that-ism, is-m, is-m, is-m…».
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