mercoledì 9 giugno 2010

Quando lo Stato veniva prima di tutto


Da ffwebmagazine del 08/06/10

Una patria, se non è per tutti, non può essere di tutti. Ne Gli scritti politici Giuseppe Mazzini faceva così riferimento all’inclusione dei cittadini nel mondo produttivo. Valorizzando un aspetto, il lavoro, che è principio fondativo della carta Costituzionale e che si riallaccia ai dettati democratici e repubblicani presenti nel movimento risorgimentale. Quest’ultimo va ricordato ed approfondito alla luce di quella grande stagione su cui si basa il nostro essere Stato e nazione, il nostro stare insieme. E non, come ha osservato il presidente della Camera Gianfranco Fini, fatto oggetto di revisionismi fuorvianti e antirisorgimentali.

Ma come impostare oggi un’analisi serena e produttiva su Stato e nazione, alla vigilia di una celebrazione storica e culturale per il paese? Magari partendo da due figure strategiche della politica italiana. Che in frangenti differenti, ma con il medesimo senso delle istituzioni e totalmente rapiti dal rispetto per il bene comune, hanno contribuito ad un’impresa memorabile. Ricasoli e De Gasperi hanno rappresentato, nel merito delle singole azioni, due momenti di altissima politica, dove il concetto unitario di Stato era posto sopra tutto il resto. Dove era espressa una certa idea dell’Italia che rifugiava particolarismi ed isterismi, ma si concentrava sull’unità nazionale. Lontano da logiche municipali, quasi impostando l’amministrazione della cosa pubblica come se fosse il proprio podere e ,di conseguenza, profondendo energie e programmando scrupolosamente ogni mossa. Due direttrici che devono rappresentare un insegnamento per la politica di oggi.

Valori fecondi di Ricasoli erano quel binomio tra unità nazionale e libertà civile, tra progresso e rigore morale, tra identità culturale e laicità dello Stato. Egli partiva dal presupposto che la nazione c’è e su di essa va edificato lo Stato unitario. In una lettera al giurista Pasquale Stanislao Mancini, scriveva che l’Italia deve lasciare libertà alle province, ovvero alle diverse esigenze dei territorio, ma in un’ottica unitaria e non meramente centralistica. Predicava che scopo continuo di un governo è quello di garantire la massima felicità dello Stato. Dove il termine felicità si insinua dentro quel grande passo avanti che è stato il progresso civile della società alla fine dell’ottocento, senza forzare la dinamica dei tempi. Intese sviluppare la ferrovia, anche ad appannaggio di quei cittadini periferici che non si sentivano italiani. E fu la chiave di volta del suo impegno: unificare le province con infrastrutture e commerci. Una figura d’altri tempi, estranea alle manovre clientelari, non consumato ai sotterfugi della lotta politica, così come lo ha definito Francesco Paolo Casavola.

L’Italia dell’Assemblea Costituente, invece, è un paese diverso rispetto a quello del 1861. Vi era una guerra alle spalle, un tessuto socio-produttivo lacerato e da ricomporre. Ma in quella fase la nuova classe dirigente intese “riannodare i fili con l’Italia del Risorgimento”. De Gasperi disse che questo secondo Risorgimento della patria poteva riallacciarsi a quello nazionale. Nel suo interiore moto di passione, ritrovò le premesse per la nascita di una patria locale, con tradizioni espresse da un popolo libero, e che valeva come un arricchimento al contesto unitario. Affermava che si rendeva imprescindibile restaurare la libertà politica in un nuovo contesto sociale. Ma quelle convinzioni circa lo Stato andavano rafforzate nelle anime dei cittadini, senza però partire dalla divisione di classe. E non solo cancellando la linea di confine tra il pessimismo dei borghesi e l’ottimismo rivolto al proletariato. La nuova casa degli italiani doveva essere eretta su valori condivisi, nella convinzione che la coscienza morale della nazione poteva essere corroborata da quella religiosa, solo grazie al principio della laicità dello Stato.

Ponendo come punti cardinali la giustizia sociale e la pace futura, strumenti di stabilità temporale e garanzia in una visione europeista. Al pari della fase risorgimentale, quella degasperiana post conflitto bellico, fu caratterizzata dal tema della libertà e dall’esigenza estrema di unità. Definitosi “fanatico della democrazia”, lo statista trentino più volte invitò il popolo italiano a sforzarsi di camminare con le proprie gambe per instaurare un regime democratico e plurale. E l’ingresso delle masse popolari negli ingranaggi dello Stato presupponeva una formazione democratica adeguata: con i partiti, quindi, si promosse una statualità progettuale, garantendo la sicurezza della libertà come pregiudiziale. Ripeteva che per salvare la democrazia non vi fosse altra strada se non la libertà ed il rispetto delle regole di libertà.

Ricasoli e De Gasperi incarnano due grandi epoche della storia italiana e oggi conviene metabolizzarne lo spirito e non dimenticarne il valore socio-politico, per riuscire a disegnare gli scenari futuri. Quella classe dirigente, modello di onestà intellettuale e di esempio concreto per la cittadinanza, deve essere osservata con rispetto e riconoscenza. Senza utilizzare la storia per revisioni strumentali, o per anteporre logiche partitiche all’interesse nazionale. Solo in questo modo sarà possibile rendere omaggio a quelle menti e a quelle azioni, alla vigilia del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. Rafforzando il concetto di patria, modernizzando certe interpretazioni anacronistiche e aprioristicamente retrograde, strutturando il paese di modo che sia culturalmente e socialmente pronto ad accogliere le sfide, non del domani, ma di quelle contingenze che bussano già alle porte dello Stato e che spesso non vengono sufficientemente ascoltate.

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