Da Ffwebmagazine del 27-07-09
Una grande tradizione orale, uno sterminato numero di poemi e romanzi con sullo sfondo la guerra civile del Biafra e le discriminazioni razziali e umane. E poi il petrolio, lo sfruttamento dei pozzi, l’inquinamento delle coltivazioni agricole, gli assassini politici. L’Africa è un continente complesso, un continente nel continente, dal quale sono fuoriusciti come zampilli di greggio immense produzioni letterarie, veri e propri fiumi di poemi e composizioni, storie di vita vera, vissuta, di drammi e contrapposizioni, di richieste di aiuto, molte rimaste senza risposta, altre ascoltate, sotto il comun denominatore del toddy, il vino di palma, la tradizionale bevanda africana della quale ogni autore vorrebbe essere innaffiato copiosamente e che è stata al centro dell’opera del nigeriano Amos Tutuola, ll bevitore di vino di palma, titolo originale The Palm-Wind Drinkard.
Il bevitore incarna l’alfa della produzione letteraria novecentesca, che trae origini da forme orali tramandate nel tempo dal popolo di Tutuola, gli Yoruba. Un uomo insegue uno spillatore di vino di palma sino alla cosiddetta città dei morti, giungendo in una realtà popolata di magia, demoni e creature sopranaturali. Chiaro il riferimento al consumismo occidentale, a quel vento di distruzione che ha danneggiato il continente africano, depredandolo senza scrupoli. E poi “Il crollo” di Cinu Acebe: è il terzo romanzo più letto al mondo, ma paradossalmente in Italia non è molto conosciuto, se non da una sporadica pattuglia di africanisti incalliti, come quelli che hanno sfidato una calda domenica estiva per trastullarsi sull’isola Tiberina con piacevoli pagine di letteratura nigeriana, ospiti della libreria Griot.
Cinu Acebe, in quelle pagine, non si concentra sul presente, ma ritorna indietro alla generazione di suo nonno per focalizzare l’arrivo dei colonizzatori. I bianchi, sostiene, possono far crollare la società nigeriana dal momento che essa è già minata dalla sua stessa storia. Intende cioè insegnare ai suoi concittadini che le civiltà africane non sono espressione di barbari insediamenti umani dai quali «i bianchi sono venuti a liberarci», ma punta a rappresentare una voce, una testimonianza, una luce nel buio tunnel della sopraffazione. «Ha ragione Salman Rushdie – sostiene l’africanista Maria Antonietta Saracino, docente di anglistica alla Sapienza – , quando sostiene che la letteratura dice la verità nel momento in cui non la dicono né i giornalisti, né i politici, né i cittadini, né alcun altro esponente della società».
Un altro elemento di riflessione viene dai numeri. Proprio da quelli della Nigeria, un paese grande tre volte più dell’Italia, con una speranza di vita che si ferma a circa quarant’anni, con uno tsunami socio-economico che si chiama guerra civile, in corso dal 1960 quando ebbe inizio l’accaparramento del petrolio, con all’attivo tre milioni di morti. Sono gli anni del postcolonialismo, gli scrittori che fanno menzione dei fatti politici vengono messi al bando, i più fortunati imprigionati, gli altri miseramente ammazzati in nome di una non meglio precisata sete di ordine, quello stesso spirito da caserma che cassa le libertà, strozzando le menti e imbrigliando i cervelli. Come Wole Soyinka, classe 1934, che incarcerato duramente in occasione della guerra civile Nigeria-Biafra a cui si era opposto, nella sua cella scrisse The man died, diario documento. Durante la sua prigionia, non avendo diritto nemmeno a un pezzo di carta, riuscì comunque a ultimare il suo libro, scrivendo tra le righe dell’unico volume che gli era consentito consultare, la Bibbia, e arrivando a vincere il Nobel nel 1986.
E come dimenticare Ken Saro Wiva, poeta, attivista e letterato impegnato sul fronte dei diritti civili ucciso nel 1995, solo perché intendeva difendere il popolo Ogoni, colpevole di possedere coltivazioni agricole proprio in prossimità dei pozzi petroliferi che, trivellati senza alcuna precauzione e protezione, vomitavano quel liquido nero, sì utile per far muovere città intere, ma anche capace di avvelenare flora e fauna del popolo Ogoni. Il delta del Niger, dove per anni hanno operato multinazionali in totale spregio delle popolazioni che da secoli vi abitavano, conducendole ancora di più alla fame e all’indigenza e reprimendo qualsiasi forma vocale di dissenso, è lo scenario naturale dei romanzi con al centro i bambini -soldato, piccoli e indifesi esseri viventi la cui unica voce è quella dell’arma che impugnano, ignorandone anche le motivazioni, ma innescando una reazione affrescata di odio e incomprensione.
E poi Cris Abani, Cimamanda Ngozi, e Helon Habila: quest’ultimo, in carcere perché contro il regime, scrive poesie talmente belle da far suscitare l’interesse del direttore del penitenziario, che gli promette un trattamento migliore se lui comporrà poemi, che l’aguzzino donerà alla sua donna. Africa, Nigeria, cieli e terre che si mescolano, spiriti di bambini che vorrebbero elevarsi ma che non riescono a farlo perché qualcuno spezza barbaramente le loro ali. Luoghi naturali di drammi e tragedie, ma che vengono ribaltati in alcova di speranza e redenzione. La letteratura che ridona fiducia e dipinge il sorriso, su visi nati sereni perché circondati da una natura unica, cresciuti affranti a causa della guerra, e rinati felici per la gloria di quelle pagine.
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