Da FFwebmagazine del 14/05/09
La ragione è ancora quel sistema di regole che gli uomini si sono dati per poter convivere? Zygmunt Bauman sosteneva che l'essenza della modernità sta nel poter mettere in discussione le regole del gioco all'interno del gruppo sociale in cui si vive. Altro però è proclamarsi autonomamente detentore ed estensore e, forte di tali cariche, stravolgere autarchicamente modi e tempi senza consultarsi con i diretti protagonisti.
La Formula 1 è nel caos: la Federazione internazionale vorrebbe mutare regole e parametri senza preoccuparsi preliminarmente di condividere scelte e proposte con le singole scuderie. Accanto alla presa di posizione della Ferrari di non partecipare al prossimo campionato, si stanno accostando anche altre case, Renault e Toyota su tutte. È come se la Lega calcio decidesse improvvisamente di spostare il dischetto del rigore più avanti di due metri, senza chiedere il parere ad arbitri e giocatori.
Modificare i regolamenti ignorando chi quelle regole dovrebbe applicarle per gareggiare, non può che portare alla fuoriuscita dei protagonisti dal circo sportivo che progressivamente perde i suoi tratti somatici, svilendone significati e peculiarità. Cosa resta oggi, in quelle idee strampalate e antidemocratiche, della concezione sportiva come elevazione della competizione e della compartecipazione più pura?
Secondo Von Wright le regole del gioco, se considerate sotto l'aspetto dell'attività ludica, sono deontiche, ovvero determinano cosa è obbligatorio, cosa è vietato, cosa è permesso. Wittgenstein sosteneva che nel gioco degli scacchi un pezzo è la somma delle sue regole. Non è detto che esse non possano subire nel tempo un'evoluzione, anzi è auspicabile che la società sia dotata di quegli strumenti per ammodernare le regole che, negli anni e in base a valutazioni di tipo qualitativo e funzionale, dovessero risultare obsolete o desiderose di nuovi spunti. Ma in assenza di un ragionamento a più cervelli su cosa e su come cambiare, si rischia di produrre uno scenario nel quale un individuo sceglie cavalli e burattini, per farli trottare a proprio piacimento.
Che significa, allora, che le regole del gioco sono drammaticamente in mano al più forte che ne detiene moralmente e praticamente il predominio? Che un altro individuo, sprovvisto della medesima forza non potrà mai dissentire da quella decisione? E non perché in minoranza, come il sistema democratico all'interno del proprio funzionamento prevede, ma semplicemente perché più debole? Si tratta di un frame dal quale emerge il ricordo preadolescenziale di quel bambino che, essendo proprietario del pallone, e per questo sentendosi investito di chissà quale potere decisionale, imponeva campo e porte a proprio piacimento. E chi non fosse stato d'accordo sarebbe stato libero di trovarsi un altro pallone e un altro gruppo di amici con cui giocare.
E ancora, se oltre allo scenario descritto, con una medioevale contrapposizione tra lupi e agnelli, tra re e schiavi, tra forti e deboli, si verificasse anche una clamorosa assenza di una figura super partes, cosa accadrebbe? Tornando al casus belli, non soltanto la Fia tramite il suo massimo vertice Max Mosley ha imboccato tale deriva solitaria, ma anche il patron del Mondiale, Bernie Ecclestone non sembra avvertire una benché minima responsabilità sulle proprie spalle. Non una voce, da parte di chi quel ruolo di garanzia dovrebbe ricoprire, si è levata: e non in difesa di questa o quella posizione, di una scelta piuttosto che di un'altra, di una proposta conservatrice o progressista.
No, non è in questa direttrice che va riscoperta e applicata "quella" figura garantista. Ma nella possibilità di concedere a tutti gli attori protagonisti di poter concorrere a quella scelta, a quel cambiamento, a quel miglioramento, se di miglioramento dovesse trattarsi, e ciò lo si potrebbe appurare solo a seguito di una discussione, come l'agorà ateniese insegna. E soprattutto impedendo a chi, nell'impossibilità di rappresentare la propria istanza di dissenso, si veda costretto a sgombrare il campo. Così facendo si produce il vero fallimento, sociale e culturale. Passerebbe allora la linea del "te ne devi andare se non sei d’accordo"? E quindi abbandonare la partita, il terreno del confronto, del concorso di idee, della dialettica?
Fanno tenerezza in questo senso le parole pronunciate dal pilota finlandese Kimi Raikonnen: «Quando ero alla McLaren - ha raccontato nei giorni scorsi - la scuderia di Maranello era il punto di riferimento, l'avversario con cui misurarci. Da quando sono arrivato qui ho capito che è molto più di una squadra, è un mito che si perpetua attraverso le sue macchine stradali e da corsa. Ho sempre avuto la passione per correre con tutto ciò che avesse un motore e ho sempre guardato alla Formula 1 come alla massima espressione dell'automobilismo sportivo, come competizione e come tecnologia». Il mito emerge dalle riflessioni del pilota, ovvero un'eccellenza che, nonostante abbia alle spalle una storia imponente, una bacheca ebbra di trofei, un'organizzazione basata non solo su professionalità ma anche su uomini, rischia di non correre e cambiare circuito, per usare un eufemismo.
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