"Potete ingannare tutti per un po', potete ingannare qualcuno per sempre, ma non potrete ingannare tutti per sempre". (A. Lincoln)
giovedì 17 giugno 2010
Meglio il rumore del silenzio. E allora, forza vuvuzelas!
Da Ffwebmagazine del 17/06/10
Chi ha paura delle vuvuzelas? Troppo rumore, dicono i suoi detrattori. E distraggono dalle preziose indicazioni degli allenatori, aggiungono gli addetti ai lavori dai campi di calcio dei Mondiali. Addirittura si registrano appelli in prima pagina postati da illustri critici televisivi, che magari potrebbero concentrarsi su altre emergenze (vere), come i prossimi palinsesti Rai che, si dice, verranno “alleggeriti” di mille ore di news. Ma questa è un’altra storia.
Forse non tutti sanno, per tornare al tema, che le vuvuzelas non sono solo «le fastidiosissime trombette, noiose come uno sciame di zanzare inferocite, che non appartengono al repertorio zulu». Ma rappresentano qualcosa di più: il suono che secondo la tradizione locale incarna il soffio di Dio. E poi vennero utilizzate in occasione delle manifestazioni contro l’apartheid. Era esattamente il pomeriggio di 34 anni fa, il 16 giugno del 1976, quando un gruppo di ragazzi, per lo più adolescenti, manifestò nella piazza di Soweto per reclamare un diritto tanto semplice quanto raro da quelle parti. Gridavano il loro no alla segregazione razziale, mica protestavano contro la kebabberia appena aperta sotto casa. Erano diecimila, e la loro marcia venne scandita dal suono delle vuvuzelas. Ne morirono centocinquantadue, negli scontri con le forze dell’ordine; l’anno successivo altri settecento fecero la stessa fine. E così il governo fu costretto ad annullare l’assurdo insegnamento dell’afrikaans nelle scuole frequentate solo da neri.
Quel giorno, con quei sacrifici, quelle urla e, perché no, con quelle vuvuzelas, segnò una tappa decisiva nella lotta anti-apartheid. Per questo, quando qualcuno scrive che «se il Sudafrica di Mandela si fa conoscere in tutto il mondo per il ronzio stordente delle vuvuzelas significa che qualcosa non ha funzionato», non fa solo un torto ai sudafricani, ma anche al resto del mondo che invece proprio con quel suono, vuol manifestare il proprio dissenso. Vuole alzare un dito e dire la propria, esprimendo contrarietà, azzannando l’apatia, rompendo la monotonia dei pensieri. Quella struggente patologia che sembra infilarsi negli interstizi dei pensieri va contrastata con uno strumento facilmente reperibile, per nulla costoso e che non necessita di un particolare requisito: esiste già in natura e si chiama rumore.
Il rumore incarna il dissenso, dà corpo alla vivacità. Esprime in tutta la sua forza dirompente la non-assuefazione, è segno di materia grigia che reagisce e che non si abbandona supinamente allo status quo, o a quello che passa il convento, o al vento che in un preciso momento soffia in una determinata direzione. Ma fa qualcosa di più, e di meglio. Si sforza di virare, di influenzare, di corroborare o di criticare, apertamente e senza timore. Nella consapevolezza che il silenzio, invece, racchiude dentro di sé elementi di negatività: l’abbandono delle idee, il vuoto omertoso, la chiusura a riccio, il mutismo delle menti. E allora viva le vuvuzelas, perché sono vive, perché veicolano un messaggio multicolore, di rottura. Perché come diceva Luigi Einaudi, «l’idea nasce dal contrasto».
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