venerdì 8 maggio 2009

SECONDA GENERAZIONE, C'E' IL RISCHIO SERIE B

da FFWebmagazine del 08/05/09

Può una legge, datata e palesemente insufficiente, porsi di traverso alle mutanti esigenze di una collettività in continua evoluzione? In queste giornate, per tanti versi drammatiche per gli immigrati nel nostro paese, emergono storie di vite incrociate, di ragazzi, - non hanno più di trent’anni - che, nonostante siano nati in Italia non hanno conquistato lo status di italiani. Qualcuno obietterà: la solita burocrazia farraginosa, pachidermia, stucchevole di casa nostra? Non solo.

Qui si tratta di comprendere come il termine integrazione debba provenire sì da un comma o da un decreto (meglio se non d’urgenza), ma anche da spunti più civici, per consentire un processo di maturazione socio-culturale. Loretta Grace è una cantante di origini nigeriane nata e vissuta ad Ancona. Mohamed Tailmoun è laureato in sociologia, e da tre decenni vive in a Roma. Due esempi di individui dediti ad una personale corsa contro il tempo per il riconoscimento della cittadinanza italiana. La legge n°91 del ’92 prevede infatti che i figli di immigrati, la cosiddetta seconda generazione, abbiano diritto alla cittadinanza solo se dimostrino di aver vissuto nel nostro paese per diciotto anni consecutivamente. E ciò con una serie infinita di carte e scartoffie, che vanno dalle pagelle scolastiche alle prove di vaccinazione: tutto ciò potrebbe essere vanificato se l’italiano in questione (perché di italiano o italiana indiscutibilmente si tratta) in quei diciotto anni si fosse spostato anche per qualche mese.

«Una legge assurda e anacronistica - riflette Eugenio Cardi, responsabile dell’osservatorio Ugl sui fenomeni sociali e promotore della tavola rotonda ‘Sono una seconda generazione, figlio di immigrati nato in Italia: cittadino italiano? Quando e come?’- dal momento che negli ultimi vent’anni il panorama sociale è cambiato completamente». Al tempo in cui quella legge fu partorita il fenomeno delle seconde generazioni era da queste parti sconosciuto, nè vi furono tentativi di aggiornarsi magari facendo raffronti con paesi dove l’immigrazione si era radicata ben prima che in Italia, vedi la Francia o la Germania.

Ecco la politica nostrana niente affatto lungimirante, che si preoccupa delle problematiche giorno per giorno, man mano che si presentano, senza una programmazione che guardi avanti e al di là del proprio naso, che avrebbe il vantaggio di sanare in tempo utile ferite e lacerazioni, confezionando un paese migliore, e non per voler fare retorica.

Due testimonianze dirette, dunque, che fanno toccare con mano il disagio che la cosiddetta rete G2 purtroppo oggi patisce nelle nostre città e nei nostri parchi pubblici, nelle nostre scuole, nei ristoranti, negli aeroporti, nei musei. Insomma in quello stesso paese che nel 2008 ha registrato la presenza di un milione di figli dell’immigrazione e dove si calcola che fra quarant’anni gli studenti stranieri potrebbero addirittura superare numericamente quelli nostrani. Numeri che impongono una riflessione e una presa di coscienza immediata, così come la tavola rotonda ha inteso fare, alla presenza tra gli altri di esponenti delle istituzioni (Renata Polverini, don Giandomenico Gnesotto, Mario Morcone, Giovanni Puglisi, Savino Pezzotta, Mussie Zerai, Valerio Savio) e dell’arte (Francesca Reggiani, Mimmo Calopresti e Salvatore Marino). Sostegno che parallelamente è venuto anche da Massimo D’Alema secondo il quale «è interesse dell’Italia che chi lavora nel nostro paese, paga le tasse e contribuisce al Pil nazionale abbia una rappresentanza: vorrebbe dire un fattore di sicurezza e di riduzione del conflitto dal momento che tutto quello che avviene alla luce del sole è controllabile e governabile».

In un continente moderno dove coesistono stati e civiltà, il primato della persona deve essere sopra tutto, così come il presidente Fini aveva ripreso nel suo discorso alla nuova Fiera di Roma, quando aveva sottolineato che «va difesa e in qualche modo incrementata la dignità della persona umana quale che sia il colore della pelle, quale che sia il Dio in cui credi, quale che sia il ruolo sociale».

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